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DemografiaA cura di

MassimoLiviBacci,GianCarloBlangiardoeAntonioGolini

Scritti diGian Carlo Biangiardo, Franco Bonarini, Carlo A. Corsini, Paolo De Sandre,

Gustavo De Santis, Viviana Egidi, Renato Guarirti, Massimo Livi Bacci,Enzo Lombardo, Fausta Ongaro, Dionisia Maffioli, Fiorenzo Rossi,

Antonio Santini, Italo Scardovi, Giovanni B. Sgritta

Edizioni dellaFondazione Giovanni Agnelli

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Demografia / A cura di Massimo Livi Bacci, Gian Carlo Blan-giardo e Antonio Golini; Scritti di Massimo Livi Bacci, EnzoLombardo, Dionisia Maffioli... [et ai.] - XIV, 582 p., 21 cm

1. Demografia. Studi2. Rassegne bibliografiche. Demografia

I. Livi Bacci, MassimoII. Blangiardo, Gian Carlo

Copyright ,0 1994 by Edizioni della Fondazione Giovanni AgnelliVia Giacosa 38, 10125 Torino

tel. (011) 6500500, fax: (011) 6502777e-mail: [email protected], Internet: http://www.fga.it

ISBN 88.7860-100-4

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Indice

Capitolo primo

La demografia

Massimo Livi Bacci

1. Popolazione e demografia p. 32. Il funzionamento del sistema demografico 43. Le componenti del sistema demografico 74. La ricerca delle cause 115. Teorie e paradigmi interpretativi: a) transizione

demografica e teorie della fecondità 146. Teorie e paradigmi interpretativi: b) altri spunti 187. Elogio della demografia. La demografia è utile? 21

Riferimenti bibliografici 24

Capitolo secondo

Evoluzione diacronica della demografia

Enzo Lombardo

1. I primi passi nello studio della popolazione 272. L’«aritmetica politica» nel nostro paese 303. Due importanti strumenti di analisi: le tavole di

mortalità e le rappresentazioni grafiche 344. La statistica si organizza nel Regno unitario: la

produzione statistico-demografica dopo il 1861 e iprogressi nei censimenti della popolazione 36

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VIII Indice

5. Mutamenti nell’insegnamento della statistica come sintomidel progressi della demografia p. 40

6. Verso una fioritura degli studi demografici: i primiquarant’anni del nostro secolo 43Riferimenti bibliografici 50Bibliografia del padri Roberto Gaetae Gregorio Fontana (1776) 58

Capitolo terzo

Organizzazione accademica

Dionisia Maffioli

1. La collocazione accademica e la sua storia 631.1. La struttura dell’insegnamento universitario 671.2. L’insegnamento delle discipline demografiche 751.3. Possibili sviluppi dell’insegnamento 791.4. Centri di ricerca 811.5. Società scientifiche 861.6. La demografia italiana nel contesto internazionale 901.7. La produzione scientifica 93

2. La demografia negli studi pre-universitari 95

3. Conclusioni 97

Riferimenti bibliografici 99

Capitolo quarto

I metodi

Antonio Santini

1. Uno schema di riferimento 1052. Osservazione statistica e metodi demografici 1073. I metodi nell’osservazione macro-trasversale 1094. Dall’analisi macro-trasversale a quella macro-longitudinale 1125. Ulteriori avanzamenti nella macro-analisi 1186. Da macro- a micro-analisi 1197. Dal macro- al micro-trasversale 121

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Indice IX

8. Dal micro-trasversale al micro-longitudinale p. 124

9. Le biografie a confronto 128

10.Conclusioni 130

Riferimenti bibliografici 132

Capitolo quinto

Demografia e storia

Carlo A. Corsini

1. I significati 1391.1. Demografia e storia 1391.2. Il posto della demografia storica 143

2. I segni 1462.1. Il quadro generale 1462.2. La demografia storica in Italia 160

3. Esattezza e indeterminatezza 1673.1. Alla conquista dell’autonomia 1673.2. Un pezzetto di legno liscio e vuoto 170

Riferimenti bibliografici 173

Capitolo sesto

Demografia e biologia

Italo Scardovi

1. Interrogativi sull’odierna demografia 185

2. La demografia tra «fenomeno» ed «epifenomeno» 187

3. La demografia tra «essere» e «dover essere» 189

4. La demografia nella grande tradizione italiana 191

5. Gli studi di demografia in Italia 199

6. Demografia e genetica di popolazioni 202

7. Un’osservazione critica 207

Riferimenti bibliografici 210

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X Indice

Capitolo settimo

Demografia e sociologia

Giovanni B. Sgritta

1. Premessa p. 2132. L’origine comune 2153. Popolazione e società: le basi della scienza demografica e la

nascita della sociologia 2194. Demografia e sociologia: contenuti e metodi negli studi italiani

del secondo dopoguerra 2265. Recenti tendenze integrative negli studi demografici e sociali 2296. Conclusioni 238

Riferimenti bibliografici 240

Capitolo ottavo

Demografia ed economia

Renato Guarini

1. Introduzione: il dibattito e la teoria 245

2. Variabili economiche e variazioni della popolazione 2472.1. Fattori demografici e indicatori di reddito 2472.2. Il consumo e le variazioni dinamiche e strutturali

della popolazione 2502.3. Risparmio, investimenti e popolazione 2522.4. Il lavoro e i fattori demografici 255

3. Componenti della popolazione e variabili economiche 2583.1. Fertilità e variabili economiche 2583.2. Mortalità e variabili economiche 2613.3. Conseguenze economiche del movimento migratorio 264

4. Conclusioni 269

Riferimenti bibliografici 271

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Indice XI

Capitolo nono

Riproduttività

Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi

1. Nuzialità, separazioni, divorzi (F. Rossi) p. 2831.1. Introduzione 2831.2. Nuzialità 2841.3. Separazioni e divorzi 2901.4. Commenti conclusivi 291

2. Fecondità (F. Ongaro) 2922.1. Considerazioni preliminari 2922.2. Fecondità generale e sue determinanti demografiche 2952.3. Determinanti non demografiche di fecondità 2992.4. Fecondità in gruppi circoscritti di popolazione 3022.5. Uno sguardo d’insieme 304

3. Controllo e pianificazione del concepimenti (F. Bonarini) 3074. Abortività (F. Bonarini) 3165. Opinioni, preferenze, atteggiamenti (F. Bonarini) 322

Riferimenti bibliografici 325

Capitolo decimo

Strutture di popolazione

Viviana Egidi

1. Dagli individui alla popolazione: eterogeneità e strutture 3392. Analisi strutturali: finalità delle ricerche 3403. Quali strutture per le analisi di popolazione 3454. La struttura per sesso 3475. La struttura per età 348

5.1. L’invecchiamento della popolazione 3495.2. Gli effetti delle componenti della dinamica demografica

sull’invecchiamento della popolazione 3515.3. Età: intuitività e motivi di riflessione 352

6. Alcune altre strutture rilevanti per la demografia 3556.1. La struttura per stato civile 3556.2. Famiglie e strutture familiari 356

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XII Indice

7. Quali prospettive per la ricerca? p. 361

Riferimenti bibliografici 363

Capitolo undicesimo

Mobilità e insediamenti

Gustavo De Santis

1. La difficile definizione delle migrazioni 3792. La descrizione del fenomeno 3813. La ricerca delle cause 3854. Gli effetti delle migrazioni e le migrazioni internazionali

verso l’Italia 3895. Distribuzione territoriale della popolazione e

urbanizzazione 3936. Previsioni 3967. L’approccio microdemografico 3988. Le prospettive degli studi sulla mobilità 400

Riferimenti bibliografici 403

Capitolo dodicesimo

Tendenze, conoscenze e governo

Gian Carlo Bkngiartio

1. Sensibilità e sensibilizzazione 4112. Consumo e incentivo alla produzione di conoscenze

demografiche da parte dell’operatore pubblico 4133. Le fonti istituzionali 4154. L’apporto del mondo accademico 4195. Due significative esperienze e alcune riflessioni 4236. Le conoscenze demografiche a livello regionale per

l’approfondimento delle realtà locali e come strumento digoverno nel decentramento delle competenze 427

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Indice XIII

7. Alcuni contributi significativi p. 4308. Osservazioni conclusive 432

Riferimenti bibliografici 435

Capitolo tredicesimo

Demografia, politica ed etica

Paolo De Sandre

1. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politichedi popolazione: a) coordinate per una lettura critica 451

2. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politichedi popolazione: b) sull’aspetto politico 4542.1. Orientamenti di «welfare» 4542.2. Obiettivi di intervento con implicazioni demografiche e tipi

di intervento 4552.3. Valutazione tecnico-scientifica e valutazione politica degli

interventi 4572.4. Legami tra politiche e ricerca 4572.5. Politiche di popolazione e riferimenti di valore 458

3. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politichedi popolazione: c) sull’aspetto ideologico-etico 459

4. Contributo della demografia in alcuni momenti istituzionalial dibattito sulle politiche di popolazione 461

5. Problematiche cruciali di tipo etico nelle politiche dipopolazione 4685.1. Salvaguardia e promozione della libertà della persona e del

diritti fondamentali 4685.2. Tutela della famiglia coniugale, valore sociale della prole,

parità uomo-donna 4705.3. Controllo sociale e politico della dinamica demografica

come valore 471

6. Alcune opzioni di politica della popolazione da approfondire 4736.1. Sulla possibilità di porre obiettivi generali definiti di crescita

demografica 4746.2. Politica di sostegno delle nascite alleviandone i costi correnti

per i genitori e rinnovando regole di trasferimento eque tragenerazioni 474

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XIV Indice

6.3. Politiche immigratorie e crescita economica del paesidel Terzo Mondo 475

6.4. Invecchiamento demografico e risorse impiegate 476

7. Conclusioni 477

Riferimenti bibliografici 478

Bibliografia generale 485

Gian Carlo Blangiardo e Massimo Aglietti

Indice del nomi 571

Nota sugli autori 581

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DEMOGRAFIA

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Capitolo primo

La demografia

Massimo Livi Bacci

1. Popolazione e demografia

Niente risulta più sgradito a uno studioso del determinare la propria di-sciplina: definire un’attività di ricerca — cioè disegnarne i limiti o il peri-metro — è, in fondo, quasi una negazione di questa; il corso della ricercaè spesso imprevedibile e i suoi limiti risiedono tutti nell’ingegno e nellacuriosità di coloro che la praticano.

Demografia è la scienza della popolazione: lo studio del processi chedeterminano la formazione, la conservazione, l’accrescimento o l’estin-zione delle popolazioni. Tali processi, nella loro forma più aggregata,sono quelli di riproduttività, mortalità e mobilità. Il vario combinarsidi questi fenomeni, tra loro interdipendenti, determina la velocità dellemodificazioni della popolazione sia nelle sue dimensioni numeriche sianella sua struttura. Questa definizione va completata da un approfondi-mento dell’oggetto della ricerca: potremmo definire la popolazione co-me un insieme di individui, stabilmente costituito, legato da vincoli diriproduzione e identificabile da modalità territoriali, politiche, giuridi-che, etniche, religiose. Infatti una popolazione non è tale (almeno in sensodemografico) se non ha continuità nel tempo, assicurata dai processi diriproduzione che legano genitori e figli e determinano il susseguirsi dellegenerazioni. Inoltre una popolazione deve poter identificarsi e definirsi:il criterio più comune è quello geografico, di appartenenza a un territo-rio; tuttavia l’appartenenza a una religione, a un’etnia, a una casta e co-sì via costituisce criterio sufficiente a determinare quei «confini» essen-ziali per Io studio di una popolazione. Oggetto di studio della demografiapossono essere, a livelli diversi ma significativi di aggregazione, tanto lapopolazione di un villaggio quanto quella dell’intero pianeta.

Dettagliare oltre la definizione sarebbe pedante e di poca utilità. L’am-bito così delimitato è abbastanza ampio da poter ricondurvi gran partedelle definizioni elaborate dagli studiosi della materia, anche se non man-

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4 Massimo Livi Bacci

cano coloro che alla demografia assegnano il compito molto riduttivodi analisi meramente descrittiva e quantitativa delle popolazioni.

Se dalla forma si torna alla sostanza — al contenuto, all’oggetto —della demografia, si potrebbe dire, in estrema sintesi, che essa cerca didare risposta a un quesito fondamentale (non dissimile da quello ana-logo che si pongono i biologi): perché certe popolazioni hanno più«successo» di altre, cioè si riproducono, si espandono, si accrescono conritmi diversi? Quali sono i meccanismi che determinano l’accrescimentodifferenziale del vari gruppi? Quali le relazioni reciproche tra variazionedemografica e i sistemi naturale e sociale che tale variazione asseconda-no o contrastano? L’insieme di indagini volte a dare risposta a tali quesi-ti dà corpo e contenuto alla demografia; si tratta di indagini che spessodebbono dispiegarsi su lunghi archi di tempo perché i tempi e i ritmi delmutamento demografico sono sovente lenti e graduali e non si intendo-no bene se non si osservano nel lungo periodo: archi temporali menolunghi, certo, di quelli considerati dalla genetica e dalla biologia evolu-zionista (che hanno bisogno dell’osservazione di numerosissime genera-zioni successive), ma normalmente assai più estesi di quelli propri di al-tre scienze umane come quelle economiche e sociologiche.

2. Il funzionamento del sistema demografico

Si può rintracciare la linea evolutiva principale della demografia degliultimi decenni nella determinazione delle regole di sviluppo delle popo-lazioni formalizzzabili matematicamente; in altri termini uno degli obiet-tivi essenziali per la demografia è accertare quali sono e come funziona-no i meccanismi che determinano l’accrescimento di una popolazione econdizionano la sua struttura, per sesso e per età. E questo un aspettofondamentale della demografia, perché la conoscenza del quadro gene-rale «formalizzato» delle regole che determinano dimensione e strutturadi una popolazione è la premessa necessaria per lo studio analitico dellesingole regole e del meccanismi componenti il sistema.

È apparso evidente già ai primi studiosi, agli «aritmetici politici», chele dimensioni di una popolazione sono determinate dall’intensità relativadi nascite e immigrazioni da un lato e di morti ed emigrazioni dall’altro.Ne conseguiva intuitivamente che la velocità del ricambio (cioèl’intensità del flussi delle nascite e delle morti, in caso di assenza di flussimigratori o di popolazioni «chiuse ») fosse connessa con la struttura peretà di una popolazione: quando questa non varia di numero (è «stazio-naria»), il peso delle classi giovani è tanto maggiore (e quello delle classi

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La demografia 5

anziane tanto minore) quanto più alte sono la natalità e la mortalità eviceversa; ne consegue altresì che, sempre in caso di stazionarietà dellapopolazione, tanto più alte sono natalità e mortalità, tanto più ridottarisulta la speranza di vita (cioè il tempo medio di permanenza di ogniindividuo nella collettività), cosicché esiste una relazione inversa travelocità del ricambio (espresso dal livello di natalità e mortalità) e du-rata della vita. Questo insieme di considerazioni viene messo a punto eformalizzato in un percorso ideale che comprende Graunt, Halley eEulero (Keyfitz e Smith, 1977).

È nel nostro secolo che la demografia matematica ha fornito ulteriorisviluppi alla conoscenza delle regole del sistema demografico, che soloeccezionalmente opera per lungo tempo in regime di stazionarietà. Unodel contributi principali di Lotka alla demografia matematica è quello comune-mente noto come teoria della popolazione stabile: Lotka dimostrò (1907;1939) che una popolazione chiusa (cioè senza movimenti migratori) e sotto-posta a «leggi» di fecondità e mortalità invarianti nel tempo (ovvero a tassi difecondità e di mortalità per età che non variano di generazione in gene-razione e da un anno all’altro) finisce per assumere una struttura per etàstabile (cioè fissa nel tempo) che non è influenzata da quella originaria,ma è unicamente determinata dalle due «leggi» ricordate. Qualsiasi sia lastruttura per età iniziale (al momento in cui, cioè, si assumono operantie fisse le leggi di mortalità e fecondità), quella stabile sarà da essa comple-tamente indipendente e determinata unicamente dalle leggi stesse. Ciò nonvuol dire che la struttura iniziale non influisca sulle dimensioni della popo-lazione: ad essa infatti è legata una forza «inerziale» più o meno importan-te. L’inerzia sarà maggiore (e la popolazione crescerà di più fino al rag-giungimento dello stato stabile) in una popolazione la cui struttura dipartenza sia molto giovane; sarà minore (e la popolazione crescerà dimeno) se la struttura di partenza è invecchiata anche se queste due ipo-tetiche popolazioni sono sottoposte a identiche leggi demografiche (inquesto esempio si ipotizza che la natalità sia maggiore della mortalità eche la popolazione aumenti).

Il fondamentale contributo di Lotka ha poi ricevuto numerosi perfezio-namenti e adattamenti. Si debbono a Coale (1963) e Bourgeois-Pichat (1990)prove che le proprietà della popolazione stabile vengono approssimativa-mente conservate da popolazioni cosiddette quasi-stabili, ovvero dapopolazioni che, mantenendo una fecondità inalterata nel tempo, speri-mentano invece un declino della mortalità come quello osservato neipaesi in via di sviluppo nei due o tre decenni dopo la metà del secolo.Si deve a Lopez (1961) la dimostrazione di un’estensione del teoremadi Lotka già intuita da Coale: conoscendo l’evoluzione temporale delle

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6 Massimo Livi Bacci

curve di fecondità e di mortalità per età (le quali ovviamente non resta-no costanti, come vuole la teoria della popolazione stabile, ma nelle po-polazioni concrete mutano, anche velocemente, anno dopo anno) du-rante un intervallo di tempo, è possibile determinare la struttura peretà della popolazione in un determinato istante che è — anche in questocaso — completamente indipendente dalla struttura per età iniziale. Questoteorema (della ergodicità debole), con le sue proprietà, è stato successivamenteperfezionato da Coale e Preston (1982).

Durante questo secolo, dunque, si è perfezionata e completata la co-struzione di un modello demografico generale che lega l’accrescimentodella popolazione alle sue leggi di rinnovo e di estinzione e alla sua struttu-ra, di cui la demografia matematica ha formalizzato le complesse relazio-ni, adesso ben note e comprese.

Lo schema della popolazione stabile, con le sue estensioni e genera-lizzazioni, non è fine a se stesso, ma ha permesso uno sviluppo notevoledelle conoscenze demografiche in due direzioni di notevole utilità. Unaprima utilizzazione dello schema permette di individuare le implicazio-ni di lungo periodo di determinati «comportamenti» demografici, con-sentendo di rispondere con esattezza a quesiti di questo tipo: se la po-polazione italiana assumesse da oggi in poi leggi di fecondità e mortalitàdeterminate, fisse, quali sarebbero i parametri demografici nella situa-zione stabile di approdo (cioè: quali sarebbero natalità, mortalità, etàmedia al parto, struttura per età, tasso di accrescimento e così via)?

La seconda direzione di utilizzo è più concreta e fornisce elementi co-noscitivi sulla realtà demografica non desumibili direttamente dai dati di-sponibili. Quando le popolazioni concrete approssimano situazioni di sta-bilità o di quasi stabilità, l’applicazione dello schema di Lotka (e le sue e-stensioni) permette di trarre da dati e conoscenze parziali gli elementimancanti (ma necessariamente legati e dipendenti dai dati parziali), né piùné meno come la conoscenza del corpo umano permette di ricostruire loscheletro di un individuo (e le misure antropometriche di peso, altezza ecosì via) da pochi reperti ossei. Così dalla conoscenza della struttura peretà e del tasso di accrescimento di una popolazione desunti dai censimen-ti si potranno dedurre i livelli di fecondità o mortalità; o dalla conoscenzadi queste ultime (ad esempio dedotte da inchieste particolari) si potrà in-ferire la struttura per età e via dicendo. Ciò offre vantaggi notevoli nellostudio di popolazioni con dati frammentari o incompleti, come è il casodelle popolazioni del passato o di molte popolazioni contemporanee invia di sviluppo, conosciute solo parzialmente attraverso censimenti o in-dagini episodiche (Coale e Demeny, 1966; ONU, 1955; 1981; 1983).

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La demografia 7

I colossali problemi connessi con la crescita delle popolazioni in viadi sviluppo e la necessità della loro conoscenza hanno dato un enormeimpulso (come diremo poi) alle applicazioni del principi derivati dallateoria stabile.

3. Le componenti del sistema demografico

Il quadro formale del funzionamento del sistema demografico sí èperfezionato in parallelo con la comprensione del funzionamento delle«componenti» che lo integrano. Potremmo, in via esemplificativa, rico-noscere una «componente» della fecondità nella riproduzione; una dellanuzialità nella famiglia; una della morbilità nella mortalità; una dellamobilità nella migrazione. Sono partizioni in parte arbitrarie e di comodo:ciò che va rilevato è che le componenti del sistema demografico hannosuscitato grandissima attenzione, sono state scomposte e analizzate e illoro funzionamento è adesso compreso a un livello assai superiore a quellodi qualche decennio fa.

La fecondità-riproduzione (strettamente legate alla nuzialità chequi, per semplicità, si ignora) ha ricoperto un ruolo centrale anche pervia della sua importanza «politica»: agendo sulla fecondità si riuscirà afrenare l’incremento demografico del paesi in via di sviluppo — unodel problemi centrali della seconda metà del secolo XX. Soprattutto èla fecondità (e il suo variare nel tempo) che modella la struttura per etàdelle popolazioni.

Il sistema fecondità-riproduzione, tuttavia, era già ampiamente co-nosciuto nei suoi principali meccanismi sulla base delle statistiche ag-gregate raccolte dai sistemi statistici nazionali: la fecondità per età, or-dine di nascita, durata del matrimonio — per generazioni e per contem-poranei — è stata oggetto di studio, approfondimenti e confronti fin dal-l’inizio di questo secolo. Negli ultimi decenni numerosi perfezionamentied estensioni di un nucleo già noto hanno notevolmente arricchito lenostre conoscenze; tuttavia le vere innovazioni sono connesse alla di-sponibilità di dati ad hoc (e al loro sfruttamento), sia mediante la rac-colta di dati individuali operata nelle ricerche di demografia storica coni procedimenti di ricostruzione delle famiglie, praticamente «inventati»da Henry (Gautier e Henry, 1958), sia mediante indagini dirette supopolazioni contemporanee.

Le ricerche sono così approdate alla misura della fecondità in assenzadi controllo delle nascite: già Gini aveva elaborato il concetto di fe-condabilità e proposto alcuni criteri di stima (Gini, 1924) mentre a Henry

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8 Massimo Livi Bacci

(1961) si devono la definizione di fecondità naturale e la prova che an-che in assenza di controllo volontario delle nascite (ad esempio in popo-lazioni storiche) la fecondità effettiva varia notevolmente, stimolandole ricerche sui fattori di tale variazione, al di là degli effetti ben notidell’età o della durata del matrimonio. Ci si è così resi conto della note-vole variabilità della fecondabilità (influenzata soprattutto dalla frequenzadel rapporti sessuali) e dell’eterogeneità della popolazione rispetto adessa; un posto centrale nelle ricerche l’ha anche avuto lo studio dellalunghezza variabile del cosiddetto «periodo non suscettibile » (cioè il pe-riodo successivo al parto durante il quale non c’è ovulazione) e del suoilegami con la durata dell’allattamento, così come si è studiata l’influen-za della mortalità infantile sulla durata dell’allattamento e sull’intervallotra i parti. Con la disponibilità di dati più ricchi si è potuto stimare illivello di infecondità e di sterilità permanente, così come la subfertilitàsuccessiva alla pubertà. L’accumulo di dati e di conoscenza circa l’etàalla pubertà e alla menopausa, la fecondabilità, il periodo non suscetti-bile, la mortalità intrauterina, l’infertilità secondo l’età e così via, hapermesso la ricostruzione di modelli della riproduzione e della nascita,strumenti adatti alla descrizione delle vicende di una generazione du-rante il suo periodo riproduttivo.

Con gli anni cinquanta e sessanta è iniziato anche lo studio (spessoguidato da finalità pratiche) della contraccezione secondo i vari metodi,della diffusione e dell’incidenza degli stessi, della durata dell’impiegoe dell’efficacia, cosicché la conoscenza del meccanismi naturali della fe-condità ha potuto accrescersi di quella del procedimenti di controllo.

Questi approfondimenti continui del meccanismi del sistema fecon-dità-riproduzione si ricompongono e ricongiungono con le conoscenzeaggregate ricordate all’inizio, riuscendo a esprimere il livello di natalitàdi una popolazione in funzione delle «variabili intermedie» che la con-dizionano: frequenza del matrimonio, lunghezza dell’intervallo tra le gra-vidanze, contraccezione, aborto. Si è così riusciti a creare una grigliaanalitica utilissima sia a fini di misura e descrizione, sia per l’interpreta-zione causale (Bongaarts e Potter, 1983).

Mi sono fermato, in particolar modo, sull’esempio della componentefecondità-riproduzione (si veda il capitolo di Bonarini, Ongaro e Rossi,«Riproduttività», in questa Guida, dove il tema è ripreso con ben altraampiezza) per segnalare che il grande progresso nelle conoscenze acqui-site negli ultimi decenni deriva dall’integrazione di dati aggregati (gene-ralmente riguardanti tutta la popolazione e raccolti dai sistemi ufficiali)con dati individuali utilizzati a livello individuale (raccolti con indagini

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nominative storiche o inchieste ad hoc): i primi forniscono un indispen-sabile quadro di riferimento, i secondi, ne dettagliano le articolazioni.

Ma anche la conoscenza delle altre «componenti» ha fatto notevoliprogressi, forse non così evidenti come quelli messi a segno per fecondi-tà e riproduzione. Le statistiche ufficiali, naturalmente, avevano resopossibile lo studio dettagliato della mortalità in senso classico (tavoledi mortalità globali e dettagliate per causa di morte; analisi della morta-lità infantile e così via), cosicché nell’ultimo dopoguerra poco restavada fare in quest’area se non estendere e specificare le analisi descrittive.Tuttavia i progressi conoscitivi sono andati, ancora una volta, in duedirezioni complementari. Da un lato si sono moltiplicate le analisi «for-mali» della mortalità, anche con il fine di giungere alla codifica di «mo-delli» di mortalità per età (le «tavole tipo», come vengono comunemen-te chiamate) che variano con una certa sistematicità a seconda del livel-lo di mortalità (espresso, ad esempio, dalla speranza di vita alla nascita),delle cause di morte prevalenti e così via (ONU, 1955; 1981; Coale eDemeny, 1966; Petrioli, 1982). Questi studi — in particolare le tavoletipo — hanno fornito il quadro di riferimento essenziale per completarele informazioni lacunose e frammentarie tipiche del paesi in via di svi-luppo nei quali non esistono sistemi di rilevazione capaci di fornire re-golari statistiche del decessi; e poiché la distribuzione per età delle po-polazioni stabili o quasi stabili è connessa, oltreché alla funzione di fe-condità e alla sua forma, anche alla funzione di mortalità, le tavole tipohanno permesso di procedere all’elaborazione di popolazioni stabili ti-po ad esse collegate e di vastissimo impiego pratico.

La seconda linea di sviluppo passa, ancora una volta, per l’acquisi-zione di dati più dettagliati desumibili con indagini speciali o accoppiando(con notevoli difficoltà) informazioni sui caratteri individuali provenientidal sistema ufficiale (dati censuari e dati dello stato civile). Oltre cheper le variabili «esterne» che ovviamente influenzano il livello della mor-talità (livello di sviluppo, progresso medico e così via), per quali ragionipopolazioni, o sottopopolazioni, viventi in condizioni esterne approssi-mativamente simili hanno mortalità diversa? Si apre qui un’intermina-bile serie di interrogativi sui fattori (individuali, collettivi, di contesto)che determinano i rischi di morte: la natura fisica dell’ambiente; le con-dizioni igieniche individuali e della famiglia; l’accesso alle cure medi-che; l’ambiente e il tipo di lavoro; le abitudini individuali riguardantiil cibo, il fumo, l’alcool, l’esercizio fisico, la guida... Si sconfina, ovvia-mente, nella statistica medica e nell’epidemiologia, ma è anche questouno del casi in cui i confini tra discipline sono mobili e artificiosi. Un

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contributo metodologico sostanziale della demografia parte da lontano:dall’abitudine del demografi a considerare gli eventi (quelli strettamen-te demografici o ad essi strettamente connessi) in successione cronolo-gica nell’arco della vita umana e nell’analisi statistica (dalla nascita almatrimonio, al parto del primo, del secondo, dell’nesimo figlio, intram-mezzata magari dal decesso del coniuge, alla vedovanza, al secondo ma-trimonio, fino alla morte). Queste analisi possono essere trasposte allostudio delle traiettorie biografiche degli individui attraverso situazioni(contemporanee o sequenziali) rilevanti per i rischi di morte. Siamo perora ai primi passi, né è detto che questi diano frutti a breve termine:tuttavia si capisce come i progressi in questa direzione possano aiutaread approfondire la conoscenza del sistema mortalità (Caselli et al., 1990).Del resto, in un’area più circoscritta — quella della mortalità infantile— le analisi demografiche (specialmente quelle nei paesi in via di svilup-po ad alta mortalità) hanno buon successo nell’individuarne le compo-nenti: età della madre, numero di figli avuti, durata dell’allattamentoe modi di nutrizione, immunizzazione-vaccinazione e così via.

Nello studio della componente nuzialità-famiglia — di cui darò soloun accenno — i progressi sono stati notevoli a più livelli: ormai la cono-scenza del meccanismi di formazione e dissoluzione del nuclei familiari(nuzialità, nascita del figli, loro uscita dal nucleo familiare, scioglimen-to della coppia per vedovanza o divorzio e così via) è tale da permetterela costruzione di verosimili modelli di simulazione che riproducono ti-pologie ben individuate nella realtà. Molto più difficile — perché la ma-teria trattata è assai più sfumata e gli eventi molto eterogenei — è la de-scrizione, formalizzazione e scomposizione della componente mobilità-migrazione, anche se le innovazioni metodologiche e concettuali a que-sto riguardo sono state parecchie. Questi accenni possono bastare pertrarre alcune conclusioni, qui schematicamente riassunte.

1) Negli ultimi decenni la conoscenza delle grandi componenti del si-stema demografico ha compiuto grandi passi in avanti: esse sono statescomposte in meccanismi assai dettagliati di cui si conosce molto bene ilfunzionamento. Naturalmente si può andare, e si andrà, ancora più a fondo.

2) La demografia è in grado di presentare un quadro dettagliato eintegrato del funzionamento di fenomeni fondamentali della società efornisce conoscenze portanti e imprescindibili per le altre scienze umane.

3) Un fattore essenziale di questi progressi è da individuare nell’in-tegrazione di metodi «macro», connessi per il solito con lo sfruttamen-to delle statistiche ufficiali, e di metodi «mieto» che utilizzano dati in-dividuali desumibili da indagini particolari.

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4. La ricerca delle cause

Ho sostenuto nelle pagine precedenti che i maggiori progressi com-piuti dalla demografia negli ultimi decenni riguardano la costruzione diun’architettura formale del funzionamento del sistema demografico: irapporti tra crescita e struttura, il modus operandi delle componenti dellacrescita e del mutamento, ovvero del sottosistemi di fecondità-ripro-duttività, morbilità-mortalità, nuzialità-famiglia e mobilità-migrazioni.L’integrazione di metodi basati su dati aggregati con metodi basati sudati individuali ha grandemente contribuito ai progressi compiuti.

Costruita l’architettura principale (che, naturalmente, come la pro-verbiale fabbrica del Duomo, non è completata e sulla quale molto lavo-ro va ancora fatto), i demografi si trovano di fronte altri giganteschi pro-blemi, tipici di ogni scienza sociale. Perché mai fecondità, mortalità, nu-zialità, mobilità, crescita e così via mutano nel tempo e da popolazionea popolazione? Perché la fecondità del Kenya è sei volte più elevata diquella dell’Italia o la speranza di vita del Giappone è doppia di quelladell’Etiopia? Sebbene le risposte a tali domande siano quasi intuitive,risultano assai meno intuitive le risposte a domande, di natura analoga,circa le ragioni delle differenze tra gruppi assai simili (popolazioni dipiccole aree, ceti sociali, categorie professionali e così via) che esibisco-no, in contesti relativamente omogenei, comportamenti sensibilmentedifferenti. L’elaborazione di risposte a domande di questo genere è ilpane quotidiano delle scienze sociali.

La demografia si è sbizzarrita a proporre quesiti ed escogitare rispo-ste: come spesso accade, i primi sono formulati con velocità assai supe-riore ai secondi. La rapidità e l’intensità del dibattito, tuttavia, sono statespinte da una potente molla: dall’accumulo straordinario delle informa-zioni quantitative sui fenomeni demografici e dall’espansione notevoledelle fonti del dati. Naturalmente questo accumulo è, esso stesso, laconseguenza della crescente fame di conoscenza del fenomeni demo-grafici, di cui una delle cause è stata certamente l’accelerazione della cre-scita nei paesi in via di sviluppo. Fatto si è che la descrizione del sistemademografico attraverso dati censuari, statistiche dello stato civile (inminor misura) e (soprattutto) indagini campionarie si è enormementearricchito. Il caso cinese ne è un esempio: dopo vent’anni di silenzio«statistico», i censimenti del 1982 e del 1990 hanno messo a fuoco lademografia di oltre un miliardo di individui; nel 1987, un’indaginecampionaria all’ 1% (comprendente oltre dieci milioni di persone)

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ha conseguito dettagli notevolissimi sui livelli e la struttura della fecon-dità. Inoltre, non solo la produzione del dati si è grandemente accresciuta,ma è notevolmente migliorata anche la loro qualità, assieme alla conoscen-za di errori e imperfezioni. Cito, di passaggio, oltre all’estensione a tut-to il mondo di regolari censimenti decennali, il moltiplicarsi di specialiindagini campionarie su questo o quell’aspetto del sistema demografico:fra le tante, la serie d’indagini della World Fertility Survey (WFS) neglianni settanta e nei primi anni ottanta, estesa a sessantadue paesi svilup-pati e in via di sviluppo, diretta alla conoscenza del comportamenti fe-condi, delle loro motivazioni, delle aspirazioni e aspettative in tema didimensione della prole, della conoscenza e della pratica del metodi di con-trollo delle nascite (Cleland e Hobcraft, 1985). E, ancora, la serie delleindagini della Demographic and Health Survey (DHS), iniziate negli anniottanta su fecondità, mortalità e salute, estesa, nella prima fase terminatanel 1990, a trentaquattro popolazioni in via di sviluppo (DHS, 1991).

L’accresciuta produzione di dati si è accompagnata a una maggiorecapacità di trattarli con l’avvento, la diffusione, la crescita di potenzae, infine, la semplificazione del calcolo elettronico. Tale capacità ha si-gnificato, tra l’altro, la possibilità di utilizzare su larga scala dati indivi-duali formulando ipotesi di lavoro ad hoc e verificandole, secondo pro-cedimenti prima assai vincolati a precisi, rigidi e limitati piani di spo-glio e di pubblicazione. Oggi il ricercatore è in grado di manipolare lasua «base dati» secondo proprie ipotesi di lavoro. Prendiamo il caso dellafecondità: è evidente l’interesse di analizzarla secondo certe caratteri-stiche socio-economiche come, ad esempio, il grado d’istruzione, la pro-fessione e altre variabili; quando non esistevano indagini speciali attea collegare le variabili «esplicative» con quelle dipendenti si procedeva,ad esempio, con indagini di tipo cross section. Una volta classificate le variearee geografiche secondo il livello di fecondità, il grado medio diistruzione, l’incidenza delle attività agricole o industriali e così via, sicercava di misurare la relazione tra le variabili supponendo che le rela-zioni osservate nelle sottopopolazioni (ad esempio una diminuzione difecondità al crescere del grado medio di istruzione) fossero valide anchea livello individuale. Nel caso di indagini speciali (ad esempio, in un cen-simento, la domanda sul numero di figli avuti dalle coniugate) era possi-bile raggruppare, secondo schemi prestabiliti, gli individui secondo i li-velli delle variabili esplicative scelte (ad esempio secondo il grado di istru-zione) e misurarne la fecondità corrispondente, già operando un pro-gresso conoscitivo notevole. Ma l’accesso diretto, da parte del ricerca-tore, ai dati individuali dell’indagine — con la possibilità di combinarenel modo più vario le caratteristiche del singoli individui — ha arricchi-

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to ulteriormente la potenzialità delle indagini demografiche: egli può agirecon la più grande flessibilità operando le necessarie ipotesi e verifiche.La «base dati» non è più un duro masso da scolpire e incidere ma mollepasta da plasmare. Naturalmente, a opportunità nuove si contrappon-gono problemi nuovi: da un lato la ricchezza delle banche dati, dall’al-tra le restrizioni all’accesso ai dati individuali per non violare i diritti allariservatezza.

Questa lunga premessa è necessaria per un motivo assai semplice: l’au-mentata produzione del dati ha accresciuto enormemente la capacità didescrivere il sistema demografico, ha moltiplicato i quesiti possibili eha anche potenziato gli strumenti per rispondervi. Si ritorna, così, alproblema della ricerca delle cause del variare del fenomeni demografici.Potremmo immaginare tre fasi teoriche del procedere:

1) descrizione e analisi del variare del fenomeni. Ne sono cardine lesuccessioni temporali (serie storiche) e le analisi differenziali; a livelloaggregato, suddividendo il territorio, la popolazione, le famiglie e cosìvia in aree o in gruppi, secondo vari criteri, si può osservare l’incidenzadifferenziale del fenomeno in questione;

2) tentativo di spiegare (in senso statistico) le regole del variare delfenomeni, approfondendo le relazioni fra caratteri; questo procedimen-to è più efficiente quando si mantiene il riferimento individuale del ca-ratteri (ad esempio mettendo in relazione il grado di istruzione di cia-scun individuo con la sua fecondità) in modo tale da ricercare e indivi-duare eventuali regolarità sistematiche, in tempi diversi ó in popolazio-ni diverse, ponendo in relazione una o più variabili «indipendenti» conla variabile — o le variabili — dipendenti;

3) ricondurre le «spiegazioni» parziali di singoli fenomeni entro unmodello generale, un paradigma, una teoria interpretativa.

Rispetto al punto 1), le descrizioni del sistema demografico si sonomoltiplicate in modo straordinario negli ultimi decenni, soprattutto perquanto riguarda la fecondità e la mortalità, meno per fenomeni più com-plessi e articolati o più sfumati, come i processi dinamici delle famiglieo mobilità e migrazioni. Ma anche le indagini di cui al punto 2) si sonosviluppate con vigore, attingendo alla massa di informazioni desumibilida indagini ad hoc (in Italia ricordiamo l’indagine sulla fecondità del1979, l’indagine Istat sulle strutture e i comportamenti familiari del 1983 el’indagine multiscopo, periodica, sulle famiglie anch’essa eseguita dall’Istata partire dal 1987) e sfruttabili a livello individuale. Ma si è trattato diuno sviluppo avvenuto con un certo disordine, non essendo derivato daun disegno unitario, sostanzialmente per tre ragioni:

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a) la difficoltà di mettere a punto variabili esplicative significativee coerenti;

b) l’alta proporzione di varianza di ciascun fenomeno studiato che ri-mane inspiegata;

c) la frequente contraddittorietà del risultati, difficilmente interpreta-bile.

Ma dove i risultati permangono paurosamente carenti è l’ambito delpunto 3). Infatti, pur dando per risolti i problemi espistemologici relativial significato da attribuire al fatto che i fattori x, y e z spieghino una certapercentuale della varianza di un determinato fenomeno in una datapopolazione, come spiegare «ad un tempo» il contemporaneo muoversi(sotto la spinta di fattori discordi) del diversi fenomeni che integrano ilsistema demografico? Si prenda ancora una volta il caso della fecondità:semplificando al massimo, su di essa agiscono, oltre a una serie di fattoripsico-sociali, culturali e economici, altri fattori demografici quali lanuzialità, la mortalità infantile, la mobilità delle coppie e così via, i quali,a loro volta, «rispondono» a indicatori di volta in volta diversi... Iltentativo di immettere tutte le variabili in un grande sistema si rivela,in pratica, impossibile e incontrollabile.

Ma spesso, fortunatamente, la ricerca non ha bisogno di procedereda 1) a 2) e da 2) a 3); in altri termini, sarebbe ingenuo pensare cheper costruire paradigmi e teorie basti provvedersi di descrizioni detta-gliate e di analisi multidimensionali e che da queste analisi a tappetopossa scaturire, induttivamente, un compiuto schema intepretativo, cosìcome una pietanza raffinata non uscirà mai dalla combinazione siste-matica degli infiniti ingredienti dell’alimentazione. Avviene in effettiche l’esperienza, l’osservazione, la cultura (e quindi la capacità di ap-prendere dalle altre discipline) suggeriscano ipotesi e schemi e che la ri-cerca ne deduca e ne verifichi le implicazioni; che, cioè, si proceda da3) a 2) e 1) ritornando, se del caso, a 3) per modificarlo, convalidarlo,negarlo.

5. Teorie e paradigmi interpretativi: a) transizione demografica e teorie dellafecondità

Per la loro formazione, la consuetudine con la ricerca empirica, lavicinanza con un nucleo forte «metodologico», analitico, i demografisono assai più a loro agio alle prese con quesiti di tipo quantitativo, cuisi può rispondere attingendo allo strumentario a loro disposizione, piut-tosto che di fronte a quesiti magari semplici, ma la cui risposta richiede

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una visione più ampia della società e dell’uomo. Ad esempio, a una do-manda stravagante come «qual è la probabilità di concepire per un gruppodi donne di una certa età, primipare, conviventi con un marito di unanno maggiore, residenti in aree urbane, secondo il tempo trascorso dallanascita precedente, la durata dell’allattamento e il colore degli occhi?»non è impossibile rispondere, sempre che si sia capaci di convincere unente finanziatore della sua rilevanza scientifica e sociale e si ottenganoi fondi per impostare l’indagine e sempre che si disponga di un numerosignificativo di donne cui porre questa domanda e di ricercatori all’al-tezza del compito.

Assai più imbarazzante è il dover dare risposta a quesiti dell’altrotipo, quale ad esempio: «perché siamo oggi sulla Terra cinque miliardidi individui e non cinquanta miliardi — come alcuni ritengono che il no-stro pianeta possa sostenere e nutrire — o cinque milioni — cifra che gliantropologi stimano riferita all’umanità prima della rivoluzione del Neo-litico?». Si tratta di una domanda assai semplice, invero, la domandadella demografia o delle scienze biologiche; una domanda che probabil-mente i padri fondatori delle due discipline — Malthus e Darwin — sem-pre ebbero presente durante la loro vita.

La critica più severa rivolta alla demografia degli ultimi decenni —una volta riconosciuti i grandi progressi conoscitivi — è che essa si è de-dicata all’analisi di crescente profondità del più intimi e nascosti recessidel comportamento demografico, scavando verticalmente in quello chepotremmo chiamare «ignoto demografico» ma, allo stesso tempo, si èritirata orizzontalmente dal compito d’indagine dell’« ignoto sociale» (emolti direbbero anche dell’ignoto biologico), quell’immenso territorioche può essere studiato adeguatamente solo congiungendo le forze conle altre discipline dell’uomo. Il paradosso si spiega alla luce di questatendenza, che ha certamente consolidato la disciplina ma rischia di ren-derla culturalmente povera.

Non voglio insistere nella critica: può ben darsi che non potesse es-sere diversamente, in un periodo di accumulo così rapido delle cono-scenze empiriche, e che, dopo questa fase di accumulo, ne segua un’al-tra di più lenta elaborazione teorica; d’altro canto, qualche segno inco-raggiante in questa direzione c’è. Del resto, critiche analoghe si potreb-bero fare per altre discipline sociali. Un superamento del limiti attualiè anche insito negli sviluppi della raccolta del dati: quando si cominciaad andare oltre l’analisi del sistema demografico, estendendo l’indaginealle caratteristiche di contesto o individuali (variabili ambientali o dicontesto come l’abitazione, la residenza; di comportamento come l’usodel tempo, i consumi, le abitudini; qualitative, come l’istruzione, il red-

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dito, la professione e così via) si raccolgono dati, si utilizzano concetti,si misurano fenomeni che interessano da vicino l’economista o il socio-logo, portando inevitabilmente alla ricerca di problemi comuni. Anchecerte metodologie di analisi si avvicinano: si pensi all’analisi longitudi-nale, messa a punto con rigore dalla metodologia demografica, e alle sueestensioni agli studi del ciclo del risparmio e del consumo, in economia, odel ciclo di vita individuale e familiare, in sociologia.

Ritorniamo all’argomento centrale: in quale misura la demografia hasaputo elaborare teorie o paradigmi interpretativi delle relazioni tra po-polazione e società? È una domanda insidiosa, anche perché la tentazioneè di osservare che la disciplina non ha prodotto niente di paragonabileall’ambizioso modello di equilibrio popolazione-risorse elaborato daMalthus o che nel Novecento la demografia non ha elaborato l’equiva-lente della «teoria generale» di Keynes. A ben guardare, invece, le ela-borazioni teoriche non mancano, anche se spesso limitate a settori cir-coscritti della realtà demografico-sociale.

Interpretazioni teoriche sui meccanismi del mutamento demograficosono quelle che fanno capo alla teoria della transizione demografica (Coale, 1973): losforzo, cioè, di comprendere i modi del passaggio da sistemi nei qualifecondità e mortalità sono elevate a sistemi in cui esse sono basse (come èavvenuto a cavallo del secolo nelle popolazioni occidentali); e altresì losforzo di comprendere in quale misura il paradigma sia riproducibile incontesti diversi e — soprattutto — in quale misura esso possa essereutilizzato per i paesi in via di sviluppo in cui tale processo di transizioneè in corso o appena all’inizio. Il paradigma della transizione postula unadipendenza stretta tra evoluzione economica e sociale ed evoluzionedemografica; in una prima fase la mortalità diminuisce a seguito dellascomparsa delle grandi crisi di mortalità (vaccinazioni; rarefazione dellecarestie) o del miglioramento del livello di igiene, di nutrizione e così via.La diminuzione della mortalità significa maggior sopravvivenza del,figli equindi — per un numero dato di sopravviventi all’età adulta — una minor«produzione» di figli. Ma questa minore fecondità è rinforzatadall’accresciuto costo e dal più tardivo, contributo economico che i figlidanno in società che si fanno urbane e industriali, che richiedono unmaggior grado di istruzione e una durata più lunga di allevamento dellaprole. D’altro canto la minor fecondità significa di per se stessa maggiorcura del figli e implica minor mortalità. La retroazione tra mortalità efecondità si esaurisce quando la mortalità raggiunge un suo minimoquasi «biologico» e la fecondità vi si adegua.

Il paradigma della transizione demografica è un’utile sintesi di una

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trasformazione estremamente complessa ma è scarsamente «riproduci-bile» o generalizzabile. La sua debolezza non sta tanto nelle numerosedeviazioni dallo schema (in non pochi casi il declino della fecondità ini-zia prima di quello della mortalità; la transizione della fecondità inizianella Francia rurale un secolo prima che non nell’Inghilterra industriale;in molti casi valori e norme che presiedono alle scelte individuali sembranopoco permeabili ai mutamenti economici o sociali e così via) quanto nellapresunzione che «prima» e «dopo» la transizione esista uno stato diequilibrio demografico, in cui natalità e mortalità sono molto vicine ela crescita nulla o trascurabile. Se la ricerca storica ha mostrato chenon era certo questa la situazione «prima » della transizione, l’esperien-za contemporanea mostra che non lo è nemmeno «dopo»; mentre il cam-mino del paesi in via di sviluppo mostra un’enorme varietà di situazioninon facilmente codificabili. D’altro canto è anche da respingere il «ri-lassamento» eccessivo delle «regole» del paradigma della transizione al-lo scopo di farvi rientrare, in qualche modo, le tante eccezioni.

Il dibattito attorno al paradigma della transizione è stato, però, pro-duttivo di nuove ricerche e idee, particolarmente nell’area delle deter-minanti della fecondità. Si pensi, soprattutto, allo sviluppo della newhome economies e ai numerosi tentativi (Leibenstein, 1974; Becker, 1981) dispiegare le scelte razionali delle coppie in funzione dell’utilità e delcosti della prole. Se, da un lato, con il crescere del reddito familiare ilcosto del figli aumenta, la loro «utilità» complessiva declina: non tantola soddisfazione che si trae dall’esistenza del figli, quanto la loro utilitàin termini di sicurezza del genitori nella vecchiaia o la loro utilità in quanto«produttori». Così, con una funzione di utilità complessivamente de-crescente e una funzione di costo crescente, le famiglie tendono ad ave-re meno figli al crescere del reddito e al procedere dello sviluppo (Lei-benstein, 1974). Oppure si può dire, con Becker (1981), che il costodel figli, di per sé, non cresce con il crescere del reddito familiare: sonopiuttosto le famiglie che scelgono di spendere (investire) di più nei figli,ovvero chiedono figli di «miglior qualità»; pertanto, per una «qualità»data di figli (cioè per figli che hanno un determinato livello di istruzio-ne, che vengono alimentati, vestiti, alloggiati in un certo modo e cosìvia), le famiglie tendono ad avere più figli al crescere del reddito. Que-sta relazione risulta nascosta, in ogni popolazione sufficientemente grande,per il fatto che il controllo delle nascite è migliore nelle famiglie più ab-bienti (che quindi non hanno figli «indesiderati»). Questi originali spunti(contenuti, per la verità, in embrione nelle prime formulazioni della tran-sizione demografica) e i numerosi tentativi di generalizzazione (ad esem-

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pio, per incorporare il controllo delle nascite) di sintesi e di applicazio-ne empirica di spiegazione della fecondità, sia nei paesi sviluppati siain quelli in via di sviluppo, non hanno peraltro dato i frutti sperati. Leragioni sono tanto teoriche (la difficoltà di postulare una funzione diutilità; il trascurare l’influenza esterna di norme, valori e ideali e delloro mutare nel tempo e così via) quanto empiriche (difficoltà di valuta-re gli elementi di costo e cosi via): più in generale, derivano dalla diffi-coltà di far dipendere le variazioni del flusso aggregato di nascite da mec-canismi tutti interni alla famiglia e quindi di conciliare tendenze « ma-cro » con comportamenti «micro».

In reazione alla fortuna (non uguagliata dai risultati) delle indaginimicroeconomiche, non pochi studiosi tendono a interpretare i mutamentidella fecondità in funzione del mutare di sistemi di valori o di impulsi(anche economici) provenienti dal sistema sociale, la cui azione non puòessere adeguatamente spiegata da meccanismi micro visti esclusivamen-te a livello di scelte della coppia. Specialmente nei paesi sviluppati, abassissima fecondità, questa sembra sempre più obbedire a mutamentinei sistemi di valori propri di ciascuna generazione, sistemi che hannouna forte variazione temporale ma una forte omogeneità da popolazio-ne a popolazione. Così potrebbe spiegarsi anche l’omogeneità negli ulti-mi decenni del cicli di fecondità del paesi occidentali (ripresa del dopo-guerra, declino a partire dalla metà degli anni sessanta; sostanziale sta-bilità su bassissimi livelli negli anni ottanta). Appaiono comunque red-ditizi quegli sforzi che tendono a definire e misurare i sistemi di valorenelle varie generazioni e a riferirvi i comportamenti demografici dellecoppie. Sono tentativi, questi, che non dispiacciono agli storici (per un’in-tepretazione del mutamenti storici nel valore del figli si veda Ariès, 1960)né a economisti come E asterlin (1978), il quale ha sviluppato una teoriache spiega le alternanze di fecondità delle generazioni in termini di di-mensioni numeriche delle generazioni stesse (quelle di minori dimensio-ni hanno favorevoli condizioni di vita perché la scarsa offerta di lavorogenera alti salari, e in conseguenza hanno un più alto numero di figli;per le generazioni più numerose invece il discorso si rovescia).

6. Teorie e paradigmi interpretativi: b) altri spunti

Nel tentativo di risolvere alcuni grandi temi inerenti alle relazionipopolazione-società, non sono mancati spunti teorici di notevole inte-resse in altre direzioni. Questi hanno in genere riunito due condizioni:

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1) sono stati elaborati sotto la spinta della necessità di unificare ointegrare conoscenze provenienti da discipline diverse;

2) hanno cercato e trovato prove e conferme in analisi di lungo pe-riodo.

Nel campo delle relazioni tra popolazione e economia una linea diricerca classica che faceva capo a Kuznets (1973) e orientata a spiegaregli effetti di lungo periodo della crescita demografica è andata esauren-dosi negli anni sessanta. Pure, i temi affrontati erano di grande interes-se, poiché si tentava di capire come il miglioramento delle risorse (capi-tale) umano per l’abbassarsi della mortalità e della morbilità, l’aumentodell’istruzione e il miglioramento della formazione, i guadagni di scalaconseguenti alle dimensioni demografiche e sociali accresciute avesseroannullato e invertito la legge del rendimenti decrescenti: questi temi fu-rono risuscitati negli anni ottanta non sempre con equilibrio e misura(Simon, 1986). Negli anni sessanta e settanta sono proseguiti soprattut-to i tentativi, iniziati da Coale e Hoover negli anni cinquanta, di indivi-duare le conseguenze della rapida crescita demografica (e della sua even-tuale decelerazione) su risparmi, investimenti e crescita economica (Coalee Hoover, 1958); modelli e interpretazioni che, tuttavia, non hanno in-contrato i successi sperati dal momento che la performance economicadel paesi in via di sviluppo sembra essere stata legata in maniera assaicontraddittoria alla crescita demografica, almeno a giudicare dall’espe-rienza dell’ultimo trentennio (Kelley, 1988).

Assai innovatore è risultato il paradigma sviluppato da E. Boserup(1965) riguardante il molo della crescita demografica sullo sviluppo agra-rio, in cui le premesse del modello malthusiano sono rovesciate e la cre-scita demografica è vista come la variabile determinante dello sviluppoagricolo, della crescita della produzione e della sua intensificazione. L’in-novazione tecnica implica maggior input di lavoro (ad esempio quandosi passa da un’economia del taglia e brucia a una di coltivazioni annuali)e non avverrebbe se la crescita demografica non la rendesse necessaria.L’estensione all’economia primitiva (Cohen, 1977) o alla spiegazione delsuccesso della rivoluzione verde (Pingali e Binswanger, 1988) sono esempidella vitalità dello schema di Boserup.

Demografia e storia hanno prodotto altre interpretazioni globali dinotevolissimo interesse delle relazioni tra società e demografia. La rico-struzione delle famiglie a fini demografici «reinventata» da Henry ne-gli anni cinquanta ha permesso la ricostruzione dettagliata del funzio-namento del sistemi demografici di antico regime — almeno per la parte«stabile» non «sommersa» della popolazione (Livi Bacci, 1990). In al-cuni casi fortunati — come per la popolazione del Quebec (Charbonneau

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et al., 1987) — è stato possibile ricostruire l’intero sistema di una granderegione (sia pure poco popolata) e le ragioni della sua affermazione de-mografica. Più in ombra le interrelazioni con il sistema sociale ed eco-nomico, che, tuttavia, quando vengono studiate si rivelano molto pro-duttive. È il caso della ricostruzione della popolazione inglese (Wrigleye Schofield, 1981) e del tentativo di spiegare le interazioni tra crescitademografica e crescita della domanda e del prezzi e caduta del salari realie ristabilimento di una situazione di equilibrio non con l’accresciuta mor-talità ma con una diminuita nuzialità e natalità. Il modello malthusianoviene confermato per l’Inghilterra anche se la variabile demografica sen-sibile alle alternanze economiche non è la mortalità ma l’accoppiata nu-zialità-natalità.

Parziali, ma non meno interessanti, sono gli studi che hanno postoin relazione le crisi di mortalità con i fattori che le determinano (care-stie, epidemie), hanno valutato il loro impatto sulla crescita demografi-ca, indagato sulle risposte demografiche e sociali alle crisi stesse (ristrut-turazione delle famiglie e delle proprietà; accelerazione del ritmi dellanuzialità e della fecondità) mediante metodologie varie, inclusi modellieconometrici. Anche qui, pur limitatamente allo studio dell’azione e dellareazione connessa con uno shock esterno (la crisi), si sono costruiti mo-delli interpretativi. Sul piano più stretto dell’epidemiologia storica, lostudio dell’«unificazione biologica del mondo» (Leroy Ladurie, 1975;McNeill, 1978), l’impatto di infezioni nuove su popolazioni «vergini»(Crosby, 1986), il diverso accrescimento di gruppi nuovi che competo-no coni vecchi hanno accresciuto enormemente la conoscenza delle in-terazioni tra mortalità, morbilità e società. Ancora, nell’ambito degli studisia storici (Mc Keown, 1976; Livi Bacci, 1989) sia contemporanei, i te-mi della relazione tra produzione, sistema agrario, consumo, nutrizionee crescita demografica si sono rivelati densi di spunti e di promesse.

Un’altra area dove paradigmi interpretativi possono svilupparsi — an-corché limitati a fenomeni più circoscritti, che non investono l’interosistema demografico — è quella del modelli epidemiologici. Spesso que-sti modelli, estremamente semplificati, interpretano le relazioni tra in-fezione, popolazione immune, popolazione suscettibile e mortalità pre-scindendo dalle caratteristiche demografiche (struttura per età, tasso diaccrescimento, peculiarità insediative e sociali della popolazione). L’in-tervento del demografo può notevolmente aumentare il potere esplica-tivo di questi modelli. Un caso oggi evidentissimo è quello delle infezio-ni da HIV, dove struttura per età della popolazione, esposizione al ri-schio tramite contatti sessuali, modi del contatti sessuali e metodi dicontraccezione debbono essere incorporati nei modelli esplicativi.

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7. Elogio della demografia. La demografia è utile?

Il titolo del paragrafo contiene una domanda retorica, ma forse nonperegrina. Ci si potrebbe infatti domandare se le conoscenze che oggiabbiamo del sistema demografico si sarebbero conseguite se la demo-grafia non si fosse sviluppata come disciplina autonoma; se non avessereciso i legami di dipendenza dalla statistica; se fosse rimasta nell’alveodella sociologia o se i suoi obiettivi di ricerca fossero rimasti esclusivapertinenza delle varie discipline (naturali o sociali) interessate via via afecondità, mortalità, migrazioni, famiglia. Anche così riformulata si trat-ta di una domanda retorica che non consente prove o smentite, ma spe-culazioni. Pure l’impressione netta è che lo sviluppo della «demografia »come disciplina attiva, e non come oggetto passivo di ricerca nell’alveodi altre discipline, sia stata una condizione essenziale del suo progresso,come dimostra del resto lo stato depresso degli studi demografici in unpaese di grandissime tradizioni scientifiche come la Germania (dove lademografia non ha status universitario) o la sua espansione in Norda-merica dove, pur se prevalentemente legata a dipartimenti di sociologia,ha acquisito ampio riconoscimento e libertà di manovra. Naturalmentec’è il rischio di scambiare l’effetto con la causa e quanto detto non oltre-passa l’ambito delle opinioni personali; ma proseguendo nell’eserciziodelle supposizioni, si può ben immaginare che se la demografia non fos-se diventata adulta con un corpus compatto di metodi e di conoscenze,la situazione sarebbe ben diversa. La sociologia avrebbe certo approfon-dito gli studi su matrimonio e famiglia, sulle strutture per età o sviluppa-to le analisi sull’urbano e il rurale; gli attuari avrebbero raffinato e molti-plicato le tavole di eliminazione; la statistica avrebbe migliorato i quadridescrittivi e perfezionato le rilevazioni; la geografia umana avrebbe af-frontato da par suo l’analisi della dislocazione territoriale e degli insedia-menti; gli economisti avrebbero inserito qualche componente demogra-fica rilevante nei loro modelli di analisi del consumo e del risparmio odel mercato del lavoro; biologia, genetica ed epidemiologia avrebberoesaminato separatamente vari aspetti della riproduttività e dellasopravvivenza. Se anche immaginassimo che tutte le conoscenzeparziali che oggi abbiamo si ritrovassero puntuali «sparse» nei variambiti disciplinari, non v’è dubbio che la nostra conoscenza del sistemademografico e delle sue relazioni con il sociale o il biologico sarebberoassai minori; mancherebbe un corpus metodologico unificante (si vedail capitolo di Santini, «I metodi», in questa Guida); verrebbe me-

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no, soprattutto, la capacità di spiegare i fenomeni demografici nella lo-ro complessità.

Quanto detto serve a chiarire un altro punto spesso in discussione,cioè la cosiddetta «interdisciplinarietà » della demografia, disciplina-cerniera tra il biologico e il sociale. Che cosa c’è, infatti, di più «interdi-sciplinare » di una scienza i cui contenuti si trovano sparpagliati nellevarie discipline di cui sopra si è detto? Una demografia «cannibalizzata»dalle altre scienze (sociali e naturali) dell’uomo è il colmo dell’«in-terdisciplinarietà» di cui si parla, a dritto e a rovescio. Certo è vero cheuna demografia ripiegata sull’analisi esclusiva del «sistema demografico»,disinteressandosi del più ampio sistema sociale o delle sue radicibiologiche (si veda il capitolo di Scardovi, «Demografia e biologia», inquesta Guida), rischia d’isterilirsi e di diventare una tecnica, una conta-bilità raffinata del fatti demografici.

Interdisciplinarietà non significa dunque eclettismo disciplinare, macapacità di interagire con le acquisizioni o le curiosità inappagate dellealtre discipline. Significa elaborare metodologie comuni nei fondamentilogici (ad esempio le tecniche di analisi longitudinali; Io sviluppo del rap-porti tra il trasversale e il longitudinale; le analisi del cicli di vita) o in-dagare su meccanismi di sviluppo della società (il ricambio tra genera-zioni; i processi di selezione del gruppi) che hanno valenze comuni inambiti diversi. Sotto questo profilo i contributi della demografia allaconoscenza del sociale (assai meno per il biologico) sono molto più rile-vanti di quanto comunemente non si percepisca, né è giustificato il ti-more che la demografia risulti gregaria o portatrice d’acqua di altre di-scipline con l’iniziale maiuscola, come la Storia, la Sociologia, l’Econo-mia: il suo futuro, semmai, è legato alla cultura e alla formazione di chila pratica; alla capacità di resistere a una «domanda» di conoscenza orien-tata esclusivamente all’attualità; all’abitudine a interagire con altri lin-guaggi e altre tematiche.

Prima di chiudere questo capitolo introduttivo rivolto, più che altro,a tratteggiare le caratteristiche generali dello sviluppo della demografia ei relativi problemi, qualche parola sulla situazione italiana, cui la Guidaè prevalentemente dedicata. I vari capitoli tratteggiano lo stato di salutedegli studi demografici, sotto vari profili, e il lettore vi troverà diagnosiprecise e dettagliate. Farne una d’insieme non è semplice anche perché lasituazione si evolve con un certo dinamismo. In alcuni capitoli(«Evoluzione diacronica della demografia», «Demografia e biologia») sisono tratteggiati i fasti degli studi di popolazione nella prima parte delsecolo, fino all’ultima guerra; la personalità scientifica del maggioricultori; la rilevanza internazionale del temi trattati e del risultati;

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la capacità di studiare il sociale non dimenticando il biologico; la crisidel dopoguerra; la «rimozione» delle tematiche demografiche per alcu-ne compromissioni politiche; la faticosa ripresa negli anni sessanta, an-che con il ritorno della demografia a piena dignità nell’insegnamento.Molti di questi temi appartengono a un passato che appare quasi remo-to. Fissiamoci sull’ultimo quarto di secolo (il periodo privilegiato da questaGuida) e constatiamo, in rapidissima sintesi, tre punti principali.

Innanzitutto, la rapida crescita «quantitativa» della demografia: nelleuniversità sono ormai un centinaio i demografi «ufficiali» nelle variefasce; fuori delle università non sono pochi i centri di ricerca che si oc-cupano di demografia; abbondanti sono stati i finanziamenti, né risultache progetti intelligenti e utili non siano stati impostati per mancanzadi risorse finanziarie. Va anche aggiunto che la società italiana è semprepiù sensibile alle tematiche demografiche e che esiste una domanda cre-scente di conoscenza.

In secondo luogo, a questa crescita quantitativa corrisponde ancheuna crescita della produzione scientifica e della sua qualità. Tuttavia,analizzando quanto viene fatto, occorre qualificare questo giudizio: lademografia italiana è ormai- in grado di stare al passo con gli sviluppisul piano internazionale, ma vi sta a rimorchio, in buona parte. Pochidegli sviluppi originali della disciplina negli ultimi decenni vedono con-tributi italiani in prima linea.

Infine, le ragioni del divario tra crescita «quantitativa» della disci-plina e della domanda di conoscenza e minore crescita «qualitativa» so-no numerose. La più consolatoria (ma forse la meno veritiera) è che sitratta di uno sviluppo recente e che occorra dare tempo al tempo. Larealtà è che la demografia, assai più di altre scienze sociali, soffre anco-ra di un certo provincialismo, rivelato dalla scarsa mobilità del demo-grafi; dalla forte incidenza nella loro formazione di percorsi di studioche li rendono timidi verso altre discipline; dalla quantità di studi localipoco legati a realtà più vaste; dall’assenza di interesse per fenomeni chetrascendono la realtà nazionale; dalla quasi totale assenza di studi suipaesi in via di sviluppo; dall’esitazione e timidezza nel trattare temi cheesulano dal preciso ambito disciplinare. Sbarazzarsi di questo provin-cialismo è il compito, non facile, del prossimi anni.

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Capitolo secondo

Evoluzione diacronica della demografia

Enzo Lombardo

1. I primi passi nello studio della popolazione

Per molti popoli dell’antichità si ha notizia che venissero effettuaticonteggi di particolari sezioni del corpo sociale e che vi fosse una qual-che forma d’attenzione per la popolazione e per i fenomeni che in essasi concretano. Presso l’antica Roma vi furono simili rilevazioni e TitoLivio fa risalire il più antico di tali conteggi al periodo di Servio Tullio(587-534 a. C.), durante il cui regno furono calcolati 24.000 residentinella città di Roma. Dionigi di Alicarnasso racconta anche il modo incui Servio Tullio pervenì a tale risultato: istituì feste dette paragonalese decretò che in queste riunioni ogni abitante portasse una moneta dif-ferente a seconda che fosse maschio oppure femmina, o ancora fanciul-lo impubere; il conteggio delle monete raccolte diede il numero dellapopolazione distinta per sesso e, a grandi linee, per età’.

Attraverso metodi simili, Servio Tullio riuscì inoltre a conoscere ilnumero di nati e di morti e del cittadiní che vestivano la toga virile aRoma; designò poi funzionari incaricati di raccogliere le stesse informa-zioni nelle campagne. Queste operazioni, più tardi, durante la repubbli-ca, vennero affidate a speciali magistrati detti censori, i quali avevanoil compito di registrare le nascite e le morti e, a ogni lustro, il numerodi cittadini per età e sesso, oltre alla natura e all’estensione delle terrepossedute, alla quantità di capitali e alla rendita di ciascuno.

D’altra parte molti autori si interessarono a notizie attinenti alle cosedello stato, alla geografia e soprattutto agli effettivi militari di cui sipoteva disporre, come ad esempio Polibio, scrivendo del preparatividella seconda guerra punica, o Giulio Cesare (nel libro I, cap. XXIX

1 Per chi voglia affinare il dettaglio delle notizie qui fornite e desideri maggiori informa-zioni anche bibliografiche, si rimanda a Gabaglio (1888) e anche, per riferimenti specifici perla Francia, a Dupâquier (1985). Oltre alla bibliografia riportata al fondo di questo capitolo,un’utilissima fonte integrativa si rinviene in Corsini (1989).

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del Commentarii), che dà indicazioni numeriche del movimenti di popo-lazione a seconda degli uomini in grado di indossare le armi, degli an-ziani, del bambini e delle donne.

Un altro lineamento importante dell’attenzione del romani per gliaspetti della vita umana lo rinveniamo nella costruzione della Tavola diUlpiano, per opera di Aemilius Macer, che rapporta la durata della vitaumana a seconda delle varie età raggiunte da una data persona, inseritanel Digesto di Giustiniano. Si tratta di una tavola di certo non costruitasu osservazioni scientificamente elaborate, ma basata sulla conoscenzaempirica del numero approssimativo di anni che un bambino, ad esem-pio, sarebbe vissuto ancora; il carattere empirico di questi dati non lirende certo meno importanti e informativi anzi, alla luce delle acquisi-zioni e delle conoscenze successive, testimonia del realismo e dell’accu-ratezza delle osservazioni del romani. Si riporta (tab. 1) la Tavola di Ul-piano, dandole un’organizzazione differente dall’originale.

Tabella 1. Lettura della Tavola di Ulpiano.

età restano da vivere anni

1-20 3020 2825-30 2530-35 2225-39 2040-50 si toglie un anno ogni voltaa

50-55 955-60 760 e più 5

a Ciò è da intendersi nel modo seguente: per ogni anno di età superiore a 39 e sino a 49 si defalcaun anno da 20, relativamente a quelli che restano da vivere. Sicché a una persona di 43 anni restanoda vivere: 20— (43 —39) = 20— 4 = 16 anni. Si tenga conto che le classi di età risultano chiuse a sinistrae aperte a destra: ad esempio, a una persona di 55 anni ne restano da vivere 9.

Queste valutazioni non appaiono irreali e mostrano la notevole com-prensione e consapevolezza del romani nell’apprezzamento dell’ordinedi grandezza della vita umana. D’altra parte già nella Bibbia (ad esem-pio nel salmo 90, 0 Dio, pietà della umana fratellanza) vi sono testimo-nianze di come nei tempi antichi vi fosse un’adeguata conoscenza del-l’effettiva durata della vita degli esseri umani. Le vite di durata straor-dinaria attribuite nella Bibbia ai patriarchi appartengono a un passatomitico e rispecchiano, forse, la tendenza a esagerare le età di coloro chemorivano avanti negli anni; ancora ai giorni nostri, nelle società in cui

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manca la registrazione anagrafica le persone anziane indulgono nelvezzo di aumentare la loro età effettiva, non appena si presenta lorol’occasione2.

Solo a partire approssimativamente dal Tre-Quattrocento iniziaro-no a comparire, sia pure in forma parziale e frammentaria, rilevamentidemografici e censimenti (si vedano anche Bellettini, 1973; Fortunati,1934). Del massimo interesse sono le prime rilevazioni effettuate nellarepubblica di Venezia e in altre parti d’Italia. Il motivo principale delloro diffondersi va rintracciato nell’esigenza di conoscere le condizioneproprie e quelle del popoli con cui Venezia intratteneva relazioni com-merciali e politiche; nel 1338 venne ad esempio eseguito un conteggiodel cittadini, dai venti ai sessant’anni, in grado di portare le armi. Talioperazioni vennero via via perfezionandosi, le anagrafi più volte riordi-nate e i rilevamenti generali intensificati, tanto che in una legge del 1624,tesa al riordino delle anagrafi, si riferiva con rammarico aver omessoi censimenti per ben diciassette anni e si disponeva affinché essi assu-messero cadenza quinquennale.

Parimenti a Firenze si hanno registrazioni della popolazione e traccese ne rinvengono nella Nuova Cronica di Giovanni Villani, là ove descriveuna stima indiretta della popolazione della città (in novantamila bocchetra uomini, donne e fanciulli, nel 1338) sulla base del pane che occorrevafar affluire, ma anche in altre testimonianze di Zuccagni Orlandini(1869). Molto nota — almeno fra i demografi — è la regolarità delrapporto del sessi alla nascita, riferita da Villani (ben prima che siiniziasse a tenere i registri del battesimi e delle sepolture, a Firenze, frail 1336 e il 1338, nel battistero di San Giovanni vi era l’uso di accanto-nare una fava nera per ogni bambino battezzato e una bianca per ognibambina). Successivamente, come ricorda Lastri (1755), fu tentata l’in-troduzione della registrazione delle nascite e delle morti, che, limitataall’inizio per le nascite al solo battistero di San Giovanni, venne estesaalla fine del Quattrocento alle altre diocesi.

D’altra parte se il Villani diede informazioni sul numero di forestieri,viandanti e soldati, delle scuole e del bambini che le frequentavano,delle chiese, del numero di frati e monache, degli ospedali e del lettidisponibili per i poveri e per gli infermi e fornì molte altre notizie an-che quantitative sui commerci, sulle professioni, arti e mestieri che sipraticavano a Firenze e sui principali consumi alimentari, solo nel seco-

2Hopkins (1966) mostra come questa tendenza sia desumibile dalle lapidi del cimiteri, incui un quarto di quelle analizzate si riferiscono a decessi di persone di più di 70 anni; diqueste il 70% del decessi riguarda persone di più di 90 anni, il 3% decessi di centenari, uncongruo numero del quali avrebbe superato i 120 anni.

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lo successivo venne tentata un’operazione catastale (iniziata nel 1427su sollecitazione di Giovanni Averardo de’ Medici, ma dapprima riuscitanon con la voluta precisione e ripresa, emendata e completata solo allafine del secolo).

Operazioni censuarie similari e stime della popolazione si ebbero con-temporaneamente in altre parti d’Italia: a Milano, a Genova, Bologna,Parma, in Sicilia e nello stato pontificio. D’altra parte registrazioni dital genere, in modo più o meno continuativo o lacunoso, si ebbero an-che negli altri stati europei e giova ricordare che il Graunt si basò pro-prio su tali registrazioni — che in Inghilterra all’inizio del Seicento ave-vano assunto una notevole regolarità — per le sue riflessioni che costi-tuirono la prima organica trattazione del fenomeni demografici condottacon metodo statistico.

In Italia, nei secoli XVI e XVII, fiorì una serie di studi, prevalente-mente a carattere enciclopedico-descrittivo, che dovevano direttamentecontribuire alla nascita di quella Notizia rerum publicarum, che è scienzapolitica che attinge alla geografia, alla storia, alle scienze giuridiche quantoviene ritenuto utile a comprendere e far conoscere l’ordinamento e lecondizioni dello stato, e che giustamente Boldrini (1942, in particolarecap. II) individua come uno del fondamenti storici della moderna stati-stica. Questo filone d’interessi doveva trovare sistemazione, pur fra imolti contributi che venivano a ingrossarlo, nell’opera di Erman Con-ring alla seconda metà del Seicento e, in seguito, in quella di GottifriedAchenwall che nell’università di Marburgo aveva iniziato a tenere, dal1746, lezioni sulla dottrina delle cose notevoli dello stato (fra cui anchel’aritmetica politica, ovvero, in termini attuali, la demografia).

2. L’«aritmetica politica» nel nostro paese

Scriveva nel 1773 il piemontese Giuseppe Vernazza di Freney (ri-chiamato da Levi, 1974) che «l’abile calcolatore saprà da essi [dati] de-durre quelle proporzioni le quali, indicate primamente dagli inglesi, sonopoi divenute in tutti i colti giovani oggetto principalissimo di nobili studi»,cogliendo così le origini e le finalità degli studi di popolazione cheandavano sotto il nome di «aritmetica politica»: il termine «demografia»non apparirà che verso la metà dell’Ottocento in Francia per poi affermarsi,attraverso discussioni e alterne vicende, anche in Italia.

All’origine della riflessione sugli accadimenti che interessano la po-polazione troviamo il saggio di John Graunt del 1662, seguito poi dagliscritti di Petty, Davenant, Halley, King, Price e da quelli di autori fran-

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cesi, olandesi, svedesi e tedeschi. In maniera diretta o indiretta questacorrente di pensiero e le opere degli aritmetici politici europei ebberoinfluenza e furono in mano agli studiosi italiani: ad esempio Cesare Bec-caria (1852) fornisce informazioni sul lavoro di Deparcieux riguardo lacostruzione delle tavole di mortalità in cui cita l’olandese Keerseboome riporta le opinioni di King e di Short. Ma è solo con la pubblicazionedella traduzione dell’opera di A. De Moivre, A Treatise of Annuities on Lives(pubblicata postuma a Londra nel 1756), preceduta e arricchita da unlungo «Discorso preliminare», condotta dai sacerdoti Roberto Gaeta eGregorio Fontana (1776), che vennero diffusi in Italia i dati e le tesisostenute da molti aritmetici politici europei, come vedremo anche inseguito3. Rammentiamo che nel libro si rinviene, come guida per gliaspetti operativi delle rilevazioni, una «Norma per costruire i registrinatalizi, matrimoniali, mortuari assieme alle formule per il calcolo dellamortalità» che verosimilmente ha costituito un modello di riferimentoper consimili successivi progetti e per le pratiche applicazioni.

L’altro aspetto colto dai primi aritmetici politici italiani riguarda le fi-nalità degli studi di popolazione che — come già aveva mostrato conchiarezza Graunt — sono sì conoscitive del fenomeni naturali, fra i qua-li rientrano largamente, anche se modificati e alle volte profondamentedeterminati dalle condizioni ambientali e sociali, gli accadimenti demo-grafici, ma assumono anche un aspetto di tutto rilievo nel governo dellostato per il tipo di conoscenze che forniscono e per il quadro quanti-tativo dell’economia che aiutano a tracciare. Quest’ultimo aspetto fa sìche l’interesse per le rilevazioni demografiche, e più in generale per lamisura del fatti economici e per i fenomeni rilevabili statisticamente, siintrecci con le forme e lo sviluppo dell’organizzazione dello stato, anchenel nostro paese, agevolando e guidando, quasi costituendone l’auroralebase conoscitiva, gli studiosi dell’Ottocento.

3 Questo libro presentò il lavoro di Abram De Moivre, grande matematico francese na-to nel 1667 e rifugiatosi in Inghilterra dopo la revoca dell’editto di Nantes, per motivi reli-giosi. Egli aveva scritto nel 1711 il «De mensura sortis seu de probabilitate eventum in ludisa casu fortuito penentibus», nelle Philosophical Transactions, London, XXV. Due anni dopo lasua morte, nel 1754, furono pubblicati assieme alla rielaborazione del precedente scritto,The Doctrine of Chances or a Method of Calculating the Probabilities of Events in Play, London, 1717(17382) e al Treatise of Annuities on Lives. A questo fecero riferimento Gaeta e Fontana.

Non appaia superfluo né pedante riprendere qui la loro bibliografia: ciò serve a formar-ci un’idea tanto del legami e del riferimenti culturali del due autori, quanto del sentieri di co-municazione europea da loro aperti nel nostro paese. Tale «storia bibliografica del soggetto»(essi asseriscono che i volumi sono da loro stati «per la massima parte veduti e consultati») èqui sistemata in appendice alla bibliografia di fine capitolo, lasciandola nella forma da lorostessi organizzata (utilizzando solo i rimandi alla bibliografia principale nei pochi casi di vo-lumi presenti in entrambe le liste).

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Vari e disseminati nella penisola furono i centri in cui si svilupparo-no studi di aritmetica politica. In particolare, come ricorda Levi (1974),negli stati sabaudi l’interesse per la demografia nacque all’inizio del Set-tecento, crebbe per un cinquantennio e poi declinò nella seconda metàdel secolo a causa della sordità dello stato nei confronti delle rilevazionidemografiche. Tale disinteresse portò i singoli studiosi, come ad esem-pio Balbo e Morozzo, il cui lavoro fu raccolto e pubblicato da Bonino(1829), a perseguire l’analisi di particolari fenomeni, operando rileva-zioni private, nel tentativo di attirare l’attenzione sull’importanza dellostudio scientifico e quantitativamente documentato della popolazione.Vennero così presi in considerazione gli aspetti dell’elevatissima morta-lità fra le truppe e l’individuazione delle cause e del provvedimenti daassumere per contrarla; i provvedimenti per migliorare e rendere più ef-ficienti gli ospedali e per ridurre il numero del mendicanti e impiegarlinella vita produttiva, fino a gettare le basi per la costruzione delle tavo-le di mortalità (che non furono però messe a punto) da usare in tontineche potessero aiutare — come era avvenuto in altri stati europei — le esaustefinanze dello stato.

A Firenze, in relazione continuativa con gli aritmetici politici euro-pei, operò Marco Lastrí (1775; su di lui si veda Poli e Graglia, 1978),che propose la stesura di una tabella descrittiva dello stato attuale delpopolo, che avrebbe permesso di individuare il numero delle case siaabitate sia vuote, delle famiglie e degli abitanti, compresi gli impuberie gli adulti, distinti per sesso, cattolici regolari e secolari, ebrei ed ete-rodossi, e soprattutto mise «in carte» le sue ricerche sulla popolazionefiorentina per un periodo di oltre trecento anni. Nel Veneto furono at-tivi sia i già citati Gaeta e Fontana, sia Zeviani e Toaldo, di cui ci occu-peremo in seguito, nonché Ortes (1790) e Conti (1839). In Lombardiatroviamo Gioja, Romagnosi e C attaneo (1839) e soprattutto la rivistaAnnali universali di viaggi, geografia, storia, economia pubblica e statistica(1824-70), che molto contribuì alla diffusione delle idee e delle infor-mazioni sulla popolazione.

Nel Meridione incontriamo de Samuele Cagnazzi, impiegato sia nellaricerca sia nella didattica a Napoli e in Puglia (su di lui si vedano CaranoDonvito, 1928; 1938; Lombardo, 1989a) e Ferrara in Sicilia ove — aPalermo nel 1836 — prese avvio il Giornale di statistica compilato dagliimpiegati nella direzione centrale della statistica di Sicilia.

Se vogliamo individuare un clinamen degli studi di aritmetica politi-ca nel nostro paese, e per quanto tali periodizzazioni — più frutto di ne-cessità semplificatrice a scala globale che strumento di approfondimen-to locale — possano tornare utili, dobbiamo coglierlo nella pubblicazio-

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ne del saggio sulla popolazione di Malthus (1798). Da questo punto divista ben ha ragione Costanzo (1957) nel rilevare che il lavoro di Mal-thus «chiude un’epoca e ne apre un’altra per lungo tempo dominata esuggestionata dalla sua personalità e dall’opera sua, alla quale quasi tutticoloro che dopo di lui hanno trattato l’argomento si sono riferiti perapprovarla o per combatterla». Tuttavia, già a stemperare questo riferi-mento, egli stesso richiama uno scritto di Ludovico Ricci che dieci anniprima di Malthus prendeva posizione contro la «legge del poveri ». Siricorda inoltre l’opera di estremo interesse del sacerdote camaldoleseGiammaria Ortes (1790, ma composta nel 1775), sul principio di dipen-denza della popolazione dalle sussistenze, principio che sarebbe statoriconosciuto da Marx in aperta polemica con Malthus: sulle difficoltàdi una comparazione e di una spuria omologazione in vista di asserirela priorità di Ortes, rinviamo a Uggè (1928).

Nel nostro paese, tuttavia, la transizione dal prima al dopo Malthusnon fu immediata nonostante l’opera fosse stata conosciuta abbastanzapreso, tanto che de Samuele Cagnazzi (1820), nell’aprile del 1819, avevaletto alla Regia Accademia delle Scienze la memoria Sul periodico aumentodelle popolazioni (inclusa poi come incipit nel volume del 1820) in cuicriticava per la prima volta le tesi malthusiane, pur in un generalericonoscimento del pregio e del valore dell’opera (Lombardo, 1989a).La discussione sul saggio rnalthusiano, tradotto relativamente tardi initaliano (1868), si protrasse per molti decenni coinvolgendo studiosi comeMessedaglia, Romagnosi, Ferrara e molti altri; ottime sillogi si devono aIsemburg (1977) e a Fanfani (1934).

Vale la pena accennare, seppur brevemente, alla tesi di fondo di Mal-thus, che scriveva in un momento in cui la produzione agricola nazionaleera sempre più divenuta la base fondamentale dell’alimentazione umana;egli constatava che le possibilità date a una popolazione di accrescersinon sono assolute ma risultano commisurate alle possibilità del suolodisponibile e messo a coltura di fornire mezzi di sussistenza per gliabitanti; il gioco scambievole del freni repressivi (fame, epidemie, guerre)opposti alla forza moltiplicatrice «naturale» della popolazione, e delfreni preventivi (ritardo o rifiuto come scelta cosciente e volontaria delmatrimonio) — ovvero, «tra comportamento incosciente e comportamentovirtuoso» come efficacemente sintetizza Livi Bacci (1987) — condizio-na lo sviluppo della popolazione stessa.

In definitiva, merito di Malthus è di aver precisato, non unico autorein questo compito, il quadro di riferimento del legami che in un sistema difeedback pongono in mutua relazione numero di abitanti e risorseeconomico-alimentari, e di aver arricchito e dato parziale sistemazione

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— in verità nelle edizioni successive alla prima anonima e per parare icolpi che gli venivano dai suoi oppositori — alla documentazione stati-stica e antropologica sul tema.

3. Due importanti strumenti di analisi: le tavole di mortalità e le rappresentazionigrafiche

Verso la metà del Seicento, per opera di Graunt, venne pubblicata inInghilterra la prima tavola di mortalità di tipo moderno; successivamentel’astronomo Halley, i fratelli Huygens e de Witt e Hudde (in Olanda)contribuirono in vario modo all’aggiustamento e perfezionamento diquesto importante strumento demografico. Tuttavia solo nel secolo suc-cessivo si ebbe in tutta Europa una vera e propria fioritura di lavori e discritti sull’argomento e nacque la controversia fra Daniel Bernoulli e Jeanle Ronde d’Alembert, che metteva in campo due concezioni dell’analisidella mortalità per il vaiolo, ovvero per la misura degli eventuali vantaggiderivanti dall’inoculazione antivaiolosa.

Le motivazioni che muovevano gli autori a occuparsi del problemadella mortalità umana sono rintracciabili sia nel campo «pratico» della va-lutazione della durata della vita al fine di registrare e regolare nel migliormodo possibile i premi per le assicurazioni sulla vita, che si erano note-volmente diffuse soprattutto negli stati dell’Europa settentrionale, sia nelcampo di una conoscenza più diffusa e più consapevole tesa al buon go-verno dello stato, o almeno a una più approfondita conoscenza del suoimeccanismi di sviluppo.

Nel nostro paese l’interesse per questi aspetti dell’analisi demograficatardò un poco a manifestarsi; comunque fra la metà del Settecento e iprimi anni dell’Ottocento Zeviani (medico a Verona), Toaldo (canonicoveneto nonché astronomo e matematico nell’università di Padova) e deSamuele Cagnazzi (professore di statistica ed economia nell’università diNapoli e consigliere del governo per le questioni di economia politica)diedero alle stampe il risultato del loro studi sull’argomento, cui si aggi-unse l’opera di Gaeta e Fontana dianzi ricordata, notevole per l’impor-tanza della diffusione delle idee e per l’influente opera di collegamentofra gli aritmetici politici del nostro paese e quelli europei.

A partire dagli scritti e dalle osservazioni di questi e di pochi altri au-tori attivi nel nostro paese, diviene evidente la necessità di avere a dispo-sizione dati sufficientemente accurati — come già aveva messo in luceEulero (Sulla mortalità e la moltiplicazione del Genere Umano) — oltre che unariflessione approfondita, legata alla qualità e alla specificità informativadel dati, sui metodi di costruzione e sulle loro basi logiche.

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Il lavoro di affinamento delle ricerche in Italia si protrasse per buonaparte dell’Ottocento e ancora neI 1875, dopo i contributi di Pertile,Prampero e altri, l’unica valutazione possibile della sopravvivenza eraaffidata a una tavola di tipo halleyano, costruita da Rameri; d’altra partele difficoltà per la realizzazione di tali costruzioni erano radicate nellastessa società italiana, nella sua organizzazione politica e nel larghissimoanalfabetismo diffuso in tutto il paese con punte particolarmente alte nelMeridione (Badie, 1877).

L’impegno della Direzione generale della statistica per superare levarie difficoltà fu notevole e si diresse sia verso gli aspetti teorici e dicomparazione con quanto veniva elaborato in Europa — in particolaregli studi di Lexis in Germania — ad esempio con il lavoro di Armenate(1876), sia verso quelli relativi al miglioramento del dati raccolti. L’esitodi tale impresa fu la pubblicazione nel 1887 di una nuova e più solidatavola di mortalità per la popolazione italiana, ancorata alla mortalitàcolta nel periodo 1876-87 e alla popolazione censita al 31 dicembre 1881;negli anni successivi vennero elaborate e pubblicate nuove tavole di mor-talità nel 1901 e per il periodo 1901-12 a opera di Bagni (1919). InoltreMortara (1914) si applicò allo studio della mortalità secondo varie causedi morte e alla costruzione della relativa tavola di eliminazione per causa«che segnasse la probabilità di morte di quelle cause che sono intimamenteconnesse all’esercizio di un dato lavoro». Lo studio e gli indirizzi conoscitividi Mortara (1925) furono di grande importanza per l’idea che ne era allabase e che avrebbe meglio fatto conoscere le condizioni del lavoratoriitaliani, indicando un percorso di lavoro che, verosimilmente, i successivieventi bellici interruppero e che in Italia non ha ancora avutorealizzazione pratica nonostante molte nazioni europee abbianoaccumulato una notevole massa di studi sugli aspetti differenziali dellamortalità per condizione sociale e professionale.

Successivamente un ampio lavoro di risistemazione delle tavole dimortalità sino allora costruite e l’aggiornamento per gli anni più recentifu compiuto da Gini e Galvani (1931); quel loro impegnativo e impor-tante lavoro rese comparabili, unificandone almeno i criteri di costru-zione, le varie tavole sino ad allora pubblicate e inoltre prese in conside-razione anche la dimensione territoriale del fenomeno studiando le ma-nifestazioni della mortalità neI nord, nel centro e nel sud del paese; nelleloro analisi introdussero anche alcuni interessanti espedienti grafici perla rappresentazione delle caratteristiche della mortalità sul territorio,mediante un particolare cartogramma.

Da questa breve panoramica (si vedano al riguardo gli scritti di Bol-drini e di Lombardo) emerge che nella seconda metà dell’Ottocento l’in-

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teresse e i progressi nello studio della mortalità furono notevoli e i col-legamenti internazionali fitti e importanti. Il duplice interesse per que-sto genere di analisi — sul piano demografico e su quello assicurativo —doveva chiarirsi in modo sempre più netto, sino a dar luogo a una verae propria bipartizione del campo di applicazioni e di stúdio a partire daiprimi decenni del Novecento. Tale distinzione doveva radicarsi non so-lo nell’attività teorica e pratica del demografi e degli attuaci, ma anchemanifestarsi in insegnamenti universitari completamente separati.

Il problema stesso dello studio della sopravvivenza aveva dato luo-go, proprio al suo sorgere, a una interessantissima rappresentazione graficadi due particolari aspetti di sintesi biometrica della mortalità. Fu dun-que Christiaan Huygens (1669; si veda Lombardo, 1986) che a partiredai «dati» di Graunt costruì la prima raffigurazione della funzione disopravvivenza. Per lunghissimo tempo lo strumento escogitato da Huy-gens rimase sepolto fra le sue carte e perché vi fosse una ripresa per imetodi grafici in demografia si dovette attendere l’inizio dell’Ottocen-to, quando Fourier (1821) se ne servì ampiamente per illustrare un suostudio sulla popolazione di Parigi; per una periodizzazione di questi in-terventi si veda Caselli e Lombardo (1990).

In Italia, sempre sulla base di contributi tesi alla razionalizzazionedella costruzione delle tavole di mortalità, Perozzo (1880; 1883) pre-sentò alcune sue elaborazioni originali che tuttavia, in alcuni casi, pro-prio per la loro complessità interpretativa, non trovarono seguito. Benconosciuta anche all’estero invece fu la sua rappresentazione stereogram-mativa, cioè tridimensionale, prospettica della popolazione della Sveziasecondo il tempo (anni dal 1750 al 1875), l’età e il numero di individuipresenti. Se si fa eccezione per l’attenzione che Gini (1914), Gini e Gal-vani (1931) e, in vari scritti, Benini e Mortara dedicarono costantemen-te a partire dai primi decenni del Novecento al tema delle rappresenta-zioni grafiche, non si ebbero per lungo tempo applicazioni significativealla demografia.

4. La statistica si organizza nel Regno unitario: la produzione statistico-demografica dopo il 1861 e i progressi nei censimenti della popolazione

Se i primi quarant’anni dell’Ottocento possono riguardarsi — salvol’eccezione, pur importante, costituita da isolati studiosi come Gioi, deSamuele Cagnazzi e Zuccagni Orlandini — come periodo di stasi per glistudi demografici e statistici in Italia, con l’abbandono quasi totale del-le pratiche amministrative tese alla raccolta sistematica di documenta-

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zione e persino con la carenza e la diffidenza a pubblicare le notizie at-tinenti la popolazione, subito dopo iniziò una serie di attività che avreb-bero portato all’organizzazione statistica dello stato unitario. Organiz-zazione che fu sancita con il R.D. 9-10-1861, n. 294 e che veniva allo-gata, con una «Divisione di statistica generale» che assunse subito ladenominazione di «Direzione della statistica generale», presso il Mini-stero di Agricoltura, Industria e Commercio. Inoltre la Direzione veni-va assistita da una «Giunta consultiva di statistica» con compiti di indi-rizzo e di analisi dell’attività statistica e quindi anche demografica dellostato unitario. Il nuovo organismo del nascente stato naturalmente so-stituiva, inglobandoli, i preesistenti uffici statistici di Napoli, Palermo,Firenze, Modena e Parma. L’organizzazione statistica rimase sostanzial-mente immutata sino al 1926, quando fu costituito dal governo fascistal’Istituto Centrale di Statistica (Istat).

Pietro Maestri, primo direttore dell’Ufficio italiano di statistica, seppesfruttare abilmente le competenze statistiche preesistenti all’unificazio-ne nelle varie sedi, per inserirle sinergicamente nel nuovo organismo;organizzò il primo censimento unitario (al 31 dicembre 1861), lo portòa compimento, ne elaborò e pubblicò i risultati. Per sua formazione —era medico con fortissimi interessi per la statistica demografica — Mae-stri tendeva a dar rilievo alle indagini sulla popolazione, indicando unindirizzo che rimase costante anche neí decenni successivi quando altristudiosi, come Bodio, Messedaglia e Correnti, gli subentrarono nella di-rezione della statistica italiana.

Nelle pubblicazioni di quel periodo si può leggere sia l’interesse peri temi demografici, che assumevano un peso non indifferente rispettoalla complessiva attività statistica nazionale, sia la testimonianza di unlavoro effettuale per superare difficoltà e ritardi accumulati dai prece-denti Uffici di statistica operanti negli stati preunitari. II primo numerodell’Annuario statistico italiano uscì nel 1878 riportando anche informa-zioni numeriche corredate da estesi commenti relativi alla popolazione;negli anni successivi ne fu regolarizzata la pubblicazione rendendolaannuale e ne fu arricchito il contenuto: ad esempio, nel 1911 furonoper la prima volta inseriti nell’Annuario cartogrammi per province e re-gioni. Sin dal 1863 iniziò la pubblicazione di Dizionari del comuni del re-gno, che contenevano tavole sinottiche delle circoscrizioni amministra-tiva, elettorale, giudiziaria ed ecclesiastica con l’indicazione della popo-lazione rilevata con i vari censimenti. Il movimento della popolazionevenne reso noto sin dal 1864 con i volumi periodici della Popolazione.Movimento dello stato civile, con arricchimenti e puntualizzazioni che siaggiunsero nel corso del tempo, in particolare nel 1900. I dati della

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Statistica delle cause di morte furono pubblicati a partire dal 1882, mentrequelli sulle migrazioni (Statistiche dell’emigrazione all’estero) iniziarono aessere pubblicati nel 1877 e in seguito vennero perfezionati e ampliati. Sicita poi la grande e importante Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitariedel Comuni del Regno (1886) che rappresentò, sia per l’ampiezza dellamateria trattata sia per il dettaglio territoriale che prevedeva la raccoltadi svariate notizie per i singoli comuni, un’acquisizione che fornì unavivida rappresentazione delle condizioni economiche e sanitarie delnostro paese; si tratta di un’indagine a cui il tempo non ha toltovivacità e immediatezza di immagini e che rappresenta un’utile letturaanche oggi4.

Quételet (1828), i cui scritti e le cui idee erano ben conosciute daglistatistici e dai demografi italiani, aveva raccomandato che i censimenti,ben eseguiti secondo un piano uniforme e mantenuto tale nel volger deltempo, a cadenza sufficientemente regolare e ravvicinata, dovessero es-sere tali da cogliere nel modo più preciso possibile lo stato fisico e mora-le di un popolo, il grado della sua forza e della sua prosperità, ed enu-cleare le eventuali tendenze che potessero compromettere il suo svilup-po e il suo avvenire. Se pure nel passato i primi censimenti della popola-zione erano stati organizzati in Italia, antesignana di tali rilevazioni, sul-l’onda delle raccomandazioni del congressi internazionali di statisticae cogliendo l’esempio delle nazioni più progredite statisticamente (Bel-gio, paesi scandinavi, Inghilterra, Germania, Francia e Stati Uniti), an-che nello stato unitario italiano vennero organizzati censimenti generalidella popolazione di tipo moderno.

Ma quale era stata la molla che aveva sollecitato in Italia, come an-che negli altri stati, il passaggio all’organizzazione del censimento intesosecondo i moderni canoni? Questa transizione e il riconoscimento dell’im-portanza nella vita nazionale del censimenti, come l’aveva indicata Quéte-let, derivarono in larga misura dalla creazione degli stati nazionali edall’irrobustirsi delle amministrazioni centrali e periferiche. Tuttavia,seguendo anche la corrente scientifica positivista imperante alla metàdell’Ottocento, la documentazione statistica veniva vista come un’isti-tuzione sociale e ci si preoccupava di organizzare al meglio la raccoltae la divulgazione del dati nell’esplicito convincimento che il sempliceaccumulo e la mera conoscenza numerica del fenomeni che si manifesta-no all’interno della popolazione, trovassero in se stessi la propria giusti-

4 Non è qui possibile dar conto dettagliatamente di tutta l’attività statistica resa pale-se dalle pubblicazioni. Si rimanda al volume Istat Dal censimento... (s. d.) oppure agli Annalidi statistica.

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ficazione. I censimenti erano stati concepiti allo stesso tempo come unarnese scientifico e come un mezzo di controllo della popolazione e diaffermazione della potenza dello stato. Si può anche rilevare che alloraci si interrogava meno sui fini delle rilevazioni statistiche che non sullapratica delle stesse, ma ciò trova giustificazione nelle forti difficoltà cuisi andava incontro nella normalizzazione e generalizzazione di tali pra-tiche. Allo stesso momento una funzione che per lunghissimo tempo erastata prerogativa della Chiesa passa alle organizzazioni statali: anche at-traverso questo dislocamento di funzioni si delimitavano i campi di in-fluenza delle istituzioni laiche ed ecclesiastiche e si ribadiva l’interessedello stato per un controllo più accentuato e spinto in profondità suícostituenti la propria base vitale.

Il primo censimento nazionale d’Italia, i cui dati iniziali corredati daun ampio commento videro la luce nel marzo del 1864, si avvalse siadell’esperienza delle precedenti rilevazioni (come il censimento dellaLombardia e del Regno Sardo del 1857), sia delle pratiche già consoli-date in altri stati europei. Il censo fu organizzato per «fogli di famiglia»,detti schede nominative, che prevedevano la rilevazione di più caratteri inmodo individuale per ciascun componente (anche temporaneo) del nucleofamigliare, di modo che la parte riepilogativa dell’operazione censuariarisultò essere:

1) nella prima parte venne dato il numero di case, di famiglie e diabitanti per comune del regno, distinguendo l’aggregazione comunalein centri, casali e case sparse; inoltre la popolazione veniva divisa per sessoe stato civile; vennero poi forniti i ragguagli fra popolazione e superfici(densità ecumenica) per comune;

2) nella seconda parte si distinse la popolazione per età, sesso, stato ci-vile e istruzione;

3) nella terza parte si diede conto degli abitanti suddivisi per professio-ne, età, sesso e relazioni domestiche;

4) nella quarta parte si considerarono gli abitanti a seconda della loroorigine, mentre nella quinta si registrarono le migrazioni periodiche;

5) nella sesta, infine, la popolazione venne classificata per sesso, lin-gua, religione e infermità (cecità e sistema di fonazione).

Citiamo un solo dato a testimonianza dell’immane difficoltà in cuidovette svolgersi il censimento e che sarebbe stata superata negli annimolto lentamente: soltanto il 13% delle donne e il 28% degli uominidi età superiore ai cinque anni era in grado di leggere e scrivere!

Non bisogna dimenticare, infine, il ruolo svolto dai Congressi inter-nazionali di statistica — se ne tennero nove dal 1853 al 1876 tra cui quello

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del 1867 a Firenze —, in cui le questioni concernenti la formazione dellestatistiche, di quelle demografiche in particolare, e la conduzione delcensimenti furono ampiamente discusse anche sotto l’impulso e secon-do la diretta ispirazione di Quételet.

5. Mutamenti nell’insegnamento della statistica come sintomi del progressidella demografia

Nel 1806 de Samuele Cagnazzi assunse l’incarico governativo di do-cente di economia politica all’università di Napoli ma, prendendo le di-stanze dalla definizione ufficiale della disciplina, mise subito in atto la per-sonale idea di separare la statistica dall’economia, almeno a livello didat-tico; fu quello il primo corso universitario nel nostro paese in cui appar-ve l’insegnamento di statistica e, in modo esplicito nella sostanza se nonnella titolazione accademica, della demografia. Infatti, come si desume dalmanuale pubblicato nel 1808, de Samuele Cagnazzi pone al centro del suoinsegnamento lo studio della popolazione: né, d’altra parte, poteva andardiversamente poiché le indicazioni numeriche, i correlati empirici, mag-giormente disponibili — forse sarebbe più esatto dire gli unici di qualcheampiezza — a sua disposizione concernevano proprio la popolazione.

Come ci rammenta M. G. Ottaviani (1989), nello stesso torno di tem-po apparvero a Pavia e a Padova insegnamenti consimili a quello di Na-poli e solo molto più tardi, nel 1859, nell’ordinamento universitario delRegno di Sardegna, introdotto dalla legge Casati, fu presente un inse-gnamento di «statistica e geografia » impartito nelle Facoltà di filosofiae lettere a Torino.

La prima metà dell’Ottocento costituisce forse il periodo meno fe-condo della scienza italiana e si instaura così una fase difficile anche pergli studi di statistica e, correlativamente, per quelli di demografia; que-sta fase si protrae ben oltre l’Unità: solo dal 1885 la statistica divenneinsegnamento obbligatorio per conseguire la laurea in giurisprudenza elo rimase sino al 1923. Parallelamente il sistema di istruzione superioresi arricchisce di un altro organismo di formazione, le Scuole superioridi commercio (la prima a Venezia nel 1868, ma già nel 1923 se ne anno-veravano nove) che, a seguito della legge Gentile di riassetto della pub-blica istruzione, dovevano tramutarsi nelle attuali Facoltà di Economiae Commercio. Questi altri organismi di istruzione superiore costituiro-no — proprio per la specificità degli argomenti che erano chiamati a trat-tare — un importante veicolo di diffusione della statistica e, contestual-mente, della demografia.

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Come abbiamo già notato, le questioni di studio delle popolazioni, qua-le che sia la loro estensione disciplinare, vengono presentate per un lun-go periodo all’interno degli insegnamenti di statistica; sole eccezioni – ve-rosimilmente dovute alla circostanza di non dipendere dal Ministero dellaPubblica istruzione – si rinvengono a Firenze ove nell’Istituto di scien-ze sociali Cesare Alfieri, a partire dai primi del 1880, viene impartito unprogramma completo di demografia, come ci ricorda Virgilii (1891), ac-canto a un insegnamento di principi di statistica e all’inizio del nuovo se-colo, all’Università commerciale L. Bocconi, dove trova posto un insegna-mento di statistica demografica ed economica, secondo uno schema di or-ganizzazione dell’insegnamento simile a quello dell’istituto fiorentino.

Si ricorda che l’ultimo scorcio dell’Ottocento vede non solo qualche titu-banza e incertezza nell’accoglimento del termine demografia, coniato e propostoin Francia alla metà del secolo, per designare l’insieme di tecniche e di teoriacon cui osservare gli accadimenti che si verificano in seno agli aggregati umani(alcuni propendono per il termine demologia, teorizzando talvolta anche possibilidistinzioni di argomenti da far rientrare sotto il dominio dell’uno o dell’altrotermine), ma anche discussioni dottrinarie alle volte aspre tanto da far nascere ilsospetto che il contendere fosse altrove (si veda Nobile, 1989). La delimita-zione del campo di studio appare più come una ricerca di status della disciplinae, forse, di autonomia dalla statistica, che non come esigenza legata a concretiproblemi di analisi e di specificità degli argomenti da trattare, ché ancoratroppo elevata risultava l’area di sovrapposizione – almeno nel nostro paese – ei legami del fenomeni analizzati con la statistica nell’ultimo scorcio dell’Otto-cento. Tuttavia questa ricerca di autonomia può anche trovar ragionevolegiustificazione nella ristrettezza di tempo in cui un solo corso di statisticacostringe l’insegnamento e, se guardiamo agli statuti della Bocconi e dell’Alfieri,dianzi richiamati, riceviamo un’ulteriore conferma a tale motivazione. Perquanto concerne l’organizzazione generale del contenuti della materiainsegnata v’è sufficiente accordo fra i vari autori pur con ampliamenti esottodimensionamenti specifici nella trattazione, relativi alle scelte del singoliautori5. Ancora una volta possiamo far riferimento all’Arte statistica di deSamuele Cagnazzi per cercare di cogliere quella che doveva essere l’orga-nizzazione teorica trasfusa nella pratica didattica dello scorso secolo e neiprimissimi anni del successivo: egli dedica l’incipit del secondo volume proprio

5 Possiamo qui rammentare, oltre al testo di Benini (1901), anche alcune altre opere cheebbero rilievo nel panorama nazionale nel periodo a cavallo del 1900: Mayr e Salvioni (1879;18862); Majorana Calatabiano (1891); Messedaglia (1890); Colajanni (1904); Contento (1909).

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all’analisi della popolazione e specificamente, seguendo la cadenza dalui imposta, agli argomenti che seguono:

Capitolo I — Stato della Popolazione: 1. Sua formazione; 2. Numerodegli abitanti; 3. Classificazioni.

Capitolo II — Stato d’incremento e decremento delle Popolazioni: 1. Vistegenerali; 2. Matrimoni; 3. Nascite; 4. Morti.

Capitolo III — Durata della vita: 1. Formazione delle tavole di pro-babilità; 2. Uso delle dette tavole di probabilità.

De Samuele Cagnazzi introduce inoltre, almeno come indicazione distudio e della necessità di raccogliere documentazione statistico-numerica,altri elementi di gran rilievo come l’analisi antropologica, in senso fisico,degli uomini, la descrizione quantitativa delle abitazioni e Io studio dellecondizioni sanitarie della popolazione sino a giungere a una specifica partededicata alle cause di spopolamento di un territorio fra le quali annovera lecrisi di mortalità, la diffusa ed esorbitante mendicità, la pratica del celibato,la sterilità del matrimoni e «la poca vigilanza per le pregnanti e fanciulli» (intermini moderni, la mortalità infantile); l’autore non esclude dall’ambitodegli interessi di studio osservazioni sull’educazione pubblica, ovverosull’istruzione degli abitanti delle nazioni, che egli vedeva come uno deglielementi propulsori, se non il principale, del benessere nazionale, e alla cuirealizzazione e ampliamento e miglioramento si era interessato nel regno diNapoli sia con studi teorici di pedagogia sia come consigliere del governo.

Questa impostazione, che trovava peraltro le sue radici nell’aritme-tica politica sviluppatasi in Europa, da de Samuele Cagnazzi ben cono-sciuta per tramite del suoi autori di maggior rilievo, oltre che nell’attivitàscientifica svolta nel suo soggiorno fiorentino, esercita forte influenzasui successivi autori con gli opportuni aggiustamenti e aggiornamentidovuti anche, se non forse soprattutto, ai progressi notevolissimi avutisinelle rilevazioni del vari fenomeni. Nel 1877 Messedaglia (1886) intro-duce, mutuandoli dal linguaggio della fisica, i termini di statica e dinamicadelle popolazioni, di chiaro significato e in uso ancor oggi, mentre nelcampo degli aspetti sociali della demografia illustra la necessità di con-siderare i flussi migratori. Al volger del secolo poi, come abbiamo dianzirammentato, Benigni, dando sistemazione alla materia per fini didattici,pubblica i suoi Principii la cui organizzazione può darci un altro punto diriferimento per cogliere lo stato dell’arte nel momento. Egli riconoscecome «più razionale e didatticamente più opportuna» la suddivisionedegli argomenti demografici intorno a due poli costituiti dalla teoriaqualitativa e dalla teoria quantitativa della popolazione. La prima con-sidera il demos — egli specificava — «l’aggregato sociale nelle sue va-

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rie forme di coesione, come una risultante delle qualità, doti o attitudinifisico-psichiche degli individui, che lo compongono, e insieme come unacausa modificatrice..., onde si elaborano poi nuove foggie di aggruppamenti.La seconda studia la popolazione nelle sue condizioni di continuità e di ac-crescimento, massime nel contrasto che può sorgere tra la moltiplicazionedegli individui e la limitata grandezza e feracità del suolo che li deve nu-trire. Coesione e continuità sono appunto i fatti salienti delle società u-mane, intorno ai quali si esercita con diverso intento l’indagine del so-ciologi e del demografi».

Lasciando trascorrere un quarto di secolo, possiamo scegliere il qua-dro sinottico delineato da Niceforo (1924) per cogliere — certo sacrifi-cando molte distinzioni che pur sarebbero necessarie a una visione piùfine del problemi disciplinarmente accolti e delle posizioni — quella chesarà la tendenza nell’insegnamento e nella manualistica per gli anni fu-turi, a cui pur con profonde novità si ispireranno i due trattati pubblicatisubito dopo la seconda guerra mondiale ma organizzati e concepiti, nellaloro prima forma, avanti tale data: quelli di Boldrini (1956) e di Federici(1956). Ecco dunque il progetto del Niceforo con le sue quattropartiture in categorie, a loro volta specificate dalle sottocategorie:

a) Stato della popolazione: 1. numero degli abitanti (assoluto, relativo alterritorio o densità); 2. numero del comuni e delle altre ripartizioni am-ministrative, numero delle abitazioni (distribuzione nei comuni e degliabitanti); 3. popolazione agglomerata e sparsa, rurale e urbana.

b) Composizione della popolazione per: 1. caratteri fisici e razza; 2. religio-ne, lingua, nazionalità, luogo di origine, sesso, età; 3. stato civile, nume-ro delle famiglie; 4. moralità e delinquenza; 5. professione, cultura, ric-chezza, classi sociali, grado di civiltà.

c) Movimento della popolazione, A): 1. nuzialità, natalità, mortalità (bio-metria, morbilità, cause di morte); 2. emigrazione e immigrazione, mi-grazioni interne (continue e stagionali).

d) Movimento della popolazione, B): 1. movimento di circolazione e ro-tazione (all’interno della classe, da classe a classe sociale).

e) Teoria della popolazione: 1. studio statistico delle leggi, o regolarità,d’ordine generale che governano la struttura e la vita della popolazione.

6. Verso una fioritura degli studi demografici: i primi quarant’anni del nostrosecolo

Dal periodo che va dall’inizio del nostro secolo sino alla seconda guerramondiale il dibattito scientifico e la definizione di linee di ricerca in campodemografico, ma potremmo asserire, più in generale, in campo statisti-

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co (Pietra, 1939), risultano talmente ricche che non sí riesce a fissareil contributo di ogni singolo studioso se non all’interno di grandi lineedi orientamento della ricerca scientifica. D’altra parte questa fiorituradi studi e di proposte di ricerca che era iniziata già dal 1870 e che per-viene a completa maturazione nel corso del primi decenni del Novecen-to, non può non ascriversi — come mette in luce Fortunati (1939) e co-me abbiamo già più volte sottolineato — alla grande copia di dati e dielementi di conoscenza acquisiti all’elaborazione in maniera crescentenel volger del tempo.

All’ingresso del nuovo secolo un grande affresco del principali progressidemografici, dalla costituzione dello stato unitario sino al primo decen-nio del nostro secolo, lo dobbiamo a Benini (1911) e, per quanto riguardail dirompente fenomeno delle emigrazioni dal nostro paese, a Coletti(1911). L’occasione di un tal lavoro, che si estese a molti rami della scien-za, si rinviene nell’esigenza manifestata dal governo Giolitti, nel 1909,di misurare e documentare i molti progressi compiuti in vari rami dellanostra organizzazione sociale e scientifica nel corso del tempo; a tale com-pito attesero numerosi studiosi coordinati dal presidente dell’Accademiadel Lincei.

Benini, dunque, mise in luce e tentò un raccordo tra i fatti demogra-fici dell’Italia preunitaria con quella postunitaria, ma soprattutto e in spe-cial modo per quanto qui ci interessa, si soffermò nella descrizione delprincipali accadimenti colti con gli ultimi quattro censimenti (1861, 1871,1881 e 1901): la struttura per sesso e stato civile della popolazione; i mu-tamenti nelle professioni; i vistosi miglioramenti nel campo dell’istruzioneche pur rimaneva un punto di lacerazione sociale per gli alti tassi di anal-fabetismo che ancora all’inizio del secolo XX nel sud sfioravano i tre quar-ti della popolazione; le condizioni di particolari nuclei linguistici presentinel paese; la dislocazione degli stessi, sia a seconda delle origini degli abi-tanti, cogliendo così — almeno in parte — gli effetti lasciati dalle migra-zioni interne verificatesi in passato; le religioni praticate. La sua analisisi estese eriche al movimento naturale della popolazione (nascite, matri-moni, morti) e alla considerazione analitica di alcuni anni che si erano mo-strati peculiari per qualche fenomeno demografico specifico come, adesempio, il 1908 «che lasciò, col terremoto del 28 dicembre, nelle pro-vincie funestate una eredità con molto passivo». Oltre ad alcuni aspettimetodologici dello studio demografico, peraltro già presenti nel suo ma-nuale (Benini, 1901), troviamo la segnalazione della scarsità delle pub-blicazioni statistiche, che «non permette se non risultati modesti com-parativamente agli sforzi necessari».

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Come abbiamo rammentato nel paragrafo precedente, l’insegnamentouniversitario della disciplina costituiva occasione per pubblicare il risul-tato delle personali ricerche e per diffondere le conoscenze e i differentipunti di vista sostenuti dai diversi autori. Tuttavia un momento moltoimportante per cogliere quanto era venuto concretandosi sia sul pianodelle linee teoriche sia sul piano effettuale dell’impegno di ricerca, lorinveniamo nel Congresso internazionale per gli studi della popolazione(Roma, 7-10 settembre 1931), che raccolse numerose comunicazioni stra-niere, consentì il confronto dell’attività del demografi italiani e, in par-ticolare, costituì l’occasione per la presentazione di molti studi che ve-nivano condotti dal Comitato italiano per Io studio del problemi dellapopolazione fondato e presieduto da C. Gini, originariamente costitui-tosi come membro della International Union for the Scientific Investi-gation of Population Problems (si veda Leti e Gastaldi, 1989). Secondoquanto ricorda lo stesso Gini (1934), che introdusse i lavori e presiedetteil congresso, e considerando la vastità del settori abbracciati dalle relazionipresentate, specificamente dagli italiani, si trae l’impressione da un latodi essere in presenza di un grande processo di integrazione fra lademografia e le altre scienze che con essa si trovano a studiare — seppurda angoli visuali e con differenti accentuazioni — fenomeni similari,dall’altro di un lavoro imponente di analisi empirica, nei dati e sui dati.

Per avere un’idea, seppur molto approssimativa e frettolosa, dellavastità di interrelazioni scientifiche che, nel nostro paese, collegavanoe fecondavano gli studi demografici, ricordiamo che al congresso gli ambitidisciplinari in cui furono presentati contributi andavano dalla biologiaed eugenica alla geografia e all’antropologia; dalla medicina e igiene allasociologia e all’economia; erano presenti inoltre studi specifici tesi adanalizzare aspetti di metodo, come la misura dell’omogamia nelle cop-pie e della fecondità, oppure la rappresentazione cartografica della den-sità di popolazione e la determinazione del baricentro della popolazioneinsediata su di un dato territorio. Nelle comunicazioni più strettamentedemografiche, che occupano due ponderosi volumi degli atti, venneroaffrontati svariati argomenti: da Livi, Bachi e Somogyi il tema della de-mografia degli ebrei; da Valenziani la demografia delle popolazioni pri-mitive; da Uggè il futuro della popolazione italiana; da Gini e da Luz-zatto Fegiz la periodicità del fenomeni demografici. E ancora altri fe-nomeni furono oggetto di studio e trovarono occasione per una sistema-tica esposizione, come l’influenza dell’infanticidio e dell’aborto sullo svi-luppo della popolazione (Albertí); i principali fattori interni dell’accre-scimento naturale della popolazione e le loro relazioni (Mortara, Ginie Somogyi); la mortalità differenziale in differenti classi sociali (Castril-

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li); i celibi e i coniugati nella popolazione nativa e nella popolazione im-migrata delle grandi città (Gini); problemi particolari di demografia (DeCastro, Insolera, D’Addario, Antonucci e Nobile) e inoltre aspetti didemografia storica. Moltissime comunicazioni provenivano dalla colla-borazione di enti diversi, il più importante del quali appariva essere l’I-stat, da pochi anni costituito.

L’opera di organizzazione culturale e di effettuale coordinamento dellericerche di Gini in campo demografico proseguì intensa anche negli an-ni successivi e durò sino al conflitto mondiale, e l’occasione per un bi-lancio esteso a tutte le discipline statistiche (Fortunati, 1939; Gini, 1939;Medolaghi, 1939; Paglino, 1939; Pietra, 1939) — in realtà si trattò diuna rassegna del progressi di tutta la scienza italiana — fu offerta dailavori della Società italiana per il progresso delle scienze. In tale occa-sione Gini individua un filone della «demografia storica» e un altro del-la «demografia integrale», che viene a essere caratterizzato dall’aver fattoconvergere negli studi della popolazione «non solo le ricerche di purastatistica, ma — sempre con la scorta del metodo quantitativo — anchequelle di Biologia, di Antropologia, di Igiene, di Medicina, di Sociolo-gia, di Economia, di Storia... e che trova il suo massimo esponente nelComitato italiano per lo studio del problemi della popolazione, costi-tuito e presieduto dallo stesso Gini. Gini ci dà una spiegazione impor-tante da registrare, poiché ai nostri occhi il processo, da lui auspicatoe al quale si era applicato, di integrazione del vari campi del saperepotrebbe apparire piuttosto come una spontanea tendenza — apparente-mente in atto anche oggi — di abbattimento di steccati e di rilasciamen-to di frontiere, che non un deliberato e fermamente perseguito proget-to e forma di pensiero.

Ma accanto alle posizioni di Gini coesistevano altri non meno im-portanti interessi e itinerari di ricerca per i quali va rilevato, come ca-ratteristica peculiare della demografia italiana, la costante presenza del-l’analisi del fattori logici nel contesto degli studi di popolazione. Mor-tara, che doveva diventare, oramai non più in Italia, presidente dellapiù importante organizzazione mondiale del demografi (Unione inter-nazionale per lo studio scientifico della popolazione), si era occupato,a partire dai primi del Novecento, sia di economia sia di demografia estatistica; i suoi contributi metodologici (soprattutto relativi alle tavoledi mortalità) e le sue analisi circa l’influenza delle condizioni sociali suifenomeni demografici avevano assunto un rilievo che solo il brutale al-lontanamento dall’insegnamento universitario doveva temporaneamen-te interrompere nel 1938, prima che riprendesse a occuparsi di demo-grafia in Brasile (si veda per una meno cursoria presentazione della sua

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figura Mortara, 1985). Livi aveva iniziato la sua attività pubblicisticae di attiva ricerca in demografia sin dal 1914: studiando (Livi, 1937)le opere di Darwin fu condotto a «meditare sul fondamento naturale delfatti sociali » e pervenne a una puntuale critica delle teorie dell’organici-smo sociologico e ad analizzare le forme associative come permeate einformate da alcuni caratteri della nostra specie «sicché — egli ebbe ascrivere — pure apparendomi sempre più manifesta la convenzionale fal-sità delle teorie che, per amor dell’evoluzionismo biologico, avevano vo-luto attribuire alle società umane l’essenza di un «organismo animato»mi confermai nell’opinione che non si poteva, per lo studio delle societàstesse, tagliare ogni collegamento col mondo naturale»; con naturalezzaegli tuttavia non reseca dalla sua analisi l’importanza di altri fattori diassociazione, a rischio — come egli stesso afferma — di un certo dilettan-tismo e di arrestarsi alla mera formulazione di ipotesi di lavoro nell’af-frontare la trattazione organica di problemi che spaziano nel mondo bio-logico, zoologico, demografico e che attengono alla sfera degli studi an-tropologici, storici e giuridici. Questa importante silloge del suoi studifu completata in un successivo volume apparso tre anni più tardi, tesoall’esposizione del principali aspetti e regolarità caratterizzanti gli ag-gregati umani (si veda anche Livi Bacci, 1974, per una completa analisidella sua opera). Boldrini nel 1946 aveva pubblicato un volume di de-mografia, riscritto dopo dieci anni, in cui, fedele ai suoi interessi perl’antropometria e per la statistica, sosteneva «il principio che esclusiva-mente statistico può essere il metodo della Scienza della popolazione (cor-sivo mio) », e vi raccoglieva il frutto delle sue precedenti ricerche (Uggè,1969). Non va dimenticato infine — a testimonianza della vivacità cul-turale di un periodo che, almeno nelle manifestazioni ufficiali e nellelinee programmatiche di governo a cui forse alcuni del luoghi accademicinon erano alieni, può ritenersi chiuso al dibattito e all’accettazione diuna pluralità di posizioni — che alcuni del più giovani studiosi avviatisiagli studi demografici nel periodo fascista (fra i quali Nora Federi- ci),iniziarono a porsi interrogativi e dubbi sulla coerenza e legittimitàscientifica di alcune posizioni ufficiali in tema di politica della razza;dubbi che dovevano costituire il seme di una successiva critica fattasipiù matura, circostanziata e decisa, dopo la caduta del regime, quandoil dibattito culturale potè riprendere senza le pastoie dell’illiberalità delladittatura (si veda per alcuni riferimenti bio-bibliografici della studiosarichiamata Sonnino et al., 1987).

Ci resta da accennare a un tema importante e difficile, sul quale ancoramanca una compiuta analisi: quello del rapporti fra la demografia, glistudiosi di tale disciplina e le politiche di popolazione messe in atto

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dal regime fascista. Tali rapporti attraversano con una serie cospicua dirimandi incrociati il periodo considerato e di cui ciascuno può coglieremolti aspetti parziali, ma attendono una sistemazione complessiva nelquadro più generale della politica fascista nei confronti della scienza edelle organizzazioni scientifiche: per il caso della matematica si veda l’in-teressantissimo saggio di Vesentini (1990), che indica una strada di ri-cerca da ripercorrere anche per la nostra disciplina.

Se gli aspetti concreti e gli effetti della politica popolazionista delfascismo sono stati sufficientemente chiariti e sicuramente documentatinei dettagli normativi, già da scritti del periodo (Istat, 1934; 1943) esuccessivamente da molti autori (Glass, 1967; Sori, 1975; Treves, 1976;Nobile, 1990, fra gli altri), gli indirizzi di ricerca demografica in sensoproprio, impressi e modellati dal governo fascista e i legami, più o menodiretti ed espliciti, fra il mondo accademico e sfera politica per quel cheriguarda la demografia, attendono ancora di essere studiati e compiuta-mente descritti. Naturalmente tale studio acquista un suo specifico in-teresse soltanto se si accetta e si riconosce che il sistema delle conoscen-ze demografiche — in generale scientifiche — non si esaurisce in un accu-mulo lineare e non contraddittorio delle conoscenze, ma è pervaso e mar-cato da tensioni e conflitti, da ideali e ideologie diverse, da aspettativee da interessi che si confrontano nel contesto sociale. D’altra parte —così allora come ora — la nostra immagine, la nostra raffigurazione dellapopolazione e della natura, sia quella più usuale, familiare e legata alleimpressioni personali, sia quella che ci viene fornita dalla scienza, è sta-ta costruita e viene continuamente riassestata scegliendo quegli aspettidella realtà circostante che, in determinate condizioni storiche e sociali,ci sembrano degni della nostra attenzione e ci appaiono costituire pro-blemi aperti.

Alcune osservazioni di grande rilievo sulla politica fascista e sui suoieffetti si rinvengono nei Ricordi della mia vita di G. Mortara (1985),in cui le poche pagine destinate a ricordare gli effetti delle discrimina-zioni razziali mostrano il dramma che doveva coinvolgere gli studiosiebrei ma, indirettamente, anche quelli non ebrei che con i primi aveva-no spesso vincoli di amicizia e consuetudine di lavoro. Molto interes-sante è anche lo scritto di Steve (1990), di carattere più generale e siste-matico, che ha esaminato — nel quadro relativo a molte scienze traccia-to a più mani da vari studiosi — le conseguenze culturali della politicafascista e, in particolar modo, quella dell’ultimo scorcio della dittaturae delle «conseguenze culturali delle leggi razziali», come recitava il te-ma del convegno organizzato dall’Accademia nazionale del Lincei in col-

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laborazione con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e con l’Associa-zione nazionale perseguitati politici antifascisti.

Non è privo d’interesse, infine, rammentare come la costituzione dellaSocietà italiana di statistica (SIS) nel 1939, con il programma di svilup-pare ricerche scientifiche nel campo delle discipline statistiche sia nel-l’ambito del metodi sia in quello delle applicazioni, rappresentò un for-te stimolo anche per la demografia e costituì un momento privilegiatodi scambio, con i periodici congressi scientifici, fra tutti i cultori di talidiscipline. Analoga funzione svolsero le riviste: M etron, fondata da Gininel 1921, a carattere internazionale, più dedicata agli aspetti meto-dologici ma non aliena dal presentare anche contributi demografici; Ge-nus, fondata nel 1934 sempre da Gini, completamente dedicata agli stu-di di popolazione; il Supplemento statistico ai nuovi problemi, fondata daPietra nel 1935, per alcuni anni l’organo ufficiale della neonata SIS (siveda Leti e Gastaldi, 1989).

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Capitolo terzoOrganizzazione accademicaDionisia Maffioli

1. La collocazione accademica e la sua storia

La collocazione della demografia nel quadro dell’insegnamento uni-versitario si fonda sulle vicende e sulle modalità della sua progressivaaffermazione accademica. Senza volerne qui ripercorrere le tappe, chesi possono cogliere nel capitolo secondo attraverso la storia dello svilup-po disciplinare, pare opportuno richiamarne i momenti essenziali, a mi-glior comprensione della situazione odierna.

Nata contemporaneamente alla statistica come suo primo e princi-pale oggetto, la demografia ne è inizialmente considerata parte integrantee le prime tappe dell’affermazione accademica delle due discipline coin-cidono; sul piano didattico contenuti demografici sono dunque rinveni-bili, per tutto il secolo XIX e fino ai primi decenni del XX, negli itine-rari formativi delle facoltà e delle scuole in cui erano impartiti corsi distatistica.

Secondo la concezione dell’epoca, la statistica era ritenuta elementodi formazione necessario nel quadro degli studi di economia, geografia,politica, giurisprudenza: di tutte quelle materie, cioè, che riguardano«l’ordine economico, morale e sociale» degli stati (Zuradelli, 1822). Lademografia rientra in questo ordine di preoccupazioni scientifiche e pra-tiche: viene dunque insegnata, come parte della statistica, nelle facoltàdi giurisprudenza e in quelle di lettere e filosofia (corsi di geografia estatistica).

Di questa forte integrazione fra statistica e demografia si trova testi-monianza in testi universitari, trattati e manuali dell’epoca, che sono il so-lo riferimento rimasto del contenuti trasmessi con l’insegnamento: in taliopere, a parti concernenti aspetti di statistica metodologica e applicata,si affiancano ampie trattazioni di temi demografici. Ne sono esempi illustrii testi di de Samuele Cagnazzi (1808-09), del Gioja (1839), le lezioni delMessedaglia (1877), i trattati di Mayr e Salvioni (1879, LI ediz. 1886),Tammeo (1896), Bosco (1906), Colajanni (1910), Mortara (1920). Il

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primo testo italiano dedicato interamente alla demografia — sia pure in-tesa in accezione più ampia di quella attualmente accolta — è quello diBenini (1901). Una rassegna del testi italiani di demografia e una rico-gnizione del loro contenuti si può trovare in Nobile (1987).

La rigidità dell’ordinamento universitario dell’epoca (legge Casati)fa sì che l’integrazione delle due discipline sul piano didattico perduria lungo, anche dopo il riconoscimento dell’autonomia scientifica dellademografia, riconoscimento che si può ritenere ormai consolidato sulpiano internazionale quando, nel 1878, si tiene a Parigi il primo Con-gresso internazionale di demografia. L’affermazione accademica dellademografia come disciplina indipendente e autonoma può avvenire inItalia solo con il nuovo assetto delle strutture universitarie instauratodalla legge Gentile nel 1923.

Nel nuovo quadro normativo, la statistica diviene la struttura portantedi scuole e facoltà ad essa intitolate, in cui la demografia — individuatada uno statuto disciplinare autonomo — costituisce insegnamento obbli-gatorio. Del 1927 è la fondazione delle Scuole di statistica, mentre il 1937segna la data di nascita della prima facoltà di scienze statistiche, demo-grafiche e attuariali, creata a Roma per opera di Gini e Cantelli, in un pe-riodo di grande fiorire degli studi demografici italiani. E di quest’epocaanche la nascita del Comitato italiano per lo studio della popolazione(Cisp) e delle società scientifiche di statistica e demografia (SIS, Sieds).

La nuova collocazione accademica della demografia si rispecchia nellecaratteristiche della produzione manualistica dell’epoca: sono i testi diNiceforo (1924), Vinci (1927), Livi (1940-41) e il testo a più voci curatoda Gini (1935 e 1937), che circoscrive la trattazione ai soli fenomenidemografici. Fa eccezione il testo di Luzzatto Fegiz, che sviluppa, accantoalla trattazione demografica, una parte su «Produzione e redditonazionale», cogliendone peraltro le complesse interrelazioni con il tessutosociale e non tralasciandone i fondamenti biologici. Alla vigilia della secondaguerra mondiale — che chiude una fase di grande espansione degli studidemografici — accanto alla facoltà romana sono attive scuole di statisticaa Padova, Bologna, Firenze, Milano, Palermo. Corsi complementari didemografia sono inoltre istituiti in numerose facoltà di economia ecommercio e di scienze politiche.

Nel dopoguerra, la ricerca e l’insegnamento della demografia attraver-sano anni di ristagno. Fra le cause molteplici della crisi, un posto rilevantespetta alla diffidenza — per quanto ingiustificata verso una disciplina cheera stata piegata a usi impropri, a sostegno delle politiche popolazionistee, indirettamente, razziali del regime fascista. A metà degli anni cinquantasopravvivono nell’università italiana soltanto 14 corsi di demografia, a

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nessuno del quali è attribuita una cattedra, nemméno nella facoltà discienze statistiche, demografiche e attuariali di Roma, i cui ordinamentiprevedono, fra i fondamentali, due insegnamenti di demografia.

Sul finire degli anni cinquanta e nel decennio successivo le granditrasformazioni socio-economiche in atto — in cui un ruolo importanteè giocato dalle correnti migratorie interne, che modificano profonda-mente l’assetto della popolazione sul territorio e rimescolano i compor-tamenti demografici regionali — determinano un rinnovato interesse perla fenomenologia demografica e il rifiorire di studi e ricerche. Ne segueuna ripresa anche sul piano accademico. La produzione manualistica sirinnova, con opere originali, che fanno spazio a nuovi sviluppi discipli-nari o li segnano esse stesse. Sono i testi di Boldrini (1956), Federici(1956) e il trattato di Mortara sull’economia della popolazione (1960).Nel 1957 viene creato a Roma, per iniziativa di Mortara, un Istituto didemografia, oggi divenuto l’unico dipartimento di scienze demograficheesistente in Italia. Nel 1961 viene bandito il primo concorso didemografia, che dà luogo a tre cattedre (Palermo, Firenze, Bologna), cuisi aggiungono, quattro anni più tardi, quelle di Padova, Roma e Bari.Da allora l’affermazione accademica della demografia è stata rapida: inparte perché ha seguito il movimento di espansione dell’università ita-liana, ma anche per gli effettivi spazi che si sono offerti alla diffusionedella disciplina, con l’interesse suscitato da problematiche di grande ri-lievo sia scientifico sia sociale e politico per le dinamiche demografichein atto in Italia e nel mondo. Sulle fasi storiche dell’insegnamento dellademografia si vedano Federici (1969), Nobile (1985; 1989) e, per quelche concerne le parti in comune con l’insegnamento della statistica, Ot-taviani (1985; 1987; 1989). N. Federici si è anche a più riprese occupatadella formazione demografica e del posto che essa deve occupare al-l’interno delle scienze sociali (1968; 1971; 1973; 1977; 1987).

Attualmente l’insegnamento universitario della demografia si arti-cola in oltre ottanta corsi, di cui un cinquantina sono a livello istituzio-nale mentre i restanti approfondiscono particolari aspetti metodologicio tematici. L’imporsi di nuove problematiche e il perfezionarsi e l’arric-chirsi dell’apparato metodologico hanno portato, infatti, a una ramifi-cazione della disciplina. A seguito di tali sviluppi, un percorso formati-vo completo in demografia non può essere più garantito da un solo inse-gnamento, ma deve essere articolato in più fasi. Ai fondamenti impartiticon un corso istituzionale devono seguire approfondimenti in diversisettori e direzioni, che non possono essere garantiti se non da una plu-ralità di insegnamenti a ciò finalizzati. Attualmente le università italianeoffrono una serie di insegnamenti che coprono un ampio spettro di

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competenze disciplinari: demografia, che fornisce i fondamenti della di-sciplina sul piano sia del metodi sia del contenuti; analisi demografica,che ne illustra più compiutamente le basi logico-formali ed esplora edesplicita la rete di collegamenti interni fra i fenomeni demografici e iprocessi di ricambio della popolazione; teorie della popolazione e mo-delli demografici, che introduce allo studio di modelli intesi a definirele forme di processi demograficamente rilevanti, sulla base di retrostan-ti impostazioni teoriche; economia della popolazione, disciplina talvoltacoltivata e insegnata da economisti anziché da demografi, che studia leteorie economiche della popolazione e analizza le interrelazioni fradinamiche demografiche ed economiche; demografia investigativa, chefornisce gli strumenti metodologici per l’approfondimento di particola-ri problematiche; demografia sociale, che mette l’accento sulla dimen-sione sociale del comportamenti demografici e sugli aspetti differenzia-li; demografia storica, che insegna l’uso di fonti pre-statistiche per inve-stigare sui meccanismi evolutivi di lungo periodo. Altri settori discipli-nari molto affermati all’estero e coltivati anche in Italia da un numerocrescente di studiosi (demografia regionale, demografia del paesi in viadi sviluppo, demografia bio-sanitaria) non trovano per ora corrispettivoin un insegnamento autonomo; l’eventuale riconoscimento della loro au-tonomia didattica incontra però largo consenso nella comunità naziona-le del demografi.

Ancor oggi l’iniziale collocazione della demografia ne delimita l’or-ganizzazione accademica, essendo gli insegnamenti di demografia im-partiti essenzialmente nelle facoltà di statistica, economia e commercio,scienze politiche e solo eccezionalmente in altre facoltà. In questo la si-tuazione italiana è anomala nel contesto internazionale, dove gli studidemografici non sono generalmente collegati agli studi statistici ma —sulla base di affinità di contenuto piuttosto che di metodo — agli studisociologici, geografici, storici, economici. Va peraltro aggiunto che, inbase all’ordinamento didattico nazionale — che detta nelle linee fonda-mentali il contenuto didattico degli studi universitari — l’insegnamentodella demografia come materia complementare potrebbe essere attivatonei corsi di laurea in architettura, pianificazione territoriale e urbanisti-ca, sociologia, giurisprudenza, sebbene finora queste possibilità sianorimaste allo stato virtuale.

Oltre alla formazione finalizzata al conseguimento della laurea, l’u-niversità italiana organizza corsi di studi a diversi livelli; nell’ambito delcorsi di diploma, di durata inferiore a quella del corsi di laurea e preor-dinati «al conseguimento del livello formativo richiesto da specifiche areeprofessionali» (legge 19-11-1990, n. 341), la demografia è presente co-

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me insegnamento fondamentale per il diploma in scienze statistiche, didurata biennale. I corsi di dottorato di ricerca, istituiti con decreto delministro della Pubblica istruzione del 15-6-1982, soddisfano esigenzedi approfondimento ai fini della ricerca scientifica e del reclutamentodella docenza universitaria. Un corso di dottorato in demografia, di du-rata triennale, organizzato in consorzio dalle Università di Roma, Fi-renze e Padova e tenuto alternativamente nelle tre sedi, è stato istituitofin dall’anno accademico 1983-84. Un corso analogo è stato in funzioneper un solo ciclo triennale presso l’Università di Bologna.

A completamento del quadro della presenza della demografia nellestrutture dell’insegnamento universitario vanno infine menzionate le scuoledi specializzazione e i corsi di perfezionamento post-universitari, aventiun obiettivo di approfondimento ai fini della formazione professionale.Per lo più, le specializzazioni nell’area della ricerca sociale, della pianifica-zione urbanistica, dell’igiene e della medicina preventiva, della statisticasanitaria, nelle sue articolazioni biomedica e epidemiologica, che offronouna formazione più o meno esplicitamente orientata a finalità di pro-grammazione e pianificazione, contemplano l’insegnamento della demogra-fia, essendo la popolazione oggetto e soggetto primario di ogni interventoprogrammatorio. Alcuni approfondimenti sull’argomento si possono tro-vare in Birindelli e De Sarno Prignano (1987).

1.1. La struttura dell’insegnamento universitario

Nell’anno accademico 1990-91 vi erano 82 insegnamenti demografici.I dati forniti sono basati sui repertori pubblicati in Bollettino della SIS, 18,marzo 1990 e 19-20, settembre 1990, che si riferiscono al 1° novembre1989, opportunamente aggiornati, attivati presso 37 delle 58 sedi universi-tarie del paese. Precisamente, trascurando variazioni minori di denomina-zione, si tratta di: demografia (55 corsi), demografia storica e/o storia del-la popolazione (7), demografia investigativa (5), economia della popola-zione (5), teorie della popolazione e modelli demografici (3), analisi de-mografica (2), demografia sociale (2). Vi è poi un piccolo numero di corsiche aggiungono alle nozioni di base alcuni approfondimenti o una tratta-zione di alcuni aspetti di altre discipline: demografia e teorie e modelli del-la popolazione (i.), demografia ed economia della popolazione (1), demo-grafia e statistica sanitaria (1); complessivamente, quindi, si contano 58corsi in cui vengono impartiti i fondamenti della disciplina e 24 che po-tremmo chiamare di approfondimento o di specializzazione. La disloca-zione territoriale degli insegnamenti è evidenziata nella tabella 1, che illu-stra anche le alterne fasi dell’espansione accademica.

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Tabella 1. Insegnamenti di discipline demografiche nelle università italiane.

Anni accademici

Sede universitaria 1924.25 19)4-35 1955-56 1990-91

Ancona 1Bari 1 1 8

Bologna 1 8Brescia 1Cagliari 1

Camerino 1 1Campobasso 1

Cassino 1Catania 1 2 1Ferrara 1Firenze 1 1 6Genova 2 1Macerata 1Messina 4Milanol 1 4 4Modena 1 1Napoli 2 2 2Padova 2 1 4Palermo 1 1 5Parma 1Pavia 1 1 2

Perugia 2Pescara 1

Pisa 2Rende (CS)

Roma 1 4 4 12Siena 2

Teramo 1 3Torino 1Trento 1Trieste 1 3Udine 1

Venezia 1 1Verona 1

Totale 5 23 14 82

1 Università Statale, Università cattolica del Sacro Cuore, Università commerciale L. Bocconi.2 Università di Napoli, Istituto universitario navale.

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In quali facoltà e corsi di laurea sono impartiti questi insegnamenti?Abbiamo visto come, in conseguenza della storia del suo sviluppo disci-plinare e della sua istituzionalizzazione, la demografia sia generalmenteaffiancata a studi di statistica o, in via subordinata, di economia. In Italiavi sono tre facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali (nelleuniversità di Roma La Sapienza, Padova e Bologna, in ordine di anzianitàdi fondazione) che, pur essendo a contenuto prevalentemente statistico,si pongono (come il nome stesso suggerisce) quali sedi più indicate a di-spensare una formazione demografica; presso queste facoltà sono istitui-ti tre del quattro corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche(SSD) esistenti in Italia, il quarto essendo collocato presso la facoltà dieconomia e commercio dell’Università di Messina. Con l’attuazione delpiano di sviluppo dell’università per gli anni 1986-90, è stata prevista l’at-tivazione di due nuovi corsi di laurea in scienze statistiche, demografichee attuariali rispettivamente presso la facoltà di economia e commerciodell’Università di Firenze e presso la facoltà di scienze economiche e socialidell’Università della Calabria, nonché di un corso di laurea in scienze statisti-che e attuariali presso la facoltà di scienze economiche e sociali a Benevento.

Nei quattro corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche perora esistenti sono impartiti 17 degli 82 insegnamenti di discipline de-mografiche complessivamente attivati. I rimanenti sono impartiti pres-so corsi di laurea in scienze statistiche ed economiche (SSE) o scienzestatistiche e attuariali (SSA; 7 insegnamenti), in economia e commercioo affini (32), in scienze politiche e giurisprudenza (13), in materie lette-rarie (magistero) (1), in medicina e chirurgia (1) o presso corsi di diplo-ma in statistica (11; tab. 2). Sono dunque meno numerosi gli insegna-menti di demografia offerti nel quadro di un complessivo progetto diformazione demografica di quelli destinati a complemento di una for-mazione altrimenti qualificata. Tuttavia la presenza della demografia neiquadri formativi di curricula universitari che ad essa non si richiamanoespressamente non ha carattere di sistematicità. Materie demografichesono in effetti insegnate solo in 10 del 30 corsi di laurea in scienze poli-tiche e in 27 del 51 in economia e commercio e affini. Insieme con icorsi di laurea in economia e commercio, ne sono stati conteggiati an-che diversi altri di studi economici, che si possono in qualche modo con-siderare assimilabili: corsi di laurea in scienze (o discipline) economichee sociali, in economia aziendale, in economia marittima e del trasporti,in economia politica, in scienze bancarie e assicurative. Sono invece sem-pre presenti nei corsi di laurea in scienze statistiche, pur non configu-rando un itinerario formativo completo in demografia se non in alcunidel corsi di laurea in scienze statistiche e demografiche.

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La posizione e il ruolo della disciplina dipendono naturalmente dalcorso di laurea in cui essa è inserita. Si possono distinguere quattro di-versi regimi.

1) Scienze statistiche e demografiche. In quanto finalizzati a fornireuna formazione anche demografica, questi corsi di laurea prevedono nelloro ordinamento diversi insegnamenti di tale area disciplinare, due delquali — uno a livello istituzionale e uno a livello avanzato — sono inclusifra i fondamentali. Complessivamente, nei quattro corsi di laurea di que-sto tipo esistenti, vengono impartiti, oltre ai 4 corsi istituzionali, anche13 corsi di approfondimento (sui 24 complessivamente dispensati in Ita-

Tabella 2. Insegnamenti di discipline demografiche, secondo la denominazione e il corso di laurea(1990-91).

(*) Presso questi corsi di laurea, a Roma e Padova sono mutuati gli insegnamenti demogra-fici impartiti al corso di laurea in SSD.

1 Le cifre fra parentesi indicano il numero di corsi di laurea o di diploma, per ciascun tipo,presso cui sono attivati insegnamenti di demografia.

2 Sono stati assimilati a economia e commercio i corsi di laurea in scienze economiche, inscienze economiche e bancarie, in scienze (o discipline) economiche e sociali, in economia deltrasporti e commercio internazionale.

3 In due casi, Bari e Camerino, i corsi sono tenuti congiuntamente per il corso di laurea inscienze politiche e per quello in giurisprudenza.

4 Sono considerati fra questi anche un corso di demografia storica e storia della popola-zione (Firenze, diploma di statistica) e uno di storia della popolazione (Roma, corso di laureain Economia e commercio)

5 Si tratta di: demografia e teorie e modelli di popolazione (Milano, Bocconi), demografiae economia della popolazione (Campobasso, Scienze economiche e sociali), demografia estatistica sanitaria (Firenze, Medicina e chirurgia).

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lia): 4 di demografia investigativa, 3 di teorie della popolazione e mo-delli demografici, 2 di analisi demografica, 2 di economia della popola-zione, 1 di demografia storica e 1 di demografia sociale. Gli insegna-menti sono affidati a professori ordinari più frequentemente che neglialtri corsi di laurea (47% del casi contro 28 di media generale; si vedala tab. 3). Non tutti i corsi di laurea in questione consentono, comun-que, il perfezionamento di una formazione demografica. Si configuraanzi una gamma di situazioni che va dal caso in cui sono attivi solo icorsi di demografia e di demografia investigativa, a quello che offre unciclo di studi demografici potenzialmente completo.

2) Scienze statistiche e attuariali, scienze statistiche ed economiche,diplomi in statistica. In questi corsi, l’ordine degli studi prevede la de-mografia tra gli insegnamenti fondamentali, con la sola eccezione di duecorsi di diploma (Milano, Università Statale e Cattolica). Generalmentela formazione demografica dispensata si esaurisce nel corso istituzionale,anche se corsi di livello avanzato possono essere compresi fra i com-plementari ed essere talvolta fra quelli consigliati per un orientamentoo indirizzo: questo avviene soprattutto dove, per la presenza nella me-desima facoltà di un corso di laurea in SSD, è possibile mutuarne gliinsegnamenti. Complessivamente i 6 corsi di laurea in SSE e SSA e gli11 corsi di diploma forniscono, oltre ai 15 insegnamenti fondamentalidi demografia, 3 soli corsi di demografie avanzate autonomamente atti-vate (demografia storica e economia della popolazione a Firenze, diplo-ma di statistica; demografia investigativa a Bari, SSE), ma, per le ragionisopra dette, numerosi corsi di livello avanzato sono disponibili a Roma,Padova e Bologna. Va comunque aggiunto che nei corsi di laurea

Tabella 3. Insegnamenti di discipline demografiche secondo il corso di laurea e la qualificaaccademica del docente (1990-91).

Ordinari Associati Altro1 TotaleCorso di laureao diploma V.A. % V.A. % V.A. % V.A. %SSD 8 47 3 18 6 35 17 100SSE, SSA,

Dipl. stat. 10 56 6 33 2 11 18 100Econ. comm. 4 12 14 44 14 44 32 100Sc. polit. 3 23 7 54 3 23 13 100Altro 1 50 1 50 2 100Totale 26 32 30 37 26 32 82 100

1 Supplenza, incarico, contratto.

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e diploma in questione, per ragioni di tradizione o per la personalità scien-tifica del docenti che vi operano, esistono in genere potenzialità note-voli di formazione demografica. Anche in questa sede l’insegnamentoè impartito in larghissima misura da professori ordinari (55%).

3) Economia e commercio, scienze politiche e affini. L’insegnamentodella demografia non è necessariamente previsto dall’ordinamento diquesti corsi di laurea, ma di fatto vi compare come opzionale in un nu-mero consistente di casi: in oltre metà del corsi di laurea in economia ecommercio e in oltre un terzo di quelli in scienze politiche. Se in nessuncaso l’insegnamento della demografia è considerato fondamentale,tuttavia esso può essere assunto come caratterizzante alcuni indirizzi,in genere di tipo economico generale nelle facoltà di economia e com-mercio, di tipo politico-sociale o politico-economico nelle facoltà di scienzepolitiche. Il corso istituzionale, che è raramente accompagnato da uncorso di livello avanzato, viene generalmente inserito nei piani di stu-dio come materia del secondo biennio. Data la diffusione sul territorionazionale del corsi di laurea in parola, è in quest’ambito che si riscontrail maggior numero di insegnamenti di materie demografiche: in tutto45 insegnamenti di cui 38 a livello istituzionale e 7 a livello avanzato.I corsi sono tenuti da ordinari meno frequentemente che nei casi prece-denti (12% a economia e commercio e 23% a scienze politiche), essen-do più spesso affidati a docenti di seconda fascia (54% a scienze politi-che, 44% a economia e commercio contro una media generale del 37%).

4) Altri corsi di laurea. In quest’ambito la presenza della demografia èdel tutto eccezionale. Di fatto esistono attualmente insegnamenti delladisciplina solo a Medicina e chirurgia (Firenze, corso di demografia estatistica sanitaria) e materie letterarie (Bari, corso di demografia storica).Quest’area è tuttavia passibile, a norma di ordinamento didatticonazionale, di considerevole espansione.

Elementi di ulteriore specificazione della collocazione accademica dellademografia si possono ottenere prendendo in considerazione i diparti-menti e gli istituti che coordinano — i primi autonomamente e i secondicome articolazioni organizzative delle facoltà — la ricerca e la didatticademografica. In Italia il Dipartimento di scienze demografiche dell’U-niversità di Roma La Sapienza è il solo interamente imperniato suglistudi demografici (tab. 4). In altri tre dipartimenti sono organizzati gliinsegnamenti di almeno tre diverse discipline demografiche: sí tratta delDipartimento di scienze statistiche dell’Università di Padova, del Di-partimento statistico dell’Università di Firenze e del Dipartimento discienze statistiche Paolo Fortunati dell’Università di Bologna. I primidue, in consorzio con il predetto Dipartimento di scienze demografi-

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Tabella 4. Dipartimenti e Istituti che organizzano l’insegnamento di almeno tre diversediscipline demografiche.

Denominazione Sede DisciplineI Corsi laurea 2 N. docenti3

Dipartimento Roma4 Demografia, SSD, SSA, SSE, 9di scienze Analisi dem., Dipl. stat.demografiche Dem. invest., Sc. pol.

Dem. sociale,Teor. e mod.

Dipartimento Padova Demografia, SSD, SSE, 3di scienze Dem. invest., Dipl. stat.statistiche Teor. e mod.

Dipartimento Firenze Demografia, Dipl. stat., 4statistico Econ. popol., Ec. comm.,

Dem. storica Sc. pol.e Storia pop.

Dipartimento Bologna Demografia, SSD, SSE, Dipl. stat., 5di scienze Analisi dem., Dipl. stat.,statistiche Dem. invest., Ec. comm.Paolo Fortunati Dem. storica,

Econ. popol.,Teor. e mod.

Istituto Bari5 Demografia, SSE, Ec. comm., 7di scienze Dem. invest., Dipl. stat.demografiche Dem. storicae sociali

1 Non si tratta di tutti gli insegnamenti organizzati dai dipartimenti e istituti, ma esclusivamente diquelli di natura strettamente demografica. Presso ciascun dipartimento o istituto possono essere organizzatipiù corsi della stessa discipline, impartiti in diversi corsi di laurea, o sdoppiati a causa del numero deglistudenti.

2 Si tratta del corsi di laurea presso i quali vengono impartiti gli insegnamenti organizzati da di-partimenti e istituti.

3 Sono considerati esclusivamente i docenti di discipline demografiche.4 A Roma esistono insegnamenti di discipline dernografiche anche presso il Dipartimento di studi

geoeconomici, statistici, storici per l’analisi regionale (demografia e storia della popolazione) e pressol’Istituto di statistica economica della Facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali (economiadella popolazione).

5 A Bari esistono insegnamenti di discipline demografiche anche presso il Dipartimento per lo studiodelle società mediterranee (demografia) e presso il Dipartimento di scienze storiche e geografiche (demo-grafia storica).

che, hanno attivato il dottorato di ricerca in demografia attualmente in fun-zione. Vi sono poi due istituti che, pur non essendo esclusivamente intitolatialla demografia, fanno riferimento nella loro denominazione a studi demo-grafici: a Bari l’Istituto di scienze demografiche e sociali; a Palermo l’Istitutodi statistica sociale e scienze demografiche e biometriche.

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In conseguenza di questa situazione, gli insegnamenti di demografiasono prevalentemente inseriti in istituti e dipartimenti di statistica op-pure nella cui denominazione è comunque espressamente citata una com-ponente statistica: 45 degli 82 insegnamenti di demografia (il 55%) so-no attivati in 8 dipartimenti e 14 istituti di questo tipo (tab. 5). All’unicodipartimento di demografia esistente e ai due istituti che nel loro nomefanno esplicita menzione di una componente demografica fanno capoaltri 19 corsi (23%); i rimanenti 18 si collocano in strutture varie aprevalente contenuto economico (22%).

La collocazione delle discipline demografiche in diversi corsi di laureadovrebbe comportare anche l’insegnamento di contenuti più o menodifferenziati e variamente articolati e accentuati: solo in tal modosarebbe garantita l’armoniosa integrazione della demografia nei vari con-testi didattici e il dispiegamento delle potenzialità formative degli studidemografici, sul piano sia professionale sia culturale in senso lato. Allostesso modo, l’inserimento della materia in ambiti di ricerca orientatia problematiche esogene e più ampie dovrebbe favorire lo sviluppo de-gli aspetti interdisciplinari. Va però valutato in quale misura tale inte-grazione si realizzi, sul piano didattico e su quello della ricerca, o non

Tabella 5. Insegnamenti di discipline demografiche secondo la denominazione e il diparti-mento o istituto di appartenenza.

Corsi avanzati

DipartimentoIstituto Demografia

Anal.dem.

Dem..inv.

Dem..soc.

Dem.stor.

Teor.mod.

Econ.pop. Tot. Altro

Tot.gen.

N. medioinsegn.

Dip. D. (1) 5 1 1 1 1 4 9 9,0Dip. S. (4) 9 1 2 1 2 2 2 10 19 4,7Dip. S/A (4) 5 1 1 6 1,5Dip. E/A (4) 3 1 4 1,0Dip. A (2) 1 1 1 2 1,0Ist. D/A (2) 7 1 1 1 3 10 5,0Ist. S/A (14) 17 1 1 2 4 1 22 1,3Ist. E/A (3) 3 3 1,0Ist. A (2) 1 1 1 2 1,0Altro (4) 3 1 4 1,0NI (1) 1 1 1,0

Totale (41) 55 2 5 2 7 3 5 24 3 82 2,0

* Le cifre in parentesi indicano il numero di dipartimenti o istituti di ciascun tipo, presso i quali sono attivati corsi didiscipline demografiche.D = Scienze demografiche; 5 = scienze statistiche; E = scienze economiche; A = altre discipline; D/A SIA E/A = dipartimenti o istitutiche si richiamano a più discipline; ad esempio: Dipartimento di statistica e matematica, Istituto di scienze demografiche e socialie altri. Altro = laboratori, seminari, unità pre-dipartimentali.

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vi siano invece margini di miglioramento. Un importante momento diriflessione sul tema dell’insegnamento della demografia a livello nazio-nale è stato rappresentato dal convegno organizzato nel febbraio 1985dal Dipartimento di scienze demografiche dell’Università La Sapienzadi Roma, dedicato a L’insegnamento della demografia e la formazione dei de-mografi in Italia. Omaggio a Nora Federici, i cui atti hanno costituito il vo-lume a cura di Sonni-no et al. (1987). In ambito internazionale si eranoavute precedenti occasioni di dibattito: con la sessione speciale delCongresso internazionale dell’Uissp (Liegi, 1973) imperniata sui temide L’enseignement de la démographie e L’information démographique et le róle desdémographes, organizzata e introdotta da N. Federici; e, successivamen-te, con la «Chaire Quételet 1984», che il Dipartimento di demografia diLovanio ha dedicato a La démographie en perspective. Visages futurs dessciences de la population et de leur enseignement.

1.2. L’insegnamento delle discipline demografiche

Una valutazione dell’adeguatezza dell’insegnamento rispetto ai cur-ricula in cui è inserito non può prescindere dalla considerazione di quelliche sono, al di là delle etichette costituite dalle denominazioni del corsi, icontenuti effettivamente trasmessi. Alcune notizie in tal senso sonostate raccolte mediante un’indagine fra i docenti condotta nel 1985 dalDipartimento di scienze demografiche dell’Università La Sapienza di Ro-ma, con l’obiettivo di una riflessione globale sull’insegnamento univer-sitario della demografia. L’indagine era stata organizzata in vista del giàmenzionato convegno in omaggio a Nora Federici.

La documentazione raccolta in quell’occasione, analizzando i program-mi e i testi consigliati, senza peraltro entrare nel merito dell’effettivapratica didattica (Pinnelli, 1987), non evidenzia chiare diversificazionidel corso di demografia di livello istituzionale a seconda del contestoformativo, almeno per quanto concerne l’impianto generale del corsoe la partizione della materia. Ciò che risulta maggiormente variabile èla richiesta di acquisizione di specifiche abilità ad alto contenuto tecni-co che fanno appello a discrete conoscenze statistico-matematiche, comela costruzione di tavole di mortalità e l’elaborazione di previsionidemografiche. Questo tipo di richieste è generale nei corsi di laurea inscienze statistiche, meno frequente in quelli di economia e commercio,raro negli altri, sia in ragione di differenti esigenze formative, sia perla diversa preparazione di base degli studenti. Ciò che l’indagine nonrivela è il livello di approfondimento delle singole parti in programma,il dosaggio di ciascuna nell’economia generale della trattazione, le pro-

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porzioni tra discussione delle problematiche e presentazione del meto-di, il grado di evidenziazione della rete di relazioni che legano gli acca-dimenti demografici al tessuto sociale. Se la riduzione del bagaglio distrumenti analitici è, nei casi sopra citati, giustificata, lo è però a frontedi un potenziamento di quelle parti che mettono in luce l’interesse del-la chiave di let-tura demografica nei diversi quadri formativi; ove que-sto non avvenga, il rischio che si corre è l’estraneità della disciplina ri-spetto agli interessi culturali del discenti e quindi la sua marginalizza-zione sul piano accademico.

L’analisi del libri di testo non contribuisce a chiarire la situazione,data la grande uniformità del panorama da questo punto di vista: maquesta stessa uniformità suggerisce una limitata differenziazione delcorsi. Molto largamente usata è l’Introduzione alla demografia di Livi Bacci(1981; 19902), consigliata dalla quasi totalità del docenti. Si tratta di untesto di prevalente impostazione metodologica che, senza trascurare gliaspetti sostanziali, presenta in modo compatto e con esemplare chia-rezza un ampio bagaglio di strumenti di analisi anche sofisticati, inqua-drandoli criticamente nel contesto problematico dal quale hanno origi-ne. Diffuso è pure Istituzioni di demografia di N. Federici (1979), che perl’ampio respiro, la completezza della trattazione, la ricchezza delleproblematiche demografiche, sociali, economiche, biologiche dalle qualiviene fatta scaturire la presentazione degli strumenti di analisi, risulta digrande validità per l’approfondimento della problematica demografica edegli orientamenti disciplinari, anche in una prospettiva storica. Altritesti, prodotti in anni recenti, hanno una diffusione più limitata: si trattadi Petrioli (1982), che richiede da parte dello studente buone conoscen-ze matematiche, essendo molto incentrato sul versante dell’analisi de-mografica e dando largo spazio all’elaborazione di modelli formali;Blangiardo (1987), corredato da una ricca serie di applicazioni edesemplificazioni del metodi di analisi; Chiassino e Di Comite (1990),rielaborazione di precedenti stesure, che dà spazio agli indicatori dellatransizione demografica e alla tematica del tasso nullo di incremento.Abbastanza usato è infine il testo di esercizi preparato da docenti delDipartimento di scienze demografiche di Roma (AA.VV., 19862).

Molto spesso a fianco del libro di testo vengono consigliate o sugge-rite altre letture, destinate soprattutto alla preparazione di parti specia-listiche del programma; poiché si tratta in gran parte di opere monogra-fiche di natura prevalentemente metodologica, non pare che ad esse siaaffidato il compito di orientare la trattazione verso le problematichesostanziali più pertinenti a ciascun contesto formativo, almeno per quelche concerne i corsi di laurea in economia e commercio e in scienze po-

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litiche. Un problema di integrazione con le altre discipline emerge an-che laddove i docenti lamentano una mancanza di coordinamento, diintegrazione e di lavoro interdisciplinare con docenti di discipline affi-ni. Pur non essendo certo questa una specificità del demografi chétutta l’università e la scuola italiana, e non solo italiana, soffrono di questadifficoltà — l’insufficiente integrazione interdisciplinare determina uncerto isolamento della demografia e — specialmente nei casi in cui essasia la sola materia del settore presente nel curriculum universitario —rischia di ridurne l’efficacia formativa, non consentendo l’acquisizionedegli strumenti conoscitivi necessari per cogliere i collegamenti tra levicende demografiche e il tessuto delle altre discipline. Non pare condi-zione sufficiente a superare queste difficoltà la formazione culturale deldocenti di demografia, che è in buona parte omologa a quella della fa-coltà in cui svolgono la loro opera didattica: di tipo statistico per i do-centi nei corsi di laurea in statistica e di tipo economico per i corsi dilaurea in economia e commercio.

Per quanto riguarda i corsi di livello avanzato o specialistico, il di-scorso è variamente articolato, a seconda della disciplina. Si è già dettocome la maggior parte di questi insegnamenti vengano impartiti, conl’unica eccezione della demografia storica, nell’ambito del corsi di lau-rea in scienze statistiche e demografiche. Ben pochi hanno diversa col-locazione, né sembra che ci sia stretta attinenza tra gli approfondimentiproposti e il corso di studi nel quale sono attivati. L’esistenza di compe-tenze disciplinari presso le varie sedi universitarie o altre contingenzelocali sembrano giocare un ruolo preponderante rispetto alla definizionedi un complessivo disegno formativo.

I pochi corsi di analisi demografica e di teorie di popolazione e mo-delli demografici sembrano di contenuto abbastanza omogeneo nelle di-verse sedi in cui sono impartiti e corrispondono a quanto, anche su unpiano internazionale, viene associato a tali denominazioni. Per quantoriguarda il secondo di questi insegnamenti, c’è da osservare che le teoriedi popolazione sono generalmente intese in accezione limitata e funzionaleallo sviluppo di modelli formali. È però diffusa l’opinione che i duenuclei tematici di tale corso potrebbero dar luogo ciascuno a uninsegnamento autonomo, disgiungendo lo studio del modelli demogra-fici da quello delle teorie della popolazione. Queste ultime potrebberocosì avvantaggiarsi di una trattazione più diffusa e collegarsi opportu-namente allo studio delle politiche volte a favorire o a ostacolare deter-minati comportamenti demografici e alla valutazione della loro effica-cia: tema quest’ultimo che attualmente compare solo di sfuggita in di-versi insegnamenti di materie demografiche (demografia sociale, econo-

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mia della popolazione e così via), mentre se ne possono cogliere senzasforzo sia l’importanza sul piano scientifico sia la valenza professiona-lizzante.

L’insegnamento della demografia storica si presenta sostanzialmen-te uniforme nelle diverse sedi in cui è impartito. Di solito viene artico-lato in una parte che illustra le fonti e le metodologie di analisi propriedella disciplina e in un’altra che, anche in ragione del risultati più co-piosi e interessanti finora ottenuti dalla ricerca nel settore, verte sullamortalità e la fecondità dell’Italia del secoli XVIII e XIX.

Più problematica è la situazione della demografia investigativa. Taleinsegnamento, il cui nome rimanda a un’antica contrapposizione tra unademografia «descrittiva », dall’obiettivo circoscritto all’ordinata esposi-zione del fatti attinenti la popolazione, e una demografia invece «inve-stigativa» perché destinata a indagare sulle cause del fatti e sulle leggiche li governano, era inizialmente l’unico corso destinato ad approfon-dire Io studio del fenomeni demografici; accoglieva perciò vari elementioggi integrati nel quadro di nuove branche disciplinari. I corsi attual-mente esistenti presentano contenuti vari e disomogenei, che — a secon-da delle altre discipline demografiche presenti nelle diverse sedi, del lo-ro contenuti e della loro impostazione — possono consistere nella pre-sentazione di argomenti di analisi demografica, nella studio di problemimetodologici particolari (stime retrospettive, previsioni derivate, uso didati difettosi), nell’approfondimento di particolari metodologie di ricerca(demografia differenziale, evoluzione storica).

Per quanto riguarda il corso di economia della popolazione, si riscontrauna difformità di contenuti e anche un diverso taglio degli argomenti,in ragione sia della vastità della materia e delle diverse prospettive incui è possibile inquadrarla, sia della diversa formazione del docenti, chepuò essere prevalentemente demografica o prevalentemente economi-ca. Vi sono corsi che privilegiano la modellizzazione del fenomeni demo-economici, oppure l’analisi delle forze di lavoro, i rapporti fra popola-zione, ambiente e risorse, la famiglia come unità di consumo, i risvoltidemografici del fatti economici e le conseguenze delle dinamiche demo-grafiche su vari aggregati di natura economica (domanda e offerta di la-voro, pensioni, risparmi, consumi, spesa pubblica e così via). Data l’im-portanza conoscitiva sempre maggiore assunta dalle conseguenze che gliattuali e contrapposti regimi demografici hanno determinato tanto neipaesi in via di sviluppo quanto in quelli più progrediti, è diffusamentesentita l’esigenza che la disciplina dispensi un’organica e compiuta for-mazione sulle interrelazioni fra economia e demografia, a livello sia mi-cro sia macro, anche allo scopo di illuminare le strategie politiche volte

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ad armonizzare le tendenze demografiche con lo sviluppo economico e so-ciale.

In quanto alla demografia sociale, di cui non esistono che due corsi,la materia mette l’accento sullo studio delle determinanti delle differenzedi comportamento demografico tra i gruppi sociali, sulle conseguenzesociali delle tendenze demografiche, sulle politiche di popolazione e sullaloro efficacia, sugli aspetti culturali e psico-sociali del comportamentodemografico.

A sussidio dell’insegnamento vengono usati diversi manuali (De San-dre, 1974; Granelli Benini, 1974; Sonnino, 1979; Giovannetti, 1981;Natale, 1983) o dispense (De Bartolo, Appunti di analisi demografica;Pinnelli, 1985; Pinnelli e Víchi, 1989; Santini, 1988). A integrazionedel testi, i docenti propongono di solito la lettura di materiale vario —monografie, articoli di riviste, atti di convegni, sovente in lingua straniera.Ciò consente di mantenere l’insegnamento ancorato ai continui sviluppidisciplinari e alle più recenti acquisizioni della ricerca, anche in unaprospettiva internazionale. E tuttavia auspicabile un impegno per laproduzione di organici e completi strumenti didattici in lingua italiana,in cui trovi compiuta sistemazione il corpo delle conoscenze disciplinari.

1.3. Possibili sviluppi dell’insegnamento

I contenuti delle discipline attualmente esistenti non esauriscono l’in-sieme delle tematiche oggetto di studi sufficientemente maturi e conso-lidati da meritare uno spazio adeguato nel quadro di una completa for-mazione demografica. Come si è già accennato, è diffusa l’opinione chediversi nuclei tematici, sinora coltivati in Italia da un limitato numerodi studiosi ma molto affermati all’estero, possano costituire l’ossaturadi corsi d’insegnamento autonomi. Già attualmente questi contenuti for-mano in genere oggetto di trasmissione didattica nei corsi di dottoratodi ricerca.

Fra questi, vale la pena di segnalare lo studio della demografia delpaesi in via di sviluppo, che si differenzia da quello tradizionale sottoil duplice aspetto delle problematiche e delle tecniche di analisi. Questeultime sono condizionate dal ricorso a fonti diverse da quelle più fami-liari al demografo — cioè soprattutto di inchieste anziché di censimentie di sistemi di registrazioni di stato civile — ma soprattutto dalla neces-sità di trarre il massimo di informazione da dati difettosi o incompleti,mediante particolari accorgimenti metodologici. Tali esigenze hanno datonotevole impulso agli sviluppi dell’analisi demografica, fra i quali vanno

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menzionati almeno gli approfondimenti sui modelli di popolazione sta-bile e quasi-stabile e l’estesione di concetti e relazioni al caso di nonstabilità. Quanto allo studio della fenomenologia demografica del paesiin via di sviluppo, essa è connotata da situazioni in gran parte inedite,specialmente riguardo le interazioni con il contesto economico e cultu-rale, che richiedono l’acquisizione di specifici quadri interpretativi. Lanovità delle dinamiche in atto in quelle regioni ha grande rilievo scien-tifico, in quanto porta a rivedere principi e concetti e a nuove formula-zioni teoriche. La loro importanza sul piano politico e sociale e le lororipercussioni a livello planetario sono elementi che ulteriormente consi-gliano l’insegnamento di queste tematiche.

Un altro argomento di rilievo che ha una collocazione marginale neicorsi attualmente impartiti riguarda il sistema informativo e la qualità deldati demografici. L’assenza di una sufficiente attenzione a questo temapuò favorire nel discente l’erronea convinzione che la scelta delle informa-zioni necessarie per la ricerca demografica e la loro raccolta possa esseredelegata ad altri senza inconvenienti o che le statistiche ufficiali soddisfinoautomaticamente tutte le necessità di conoscenza nel settore. Su un altroversante, la carenza di competenze nel campo della produzione del datipriva la formazione demografica di un elemento che potrebbe avere rilie-vo sul piano professionale. Trattandosi di un tema ovviamente cruciale, davarie parti si preconizza la creazione di un insegnamento che affronti orga-nicamente lo studio critico delle fonti cui può fare appello la ricerca demo-grafica, oggi assai più ricche e numerose che nel passato, riservando parti-colare riguardo alle fonti non convenzionali da cui proviene la massa delleinformazioni per epoche o paesi in cui non opera il tradizionale abbina-mento censimento-stato civile. L’importanza formativa del tema non risie-de peraltro in una puntuale conoscenza del sistema informativo esistente,che pure è necessaria: l’insegnamento deve garantire la consapevolezza cheil bagaglio di concetti e metodi della scienza demografica non può esserelimitato dalle specie di dati esistenti, ma che sono al contrario gli orienta-menti di ricerca a dover dettare le prospettive di osservazione dei fenome-ni, i criteri di analisi e di misura, la forma degli indicatori e quindi i conte-nuti e i modi della rilevazione del dati. Sul problema dell’integrazione trafonti e metodi della ricerca demografica si veda De Sandre e Santini(1987), in cui gli autori tracciano la struttura sequenziale di un itinerarioformativo orientato alla ricerca demografica.

A conclusione di questo breve sguardo sui contenuti dell’insegnamen-to delle discipline demografiche, qualche osservazione va fatta riguardo lospazio limitato riservato ai temi connessi alle interrelazioni della demo-grafia con le altre discipline. L’interpretazione del fenomeni demogra-

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fici, l’indagine sulle cause e sulle conseguenze che essi determinano nelcontesto sociale coinvolgono competenze disciplinari diverse, che van-no dalla biologia alla storia, dall’economia alla sociologia e alla psico-sociologia. È probabilmente dai settori di frontiera in cui la demografiasi congiunge con altri campi del sapere che dovranno venire in futuroavanzamenti significativi di conoscenza. Attualmente le acquisizioni inquesti settori non formano che occasionale oggetto di trasmissione di-dattica, se si esclude il caso già esaminato dell’economia, nel quale co-munque il corpo di conoscenze consolidate non ha ancora ricevuto si-stemazione organica in un quadro unitario. Sembra senz’altro opportu-no prevedere non un proliferare di corsi, ma certo una maggiore atten-zione a questi aspetti che - oltre a essere fondamentali per il futuro dellaricerca - sono nello stesso tempo dotati, per l’aderenza ai problemi cheemergono dal sociale, della possibilità di inserirsi efficacemente nei profiliformativi per specifici campi d’azione professionale.

Quanto fin qui osservato si riferisce all’attuale collocazione accade-mica della demografia. Il discorso potrebbe essere molto più generalese si dovesse tener conto delle potenzialità di espansione dell’area di for-mazione demografica e quindi del contenuti che sarebbero opportuninell’eventualità dell’inserimento della disciplina in quei corsi di laureanei quali l’ordinamento didattico nazionale ne prevede la possibilità (chesono, come si è detto, architettura, pianificazione territoriale e urbani-stica, sociologia, giurisprudenza) o nei quali, semplicemente, si ritenganoutili complementi di formazione demografica (che potrebbero essereindividuati, secondo le indicazioni emerse dalla citata indagine presso idocenti, nelle facoltà di lettere, magistero, medicina, ingegneria, agraria).In questi casi si tratterebbe di calibrare gli argomenti classici orientandolinelle opportune direzioni, o anche di prevederne di nuovi, in funzionedella formazione culturale o professionale propria di ciascuno del corsi distudi in cui la demografia sarebbe inserita. Per alcune riflessioni in meritoa questo argomento – che richiederebbe una trattazione troppo ampia perlo spazio qui disponibile – si rimanda a Colombo (1987).

1.4. Centri di ricerca

L’università è la sede istituzionale della ricerca demografica, che hacentri particolarmente vivaci dove l’aggregazione di un certo numerodi studiosi dell’area favorisce la confluenza e lo sviluppo degli interessidi ricerca. Tali centri rappresentano spesso un punto di riferimento an-che per demografi che svolgono la loro attività in sedi in cui la discipli-na è più isolata.

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Il finanziamento della ricerca nelle università avviene attraverso ilConsiglio universitario nazionale (CUN), che distribuisce i fondi annual-mente destinati alla ricerca dal Ministero dell’Università e della Ricercascientifica e tecnologica. In base alla legge n. 382 del 1980, che ha prov-veduto al riordinamento della docenza universitaria, il 60% di tali fon-di è ripartito fra i vari atenei, i quali li attribuiscono a singoli ricercatorie gruppi di ricerca, mentre il restante 40% viene assegnato — con decre-to del ministro e su proposta del comitati consultivi del CUN — a pro-getti di ricerca reputati d’interesse nazionale e di rilevante importanzaper lo sviluppo della scienza. Mentre è praticamente impossibile indivi-duare la parte del fondi appartenenti alla quota del 60% che nei singoliatenei è stata devoluta alla ricerca demografica, sono disponibili infor-mazioni sulla destinazione del fondi appartenti alla quota del 40%, ri-servata a progetti di particolare rilievo. Le somme attribuite nel 1989e nel 1990 dal Comitato consultivo per le scienze economiche e statisti-che a ricerche di natura demografica si aggirano intorno ai 280 milionidi lire. Le cifre menzionate non rappresentano che un ordine di gran-dezza, dato che i dati pubblicati sull’argomento classificano le ricerchedemografiche insieme a quelle in statistica sanitaria e in statistica socia-le; l’attribuzione di ciascuna ricerca a una delle tre discipline è stata ope-rata esclusivamente sulla base del titolo della ricerca, che in alcuni casinon consente la certezza sulla natura del contenuti.

Una sommaria analisi delle informazioni relative al periodo 1982-90consente di individuare i temi di ricerca che sono stati maggiormenteprivilegiati. Spazio particolare è stato dato all’investigazione su proble-mi emergenti e di grande attualità sul piano sociale e politico, oltre chescientifico: le migrazioni internazionali e la presenza straniera in Italia,le condizioni demografiche del bacino del Mediterraneo e le loro riper-cussioni sullo sviluppo economico dell’area. Non sembra casuale il pa-rallelismo tra le vicende migratorie del paese e le preoccupazioni e gliinteressi tanto del ricercatore quanto dell’erogatore del fondi di ricerca.Altri temi molto frequentati — anche in questo caso si tratta di tenden-ze evidentemente connesse con gli andamenti demografici in atto — so-no le conseguenze economico-sociali di vari fenomeni demografici, inparticolare dell’invecchiamento della popolazione. Spazio ragguardevole èstato poi assegnato a ricerche nel campo della demografia storica, cheattraversano attualmente una fase di rigoglio, e a studi sulla mortalità,tema fra i più coltivati dalla demografia italiana. Comparativamentemeno presenti risultano altri temi classici, fra i quali la fecondità, lanuzialità e la famiglia, che hanno fruito di altri canali di finanziamento:naturalmente l’assegnazione di fondi riflette le richieste del ricercatori

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prima ancora che le scelte del CUN; inoltre il quadro dipinto non puòche essere parziale, mancando la considerazione della quota del 60%erogata dai singoli atenei.

Una parte consistente della ricerca e delle attività demografiche vie-ne poi sostenuta finanziariamente dal Consiglio nazionale delle ricer-che. Risorse cospicue vengono destinate ai cosiddetti «progetti finaliz-zati», di ampio respiro e di riconosciuto interesse interdisciplinare, fra iquali attualmente compaiono ricerche sull’invecchiamento della popo-lazione e le sue conseguenze, sull’evoluzione della famiglia, sulle riper-cussioni delle tendenze demografiche sul mercato del lavoro. Inoltre inmedia cinque o sei progetti di ricerca demografica l’anno, per un’am-montare pari a circa il 35-40% della quota del fondi riservata dal Mini-stero a progetti di rilievo, vengono poi finanziati su proposta del Comi-tato per le scienze economiche, sociologiche e statistiche. Anche in questocaso temi quali gli spostamenti di popolazione, la presenza straniera inItalia, le conseguenze socio-economiche dell’evoluzione demografica ri-sultano predominanti. Rilevante è la presenza di ricerche su temi a ca-vallo tra demografia e altre discipline, nonché gli studi di demografiastorica. Non mancano del resto ricerche anche importanti sui temi classicidella fecondità e della mortalità. È da aggiungere che il CNR contribuiscealla ricerca demografica anche in altre forme, sovvenzionando istituzioni,coprendo le spese di congressi e convegni e i costi di stampa di operevarie.

Oltre che nelle sedi universitarie, la ricerca demografica viene con-dotta anche da alcune altre istituzioni, tra cui va innanzitutto menzio-nato il Comitato italiano per lo studio del problemi della popolazione(Cisp), che ha lungamente operato neI campo della ricerca demografica,dando importanti contributi in diversi settori. La sua creazione, nel 1928,fu una ricaduta italiana della costituzione dell’Unione internazionaleper lo studio scientifico della popolazione (Uissp), di cui inizialmentecostituiva una sezione nazionale. E impossibile menzionare tutte le ini-ziative portate avanti dal Cisp nel corso degli anni; fra quelle più lonta-ne neI tempo, si accenna, per la loro originalità, alle spedizioni scientifi-che condotte negli anni 1933-40 per studiare popolazioni demogra-ficamente isolate, presso le quali fosse più agevole trovare verifiche diquelle influenze contemporanee di fattori biologici e sociali sui fenomenidemografici, postulate dall’indirizzo di «demografia integrale» checaratterizza dall’inizio l’attività del Cisp e che conserva tuttora la suavalidità. Merita inoltre di ricordare le varie importanti operazioni di pro-mozione della demografia storica, a partire dalla vasta opera condottaper l’approntamento di repertori delle fonti archivistiche italiane per

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gli studi demografici fino al 1848, alla creazione nel 1970 di un attivoComitato per lo studio della demografia storica, che diede vita autono-ma, sette anni più tardi, alla Società italiana di demografia storica. Trale iniziative che hanno avuto rilievo in anni recenti si segnalano inoltregli studi sulle aree di spopolamento, sulle migrazioni, sulla famiglia esulla condizione femminile nella CEE. Negli anni settanta particolareimportanza ha avuto la promozione di studi, allora all’avanguardia, sul-l’evoluzione della famiglia: è dall’interesse risvegliato da tali iniziativeche ha poi preso le mosse l’innovativa ricerca dell’Istat, sulle famiglie,di cui si parla più avanti. Negli anni ottanta il Cisp ha dato l’avvio allaricerca sulla presenza straniera in Italia, che attualmente coinvolge stu-diosi di numerose università e contribuisce in modo importante alla co-noscenza di un fenomeno di enorme rilevanza sociale e politica, i cuicontorni sono molto sfuggenti. Elenchi completi delle pubblicazioni delCisp sono riportati sulla rivista Genus, edita (dal 1934) dal Comitatosotto il patrocinio del CNR; la rivista ospita lavori sia di demografiapura, sia di indagine sui legami fra fenomeni demografici e aspetti bio-logici e socio-economici delle popolazioni che li esprimono. Genus hagrande diffusione internazionale, in quanto viene gratuitamente distri-buita a tutti i soci dell’Unione internazionale per lo studio scientificodella popolazione (Uissp), insieme ad altre tre prestigiose riviste di de-mografia: la britannica Population Studies, la francese Population e la statunitensePopulation Index. Pur prefiggendosi come funzione principale la diffusionedi studi e ricerche italiani, Genus accoglie anche lavori stranieri in linguainglese o francese. Di fatto la diffusione internazionale della rivista nefa uno spazio molto ambito e la presentazione di lavori di autoristranieri, specialmente di paesi che non dispongono di propri strumenti dicomunicazione scientifica, è molto frequente.

Nel 1981 è stato creato l’Istituto di ricerche sulla popolazione (IRP),organo del CNR con il compito di portare avanti l’indagine demograficasu problemi di particolare rilevanza politica, economica e sociale. Nel-l’ambito della sua attività istituzionale, l’IRP collabora con l’universitàe altri enti di ricerca italiani e stranieri e presta la sua consulenza a entipubblici, organismi e commissioni governative. Dalla sua fondazione,l’Istituto ha svolto un’intensa attività di ricerca e di promozione dellaricerca, spesso privilegiando la dimensione sociale, economica e politicadel fatti demografici, in armonia con i suoi scopi istituzionali. Migra-zioni, invecchiamento della popolazione, mercato del lavoro, previsio-ni, politiche demografiche, sono temi sovente al centro dell’attenzione,senza che siano tuttavia trascurate altre problematiche sia classiche siainnovative. Un importante settore di conoscenze che l’IRP ha esplorato

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mediante una serie di indagini ad hoc riguarda il grado di consapevolezzadegli italiani nei confronti delle tendenze demografiche in atto nel paesenonché gli atteggiamenti dell’opinione pubblica in merito a possibiliazioni di politica demografica, capaci di incidere sugli andamenti dellanuzialità e della fecondità.

Nella sua attività di promozione della ricerca, l’IRP ha creato nu-merose occasioni di incontro e di dibattito, organizzando convegni,seminari, giornate di studio su temi di attualità e di interesse scientifi-co. Tra le numerose pubblicazioni curate dall’IRP ricordiamo i Rappor-ti sulla situazione demografica italiana, al secondo del quali ha contribuitogran parte del demografi italiani, ciascuno per il settore di sua compe-tenza. Tale opera rappresenta una sorta di stato dell’arte della ricercademografica in Italia, oltre che un aggiornato e completo, anche sesintetico, panorama delle tendenze demografiche in atto nel paese(IRP-CNR, 1988). L’IRP ha partecipato — insieme con l’Istat e congruppi di ricercatori di diverse università, fra le quali in primo luogoquelle di Padova, Roma e Firenze — alla seconda inchiesta nazionalesulla fecondità (INF2). La prima si è svolta nel 1979, nel quadro delWorld Fertility Survey, che ha coinvolto una sessantina di paesi delcinque continenti. In Italia l’indagine, portata avanti da studiosi delleUniversità di Padova, Firenze e Roma, coordinati da De Sandre, si èsvolta nel 1992 in parallelo ad analoghe operazioni in diversi paesi eu-ropei e in un quadro di comparabilità internazionale coordinato del-l’Economic Commission for Europe delle Nazioni Unite.

Anche l’Istat ha dato, particolarmente nell’ultimo decennio, impor-tanti contributi alle ricerche di popolazione, andando oltre la consuetaraccolta e pubblicazione del dati che tradizionalmente sono alla basedelle analisi demografiche. Venendo incontro a precise necessità dellaricerca, che tende ad allargare i suoi orizzonti per cercare in più ampiocontesto l’origine del suoi processi evolutivi, l’Istat ha innovato la rac-colta delle informazioni, intraprendendo indagini speciali su temi digrande interesse sociale concernenti aspetti fortemente dinamici e poconoti della vita del paese. Anche in passato l’Istat ricorreva, per particola-ri esigenze conoscitive, allo strumento delle indagini speciali, sia occa-sionali (come le indagini sulla fecondità del 1931 e 1961), sia periodiche,come l’indagine sulle forze di lavoro. Abbiamo così avuto nel 1983l’indagine sulle strutture e sui comportamenti familiari, che per la primavolta ha superato l’ottica della famiglia di diritto per tentare di cogliere icontorni della famiglia di fatto, di individuarne la natura, di accertare lastruttura del rapporti interni fra i membri nonché la rete del legamiinterfamiliari (Istat, 1985; 1986); vi è poi stata l’indagine sulla mortalità

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differenziale, intesa a verificare l’esistenza, anche in Italia, di impor-tanti differenze sociali di mortalità già osservate in altri paesi europei(Istat, 1990), mentre dal 1987 ha preso l’avvio la serie delle Indaginimultiscopo sulle famiglie, che investigano su numerosi aspetti del contestofamiliare (Istat, 1989): alcuni aspetti particolarmente rilevanti vengonostabilmente presi in considerazione (strutture familiari, condizioniabitative, istruzione, attività lavorativa, fonti di reddito, caratteristicheanagrafiche e malattie acute), numerosi altri sono trattati di volta in voltain modo monografico (storia riproduttiva, malattie cronico-degenerative,condizioni dell’infanzia, condizioni degli anziani, alimentazione, uso deltempo, fatti delittuosi subiti, incidenti domestici, sport, molti altri). Daqueste indagini, che sono il frutto della collaborazione, tradizionale inItalia, tra l’Istituto nazionale di rilevazione e l’ambiente della ricercaaccademica, sono venute informazioni di grande importanza perl’approfondimento di particolari fenomeni demografici, oltre che per laricerca sociale in genere. L’Istat ha partecipato, come si è già detto,all’organizzazione della seconda inchiesta nazionale sulla fecondità, nonsolo mettendo a disposizione le competenze del suoi ricercatori, ma an-che assumendo in gran parte i costi dell’operazione.

1.5. Società scientifiche

Non esiste in Italia una società scientifica che, analogamente a quantoavviene sul piano internazionale con l’Uissp, abbia la finalità di promuo-vere e coordinare gli studi e le ricerche in tutto l’ambito consideratodi pertinenza della demografia e che accolga nel suo seno tutti i demo-grafi italiani. La vita associata degli studiosi della disciplina si svolgeperciò essenzialmente in due forme:

a) con la partecipazione alle attività di società scientifiche a più am-pio raggio che accolgono nel loro ambito anche la tematica demografi-ca, come la Società italiana di statistica (SIS) e la Società italiana di eco-nomia, demografia e statistica (Sieds) o di società più specializzate chesi occupano di una sola branca della demografia, come la Società italia-na di demografia storica (Sides);

b) con la partecipazione sul piano internazionale alle attività dell’Uisspe di altre società internazionali, tra cui l’European Association for Popu-lation Studies (Eaps).

La Società italiana di statistica (SIS), nata nel 1939 per volontà diun eminente demografo e statistico, Corrado Gini, accoglie fra i suoimembri la maggior parte del demografi italiani. Nella società (che ha

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un migliaio di associati) convivono, accanto alla metodologia statistica,diversi settori disciplinari accomunati dal ricorso al metodo statistico:innanzitutto la statistica economica, biometrica, sanitaria, sociale e lademografia, che sono i settori tradizionalmente coltivati in Italia nel qua-dro degli studi di statistica applicata; ma anche nuovi settori in via diaffermazione riguardanti la statistica per le scienze fisiche e naturali,per le scienze ambientali, per la tecnologia e la produzione industriale.In questo quadro composito, l’attenzione riservata alla demografia è invia di principio pari a quella destinata alle altre statistiche applicate, inbase alla linea di politica scientifica adottata dalla società, che riconosceuguale interesse a ciascuna componente disciplinare presente al suo in-terno. Questo orientamento si esprime innanzitutto nell’assicurare ugualespazio a ciascun settore disciplinare nelle riunioni scientifiche, che lasocietà tiene con cadenza biennale, mediante un:oculata scelta del temiintorno ai quali strutturare i lavori. In tale prospettiva si può affermareche i principali filoni di ricerca demografica portati avanti in Italia han-no trovato uno spazio in questi ultimi anni all’interno della SIS e cheuna certa attenzione è stata destinata anche alla promozione di temati-che nuove. Negli anni ottanta la presenza di temi demografici in appo-site sessioni delle riunioni scientifiche è stata costante: Problemi di esperienzedi previsioni in campo demografico ed economico-sociale (1982), Componenti socio-ambientali della mortalità differenziale (1984), Determinanti della fecondità: pro-gressi nei criteri di osservazione e di analisi (1986); Sviluppo demografico del paesidel Mediterraneo: conseguenze economiche e sociali e Struttura e ciclo di vita dellafamiglia (1988); Trattamento di dati individuali in demografia. Prospettive dinuova collaborazione fra statistici e demografi e Analisi demografiche per paesi constatistiche carenti (1990). Si può osservare come, in armonia con le preoccu-pazioni scientifiche della SIS, il taglio degli argomenti sia tale da mettere inluce prevalentemente gli aspetti metodologici, oppure quelli interdiscipli-nari. Sul piano del contenuti, si nota l’assenza della problematica relativa al-le migrazioni e alla presenza straniera in Italia, che è pure stata nel pe-riodo in questione occasione di un importante dibattito in sedi esternealla SIS, mentre all’interno non ha trovato eco che grazie alle comunica-zioni spontanee.

Temi demografici sono stati parimenti trattati in altre adunanze dellaSIS (convegni, giornate di studio, tavole rotonde, forum). In questi casisono state per lo più discusse problematiche generali, di cui i sin-golisettori disciplinari presentano particolari sfaccettature che vengonoconsiderate in parallelo. Rientrano in questa categoria i convegni sullaqualità del dati, sull’organizzazione di servizi statistici, sull’informazio-

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ne statistica nei mezzi di comunicazione di massa, sui sistemi urbani,-nonché quello già ricordato sul ruolo delle discipline statistiche nella for-mazione nell’insegnamento pre-universitario. Tematiche demografichesono state infine oggetto del corsi di formazione che da qualche annola SIS affianca alle sue più significative manifestazioni.

Valutazioni più problematiche vanno però espresse se il peso dellademografia nel quadro delle attività della SIS deve essere giudicato inbase al numero globale di contributi a contenuto demografico presenta-ti nelle varie manifestazioni della società, tenendo conto quindi anchedi quelli spontanei. In un lavoro di ricognizione su questi aspetti, pre-parato in occasione del cinquantenario della SIS, N. Federici (1989) sot-tolinea una presenza relativamente scarsa di lavori demografici fra quelliprodotti nell’ambito della SIS nell’intero cinquantennio: i contributi spe-cifici, uniti a quelli in cui la demografia compare come parte di un qua-dro interdisciplinare, rappresentano circa il 14% del totale e comunquenon rispecchiano per intero la portata della ricerca demografica nel paese.

L’esigenza vivamente sentita di una possibilità di espressione con-cernente, senza limitazioni, tutti gli aspetti e i settori delle scienze de-mografiche si era concretata in alcuni tentativi di mettere in funzioneall’interno della SIS una struttura organizzativa esclusivamente e speci-ficamente finalizzata a promuovere gli studi demografici. Tali tentativinon erano però stati finora coronati da successo duraturo. Da alcuni an-ni, tuttavia, opera all’interno della società un Comitato di coordinamentoper la demografia, che ha organizzato alcune interessanti iniziative (tracui un forum sulle ricerche in tema di mortalità differenziale nel maggio1990 e uno sulle interconnessioni fra tendenze demografiche e mercatodel lavoro nel maggio 1991) e per il quale si auspica, dopo un periododi rodaggio delle modalità organizzative, lo svolgimento di un’organicae complessiva attività di promozione scientifica, tenendo conto del piùsperimentati e fruttuosi filoni di ricerca nazionali e degli orientamentiche emergono sulla scena internazionale, secondo l’auspicio espresso daN. Federici (1989).

Altro sodalizio entro cui si organizza la vita associata degli studiosidi demografia è la più piccola Società italiana di economia, demografiae statistica (Sieds). Creata nel 1938 come evoluzione di un Comitatodi consulenza per gli studi della popolazione nato nel 1937 per operadi un altro illustre demografo, Livio Livi, la Sieds è stata fin dall’inizioprevalentemente orientata verso studi applicativi piuttosto che meto-dologici. Organo della società è la quadrimestrale Rivista italiana di eco-nomia, demografia e statistica, fondata nel 1947, che accoglie contributiappartenenti al dominio di tutte le discipline annunciate nel titolo, ma

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tra i quali prevalgono in qualche misura quelli di indole economica. Glisviluppi più recenti dimostrano che la società si assegna come area diintervento soprattutto lo studio interdisciplinare di fenomeni di parti-colare rilievo economico-sociale e politico. Il tema della XXX Riunionescientifica (maggio 1988), che esplorava l’evoluzione della popolazionee l’assetto economico-sociale dell’Italia sino al Duemila, è un indicepalese degli ormai consolidati orientamenti societari.

La Società italiana di demografia storica (Sides) è di creazione piùrecente (1977) delle due precedenti. Coglie i frutti di un’evoluzione di-sciplinare maturata negli anni precedenti anche in virtù dell’opera del giàmenzionato Comitato per lo studio della demografia storica attivo findal 1970 in seno al Cisp. La rapida espansione del suoi associati e laqualità delle iniziative da essa promosse, che hanno dato straordinarioimpulso alle ricerche nel settore, ne fanno una scuola ormai affermata,anche a livello internazionale. Occasioni importanti di dibattito e diapprofondimento di diverse tematiche sono stati rappresentati da unaserie di convegni nazionali (tra cui La ripresa demografica del Settecento,1979; Demografia storica delle città italiane, 1980; La popolazione italiana delsecolo XIX, 1983; La popolazione delle campagne in Italia nel XVII e XVIIIsecolo, 1987) e internazionali, questi ultimi organizzati in collaborazionecon enti e società straniere, e soprattutto con le omologhe societàfrancese e iberica (Funzionamento demografico delle città, 1981; Problemi distoria demografica dell’Italia medievale, 1983; Strutture e rapporti familiari in epocamoderna: esperienze italiane e riferimenti europei, 1983; Infanzia abbandonata esocietà in Europa, 1987; Fonti archivistiche e ricerca demografica, 1990). IlCongresso luso-ispano-italiano di demografia storica (1987), patrocinatodall’Uissp, ha coperto nelle sue cinque sessioni una vasta gamma diproblematiche riguardanti le vicende della popolazione del Mediter-raneo occidentale. La pubblicazione degli atti del convegni ha resodisponibili materiali di grande interesse.

La Sides organizza anche corsi di formazione tecnica e metodologicaper i giovani studiosi che si avvicinano al campo della demografia stori-ca, consentendo loro di stabilire collegamenti con la comunità degli stu-diosi e di avviare o consolidare progetti scientifici. Dal 1984 viene pub-blicato un Bollettino che, oltre a diffondere le notizie sull’attività dellasocietà, ospita articoli, saggi, interventi, nonché sezioni permanenti dibibliografia e repertori di studi e ricerche. La vivace crescita del settore ètestimoniata anche dal numero di pubblicazioni italiane citate nellaBibliographie internationale de démographie bistorique, che dal 1978 componeun quadro abbastanza rappresentativo, anche se non esaustivo, dellaproduzione nel settore.

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1.6. La demografia italiana nel contesto internazionale

Abbiamo menzionato, fra le forme di vita associata del demografiitaliani, la partecipazione all’attività di diverse istituzioni scientificheinternazionali. Esaminare questo aspetto significa, d’altra parte, intro-durre il discorso più generale del ruolo che la demografia italiana rivestesulla scena mondiale. Una ricognizione sintetica ma esauriente delle formedi partecipazione italiana alle attività della comunità internazionale deldemografi nell’ultimo cinquantennio si può trovare in Cagiano de Aze-vedo (1988).

La collaborazione italiana ai lavori dell’Uissp ha radici antiche e pre-stigiose. La costituzione di tale sodalizio fu auspicata in occasione dellavori del primo Congresso mondiale della popolazione (Ginevra, 1927).La fondazione avvenne l’anno successivo grazie all’opera di un comitatopromotore nel quale ebbe larga parte Gini, allora presidente dell’Istitutocentrale di statistica. Il nuovo organismo si prefiggeva lo scopo dipromuovere la conoscenza scientifica sui fattori storici, sociali, econo-mici, culturali influenzanti la struttura e l’evoluzione delle popolazionie i loro reciproci rapporti. Rifondato dopo la guerra a New York conl’attivo contributo di un altro studioso italiano, Livio Livi, l’Uissp svol-ge un’attività cruciale per i demografi di tutto il mondo. Gli studiosiitaliani hanno dato, attraverso gli anni, un contributo di servizio nei suoiorgani direttivi con vari compiti e cariche (Gini, 1928-31, vicepresidente;Livi, 1937-47, vicepresidente; Boldrini, 1947-49, vicepresidente; Livi,1949-50, vicepresidente; Mortara, 1954-57, presidente e in seguito pre-sidente onorario fino al 1969; Colombo 1963-69, vicepresidente; LiviBacci, dal 1973 dapprima segretario generale e tesoriere, poi vicepresi-dente e infine presidente). Anche in seno alle Commissioni e gruppi dilavoro in cui si articolano le attività scientifiche dell’Unione si riscontrauna partecipazione altamente qualificata, anche se numericamente ri-dotta, di demografi italiani. Firenze ha ospitato, nel 1985, la riunionescientifica della società (che si tiene con cadenza quadriennale), rinno-vando il successo di analoga riunione tenutasi a Roma nel 1953. I de-mografi italiani sono in gran parte iscritti all’Uissp; in termini di nume-ro di soci la presenza italiana nell’Unione è cospicua (terza in Europae sesta nel mondo, dopo Stati Uniti, India, Canada, Francia e RegnoUnito).

Indipendentemente dai lavori dell’Unione, l’Italia ha partecipato ein varia misura contribuito a tutti i grandi appuntamenti della demo-grafia internazionale. È stata attivamente presente nelle conferenze mon-

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diali della popolazione organizzate con cadenza decennale dalle NazioniUnite (Roma 1954, Belgrado 1965, Bucarest 1974, Città del Messico1984). Nelle ultime due occasioni una delegazione ufficiale, compostada accademici e guidata da esponenti governativi, ha illustrato le presedi posizione italiane in materia di politica della popolazione. Tra le duemanifestazioni e proprio in base all’esperienza maturata nel corso dellaprima, è stato creato un Comitato nazionale della popolazione pressola Presidenza del Consiglio del ministri, competente in materia di ini-ziative di carattere demografico a livello nazionale e internazionale.

Un apporto significativo e altamente qualificato, anche se espressoda un numero molto limitato di studiosi, è andato nel corso degli annianche a diverse istituzioni internazionali che riservano un’attenzione alleproblematiche demografiche: alla Commissione della popolazione delleNazioni Unite, al Gruppo per la demografia sociale promosso dallo stes-so organismo, al Gruppo per la demografia del Comitato internazionaledi documentazione per le scienze sociali dell’Unesco.

Attiva è la presenza sulla scena europea, che ha visto qualificati eabbastanza numerosi contributi italiani alle Conferenze demograficheeuropee periodicamente promosse dal Consiglio d’Europa e dal Comi-tato europeo della popolazione costituito al suo interno. Altri stimolialla presenza italiana in quest’ambito vengono dalla partecipazione ailavori dell’European Association for Population Studies, di recente crea-zione, che ha due italiani fra i suoi soci fondatori e pubblica l’EuropeanJournal of Population. Un contribuito ragguardevole va inoltre ai lavoridell’Aidelf (Association internationale des démographes de langue fran-gaise), che dal 1988 è presieduta da un italiano.

Tuttavia si può osservare come la presenza italiana, costante a livellielevati e certamente significativa per la qualità scientifica del contributi,non si sia finora manifestata con la presentazione, nelle riunioni scientifichedelle varie società e sulle riviste internazionali, di un numero di lavorianche quantitativamente adeguato alle dimensioni della demografia italiana,che, come abbiamo visto, costituisce una presenza numericamenterilevante all’interno dell’Uissp. Inoltre i contributi italiani risultano ingenere opera di studiosi affermati, mai di giovani ricercatori.Complessivamente la partecipazione italiana resta, com’è sempre stata,essenzialmente legata a iniziative di carattere individuale e alla perso-nalità e agli interessi scientifici di pochi studiosi. Non c’è un coinvolgi-mento corale, organicamente espresso dalla comunità del demografi na-zionali. In particolare, la partecipazione ai lavori dell’Unione sembra co-stituire un’occasione di crescita e di confronto solo in parte sfruttata.

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Le ragioni di questa situazione sono senz’altro molteplici e certamenteun peso rilevante è da attribuirsi alle barriere linguistiche. Tuttavia nonsi può ignorare il fatto che l’attenzione della demografia italiana è stata,dal secondo dopoguerra e fino a tempi recenti, fondamentalmente orien-tata — sia pure con rilevanti eccezioni — su temi di prevalente interessenazionale, mentre sono stati in gran parte trascurati filoni di studio chenel frattempo si venivano imponendo sulla scena internazionale. L’e-sempio forse più clamoroso riguarda la demografia del paesi in via disviluppo che l’Italia, unico fra i paesi dove sono attivi importanti centridi ricerca demografica, ha fino a tempi recenti quasi completamente igno-rato; con la luminosa eccezione dell’opera che Mortara ha svolto finoagli anni sessanta, non peraltro nell’università italiana ma in AmericaLatina, dove l’avevano condotto le vicende politiche, mentre su di essasi esercitava l’attenzione del demografi di tutto il mondo, per quantoriguarda sia gli aspetti sostanziali, sia il profilo metodologico.

L’assenza di un interesse italiano in questo settore, unito alla man-canza di una attività di formazione per, e di cooperazione con, demo-grafi del Terzo Mondo, ha certo avuto effetti deprimenti sulla parteci-pazione italiana al dibattito scientifico internazionale. In questo parti-colare settore di studi si nota però un risveglio di interessi e un fervoredi iniziative che preludono a nuovi sviluppi, anche in connessione conle vicende migratorie del paese e con il rapido incremento della presen-za straniera sul territorio nazionale, che hanno determinato una mag-giore sensibilità per le problematiche in questione. Nel contempo l’at-tenzione scientifica e la cooperazione italiana allo sviluppo registra uncrescente impegno nel campo delle cosiddette «attività di popolazione»,in armonia con il riconoscimento che «la lotta contro la fame e per losviluppo è resa più difficile dalla continua crescita demografica» (risolu-zione parlamentare del 6-4-1982; si veda anche Ministero degli Affariesteri, Dipartimento per la cooperazione allo sviluppo, Nuova disciplinadella cooperazione dell’Italia con i paesi in via di sviluppo (legge n. 49 del26-2-1987). Finora soprattutto volta a sostenere iniziative multilateralidel Fondo delle Nazioni Unite per le attività in materia di popolazione(Fnuap; si tratta prevalentemente del sostegno a programmi dipianificazione familiare o di salute materno-infantile; si veda Maffioli eOrviati, 1987), la cooperazione italiana ha comunque finanziato anche ini-ziative di ricerca e di formazione scientifica in demografia, attuate daistituti universitari in collaborazioni con studiosi e istituzioni di paesiin via di sviluppo. Tali forme di cooperazione potrebbero in futuro espan-dersi, in parallelo alla vieppiù riconosciuta importanza delle dinamichedi popolazione ai fini dello sviluppo.

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Anche in altri settori della ricerca demografica si possono scorgere isintomi del crescente interesse attribuito al sempre maggior coinvolgi-mento nella comunità scientifica internazionale e all’allargamento di oriz-zonti che deriva dall’accesso a un più ampio circuito di idee, informa-zioni, collaborazioni. Centri di ricerca, società scientifiche, istituzioniaccademiche moltiplicano, come si è visto, le occasioni di incontro in-ternazionale, promuovono attività scientifiche con studiosi stranieri, cer-cano le strade di un più fitto interscambio. L’attuale cospicua presenzadi italiani ai massimi livelli di responsabilità delle principali organizza-zioni internazionali del settore è di buon auspicio per lo sviluppo di un’a-zione coordinata di promozione del settore.

1.7. La produzione scientifica

Esprimere un giudizio sull’efficienza del sistema accademico della de-mografia che siamo andati illustrando non è certo un compito agevole,anche perché sarebbe necessario stabilire preventivamente metri di giu-dizio (in termini di soddisfacimento di determinate esigenze? In terminidi rapporto fra finanziamenti e risultati?) e di paragone (con altri paesi? Conaltre discipline?) di non facile individuazione. Nel corso dell’esposizioneprecedente si sono forniti molteplici elementi di valutazione, che silasciano all’apprezzamento del lettore. Qui si vogliono fornire alcuneindicazioni sulla produzione scientifica italiana nel quadro internazio-nale, che possono costituire ulteriori elementi di giudizio.

Non esistono in Italia repertori bibliografici che diano conto in mo-do esaustivo e aggiornato delle pubblicazioni in campo demografico. Ilavori più recenti di tale natura risalgono agli anni settanta (Golini, 1966;Golini e Caselli, 1973). Per una panoramica su questo aspetto è tuttaviapossibile ricorrere all’ausilio del repertori internazionali pubblicati sullarivista Population Index, curata dall’Office of the Population Researchdella Princeton University per conto della Population Association ofAmerica. L’area geografica coperta dalla rivista si estende al mondointero, anche se le citazioni riguardano principalmente lavori redatti inlingue europee. Per quanto riguarda le opere in lingua italiana, le cita-zioni apparse su Population Index, che per il periodo 1985-90 compren-dono poco meno di 300 titoli, non possono certo dirsi esaustive. Resta-no probabilmente escluse dalla recensione pubblicazioni di interesse lo-cale e articoli apparsi in periodici o atti di convegni che trattano temati-che prevalentemente non demografiche. Non sono inoltre segnalati ilavori di demografia che compaiono negli atti delle riunioni della SIS edel convegni della Sides. Tuttavia i repertori di Population Index forni-

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scono un quadro significativo del tipo di studi che vengono condottiin Italia, o perlomeno di quelli che arrivano alla ribalta internazionale.Vale perciò la pena di esaminarli, tenendo conto di qualche distorsio-ne, la più importante delle quali sembra consistere in una sottovaluta-zione della presenza di studi di demografia storica. Per quest’area distudi, un quadro più accurato è fornito dalla Bibliographie internationale dela démographie historique, che si pubblica a partire dal 1978.

In base alle segnalazioni comparse nel periodo 1985-90, la ricercademografica italiana pare prediligere i temi della mortalità, della fecon-dità e delle migrazioni (tab. 6), anche se una parte consistente delle se-gnalazioni sul tema della mortalità riguarda lavori di carattere epidemio-logico piuttosto che demografica. Una certa attenzione sembra esserestata riservata, specialmente nel primo del due trienni in cui si articola

Tabella 6. Lavori di autori italiani citati su Population Index secondo il settore disciplinare.

Lavori italianiSettore disciplinare

1985-87 1988-90* 1985-90

Totalecitaz.

1983**

Totalecitaz

1985***

Totalecitaz.

1990****Studi generali e teorie 4,03 3,91 3,97 2,90 1,80 2,00

Studi regionali 3,36 3,91 3,61 2,90 2,44 3,10Distribuzione spaziale 1,34 4,69 2,89 4,30 4,63 2,50Tendenze e crescita popolazione 0,67 4,69 2,53 7,40 3,60 4,30Caratteristiche e strutture 8,05 4,69 6,50 5,10 3,86 5,50

Mortalità 31,54 26,56 29,24 17,10 19,41 13,60Fecondità 18,79 15,63 17,33 20,70 21,34 25,40Nuzialità e famiglia 2,01 4,69 3,25 8,50 6,43 12,10Migrazioni 17,45 21,88 19,49 13,70 16,45 14,30

Demografia storica 2,01 3,91 2,89 3,90 3,08 0,80

Interrelazioni con l’economia 4,03 1,56 2,89 5,10 6,04 6,10.Interrelazioni non economiche 2,01 1,56 1,81 2,20 4,24 3,60Politiche 2,01 0,78 1,44 3,90 4,37 5,20

Metodi di analisi, modelli 2,68 1,56 2,17 2,30 2,31 1,20

Totale 100,0 100,00 100,00 100,00 100,00 100,00

Fonte: Golini (1984). Per gli studi sui paesi sviluppati Populaion Index, XLIX (1983).Sono stati compresi nella categoria gli autori di nazionalità italiana residenti in Italia,includendo i lavori scritti in collaborazione con stranieri e/o pubblicati all’estero.

* Sono stati considerati solo i primi tre numeri della rivista, che è trimestrale.** Golini (1984). Per gli studi sui paesi sviluppati Population Index, XLIX (1983).

*** Population Index, LI (1985).**** Population Index, LVI (1990).

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l’osservazione, allo studio di caratteristiche strutturali della popolazio-ne. L’arco temporale considerato è troppo ridotto perché si possano di-scernere significative evoluzioni di tendenza; tuttavia non sembra ca-suale l’incremento degli studi classificati sotto la voce «migrazioni», te-nendo presente lo sviluppo della ricerca in questo settore e la corrispon-dente concentrazione di finanziamenti.

Gli orientamenti della ricerca italiana sono abbastanza in linea conquanto avviene sul piano internazionale, dove pure i temi della fecondità,della mortalità e delle migrazioni sono prevalenti negli anni presi inesame (1985-90) e tali risultano anche a precedenti ricognizioni (Golini,1985). Tuttavia non mancano alcune peculiarità nazionali. Innanzitutto,contrariamente a quanto avviene all’estero, in Italia gli studi sulla mortalitàsembrano maggiormente coltivati di quelli sulla fecondità, e ciò corrisponde aquanto osservato circa le ricerche in corso e l’entità del relativifinanziamenti. Agli studi sulla nuzialità e sulla famiglia è stata riservataun’attenzione complessivamente minore che all’estero. La progettataindagine nazionale sulla fecondità — che riguarderà anche la nuzialità ele nuove forme di costituzione delle coppie — dovrebbe comportare unincremento di attenzione per questi aspetti della vita del paese. Alquantotrascurati appaiono nel periodo in questione gli studi sulle inter- relazionitra demografia ed economia o altre discipline e sulle politiche dipopolazione, anche rispetto a un contesto internazionale dove pure tali studioccupano spazi ridotti. Sintomi di una nuova vivacità nel settore risultanoperò dalla crescente attenzione che le ricerche in corso dedicano adaspetti interdisciplinari, anche qualora non li contemplino come oggettoprimo (si veda sopra il paragrafo Possibili sviluppi dell’insegnamento).

2. La demografia negli studi pre-universitari

Prima di chiudere il discorso sulla collocazione accademica della de-mografia si ritiene opportuno gettare un breve sguardo alla presenza —o assenza — della componente demografica nel complessivo iter formativo-scolastico dello studente italiano.

La demografia non costituisce materia d’insegnamento nei corsi distudi pre-universitari: condivide in ciò la condizione di altre disciplinesociali, non accolte nel quadro di programmi scolastici ancora prevalen-temente impostati secondo una concezione esclusivamente umanisticadelle scienze sociali. Non mancherebbero tuttavia gli spazi per la tra-smissione di diverse rilevanti tematiche della popolazione attraverso lestrette connessioni che le legano a discipline — quali storia, geografia,

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scienze biologiche — di tradizionale presenza nella scuola. L’importanzadelle vicende demografiche nel definire le condizioni di sviluppo delle so-cietà umane, la molteplicità delle relazioni fra dinamica della popolazio-ne e territorio, il rapporto dialettico fra uomo e natura non solo consen-tono, ma talvolta richiedono — e i programmi rinnovati delle scuole me-die in qualche caso più o meno esplicitamente Io riconoscono — l’appro-fondimento di specifici apporti conoscitivi della demografia, nelle sue ar-ticolate connessioni con la realtà storica, territoriale, ambientale, biolo-gica. La collocazione della demografia a un crocevia in cui confluisco-no e si saldano i contributi di numerose discipline, appartenenti all’am-bito delle scienze umane e delle scienze naturali, al pari dell’applicazionedel metodo scientifico di indagine del fenomeni garantito anche dallostrumento statistico, conferiscono alla disciplina alte potenzialità edu-cative e formative che andrebbero valorizzate. La forte valenza politica esociale di alcune tematiche demografiche attuali aggiunge motivi per ritenereimportante la presenza della demografia nei quadri interpretativi della realtàstorico-sociale che vengono forniti allo studente italiano.

I limitati spazi esistenti nei programmi di alcuni ordini di scuole nonsono, tuttavia, convenientemente sfruttati. I nuovi, ma ormai consoli-dati, orientamenti disciplinari della storia e della geografia, i program-mi di scienze che sottolineano l’importanza della struttura e della dina-mica della popolazione in relazione alle condizioni dell’ambiente, avreb-bero dovuto promuovere un’assunzione di tematiche demografiche mag-giore e più qualificata di quella riscontrata da un’indagine condotta nel1985 (Lombardo e Maffioli, 1987) sui libri di testo.

La riflessione sul tema dell’insegnamento pre-universitario della de-mografia è stata particolarmente intensa a cavallo fra gli anni settantae ottanta (Federici, 1973; 1975a; 1975b; Pinnelli, 1973; 1979; Lom-bardo e Pinnelli, 1975; Lombardo, 1979a; 1979b; Pinnelli e Sonnino,1981; Lombardo e Maffioli, 1987). In quegli anni era attiva una com-missione scientifica della SIS dedicata a Il ruolo della statistica nella scuoladell’obbligo e nella scuola superiore, che estendeva la riflessione anchealla demografia e aveva organizzato significative occasioni di incontroe di dibattito sull’argomento; né sono mancate in quel periodo occasio-ni di discussione e di confronto in sede internazionale, cui la demografiaitaliana ha dato contributi di rilievo (Federici, 1973; 1975a). Il dibattitoha poi perso di slancio, anche in relazione alla fase di ristagno cheattraversano i lavori per la riforma degli studi secondari. Le passatediscussioni avevano portato, comunque, a una sostanziale convergenzadi opinioni e di posizioni sull’opportunità e le modalità dell’insegnamentopre-universitario della demografia nel quadro della riforma. L’ipotesi di

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un’adeguata presenza nell’area delle scienze storico-sociali è generalmenteritenuta preferibile e più realistica di quella di una poco praticabile in-troduzione indipendente della disciplina, che dovrebbe contendere lospazio alle altre scienze sociali. L’assenza di steccati disciplinari potreb-be rivelarsi vantaggiosa e favorire il miglior dispiegamento del poten-ziale formativo della demografia.

Nell’attesa della riforma, l’opportunità — altamente auspicabile — ditrasmettere contenuti demografici attraverso la trattazione parziale chene possono fare altre discipline richiama un impegno per l’aggiornamentodegli insegnanti e per la produzione di adeguati sussidi didattici; fra lenon numerose iniziative in corso in questa direzione, si ricordano i corsidi aggiornamento per docenti delle scuole secondarie superiori che ilDipartimento di scienze demografiche dell’Università La Sapienza di Ro-ma organizza da alcuni anni, nel quadro delle attività dell’Irrsae. Un grup-po di lavoro che opera per la promozione dell’insegnamento pre-univer-sitario della statistica e della demografia è stato creato all’interno dellaSIS e ha dato luogo fra l’altro alla nascita della rivista Induzioni, cheospita lavori di ricerca didattica.

L’esigenza del riconoscimento del valore formativo della demografianell’ambito dell’educazione scolastica non è del resto che un aspetto dellapiù vasta istanza di aggiornamento culturale dell’opinione pubblica ingenere, come fondamento di un corretto apprezzamento della risonanzasociale del comportamenti demografici individuali e come necessariopresupposto di politiche di popolazione socialmente condivise e demo-craticamente fondate (Sonnino, 1987). La divulgazione scientifica nonè stata molto praticata dai demografi italiani, ma riceve attualmente mag-giore attenzione, sia con un uso più frequente e più accorto del massmedia (Golini, Palomba e Menniti, 1987; Guarna e Pazzano, 1987), siacon la pubblicazione di libri che, pur rispettando esigenze di accuratezzae di qualità scientifica, sono accessibili anche a un pubblico di nonspecialisti e di gradevole lettura (Sonnino, Livi Bacci, Lombardo, Volpi).

3. Conclusioni

L’articolata presenza della demografia a tutti i livelli della formazio-ne universitaria, il numero di cattedre che le sono attribuite e la lororapida crescita negli ultimi anni testimoniano un’affermazione accade-mica che fa riscontro allo sviluppo e al consolidamento della disciplina.La collocazione accademica in vari contesti e livelli formativi prefiguraun insegnamento flessibile, destinato al conseguimento di finalitàmolteplici: alla formazione del demografi, che possono essere orientati

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sia alla ricerca sia alla professione, si affianca, su un altro versante, l’in-tegrazione della demografia in profili formativi esogeni, ai quali essa ap-porta i suoi specifici contributi conoscitivi. L’analisi condotta nelle pa-gine precedenti ha cercato di mettere in luce il modo in cui l’insegna-mento soddisfa queste svariate esigenze. Motivo di soddisfazione è l’e-sistenza, presso alcune sedi universitarie, di corsi di studi che danno lapossibilità di seguire un iter completo di formazione demografica: la ne-cessità di ridefinire i profili formativi imposta dalla rapida evoluzionedisciplinare, su cui si esercita un’attenta riflessione (De Sandre e Santi-ni, 1987), risponde a un’esigenza di risistemazione globale della mate-ria e fa parte di normali processi di aggiustamento. A questo riguardosoccorre del resto, per chi si orienta alla ricerca e alla docenza universi-taria, la flessibile organizzazione del dottorato.

Per quanto concerne gli aspetti professionali della preparazione de-mografica, questi non sembrano essere sempre chiaramente individuatie coerentemente perseguiti. Se la demografia non costituisce la strutturaportante di un corso di laurea, corrispondentemente all’assenza di unafigura professionale specifica, non mancano tuttavia in diversi contestile possibilità di utilizzazione di competenze demografiche di tipo pro-fessionale, analogamente del resto a quanto già avviene in altri paesi, do-ve l’uso di proiezioni e dati demografici è prassi costante in tutte le atti-vità di progettazione per costruire strutture, vendere prodotti, fornireservizi pubblici e privati: «per i demografi sfornati dalle università ameri-cane... l’occupazione in questo settore costituisce uno degli sbocchiprincipali» informa Keyfitz (1987, p. 384), riferendosi agli. Stati Uniti.Un’adeguata valorizzazione delle valenze professionali della demografia,condotta precisandone le finalità e rafforzando i collegamenti con ilmondo del lavoro, darebbe concretezza a quella richiesta, che i demo-grafi sovente avanzano, di maggior considerazione per la variabile de-mografica in vari campi d’azione: dal politico, all’amministrativo, a quel-lo delle attività produttive.

C’è infine da chiedersi se una riflessione adeguata sia stata destinataalla definizione del contenuti dell’insegnamento della demografia nellefacoltà non statistiche quali economia e commercio, scienze politichee altri; in questi casi l’analisi svolta suggerisce l’immagine di una demo-grafia spesso chiusa nella sua autonomia e poco collegata al contesto for-mativo e di ricerca in cui è inserita. A questi corsi di demografia, chesono i più numerosi nell’università italiana, è affidato il compito crucialedi evidenziare il sovente misconosciuto ruolo del fattori demograficinelle varie manifestazioni dell’attività umana. Vale quindi la pena di de-dicarvi un’attenta considerazione.

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Capitolo quartoI metodi

Antonio Santini

1. Uno schema di riferimento

La ripartizione del sistema demografico in sotto-sistemi definiti infunzione della sue varie componenti, introdotta da Livi Bacci nel primocapitolo di questa Guida, costituisce una cornice di riferimento oppor-tuna ed efficace nella prospettiva di definire le grandi linee del processodi maturazione subito nel tempo dalla demografia. L’obiettivo di di-segnare un quadro di sintesi dei grandi progressi e delle profonde trasfor-mazioni registrati sotto il profilo teorico e tecnico dai metodi demogra-fici negli anni, richiede peraltro che la riflessione venga indirizzata sudirettrici di fondo trasversali rispetto alle tradizionali suddivisioni te-matiche della demografia. Legare la disamina degli sviluppi della meto-dologia demografica ai diversi «oggetti» che rientrano nel suo orizzontedi interessi implicherebbe, in effetti, una sua eccessiva frammentazionee il rischio di vederla sostanzialmente trasformarsi in una sterile elenca-zione1.

Per semplificare la trattazione e per meglio comprendere i caratteriessenziali dei metodi della demografia e del processo evolutivo da que-

1 Anche se la demografia si caratterizza, come si dirà più precisamente in seguito, perdei fondamenti di analisi che consentono a tutti i processi da essa studiati di confluire in unquadro unitario, molte tecniche o sottocapitoli dell’analisi stessa sono legati alle specifiche edifferenti entità oggetto di studio. Nessun demografo, ormai, è in grado di dominare nondico tutti i settori in cui si ripartiscono gli studi di popolazione, ma neppure spesso tutti isub-settori. Quand’anche ne fosse capace, gli sarebbe comunque impossibile contenere en-tro dimensioni appropriate tutti i progressi nei metodi e nella modellistica registrati nelladisciplina in un arco temporale sufficientemente ampio da garantire l’apprezzamento delprocesso di maturazione teorica e tecnica che li ha prodotti. Se si guarda ad esempio l’indicedella rivista bibliografica Population Index che trimestralmente aggiorna su quanto in tema dipopolazione si pubblica nel mondo, vediamo che esso si struttura in diciannove settoritematici; limitando l’attenzione ai soli tradizionali grandi capitoli della demografia vediamoanche che il settore dedicato, poniamo, alla mortalità si articola in sette subsettori ciascunodei quali si differenzia dagli altri non solo per l’oggetto (mortalità generale, infantile, perina-tale, tavole di mortalità e così via) ma anche per i metodi pertinenti: lo stesso avviene per isettori fecondità o migrazioni.

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sti subito, anziché procedere per capitoli tematici, è conveniente fareriferimento a una diversa e ancor più elementare schematizzazione:precise coordinate nella ricerca delle direttrici generali di tale processosono di fatto riconoscibili nel rapporto che lega i criteri di analisiall’osservazione dei fatti della popolazione. In tal senso, quelle siconfigurano come caratterizzate da due dimensioni: una riguardante laprospettiva temporale dell’osservazione stessa (tempo) e una attinente alcarattere delle unità di studio all’uopo adottate (osservazione).

Alla base di questo schema — che semplifica ma non nasconde unarealtà assai complessa, le cui implicazioni, niente affatto meccaniche etanto meno ovvie, verranno in seguiti meglio chiarite — sta l’idea che glieventi demografici — nascite, morti, matrimoni, migrazioni — osservatie rilevati nel momento in cui si manifestano (asse trasversale) sono le«variabili risultato» di processi che si manifestano nel tempo lungo il ci-clo vitale (asse longitudinale) delle micro-unità elementari (individui) ocomplesse (famiglie) facenti parte delle macro-unità (coorti) che com-pongono l’aggregato demografico2. Nel contempo, e di conseguenza,lo schema prefigura anche un «logico» o «naturale» sviluppo degli ap-procci osservazionali e di analisi, sottintendendo così la considerazio-

2 Per dare fin da adesso un senso alla contrapposizione trasversale-longitudinale cheverrà meglio chiarita in seguito si può, a titolo di esempio, fare riferimento alle nasciteannuali. I bambini messi al mondo in un anno di calendario provengono dalle donne inetà 15-49 anni compiuti (periodo fecondo), nate pertanto in 35 anni successivi o, come sisuoi dire, appartenenti a 35 generazioni successive. Il totale dei nati dell’anno è, dunque,il risultato della somma di tante esperienze generazionali parziali (35, quante sono le età-generazioni considerate) che sono colte attraversando — e quindi trasversalmente — legenerazioni contemporaneamente osservate nell’anno in questione. E quanto viene dianno in anno fornito dalla statistica ufficiale e specificato nei tabulati Nati per età dellamadre. Una generazione di donne (le donne nate in uno stesso anno) produce invece figlia età successive e quindi in anni di calendario successivi: il totale verrà ricostruitosommando nel tempo — longitudinalmente — le esperienze parziali vissute in età e annisuccessivi fino al termine del periodo fecondo.

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ne di specifiche strategie di ricerca all’intersezione degli elementi delledue dimensioni: macro-trasversale, micro-trasversale, macro-longitudinale,micro-longitudinale. Inoltre, le linee direzionali dello schema non rappre-sentano la mera indicazione di una successione di tappe rnetodologicheche, pur con sovrapposizioni, di fatto si è andata nel tempo consolidando;sono in più l’espressione della graduale, ma netta e ininterrotta tendenzadei demografi ad avvicinare la ricostruzione delle modalità «reali» che ca-ratterizzano nel tempo l’apparizione degli eventi demografici e i con-nessi cambiamenti di struttura demografica, in quanto — come si è ap-pena ricordato — «risultato» di processi di cui sono protagoniste le dif-ferenti unità riconoscibili nella popolazione; sono inoltre un’indicazionedel progressivo passaggio a strategie di ricerca in cui, quanto meno, l’os-servazione e l’analisi del reale sia coerente con tali modalità. Ma questeconsiderazioni quasi si configurano già come risultati cui è bene, invece,pervenire con ordine.

2. Osservazione statistica e metodi demografici

I metodi della demografia sono strettamente dipendenti dal partico-lare sistema di osservare e di rilevare le caratteristiche e i fatti della po-polazione e non se ne può capire la natura, e tanto meno l’evoluzione,senza prima chiarire questa relazione. La puntualizzazione non è con-venzionale: se è vero, infatti, che in tutte le discipline quantitative trafase di «elaborazione metodologica» e fase di «osservazione-rilevazionedei dati» esistono necessariamente legami di dipendenza o interdipen-denza molto stretti, in demografia questo rapporto presenta delle con-notazioni affatto singolari, tali da condizionare profondamente i metodidi analisi e di ricerca.

La demografia ha di fatto una particolarità che non è dato ritrovarein alcun altra scienza, salvo l’economia: l’osservazione dei fenomeni checostituiscono oggetto dei suoi studi le viene garantita — storicamente efino al secondo dopoguerra in maniera pressoché esclusiva — da orga-nismi amministrativi, dagli Istituti nazionali o, comunque, dai servizi uf-ficiali di statistica. Per certi aspetti questa prerogativa, che fino al mo-mento in cui non si sviluppa la teoria dei campioni risponde a uno statodi necessità per le caratteristiche dell’«oggetto» studiato, ha costituito ecostituisce un fatto indubbiamente positivo: la statistica ufficiale ha in-fatti garantito alla demografia un impianto di osservazione di cui nes-sun’altra delle scienze umane (salvo, appunto, l’economia) può bene-ficiare e una conseguente vasta, completa e corrente informazione. Ma iservizi ufficiali di statistica sono stati creati per rispondere innanzitut-

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to alle necessità conoscitive dei poteri pubblici, piuttosto che a preoccupa-zioni di ordine scientifico; e se è vero che lo scopo di garantire una buonaamministrazione non è stato perseguito indipendentemente e neppureseparatamente dal progresso della scienza — in particolare nel nostro pae-se3 —, l’osservazione dei fatti della popolazione ha avuto e ha ancora o-biettivi diversi dallo sviluppo delle conoscenze demografiche.

La necessità di affidare l’osservazione dei fatti della popolazione a unorganismo specializzato lontano dai luoghi in cui si conduce la ricerca e siinsegna ha prodotto effetti pesantemente negativi. Tra demografia e servi-zi ufficiali di statistica si è infatti creato uno stretto legame di dipendenzache, seppure ha contribuito a radicare la disciplina all’osservazione, ha in-dotto per lungo tempo i demografi a elaborare i loro metodi condizionata-mente alla natura dei dati ufficiali e ha soprattutto agito nel senso di favo-rire una ipertrofia dell’osservazione stessa a scapito della riflessione teoricae dell’analisi.

Tutto ciò è evidentemente legato al fatto che per ben amministrarecontano soprattutto le informazioni correnti della contabilità demograficae quelle periodiche sugli stock, per le quali si richiede il massimo di dettaglioe di precisione con riferimento sia al territorio sia ai caratteri strutturalidemo-socio-economici. Ma è alla natura stessa della disciplina demograficache occorre risalire per individuare le ragioni di fondo del suo particolarerapporto con l’osservazione. Si consideri, per ben capire, quanto è accadu-to all’altra scienza che tradizionalmente attinge le sue informazioni dallastessa fonte, l’economia, e insieme il caso di un’altra disciplina che da qual-che tempo mostra interesse per l’osservazione ufficiale, la sociologia.L’economia politica, nel consolidarsi come scienza, ha potuto fare a meno,o quasi, per molto tempo, della parte statistica perché è in grado di offrire— oltre al settore delle teorie — un vasto campo di osservazione, di studi edi ricerche al di fuori della statistica, quello relativo ai meccanismi; analoga-mente la sociologia, i cui progressi sono maturati senza apporto, o quasi, diosservazione statistica. Non poteva essere così per la demografia poiché,per usare le parole di Henry (1969b), non vi sono meccanismi da descriverese non quelli di manifestazione-osservazione: i meccanismi della malattia edella morte competono alla medicina; quelli della riproduzione all’anatomiae alla fissologia; quelli del matrimonio, in quanto costume (rito), allasociologia e all’etnologia. «Al di fuori dell’osservazione statistica, non restadi proprio alla demografia che le dottrine e le teorie di popolazione».

3 In Italia la statistica ufficiale ha sempre visto alla sua guida figure prestigiose di stu-diosi che hanno promosso e sostenuto l’attività scientifica all’interno dei servizi stessi: sipensi a Gioja, a Zuccagni-Orlandini, a Bodio, a Gini.

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3. I metodi nell’osservazione macro-trasversale

In conformità con í compiti e le attività istituzionali dell’organismorilevatore, la raccolta delle informazioni statistiche sulla popolazione ve-niva condotta, secondo l’«osservazione classica», quasi esclusivamenteattraverso due serie di operazioni: i censimenti periodici, che fornisconola consistenza e le strutture demografiche, e la registrazione continua deifatti dello stato civile, da cui provengono i dati sugli eventi (nascite, morti,matrimoni e cosi via) variamente classificati — cui si aggiungono, inparticolari casi, i rilievi anagrafici per quanto riguarda le migrazioni.Peraltro, qualunque osservazione viene eseguita in vista di un’analisi deidati raccolti: dalla nascita dei servizi di statistica fino agli anni cinquantal’analisi trasversale o per periodo è stata pressoché la sola a essere prati-cata. L’oculata combinazione dei dati forniti dalle due fonti, censimento estato civile, è il fondamento stesso dell’analisi trasversale: la misura dellamortalità attraverso la tecnica delle tavole di sopravvivenza del momentoo per contemporanei ne rappresenta il prototipo4.

Senza affrontare qui un puntuale esame critico di questo tipo dianalisi, basterà ricordarne i caratteri distintivi più generali. In primoluogo il privilegio assegnato per lungo tempo alle misure di probabilitào ai tassi a queste assimilabili: questa sorta di état d’esprit probabiliste tra-scende i tradizionali legami tra demografia e calcolo delle probabilità —legami, peraltro, di fatto non molto stretti o, quanto meno, limitati aisuoi risultati più elementari5 — e spinge i demografi a sezionare la

4 Supponiamo il caso di una popolazione ove, in un dato anno (in un dato momento) diosservazione, coesistono circa 100 generazioni, cioè gruppi di persone la cui nascita si scaglionain 100 anni diversi e successivi; durante quell’anno ogni generazione corre un certo rischiodi morte e, combinando in maniera opportuna le statistiche dei decessi provenienti dallostato civile e quelle della popolazione per età provenienti da un censimento o da un suoaggiornamento, si può ordinatamente misurare tali rischi partendo dalla generazione che haun’età compresa tra O anni compiuti e 1 anno - la più giovane -, proseguendo poi con lagenerazione che ha un’età tra 1 e 2 anni e così via fino alla generazione dei centenari.Parlando tecnicamente, per ogni generazione osservata in quell’anno è possibile determinareuna probabilità di morte qx, e le 100 generazioni forniranno la serie q0, q1, q2, q100.

Se si sottopone una «generazione immaginaria» - o, come normalmente si dice, «fittizia»- di 10” neonati alle condizioni di mortalità definite da quelle probabilità, si ottiene una tavoladi sopravvivenza del momento che riassume le «condizioni di mortalità dell’anno».

Emblematico è a questo riguardo il saggio di Perozzo (1883). Va comunque notato che,grazie agli schemi rigorosi del calcolo delle probabilità, i demografi hanno evitato il pesanteerrore - spesso commesso, invece, in altre discipline osservazionali, anche in epoche nontroppo remote - consistente nello studiare soltanto gli «eventi» e a trascurare le popolazionial cui interno quelli si manifestano.

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popolazione alla ricerca di categorie quanto più possibile omogenee, peril fatto di essere caratterizzate da certi attributi comuni (la popolazioneconiugabile per la nuzialità, le donne coniugate per la feconditàlegittima6) e avere, quindi, un rischio meno diversificato di vivere undato evento. La finalità di ricercare «la probabilità di subire un certoevento» è naturale nell’analisi trasversale, dove concetti oggi più fami-liari, quali quelli di «intensità» e «cadenza» di un processo demografico7,non hanno reale significato.

In secondo luogo, l’importanza conferita al problema della sintesidei tassi specifici per età o durata: la preoccupazione di trovare deicorretti indici sintetici che diano misura della dimensione quantitativadei fenomeni al netto delle strutture sembra sostituirsi e gradualmenteprevalere — in particolare nel periodo tra le due guerre, che ha segnatoil culmine dell’analisi trasversale — all’état d’esprit probabiliste: ai tassi«espressione del rischio» si preferiscono tassi che per somma conduca-no a quelli che oggi siamo abituati a chiamare tassi totali8. Ne sono pro-totipo il tasso netto di riproduzione Ro, cui avventatamente, negli annitra le due guerre, furono assegnati poteri previsivi (Ryder, 1949), e ingenere gli indicatori di fecondità: a questo riguardo vanno ricordatil’indice sintetico di fecondità matrimoniale di Gini (1932), che per laprima volta utilizzava dati tutti provenienti dallo stato civile e, man ma-no che le informazioni statistiche divengono più ricche, gli in numere-voli tassi di riproduzione «al netto» di ulteriori fattori (oltre alla mortali-tà, la nuzialità, la parità; si vedano ad esempio Whelpton, 1946; DelChiaro, 1940; de Vergottini, 1960), senza dimenticare l’ampio lavoro diBourgeois-Pichat (1950) sulla fecondità legittima, apparso in uno dei primiCahier dell’Institut national des études démographiques (Ined) — siamo

6 È sufficiente riferirsi a uno qualsiasi dei manuali di demografia in uso fino agli anni cin-quanta, per trovare ancora evidenti tracce di questo modo di pensare (ad es., Boldrini, 1956).

7 Si intende per intensità di un processo demografico (fecondità, nuzialità e così via) ilnumero di eventi (nascite, matrimoni ecc.) vissuto in media dagli individui appartenenti auna generazione (o coorte) effettiva (nati, dunque, nello stesso anno o periodo di tempo).Con il termine di cadenza ci si riferisce invece alle modalità temporali che caratterizzanol’apparizione degli eventi nella storia della generazione, quindi alla loro distribuzione peretà, che normalmente vengono sintetizzate da un indice statistico di posizione (età media,età mediana): i due concetti sono appropriati solo alle generazioni (coorti) reali.

8 Questi indici sintetici trasversali (TFTM, TNTM, R) vengono normalmente inter-pretati come numero medio di eventi per testa – concetto appropriato a una generazione, comeprima si diceva – del periodo, o come intensità del fenomeno in una generazione fittizia –concetto introdotto per ragioni di comodo e, di fatto, assolutamente astratto – dimenti-cando che in realtà si tratta semplicemente di indici (implicitamente) standardizzati conmetodo diretto in riferimento a una popolazione rettangolare e che quindi altro non sonose non il numero di eventi osservati ricondotto a una struttura-tipo.

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già, quindi, in epoca successiva alla seconda guerra mondiale — tuttopervaso dallo sforzo di pervenire a misure di sintesi in funzione delladurata del matrimonio e dell’età al matrimonio.

Infine la ricerca del «fondamentale» nei fenomeni della popolazione:attraverso l’analisi trasversale si è sempre cercato di raggiungere un ap-prezzamento dei comportamenti di fondo estraendoli dalle fluttuazionidell’attualità tendendo, per garantire una maggior solidità a tale apprez-zamento, a suddividere la popolazione seguendo nuovi criteri. Ogni voltadelusi, si è continuato nondimeno a introdurre nuovi fattori con lasperanza di trovare, infine, l’invariante, cioè un indice o una serie di indicipoco variabili nel tempo. Ciò ha condotto logicamente a chiedere sempredi più all’osservazione statistica ufficiale (sia al censimento, sia allo statocivile), rappresentando, in questo senso, un progresso.

Sono questi i caratteri più significativi del modo classico di osservare emisurare per periodi sfruttando le due fonti fondamentali fornite dallastatistica ufficiale; sono questi i connotati che distinguono, appunto,l’approccio macro-trasversale: essi sono peculiari alla tendenza a privilegiarequello che Bourgeois-Pichat (1987) definisce come il lato «egoistico» deifenomeni demografici, tendenza che ha prevalso fino al secondodopoguerra, per la quale la popolazione è intesa come un complesso dielementi autosufficienti che, pur facendo parte di un sistema di ordinesuperiore, tendono ad affermarsi come totalità9.

È in questa prima fase, comunque, che si ritrovano i contributi piùvalidi e originali degli studiosi italiani al metodo demografico. Nel campodegli studi di mortalità, anche se a rigore non si può parlare di apportiinnovativi10, importanti progressi e perfezionamenti nella tecnica dicalcolo delle probabilità di morte e in genere nella costruzione delletavole di sopravvivenza vengono introdotti da Vinci (1925a; 1925b),da Mortara (1914) — cui si devono, tra l’altro, le uniche tavole dimortalità per singole cause di morte11 da Gini (1928), da Gini e Galvani

9 Peraltro, se si guarda dal lato statistica ufficiale, a prima vista il presente non è decisamentedifferente dal passato quanto ai modi e ai mezzi di osservazione: il censimento e le statistiche distato civile costituiscono ancora gli elementi portanti del sistema. E radicalmente mutato, invece,l’approccio dei demografi nell’analisi e nelle strategie conoscitive dei fenomeni della popolazione,che li ha spinti a liberarsi progressivamente dai vincoli dell’osservazione classica.

10 Di carattere propriamente innovativo è il contributo del matematico Cantelli (1914)alla determinazione delle probabilità di eliminazione, di interesse prettamente attuariale.

11 E interessante ricordare come a Mortara (1943 e 1949) si debbano anche i primistudi - condotti durante il suo forzato esilio brasiliano - sulla mortalità di popolazionisprovviste di rilevazioni statistiche correnti di movimento. Per quanto in seguito superatisul piano sia teorico sia tecnico, tali studi costituiscono un esempio significativo diingegnosità e di rigore metodologici.

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(1931), da Galvani (1937). Dello stesso tenore e di analoga importanza so-no i pionieristici sforzi di Mortara (1908; 1909) di costruire, nel campo de-gli studi di nuzialità, delle tavole di sopravvivenza e di variazione dello sta-to civile per celibi e nubili: un tipo di analisi mai ripreso in seguito fino allafine degli anni trenta, quando Somogyi (1937), sfruttando il ricco materialeinformativo che la statistica ufficiale italiana ormai produceva regolarmen-te sotto la guida di Gini, redasse delle tavole di nuzialità, di vedovanza, dieliminazione combinata per morte e matrimonio che, nell’ottica macro-trasversale, rappresentano quanto di più completo e rigoroso si sia prodot-to in merito nel nostro paese. È nel campo degli studi di fecondità, peral-tro, che i demografi italiani danno prova di più brillante inventiva: Mortara(1933; 1934; 1935), Lenti (1935; 1937; 1939), de Vergottini (1937a; 1937b)utilizzano con criteri originali le nuove statistiche dei nati per anno di ma-trimonio dei genitori, o per età della madre, secondo l’ordine di generazio-ne per introdurre uno schema descrittivo — la tavola di fecondità per or-dine di nascita — che ancor oggi viene utilizzato, pur in una differenteprospettiva. Savorgnan (1923; 1924; 1925) sfrutta le genealogie delle ari-stocrazie europee per studiarne sterilità e fecondità matrimoniale, antici-pando una metodologia che poi, perfezionata, prenderà piede tra i demo-grafi storici e troverà una definitiva sistematizzazione nell’opera di Henry(ad esempio: Henry, 1956; Henry e Fleury, 1965). Si è già detto dell’indicedi fecondità matrimoniale di Gini: occorre aggiungere che il metodo da luiintrodotto è stato poi esteso (Henry, 1953) e applicato anche nella misuradi fenomeni diversi dalla fecondità legittima allo studio (trasversale) delladivorzialità (Henry, 1952) o della fecondità generale (Calot„ 1981), ed èoggi universalmente noto come «standardizzazione con il metodo della ca-denza-tipo ». Ma i più rilevanti contributi metodologici di Gini sono quelliche riguardano i problemi della fecondabilità: le sue ricerche in questocampo (Gini, 1924; 1925), condotte sulla base di un metodo ingegnosoche sfrutta le statistiche dei primogeniti classificati secondo il numero deimesi trascorsi dal matrimonio, hanno costituito e costituiscono tuttora unfondamentale punto di riferimento per questa branca degli studi demogra-fici (si vedano, ad esempio, Henry, 1961a; 1961b; Léridon, 1973).

4. Dall’analisi macro-trasversale a quella macro-longitudinale

Negli anni cinquanta si apre una fase di totale ripensamento dei me-todi demografici: da allora la demografia acquista caratteri sempre piùnetti di autonomia liberandosi definitivamente dalla scomoda e ridutti-

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va etichetta di «statistica applicata alla popolazione», attraverso una separa-zione — inizialmente solo teorica — dal modo di osservare della statisticaufficiale. Si fa strada in alcuni demografi, e si diffonde e si consolida poirapidamente, l’idea che l’analisi e la misura dei fenomeni demografici deb-ba adattarsi alle reali modalità di manifestazione dei fatti della popolazione,modalità che non corrispondono o comunque sono indipendenti dai crite-ri con cui gli organismi amministrativi li rilevano. Gli eventi che danno ori-gine al movimento della popolazione altro non sono se non esperienze de-mografiche vissute dalle unità elementari che compongono l’aggregato —gli individui, in prima istanza — nel corso del loro ciclo vitale; di conse-guenza, per comprendere come il movimento, e il risultante mutamento, simanifesti nel tempo della popolazione occorrerebbe ricondursi alle singoleesperienze individuali e osservarne le modalità di sviluppo temporale. Poi-ché, tuttavia, la demografia non si interessa alle vicende individuali ma aquelle collettive, si individua una macro-unità di osservazione e di studio incui siano riprodotte a livello aggregato le caratteristiche reali delle esperien-ze demografiche vissute a livello individuale, e in cui si possano pertantocollocare correttamente nel tempo i fenomeni della popolazione e risalire,successivamente, agli opportuni metodi di misura. A questa macro-unità idemografi assegnano il nome di coorte, definendo, in generale, come talel’insieme di persone che hanno vissuto un certo evento durante uno stessoperiodo di tempo: un anno o, più raramente, un limitato numero di anni.Nasce così l’analisi per coorte o analisi macro-longitudinale che si diffon-derà rapidamente in molte altre scienze sociali e dell’uomo.

In realtà, sul piano fattuale l’approccio macro-longitudinale nellostudio dei fenomeni demografici che, in seguito ai primi studi empiricidi Whelpton (1954) e Hajnal (1947; 1950) e ai successivi sviluppi teoricidi Henry (1959; 1963b; 1966a) e Ryder (1964a; 1965; 1968), si sviluppanel secondo dopoguerra dominando fino alla metà degli anni settanta,non esce dal quadro dei rapporti prima delineati tra demografia estatistica ufficiale. Infatti, sono ancora i dati di movimento raccolti dallostato civile e quelli di popolazione provenienti dai censimenti e dai loroaggiornamenti a costituire gli «ingredienti» dell’analisi. L’osservazioneclassica viene semplicemente adattata sfruttando l’adeguamento delleclassificazioni appositamente predisposto dai servizi di statistica —laddove più facilmente e rapidamente questi sono sensibilizzati allenuove esigenze12 — oppure, più semplicemente ma più grossolanamen-

12 Ci si riferisce in primo luogo all’introduzione della doppia classificazione tempo-rale degli eventi (durata e coorte). In Italia, per gli eventi demografici diversi dai decessi,tale classificazione è stata introdotta solo negli anni ottanta.

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te, modificando i criteri di aggregazione13 o, infine, ricostruendo retro-spettivamente attraverso le indagini abbinate ai censimenti14.

A rigore si deve notare che l’idea di studiare quello che accade in unagenerazione di persone nate nello stesso anno (quindi in una particolarecoorte) risale, in realtà, a epoche molto più lontane. Ma i primi tentativi diapplicazione — per molti aspetti assai approssimativi — forse perché limi-tati allo studio della mortalità, il processo che meno di ogni altro richiede alivello descrittivo l’adozione di un approccio longitudinale15, non provoca-rono alcun rilevante cambiamento negli schemi teorici, nei quadri concet-tuali, nei metodi. Al contrario, questo nuovo approccio rappresenta unfondamentale punto di svolta per il metodo demografico. Pur nella inizia-le, e in fondo riduttiva, semplice prospettiva di sfruttare diversamente l’os-servazione classica per riprodurre a livello macro modalità di manifestazio-ne dei fenomeni coerenti con quanto avviene a livello micro, ci sono giàpalesi segni di evoluzione nei metodi di analisi demografica che si sforzanodi reintrodurre l’aspetto globale dei fenomeni: si utilizzano vari tipi di co-orti, si fa riferimento ai cicli di vita, si affaccia l’idea di una demografia dellafamiglia. Anche nella fase macro, per il fatto stesso di passare da quadridescrittivi «fittizi» a quadri descrittivi «reali», tutti gli sviluppi dell’analisilongitudinale tendono, contrariamente all’ottica dell’analisi trasversale, a in-serire l’individuo in un sistema gerarchico superiore.

Probabilmente proprio favoriti dal fatto che, operando su popola-zioni esaustive, possono dispensarsi dal considerare gran parte dei pro-blemi statistici che diverranno poi prevalenti quando saranno costretti aricorrere alle indagini campionarie, i demografi dedicano inizialmente iloro maggiori sforzi soprattutto a consolidare (qualcuno direbbe: acreare) i fondamenti dell’analisi sfruttando l’osservazione classica. Mu-tano gli obiettivi conoscitivi: alla domanda «qual è la probabilità per uncelibe trentenne di sposarsi tra 30 e 31 anni?» si sostituisce l’altra «qual èla probabilità che un celibe di una data generazione sia ancora tale a 31anni?» e, insieme, «quali modalità temporali caratterizzano il compor-tamento nuziale dei celibi coevi?». Si comprende che gli eventi sono il

13 Un esempio di questo più grossolano adattamento al nuovo modo di condurrel’analisi è rappresentato dalle tavole di fecondità di Livi Bacci e Santini (1969).

14 E il caso, ad esempio, delle indagini sulla fecondità eseguite in Gran Bretagna(Hajnal, 1950). E interessante notare come in nessuna delle indagini censuarie - quindineppure in quelle italiane -, insieme all’età al matrimonio e al numero di figli nati nelmatrimonio, sia mai stata chiesta la data di nascita dei figli, trascurando così un elementoestremamente importante delle biografie demografiche.

15 Gli studi sui problemi di eterogeneità che si vanno conducendo da qualche tempodovrebbero, peraltro, indurre a rivedere molte delle vecchie idee in merito.

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«risultato» di specifiche «propensioni» demografiche ma al lordo degli ef-fetti prodotti da altri rischi cui simultaneamente sono sottoposti gli indivi-dui: conseguentemente, per i vari fenomeni si definiscono misure della di-namica «allo stato puro» individuando il peso dell’interferenza dei feno-meni concorrenti che perturbano le misure tratte dall’osservazione. Sichiariscono e si evidenziano gli effetti selettivi connessi al modo di osser-vare. Nell’ottica della «teoria degli eventi ridotti» (Henry, 1966a; Wunsch,1968) si accerta che la manifestazione dei vari fenomeni, condizionata-mente alla natura degli eventi che li caratterizzano e delle sotto-popola-zioni in cui si producono, possono essere ricondotti a un unico modellodescrittivo e si verifica di seguito che le misure in demografia non sono,per così dire, «neutre» ma indicatori la cui forma statistica è imposta dallemodalità stesse di manifestazione dei fenomeni (Santini, 1974; 1990).

Ponendo così le basi per rigorose analisi longitudinali, si individuanocon precisione i limiti delle tradizionali misure trasversali e si garantisceuna loro conseguente sostanziale rivalutazione. Di fondamentaleimportanza — sebbene forse non sufficientemente meditati, se non ad-dirittura mal compresi, da buona parte della comunità scientifica — sonostati a questo riguardo i modelli (Ryder, 1964b) e le tecniche (Pressat,1969; Ryder, 1980) di traslazione, che non solo hanno favorito la corretta«lettura» degli indici sintetici di periodo in termini di componentiquantitative e temporali delle manifestazioni demografiche delle coorti,ma hanno fornito anche gli strumenti per una determinazione empiricadella distorsione di cui tali indici sono affetti (Santini, 1990).

La possibilità di riconoscere e determinare in quantità e tempo i pa-rametri caratteristici dei processi demografici all’interno di macro-unitàreali, la capacità di traslarne l’evoluzione nelle manifestazioni di periodo,dettero subito ai demografi la sensazione di aver finalmente trovato unasoluzione definitiva e convincente al problema del «fondamentale» e del«transitorio » dei fenomeni della popolazione (Henry, 1966b; Ryder,1964b; 1965). Sul piano descrittivo, in effetti, quella sensazione non erapriva di valide giustificazioni, se si fa riferimento alla classicaschematizzazione delle componenti dinamiche di un fenomeno caratte-ristica dei modelli statistici di scomposizione delle serie storiche — cuievidentemente si deve far ricorso in un contesto osservazionale trasver-sale: il movimento di fondo, la congiuntura, la casualità o, se si prefe-risce, l’evoluzione di lungo, medio e breve periodo, trovano un naturalecorrispettivo, almeno per i processi demografici che hanno una di-mensione quantitativa, rispettivamente nell’intensità finale delle coorti,nei movimenti intercoortici della cadenza, negli adattamenti transitori di

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quest’ultima, componenti che gli schemi traslativi sono in grado di rico-noscere e riprodurre (Ryder, 1980; Martelli, 1989). Ma se si esce dalcontesto meramente descrittivo e ci si trasferisce su quello delle deter-minanti dei fenomeni demografici, le conclusioni sono diverse. Ognimisura di intensità totale (numero di figli per donna, proporzione di co-niugate almeno una volta e così via) in una coorte, che per essere unamisura finale di processo ne rappresenta la tendenza di fatto, è pur semprela sintesi di un comportamento demografico raggiunta attraverso unininterrotto integrarsi di fattori relativi al passato dei soggetti osservati efattori del momento, per i quali rispettivamente la coorte e il periodocostituiscono proxy assai grossolane. Il ruolo giocato da questi due tipi difattori — cui normalmente si aggiunge quello costituito dall’età — sullemanifestazioni demografiche è controverso (Hobcraft et al., 1982) e laconvinzione di una prevalenza dei «fattori di periodo» sui «fattori dicoorte» è parso a taluno un buon motivo per regredire alle analisi di tipotrasversale o, comunque, per mettere in dubbio la preminenza del-l’approccio longitudinale nell’analisi demografica. Condurre l’osserva-zione e l’analisi in prospettiva longitudinale non significa necessariamenteprefigurare una gerarchia nei fattori esplicativi16: se gli eventi demograficisono esperienze biografiche, significa semplicemente rispettarne lenaturali modalità di manifestazione; se gli eventi di un periodo sono lasomma di «risultati» raggiunti in momenti diversi della loro storia dallemacro-unità elementari costituenti l’aggregato demografico, occorrepoterli leggere e interpretare come traslazioni di quelle storie.

Indiscutibilmente questa fase evolutiva del metodo demografico, checulmina (senza peraltro esaurirsi) all’inizio degli anni settanta, è quella incui si raggiungono i risultati in assoluto più rilevanti: l’analisi demograficache, secondo le modalità prima indicate, si sviluppa e si consolidafornendo, finalmente, fondamenti e princìpi generali alla disciplina ècertamente il maggiore — una delle gemme della demografia, è statodetto —, al punto che per qualcuno (Pressat, 1984) garantisce la specifi-cità stessa della disciplina; ma insieme con l’analisi, un’ampia serie dimodellizzazioni e concettualizzazioni di basilare rilevanza metodologicasu vari versanti, dalla nuzialità nel rapporto di dipendenza con il «mercatomatrimoniale» (Akers, 1967; Henry, 1968; 1969a; 1969b; 1972; 1973;Pollard, 1971), alla fecondità — in particolare la fecondità natura-

16 Peraltro, molti sociologi e demografi (Ryder, 1965a) sostengono — o hanno alungo sostenuto — la preminente importanza della coorte come aggregato sociale:Mannheim (1952) sostiene addirittura che la collocazione logica e la rilevanza socialedella coorte sono grosso modo corrispondenti a quelli propri della classe sociale.

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le nelle sue diverse «componenti» di fecondabilità, sterilità e così via(Henry, 1961; 1963; Bourgeois-Pichat, 1965; Bongaarts, 1965; Léridon,1973), sulle orme dei ricordati studi pionieristici di Gini — e alla ripro-duzione (Henry, 1965).

La demografia italiana è in un primo tempo relativamente sorda ainuovi stimoli provenienti d’oltralpe o d’oltremare — salvo pochissime,anche se significative, eccezioni (Colombo, 1953; 1954); soltanto al-cuni tra i ricercatori che iniziano a formarsi negli anni sessanta si avvi-cinano alle nuove idee e i pochi che lo fanno si limitano a fornire contri-buti applicativi (Istituto di statistica dell’Università di Firenze, 1968;Livi Bacci e Santini, 1969; Ciucci, 1971; Santini, 1972; Ventisette, 1973;Natale e Bernassola, 1973) o di sistematizzazione (De Sandre, 1974; San-tini, 1974). Certo questo atteggiamento di «conservazione» — almenosul piano della ricerca empirica — fornisce convincenti giustificazioni nel-l’evoluzione dell’attività degli organismi ufficiali di statistica che si re-gistra nel secondo dopoguerra. La crescita continua e molto rapida deibisogni di informazione di ogni genere sull’attività economica giungedi fatto ad assorbire la maggior parte delle risorse e del personale deiservizi di statistica, provocando una separazione tra i bisogni informatividell’amministrazione e le istanze conoscitive della ricerca demografica.Questo distacco tra demografia e statistica ufficiale si manifesta in tuttoil mondo occidentale, ma nel nostro paese assume nel tempo caratterisempre più evidenti e dimensioni che alla fine degli anni settantasembrano preoccupanti: rispetto a tutti gli altri paesi europei che vanta-no tradizioni quanto a produttori di statistiche, l’aggiornamento dell’An-nuario di statistiche demografiche italiano registra un ritardo notevole e decisamentelimitate sono poi le proposte innovative introdotte, quasi chel’osservazione per informare non dovesse più essere anche informazioneper conoscere. La demografia italiana, che inizia a riaffermarsi superando icontraccolpi dell’uso distorto che di essa aveva fatto il fascismo,privilegia l’analisi applicata individuando come principali obiettiviconoscitivi tematiche peculiari alla realtà italiana e rilevanti sul pianopolitico-sociale — le differenziazioni regionali, i movimenti migratori,l’ancora elevata mortalità infantile, ad esempio — che affronta secondoi tradizionali approcci macro-trasversali, rinnovando peraltro la sua stru-mentazione attraverso l’impiego di tutta le nuove tecniche che la meto-dologia statistica fornisce via via per l’analisi dei dati 17.

17 Non è possibile fornire a riguardo specifiche indicazioni bibliografiche data la vastae significativa letteratura esistente. Per un quadro completo fino al 1972 si veda labibliografia curata da Golini e Caselli (1973).

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5. Ulteriori avanzamenti nella macro-analisi

L’introduzione, la diffusione e il consolidamento dei metodi dell’ana-lisi longitudinale costituiscono peraltro soltanto una parte degli enormiprogressi compiuti dalla demografia negli anni sessanta e settanta, anchese ne rappresentano il capitolo di gran lunga più significativo. Uscendoper un momento dalla logica dello schema inizialmente proposto ed evi-tando così di spingerne troppo oltre la semplificazione, va segnalato in-fatti che è sempre in questo arco di anni che si costruisce gran parte diquel vasto capitolo della demografia — da considerarsi a rigore, e in viadi principio, neutro rispetto alla «contrapposizione» trasversale- longitu-dinale — riguardante i modelli di popolazione, che ha avuto delle impor-tantissime ricadute sui metodi e sugli strumenti di analisi. In primo luogola modellistica post-lotkiana (popolazioni malthusiane, stabili, quasi-sta-bili, instabili; Coale, 1957; Lopez, 1961; Bourgeois-Pichat, 1966; Le Bras,1971; Coale, 1972; Pollard, 1973): la ripresa e l’estensione dei fondamen-tali concetti che stanno alla base del modello di popolazione stabile diLotka trae origine, sul piano teoretico, dall’esigenza di denunciare sial’«illusione» della popolazione stazionaria (che aveva dominato gli annitrenta e quaranta e che è alla base di molte cattive, se non errate, analisi18)sia quella della stazionarietà dei fenomeni demografici e apre la stradaall’introduzione di nuove categorie (ad esempio la nozione di potenziale dicrescita, o di decrescita) e di nuovi princìpi (quello di ergodicità debole, che re-gola le popolazioni instabili, contrapposto a quello di ergodicità forte, propriodelle classiche popolazioni stabili), all’ampliamento dei vecchi concetti (adesempio quello di popolazione malthusiana, che assume connotazioni speci-fiche all’interno di tre differenti famiglie — H, G e F — e delle connessepopolazioni quasi-malthusiane, quasi-stabili e semi-stabili), alla rivalutazionedi concetti da tempo introdotti in differenti contesti (il valore riproduttivodi Fisher, ad esempio). Da un punto di vista pratico, a questa modellisti-ca si fa riferimento per dare rigorose soluzioni ai complessi problemi distima dei caratteri e dei parametri demografici fondamentali delle popo-lazioni dei paesi in via di sviluppo e, più in generale, delle popolazioni conrilevazioni demografiche carenti o parziali: sfruttando appropriatamentele relazioni del modello stabile — una novità assoluta nel campo degli

18 Un esempio classico riguarda i meccanismi dell’invecchiamento della popolazione:prima delle analisi di Coale (1957), ragionando sul modello stazionario si tendeva general-mente ad attribuirne l’origine all’allungamento della vita umana, essendo invece il declinodella natalità il solo responsabile.

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studi storici — Livi Bacci (1968) ricostruisce, ad esempio, la demografiadella Spagna tra i secoli XVIII e XX; un gruppo di ricercatori dell’Univer-sità di Princeton applica sistematicamente quegli schemi per studiare lepopolazioni dell’Africa tropicale (Brass et al., 1968). i nuovi schemi teoricie l’emergere dei gravi problemi demografici dei paesi in via di sviluppofavoriscono in seguito la messa a punto di una ricca strumentazione e ditecniche e metodi appropriati: si predispongono schemi-tipo (di mortali-tà, nuzialità, fecondità, popolazioni stabili; Coale e Demeny, 1966; Leder-mann, 1969; Coale, 1971; Akers, 1965; Nazioni Unite, 1984) — al riguar-do vanno altresì ricordati i contributi di Petrioli (1982) e di Petrioli e Berti(1979) —, si amplia e si perfeziona il settore dei controlli di completezzadelle informazioni e delle stime indirette dei parametri demografici fonda-mentali per popolazioni con statistiche carenti o insufficienti, sulla scia del-le ricerche di W. Brass (1971; 1975); tutte tematiche caratterizzate da fortiinterconnessioni (per un quadro completo si veda Nazioni Unite, 1983) 19.

Peraltro, gli apporti al metodo demografico di questo settore della ri-cerca appaiono in prospettiva ancora più ricchi ed efficaci dopo che Pre-ston e Coale (1982) hanno riformulato in forma generalizzata il modello dipopolazione stabile la cui struttura non è più determinata da un tasso diincremento intrinseco r costante a tutte le età ma da tassi di incrementovariabili a seconda dell’età: questo sviluppo dello schema lotkiano, oltre adavvicinare le situazioni reali alle condizioni del modello, rappresenta unprogresso teoretico che va nello stesso senso del nuovo modo diconcepire la popolazione proprio dell’analisi longitudinale: significa ancheriaffermare che ogni generazione costitutiva dell’aggregato ha una suastoria e che l’analisi di una struttura in cui semplicemente si accostanopersone di età diverse — quindi appartenenti a differenti generazioni —per dedurne la descrizione o la proiezione di un fenomeno legatoall’avanzamento nelle età degli individui, può condurre a degli errori.

6. Da macro- a micro-analisi

Il raggiungimento di un alto grado di chiarezza metodologica, già nelcorso degli anni settanta, stimola la demografia a tentare una «separa-zione» dalla statistica ufficiale. La spinta a indirizzare la ricerca ancheverso un accertamento «autonomo» degli eventi e dei caratteri demo-

19 È importante rilevare il grande impulso che sempre in questi anni riceve la demografiamatematica grazie soprattutto ai nuovi approcci formali che per gran parte della modellisticavengono suggeriti da Lesile (1948), Keyfitz (1968; 1977) e Rogers (1968).

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grafici può essere attribuita – schematizzando al massimo – al bisognodi dare risposte appropriate a tre fondamentali esigenze.

1) L’iniziale compromesso attraverso cui i demografi, come prima si ri-cordava, hanno adattato e talvolta forzato al nuovo contesto l’osservazionecontinua classica degli eventi, assicurata dalle registrazioni di stato civile, ha e-saurito ben presto la sua potenzialità descrittiva, come facilmente si com-prende. Il concetto di popolazione che sta alla base del meccanismo dina-mico caratterizzante l’approccio longitudinale dell’analisi demografica laconfigura non tanto come un insieme di individui, quanto come un insieme dibiografie, di vicende individuali che nel tempo ininterrottamente si formano,si accavallano, si estinguono. Poiché la demografia non studia i comporta-menti individuali ma quelli collettivi, si introduce in funzione di un partico-lare attributo qualitativo (che ha sempre una dimensione temporale) l’unitàdi ordine superiore costituita dalla coorte, in cui si osservano simultanea-mente tutte le biografie che hanno in comune quell’attributo. Ma con l’ag-gregazione degli individui in coorti, si perde ovviamente la possibilità di co-gliere unitariamente la sequenza delle diverse esperienze demografiche cosìcome si manifestano nelle singole biografie: nella coorte, pertanto, ogni ca-tegoria di eventi viene separata dalle altre e definisce un processo di popolazio-ne. Ciò che occorre, peraltro, mantenere anche all’interno dei singoli pro-cessi è il carattere sequenziale della successione di tutte le esperienze demo-grafiche che si risolvono negli eventi, insieme a quelle che ne condizionanol’apparizione: ciò, come ben si comprende, presuppone la possibilità di ac-costare l’uno all’altro gli eventi che riguardano una stessa persona: in altreparole ipotizza che esista una continuità dell’osservazione a livello indivi-duale e non – com’è per le registrazioni di stato civile – solo a livello di po-polazione. Se non c’è continuità nell’osservazione degli individui, divieneimpossibile rilevare l’ultimo di una serie di eventi rinnovabili, ad esempio lamaternità, il trasferimento di residenza, il mutamento di professione, chespesso è di enorme importanza per l’analisi20.

2) L’osservazione classica impone, salvo qualche rara eccezione, chealla misura dei fenomeni demografici si pervenga attraverso un oppor-tuno accostamento delle informazioni provenienti dallo stato civile equelle fornite dai censimenti. L’esperienza ha mostrato chiaramente chespesso è molto difficile e talvolta impossibile ottenere attraverso operazioni di ri-levazione separate numeratori e denominatori comparabili, soprattut-

20 L’importanza di stabilire l’età all’apparizione dell’ultimo di una serie di eventi non rin-novabili nella biografia di una persona è particolarmente evidente nel caso della prolificazionequando si passa da un regime di fecondità naturale a uno di fecondità controllata. Coeteris paribusl’abbassamento dell’età alla nascita dell’ultimo figlio, come ha dimostrato chiaramente Henry(1956), è una palese testimonianza dell’assunzione di una strategia di controllo.

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to quando intervengono dei caratteri qualitativi: l’esempio più classico èquello della professione che non viene mai dichiarata allo stesso mododal censito, dal padre di un bambino, dal parente di un defunto. A ciò siaggiunga l’impossibilità di affrontare in maniera adeguata l’analisi di tuttiquei fenomeni che si manifestano in coorti definite da attributi che ilcensimento non contempla (ad esempio la parità) o riferite a categoriedi popolazione di cui non si riesce ad aggiornare nel tempo l’entità permancanza delle necessarie informazioni di movimento.

3) La struttura e l’evoluzione delle popolazioni umane e delle lorocomponenti sono risultanti di fenomeni complessi che devono impe-gnare l’osservazione e l’analisi di tutte le discipline comportamentali.Diviene sempre più pressante, pertanto, l’esigenza di allargare il campo diosservazione nello studio dei fenomeni della popolazione oltre i confinidelle variabili risultato (nascite, matrimoni e così via) anche a quelle diprocesso, inserendo dunque nell’analisi anche le variabili che per la loronatura influenzano direttamente il risultato, le cosiddette variabili intermedie(Davis e Blake, 1956), nonché quelle motivazionali e di contesto in unacornice di convergenze e intersezioni interdisciplinari sul piano siametodologico sia contenutistico.

7. Dal macro- al macro-trasversale

Non si fa fatica a comprendere che queste tre esigenze possonovenire simultaneamente soddisfatte solamente attraverso un’osserva-zione seguita, intendendo come tale — nell’accezione autentica di Henry— qualunque tipo di osservazione che garantisca nel tempo la continuitàa livello individuale, indipendentemente dal fatto che essa provenga dalseguire il corso degli eventi man mano che si producono o piuttostoderivi da una ricostruzione a posteriori. Sono le istanze espresse alprecedente punto 1) che costituiscono, dunque, il nodo centrale delproblema almeno in una prima fase. Ovviamente la continuità a livelloindividuale potrà essere ottenuta mediante procedure diverse:

— seguendo l’individuo a partire da una certa data, registrando tuttigli eventi che lo riguardano;

— interrogando a una certa data ogni soggetto sulla sua storia passata;— combinando i due criteri, interrogando uno stesso individuo a inter-

valli regolari su quanto è avvenuto nel lasso di tempo intercorso dallaprecedente intervista.

È chiaro che il primo criterio richiede l’impianto di un sistema no-minativo di osservazione permanente che non appare gestibile se non

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da un’istituzione pubblica; oltre a essere particolarmente complesso etecnicamente oneroso, deve garantire il superamento degli spinosi pro-blemi connessi alla segretezza e al rispetto della privacy dei cittadini.Peraltro esso non rappresenta un’ipotesi meramente teorica: già alcunipaesi in Europa organizzano (o sono in grado di organizzare) la rileva-zione dei fatti demografici (e non demografici) sfruttando un numero dicodice individuale e nella provincia canadese della Columbia Britannicaun sistema di questo tipo esiste da oltre trent’anni (le piccole dimensioninumeriche della popolazione sembrano, coeteris paribus, rappresentare unrequisito essenziale a questo riguardo). C’è piuttosto da rilevare la suainadeguatezza a cogliere tutti gli eventi che si può avere interesse ainserire in una biografia, in genere tutti i cambiamenti di status che nonderivano da un’esperienza demografica, se non attraverso accertamentiaggiuntivi periodici di tipo retrospettivo.

Il secondo criterio rimanda alle indagini normalmente indicate comeretrospettive. Come è stato ricordato precedentemente, in margineall’osservazione classica non sono stati rari i casi di inchieste esaustive diquesto tipo condotte, in genere, in concomitanza dei censimenti sullafecondità delle coniugate: tuttavia, fino al dopoguerra, in nessun caso —quindi neppure nelle indagini inglesi — insieme all’età al matrimonio e alnumero di figli nati nel matrimonio, è mai stata chiesta la data di nascitadei figli, trascurando così un elemento di importanza capitale per laricostruzione delle biografie demografiche. In effetti, un’indagineretrospettiva potrà garantire un’osservazione seguita soltanto se collocacon precisione nel tempo gli eventi rilevati. Ciò non è, tuttavia, ancorasufficiente all’analisi longitudinale nella prospettiva in cui ci siamo posti.L’analisi longitudinale richiede, infatti, che venga raccolto un grannumero di dati su ciascuna persona; al limite essa richiede una biografiache sia il più possibile completa. Non è, dunque, pensabile per questomodo di osservare il ricorso a un’inchiesta esaustiva che, in quanto tale,può fornire una gamma di informazioni limitata e, di norma, pesante-mente affetta da errori, essendo pressoché impossibile un controllo di-retto delle risposte21. L’indagine campionaria — senza peraltro escluderealtri tipi di indagine parziale22 — è pertanto lo strumento idoneo allaricostruzione retrospettiva delle biografie.

21 Sono a riguardo esemplari le vicende dell’indagine italiana sulla fecondità della donnaeseguita in occasione del censimento del 1961 e non a caso – indipendentemente dalleristrettezze di bilancio dell’organo rilevatore – dal mondo della ricerca non è più affiorata larichiesta, che fu invece a quell’epoca pressante, per nuove iniziative in quella direzione.

22 Ad esempio l’indagine francese triple biographie condotta nel 1981 sull’insieme degliindividui nati tra il 1911 e il 1935.

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Con il terzo criterio si definiscono, com’è evidente, le folkw-up surveys,in cui normalmente si identificano le indagini seguite e che in lineateorica — prescindendo cioè dalle difficoltà di mantenere sotto osser-vazione il collettivo dell’inchiesta e dai costi relativi — sembra rappre-sentare la soluzione più appropriata a soddisfare le esigenze dell’analisilongitudinale, per motivi facilmente riconoscibili.

Il primo passo che i demografi compiono è, ovviamente, quello diaffidarsi alle indagini campionarie del primo tipo23: ma, come ricordaBourgeois-Pichat (1987), gli inizi non sono incoraggianti. Realizzandoinchieste ambiziose, in cui si stilano biografie quanto più complete de-scrivendo la nascita, l’infanzia, l’entrata nella scuola, gli studi perseguiti, lascelta della professione, il matrimonio, l’arrivo dei figli, le loro malattie, lapartenza dal focolare domestico, la morte del congiunto, la pensione, lemigrazioni e così via, i demografi riescono a organizzare unadocumentazione anche molto particolareggiata per poi accorgersi di nondisporre di metodologie adatte ad analizzare tutti i dati raccolti. Perstudiare longitudinalmente dei campioni, in particolare dei piccolicampioni, si debbono affrontare problemi statistici molto complessi. Seprima, nella fase macro, i demografi potevano svolgere analisi longi-tudinali disinteressandosi — come si accennava all’inizio — ai problemidegli intervalli di fiducia, dei test di ipotesi e di altri criteri di valutazioneperché operavano su popolazioni esaustive, dal momento in cuicominciano a lavorare su inchieste non possono più ignorare i limiti deicampioni e non sanno procedere all’analisi dei dati raccolti accon-tentandosi il più delle volte di analisi sommarie molto deludenti rispettoalle speranze accarezzate durante la fase di raccolta dei dati, dandol’impressione di sforzi sproporzionati ai risultati. Devono così aspettareche nuove tecnologie siano approntate dagli statistici.

La storia della World Fertility Survey (WFS), la grande indagine tra-sversale — con ricostruzione retrospettiva longitudinale delle gravidanze— iniziata su scala mondiale nei primi anni settanta sotto la direzione diS’il. M. Kendall, cui ha partecipato anche un gruppo di ricerca italiano24,è soprattutto la storia del progressivo inserimento nella ricer-

23 Occorre dire che i primi esempi di osservazione seguita si ritrovano in demografiastorica: il metodo di «ricostituzione delle famiglie» introdotto da Henry (1956) si colloca,infatti, in questa prospettiva. Sebbene lo sfruttamento diretto delle fonti primarie, íregistri parrocchiali, e il conseguente accostamento nominativo degli eventi in essiregistrati ai singoli individui sia stato, in certa misura, «imposto» dall’assenza di in-formazioni statistiche «ufficiali», l’esperienza maturata in demografia storica ha avuto unruolo non marginale nell’evoluzione più generale dei metodi della demografia.

24 .1l gruppo era formato da studiosi delle Università di Firenze, Padova e Roma ediretto da De Sandre (1983, a cura di).

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ca demografica di tecniche e metodologie statistiche spesso già intro-dotte e vagliate in altri contesti disciplinari — ad esempio in biologia ein econometria — la storia quindi di un grande e importante arricchi-mento nella strumentazione necessaria per l’analisi dei dati individuali.

Senza entrare nel merito di tali acquisizioni (Coppi e Pinnelli, 1990)si devono, comunque, menzionare, sottolineandone l’importanza per-vasiva nella prospettiva dell’analisi longitudinale dei dati individuali, glisviluppi che in ambito WFS — ma il rilievo si estende in realtà anche airisultati di altre indagini — vengono dati alla event-histoty analysis (Pullum,1984; Keilman, 1985), nelle forme delle tavole di sopravvivenza, deimodelli markoviani e, soprattutto, dei modelli di sopravvivenza convariabili esplicative (hazard models).

Peraltro, non è da condividere l’opinione di chi sostiene, sulla basedell’esperienza WFS, che i più importanti sviluppi del metodo demo-grafico a partire dalla metà degli anni settanta sono derivati, o almenoconnessi, al passaggio da unità di analisi aggregate a unità di analisi in-dividuali (Pullum, 1984; Hobcraft, 1984). I grandi progressi cui ha datoorigine questo passaggio da macro- a micro-osservazione non ri-guardano, infatti, il metodo demografico quanto piuttosto la ricerca demogra-fica, intesa come complesso di strumenti e tecniche, (alcune) acquisizionisostantive e soprattutto come elaborazione di nuovi obiettivi e strategieconoscitivi e intensificazione di interazioni e integrazioni con altrediscipline in una prospettiva che tende sempre di più ad affermare il lato«altruista» della demografia.

8. Dal micro-trasversale al micro-longitudinale

La fase micro-longitudinale — se si prescinde dai risultati delle ricer-che nominative condotte su popolazioni storiche — si configura piùcome una serie di aspirazioni che come un complesso di acquisizioni: sechiare acquisizioni esistono, esse sono tutte in negativo e riguardanol’insufficienza di quanto finora si è fatto o si è tentato per comprendere larealtà demografica.

In effetti, si può a buon diritto dubitare che nell’approccio macro lademografia sia ormai in grado di superare il livello descrittivo o quellodella misura, indipendentemente dalla significatività e dall’utilità deimetodi o dei modelli elaborati. Tutti i demografi ne sono ormai convinti edue tra i più importanti risultati raggiunti dalla macro-analisi negli ultimianni costituiscono comunque un buon esempio. L’estensione dellerelazioni di una popolazione stabile a tutte le popolazioni proposta

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da Preston e Coale (1982) rappresenta, come già detto in precedenza, unodei progressi teoretici più stimolanti e potenzialmente più utili nel campodelle stime demografiche: il fatto di poter ritrovare in una popolazioneconcreta (quindi non stabile), la cui struttura dipenda dalle cumulate deitassi di accrescimento specifici per età, relazioni analoghe a quelle checaratterizzano una stabile con tasso di accrescimento costante, haconsentito a Coale e ad altri di ottenere importanti risultati in vari campi(si veda, ad esempio, Coale e Caselli, 1990). Analogamente, tutta lamodellistica nota come «demografia multidimensionale », sviluppatasiall’interno dellintemational Institute for Applied Systems Analysis (Iiasa)soprattutto a opera di Rogers (1975) — e in particolare quella relativaall’analisi degli stagìng processes (Willekens, 1988) —, pur nei limiti delleipotesi markoviane, ha certamente rilevanti potenzialità analitiche eapplicative (previsioni demografiche); ma nell’un caso e nell’altro non siva al di là dell’ambito della descrizione e della misura. Per contro, se lademografia vuol consolidare la sua autonomia scientifica — si affermavaalcuni anni fa nel convegno in omaggio a N. Federici — deve in qualchemodo uscire dall’ambito descrittivo e impostare la sua metodologia versocontesti e processi causali (De Sandre e Santini, 1987).

Dal canto suo, l’approccio micro-trasversale non ha risposto alle attesesia per l’uso unidirezionale della metodologia (Coppi e Pinnelli, 1990), siaper la «povertà» dello schema generale di riferimento adottato — nel casodella WFS, ad esempio, questo si articolava su una serie di variabili socio-economiche esplicative, sulle variabili intermedie del modello di Bongaarts(1978) e su alcune variabili decisionali — sia soprattutto perché attraversole indagini trasversali non è stato possibile ricostruire la «processualità»dei meccanismi che determinano il comportamento demografico.

Ormai va prevalendo l’idea che ogni variabile demografica, si riferiscaa un singolo evento in un dato istante o sia la cumulata totale o parziale diuna serie di eventi, è la conseguenza di percorsi comportamentali e, nelcaso di eventi che implichino una scelta, decisionali in contesticondizionati (Robinson e Harbison, 1980). In questo senso, ad esempio,la nascita di un bambino va vista — secondo uno schema moltoplausibile (De Sandre, 1986) — come il risultato demografico di un pro-cesso decisionale condizionato (preferenze circa i figli in totale e residui esui modi di regolare le nascite, bilancio costi-benefici e così via) che

a) si forma in funzione delle caratteristiche bio-demografiche dei part-ner e di una serie di fattori di contesto (ambiente; norme e preferenze,risorse e opportunità connesse con il sistema socio economico, i gruppi,la famiglia; la struttura demografica della popolazione) attraverso la me-

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diazione della percezione soggettiva di tali influenze e gli incentivi/disin-centivi fattuali che ne possono modificare gli effetti e

b) agisce attraverso le variabili intermedie (fecondabilità, esposizione efrequenza ai rapporti genitali, copertura anticoncezionale e così via).

Il caso della morte va, ovviamente, impostato in termini diversi: lamorte è un evento inevitabile che non ha una dimensione quantitativa (siverifica o non si verifica) ma solo una dimensione temporale (si verificaprima o dopo nell’arco dell’esistenza). Fatta questa necessaria premessa,anche il decesso va peraltro visto come il risultato, l’ultimo atto, di unastoria di vita durante la quale l’individuo — con il suo patrimonio bio-genetico — passa attraverso situazioni (ambienti) ed esperienze di varianatura che progressivamente lo portano a subire prima la malattia (ol’incidente) e quindi la morte (Santini, 1984). Di conseguenza, un’ipotesi dilavoro sensata potrebbe essere quella di considerare l’età alla morte legataalla specificità di tali situazioni ed esperienze, all’ordine con cuicompaiono nella storia personale e dal tempo trascorso in ognuna di esseda ciascun soggetto (Caselli et al., 1990). E superfluo sottolineare chestrategie di ricerca coerenti con questi schemi concettuali richiedono lasoluzione di molti e difficili problemi connessi con:

a) l’individuazione delle variabili, in termini di ricostruzione deglieventi che formano una carriera e di determinanti, e la necessità di col-locarle esattamente nel tempo, sempre che ciò sia possibile;

b) l’esigenza di tener conto, oltre che dei fattori individuali, anchedei fattori di contesto;

c) la disponibilità di una strumentazione statistica in tal senso ap-propriata;

d) l’integrazione, indispensabile, dell’analisi demografica e della stru-mentazione statistica con le acquisizioni maturate in ambiti disciplinaridifferenti.

Si tratta dunque di problemi relativi al modello teorico, al modellostatistico, alla ricostruzione delle biografie.

Dati gli enormi progressi fatti dalla statistica nella predisposizione dimodelli appropriati d’analisi di dati longitudinali individuali, e visto chealcune ipotesi teoriche, seppur parziali, già esistono, si può a buon dirittoritenere che gli ostacoli maggiori da superare siano ancora quelli relativiall’osservazione. A questo riguardo vale quanto è stato detto in generalenel precedente paragrafo: non conviene entrare ora nel merito dellecaratteristiche tecniche e delle difficoltà pratiche relative ai due tipi diapproccio che sono più praticabili, cioè l’indagine retrospettiva el’indagine prospettiva; basterà sottolineare che la scelta in merito ve-

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de gli specialisti relativamente divisi e che quando si debbano rilevaresolo variabili oggettive molti elementi farebbero propendere versol’inchiesta retrospettiva (Courgeau e Lelièvre, 1989).

Per l’analisi della mortalità la questione presenta, peraltro, caratte-ristiche in parte diverse. Se, com’è ovvio, per questo processo non sipuò pensare a un’osservazione retrospettiva, anche quella prospettivapresenta problemi non indifferenti: o si conduce il follow-up per durateirragionevolmente lunghe o si integra la biografia troncata a sinistra conuna massiccia indagine retrospettiva25; per lo studio della mortalità pro-babilmente non si potranno mai trovare soluzioni pienamente soddisfa-centi. Sono però possibili soluzioni di compromesso in grado di portarecomunque a risultati più significativi di quelli consentiti dall’osservazioneclassica. In primo luogo l’accoppiamento attraverso un linkage nominativodelle osservazioni dello stato civile con i caratteri individuali rilevati aicensimenti: è quanto già da tempo fanno i paesi scandinavi. Per citaresolo un caso, il record linkage della Norvegia — che un gruppo di ricerca italo-belga sta studiando da qualche anno (Caselli et al., 1989) — attualmentecopre l’arco venticinquennale 1961-85 e può anche «incorporare» leinformazioni proveniente dal registro dei tumori. Concepiti e introdottiper rimediare agli inconvenienti, che prima si ricordavano, derivanti dallacombinazione di dati provenienti da fonti di natura diversa, i record linkagespossono utilmente essere sfruttati per definire non intere traiettorie divita ma alcune non marginali «carriere» al loro interno (quellaprofessionale, ad esempio, o quella scolastica) e costruire fife histories comeuna successione di «stati» — ciascuno definito dall’associazione dellemodalità assunte dalle caratteristiche e dalle carriere nei quali un soggettotransita o rimane per periodi più o meno lunghi di tempo. Una secondapossibilità, di gran lunga preferibile, è quella di dar vita a un sistema diregistrazioni correnti e seguite su un gruppo limitato di soggetti: insostanza realizzare non per l’intera popolazione, ma per un suocampione, un’osservazione corrispondente al primo dei tre criteriprefigurati nel precedente paragrafo. Il sistema — che è da tempo inuso in Gran Bretagna e che ha consentito all’Opcs e ai suoi ricercatori diraggiungere importanti risultati nelle analisi di mortalità differenziale — èin grado di tener conto nelle storie individuali solo degli eventi accertabilinell’ambito delle attività dei servizi ufficiali di statistica (Opcs, 1978).

Particolare considerazione merita l’utilizzazione delle storie indivi-duali nello studio della mobilità spaziale, uno dei capitoli della demo-

25Non a caso le poche indagini follow-up condotte finora negli Stati Uniti in tema dimortalità riguardano solo individui appartenenti a particolari fasce di età.

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grafia a un tempo più complessi e più oscuri: al di là del fatto che nessunodei mezzi di rilevazione utilizzati dall’«osservazione classica» è in grado difornire precise e complete misurazioni degli spostamenti della popolazio-ne sul territorio, che è spesso impossibile distinguere tra migrazioni e migran-ti e che, in ogni caso, i dati — o le valutazioni — ottenute sono sempre alnetto di altri eventi demografici «concorrenti», l’obiettivo conoscitivo cuideve tendere l’analisi, più che la misura del semplice fenomeno migratorio,è quello delle interrelazioni tra migrazione e altri fenomeni demografici esociali. La ricostruzione di storie di vita attraverso indagini retrospettive, apassaggio unico o, meglio, a passaggi ripetuti — ma anche attraverso unpanel — è destinata in questo senso a risolvere sia i problemi descrittivi,con la raccolta completa e continua — nel senso prima precisato — di infor-mazioni dello stesso tipo di quelle fornite dai censimenti e dall’anagrafe, siaproblemi esplicativi: conoscendo un certo numero di caratteristiche indivi-duali prima e dopo la migrazione questa potrà essere utilizzata alternativa-mente come variabile indipendente al fine di ricercarne gli effetti sull’evo-luzione della popolazione studiata o come variabile dipendente da porre inrelazione al mutare di quelle caratteristiche. Questi obbiettivi sono di gran-de rilevanza conoscitiva: da una parte l’effetto delle migrazioni sui com-portamenti demografici, economici e sociali di una popolazione; dall’altrail ruolo giocato dagli eventi demografici, economici e sociali che modifica-no la struttura di una popolazione e simultaneamente influiscono sulla suamobilità spaziale. L’inchiesta triple biographie dell’Ined (Courgeau, 1988) èun esempio estremamente significativo delle potenzialità conoscitive, purscontando numerose e rilevanti difficoltà logiche e metodologiche, di que-sto tipo di approccio26.

9. Le biografie a confronto

Le implicazioni per gli sviluppi del metodo demografico derivanti dal-l’analisi delle biografie individuali vanno al di là delle problematiche primadiscusse: esse toccano i fondamenti stessi dell’analisi demografica e in

26 Nei censimenti demografici, più frequentemente a partire da quelli degli anni settanta,vengono un po’ dovunque inserite alcune domande di tipo retrospettivo sui mutamenti diresidenza. Data la natura delle rilevazioni censuarie tali domande sono forzatamente limitate nelnumero e nelle specificità delle informazioni richieste; possono quindi fornire degli elementi diconoscenza molto ridotti. Vi è inoltre una diffusa tendenza da parte delle popolazioni a rifiutareil censimento come mezzo per accertare caratteristiche e fatti ritenuti appartenereesclusivamente alla sfera privata degli individui: non sono stati pochi i casi in Europa dimanifestazioni pubbliche contro il carattere «inquisitorio» dei censimenti.

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questa prospettiva — apparentemente meno ambiziosa poiché si ca-ratterizza per obiettivi essenzialmente descrittivi — possono assumeregrande rilevanza.

In una tavola rotonda sul tema della ricerca in demografia organizzatain occasione della Chaire Quételet 1984 (Loriaux, 1984) qualcuno pose ladomanda: l’analyse démographique au sens strict n’est pas en train de s’essoufler? In effetti ladomanda, pur provocatoria, non era irragionevole: dopo un ventennio diimportanti acquisizioni conoscitive e in virtù della consapevolezza fatico-samente raggiunta sulla complessità dei meccanismi e delle determinantidei processi demografici si può essere di fatto ancora convinti dell’ade-guatezza dell’analisi demografica a fornire una buona e sufficiente de-scrizione delle manifestazioni dei processi stessi? Specificatamente aprovocare queste incertezze sono due punti cardine dell’analisi classica: ilpresupposto di omogeneità della coorte e la necessità di ricercare misure«pure» dei fenomeni.

Come si diceva all’inizio, una popolazione può essere pensata comeun complesso di biografie e ognuno degli eventi demografici che in essasi manifestano come una particolare esperienza tra le tante, demografichee non demografiche, che in sequenza caratterizzano un’esperienza biografi-ca. A livello macro, quando cioè si utilizzano dati aggregati, l’unità di ana-lisi diventa necessariamente la singola esperienza demografica (la morte,la nascita, il matrimonio) e la biografia scompare nella sua interezza per ri-dursi a due (o tre) momenti significativi: quello in cui si manifesta l’e-vento studiato, quello del suo evento-origine e/o quello che segna l’ori-gine della biografia. Questi ultimi due momenti (o almeno uno di essi)servono all’analisi classica per definire la macro unità di studio costi-tuita dalla coorte. Tutto ciò implica:

— che la coorte sia omogenea rispetto al rischio di subire l’eventostudiato: solo in questo caso, infatti, la storia statistica della coorte è lastessa storia statistica degli individui che la compongono. Si sa bene,tuttavia, che questa omogeneità è un’astrazione, una condizione che non sipuò raggiungere neppure tenendo conto di tutte le differenzialità even-tualmente conosciute. Per ridurre l’eterogeneità di una coorte potremmo,infatti, suddividerla in tante sub-coorti ciascuna definita da un differenteattributo differenziale. Questo attributo rimarrebbe, peraltro, comecarattere immodificabile della sub-coorte per tutto il tempo in cui glieventi studiati si manifestano; verrebbe così garantita soltanto un’o-mogeneità all’origine, ma non si terrebbe conto dell’eterogeneità che siproduce in funzione di esperienze diverse vissute nel corso del tempo;

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— che ogni fenomeno venga isolato dagli altri, che sia cioè misu-rato allo stato puro eliminando l’influenza dei fenomeni concorrenti.Tutto ciò è perfettamente legittimo quando il fenomeno perturbatoreè la mortalità che cancella ogni informazione su quello che avrebbepotuto essere il comportamento degli individui se fossero sopravvis-suti. Si può e si deve porre, in questo caso, l’ipotesi di indipendenzatra mortalità e fenomeno studiato. Per gli altri fenomeni perturbatoriquesta ipotesi, necessaria nell’analisi classica, implica una limitazionedelle conoscenze: quei fenomeni agiscono, infatti, sul comportamentodemografico; tra essi e il fenomeno studiato può esistere un’interazio-ne e può essere estremamente importante capirla e misurarla.

Courgeau e Lelièvre (1989) dimostrano, sulla base dell’esperienzadell’inchiesta triple biographie prima ricordata e mediante una rigorosaformalizzazione e generalizzazione dei metodi in essa impiegati, chel’analisi delle biografie individuali ricostruite nella loro complessità ecompletezza secondo i criteri precedentemente indicati consente disuperare ambedue i problemi. Considerandola, infatti, come un pro-cesso stocastico complesso, ciascuna biografia individuale può essereadottata come unità di analisi in luogo dei singoli eventi. Ed è facileintuire, anche per quanto si è esposto in precedenza, che l’analisi dellebiografie così intesa non rappresenta solo un mezzo per cercare dellerisposte a interrogativi rimasti finora aperti ma conduce a riformularele basi della stessa analisi demografica.

10. Conclusioni

Favorita dalla ricordata «dipendenza» dalla statistica ufficiale, masoprattutto dalla cosiddetta «tirannia del quantificabile » e dal fatto chetra le funzioni ad essa assegnate vi è quella di dar conto dei mutamentiquantitativi dell’aggregato prodotti dal ricambio generazionale in ter-mini di componenti naturali e migratorie, la demografia da sempre siè mossa su un piano essenzialmente descrittivo. Con gli sviluppi di nuovimetodi di analisi e di ricerca sorretti da una più rigorosa definizione deimeccanismi di manifestazione dei processi di popolazione, che hannospinto sia verso la raccolta di dati a livello individuale e non solo aggre-gato, sia verso una sistematica integrazione, al di là delle variabili tradi-zionali (demografiche), dei fattori interagenti nei processi di popolazio-ne, non si è soltanto risposto all’esigenza di capovolgere un’ottica «pas-siva» nei confronti dell’osservazione e della descrizione del reale, che

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per troppo tempo aveva limitato la ricerca demografica semplicementea elaborare tabelle di dati censuari e di stato civile già confezionati, for-nendo così la cornice logica e tecnica per la raccolta, il controllo, la ge-stione, l’analisi dei dati utili allo studioso. Si sono piuttosto compiutii primi passi verso l’obiettivo, più volte qui indicato, del superamentodell’ambito descrittivo e della misura, in cui tradizionalmente venivacircoscritto il compito del demografo, in favore di un’impostazione me-todologica più chiaramente e rigorosamente orientata in direzione di con-testi e processi causali. Dunque, il progresso metodologico — le più re-centi tendenze degli studi in tema di popolazioni umane lo indicano chia-ramente — è strettamente connesso, se non dipendente e contestuale,all’arricchimento di aspetti «contenutistici» e all’acquisizione di cono-scenze proprie delle altre scienze dell’uomo con conseguenti indispen-sabili riferimenti sia a schemi concettuali integrati (cioè coerenti con ap-procci interdisciplinari consistenti) sia a teorie entro cui collocare le ipotesidi ricerca.

Nel riconoscere in questo orientamento di ricerca decisive potenzialitàverso la conoscenza del reale e nell’assegnargli quindi, nonostante leenormi difficoltà di interazione, un carattere di priorità per il futurodella demografia, non si intende fare tabula rasa con la «vecchia» tradi-zione: c’è infatti spazio per ulteriori contributi descrittivi ad esem-pio, sfruttando ancora l’osservazione classica, per tracciare nel tempoprofili delle caratteristiche e dei comportamenti generazionali — e mo-dellistici, relativi sia alle componenti, sia ai processi tendenziali, sia asimulazioni su interazioni componenti-strutture e così via, in terminipiù strettamente demografici.

In tal senso è evidente che la maturazione della riflessione e dell’ela-borazione metodologica in demografia è ben lungi dall’essersiconclusa e impone un impegno prioritario della comunità degli studiosidella disciplina. Pur nella consapevolezza che la disponibilità di un ricco eaggiornato bagaglio strumentale non consente da solo di arrivare a capirel’origine dei fenomeni demografici né a offrire persuasive e completelinee interpretative, si deve infatti essere ben consapevoli che nella faseattuale e nelle prospettive della ricerca sempre di più il metodo adegua-to diventa una componente interna al processo di conoscenza demografica..

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Capitolo quinto

Demografia e storia

Carlo A. Corsini

1. I significati

1.1. Demografia e storia

Stando al suo contenuto semantico, per demografia s’intende comunemen-te lo studio della popolazione; in termini più generali e in un’accezione piùcompleta, demografia è la scienza della popolazione. Ma ogni definizione è comeun vestito: è funzione del corpo che racchiude (benché, proverbialmente, l’a-bito non faccia il monaco). Nel caso specifico della demografia la metaforarende bene il senso che essa sottende. In quanto scienza sociale — o, in gene-rale, del sociale — la demografia si riferisce a una popolazione, a un insiemedi persone che vivono o che hanno vissuto o che, poste certe condizioni, vi-vranno in un certo futuro.

Si tratta dunque di individui che sono collocati nel tempo. Un tempoche non è necessariamente l’oggi, perché la demografia non ha per oggetto distudio soltanto le popolazioni contemporanee; non indaga soltanto gli eventiche condizionano oggi una qualunque popolazione — le nascite, i decessi, lemigrazioni, i matrimoni — e allo stesso modo non ne analizza le caratteri-stiche strutturali così come oggi si presentano all’occhio dello studioso, fissatea un momento preciso (come avviene con il censimento). Questo tempo puòben essere il domani, proprio perché, come ogni scienza costruita sul sociale eper padroneggiarne la conoscenza, anche la demografia tende il suo sguardo alfuturo, cercando di prevedere quali saranno gli scenari che saranno raggiuntiin anni a venire. In quest’ottica — del futuribile — si possono collocare tuttigli ormai noti precursori della demografia (in quanto scienza pienamente auto-noma), Graunt e Petty, Keerseboom e Siissmilch, Derham e Halley, War-gentin e i due Huygens, Townsend e Cantillon, Condorcet e Godwin, Mal-thus e Darwin (è chiaro che l’elenco non è esaustivo; recenti trattazioni, moltooriginali e interessanti, si trovano in La Vergata, 1990, e Micheli, 1991).Pur partendo dalla percezione del loro presente, tutti cercarono la «sta-

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bilità» negli eventi umani, qualunque forma questi eventi potessero as-sumere. Tutti mirarono alla ricerca dell’invariabile nella variabilità delmondo: un invariabile la cui conoscenza permettesse di «prevedere» ilfuturo, di regolare gli eventi umani, quale che fosse, in ultima fase, l’Entesovrano dominante sulle sorti dell’umanità. La ricerca del prevedibileè dunque parte (direi) ineliminabile dello studio del presente.

È evidente che questa ricerca pone le sue radici nel passato, intesocome dimensione di eventi vissuti. Un passato che segna con evidenzala «storia;di ciascun essere umano, condizionandolo passo dopo passo.Un passato che non coinvolge però direttamente ciascun essere viventein quanto tale, immediatamente, ma cumulativamente: sul destino delfiglio non intervengono — geneticamente — soltanto i destini dei due ge-nitori, ma anche quelli dei nonni, dei bisnonni e così via all’indietro,generazione per generazione. E appunto in quest’ottica che lo studiodei fenomeni umani — della popolazione, per intendersi, così come lopone la demografia — si intreccia fortemente con lo studio dei fenomeninaturali, ancora una volta alla ricerca della componente «costante» deglieventi umani, tanto quanto si lega strettamente all’indagine sul futuro.Anche a questo riguardo è comune, direi, la posizione di molti deiprecursori ora richiamati con quella di altri studiosi che vennero dopo:ancora da Malthus e Darwin, a Spencer e Wallace, da Bertillon e Qué-telet a Westergaard e Lotka.

È la durata, dunque, che tiene un posto determinante nella storiadella popolazione ed è questa storia che è bene padroneggiare per me-glio conoscere il presente, per analizzare più compiutamente la popola-zione così come si presenta oggi all’osservazione dello studioso nelle suecaratteristiche attuali, in tutto l’intreccio delle sue determinanti. In questoquadro lo strumento per eccellenza di questa ricerca, la statistica, cheall’analisi demografica fornisce appunto l’insieme di norme che ne rego-lano l’attuazione, non è solo un insieme di tecniche, un corpo di osser-vazioni; è diagnostica ed ermeneutica allo stesso tempo. Diventa unascienza alla quale, con l’aiuto del calcolo delle probabilità, si vuol asse-gnare il ruolo di esorcista della conoscenza.

Per quanto concerne la demografia, la durata ha pertanto un signifi-cato ben preciso: coinvolge direttamente ed esplicitamente lo studiosodei fatti umani perché costituisce il riferimento necessario, il senso im-manente, d’ogni indagine sulla popolazione. Non si riferisce soltanto almodo con cui taluni fatti (nascite, decessi, matrimoni, migrazioni, strut-ture) si dispongono nel tempo (lungo l’anno di calendario 1994, oppurenell’intervallo 1764-69, oppure alla mezzanotte del 31 dicembre 1981,tanto per fare qualche esempio), perché questa è la loro condizione d’es-

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sere, il loro farsi sostanza misurabile; ma si riferisce anche al modo concui quei fatti vengono osservati, diventano cioè oggetto di studio.

E questo che rende ineliminabile la comunanza fra demografia e sto-ria. Sia nella ricerca demografica, sia nella ricerca storica, il tempo —inteso come storia umana — si presenta all’osservazione in tre distintiaspetti, in tre dimensioni (si veda Saraceno, 1986, per un approccio piùsociologico); ma si tratta comunque di definizioni, quindi soggettive,disposte solo per comodità di suddivisione, perché sostanzialmente, difatto, non esiste alcuna differenziazione — il tempo è unico, che lo siintenda:

— come tempo vissuto, misurato dall’età biologica, che fa riferimen-to alla durata di vita del singolo individuo, dalla nascita alla morte: ognievento spezza la linearità di questo periodo in tante fasi o cicli, ciascu-no dei quali ha ovviamente connotazioni diverse rispetto agli altri: ilmatrimonio o la migrazione, ad esempio, chiudono una fase di vita ene aprono un’altra ben diversa;

— come tempo storico, che colloca ogni individuo in termini di ap-partenenza a una determinata generazione o coorte; il tempo storico èallora la «lente» con la quale si legge la storia vissuta — in funzione deglieventi che la costellano e che la caratterizzano — di un insieme di indivi-dui: coloro, appunto, che costituiscono una generazione (i nati nell’an-no 1810) o una coorte (tutti coloro che si sono sposati nel corso del 1932,ad esempio);

— come tempo sociale: in un’ottica, cioè, molto più vasta, in cui l’in-dividuo di per sé scompare come specifico e singolo oggetto di studioe cede il posto a una popolazione, comunque essa possa esser definitao delimitata, cioè a un collettivo più aggregato nel quale le caratteristi-che possedute da ciascun individuo assumono rilevanza in quanto rife-ribili all’insieme di tutte le caratteristiche possedute da tutti gli indivi-dui che costituiscono il gruppo, la popolazione, l’universo: proprio il grup-po, la popolazione e l’universo — comunque definibili — costituisconol’oggetto specifico della ricerca in demografia.

Sia il tempo sociale, sia quello storico — ripeto che si tratta di defini-zioni di comodo — colgono l’individuo in seno a un gruppo più o menovasto; ma mentre nell’ottica del tempo storico l’individuo è «osserva-to», ancora in funzione dell’età biologica, come componente di un datosottosistema demografico, o sotto-popolazione, avente caratteristiche dif-ferenziali o selettive (tutti coloro che si sono sposati in un anno di ca-lendario, qualunque sia la loro età al matrimonio, sono seguiti, ad esem-pio, per misurarne la fecondità in base al numero di figli generati nel

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corso della convivenza matrimoniale; i nati in un anno di calendario, adesempio, sono seguiti per misurarne la nuzialità, cioè per studiare le mo-dalità con cui accedono al matrimonio e così via), nell’ottica del temposociale l’individuo è considerato come appartenente a una popolazioneformata da altri individui che non sono selezionati o scelti come oggettodi studio in funzione delle caratteristiche biologiche comuni di età(qualora presenti, le caratteristiche comuni sono ininfluenti per la defi-nizione dell’oggetto di studio). Dal punto di vista della dimensione deltempo sociale, dunque, l’oggetto di studio può essere un’intera popola-zione, quella di una nazione o di un gruppo religioso, di un’etnia, o unaqualunque sotto-popolazione, entità che sono definite in base a criteri dirilevanza soprattutto sociale, com’è la famiglia, ad esempio. In questa ter-za dimensione il criterio di appartenenza è quindi indipendente dall’età(cronologica o biologica) dei singoli componenti, nel senso che tutti co-loro che fanno parte della sotto-popolazione vengono presi in esame.

È quasi banale rilevare che un’ulteriore, ma non diversa, prospetti-va — spostando i termini di riferimento — potrebbe essere assunta collo-cando l’oggetto di studio (l’individuo, la coorte, il gruppo) nel tempocronologico: ecco allora la tripartizione braudeliana del tempo indivi-duale, del tempo congiunturale e della lunga durata1. Gli eventi posso-no dunque essere studiati come fa il cardiologo con le pulsazioni cardia-che: analizza la disposizione dei singoli battiti per coglierne le aritmie,oppure legge per esteso il cardiogramma per individuarne le fasi dei pro-cessi fisiologici e per metterne in evidenza i fenomeni di fondo, quelliinerziali. Ciascuna delle tre dimensioni temporali degli eventi sopra ri-ferite corrisponde evidentemente a una direzione di ricerca che ha con-notazioni specifiche differenziali, perché tutte richiedono materiali distudio e metodi d’analisi diversificati, ma tutte appartengono al territo-rio di studio sia della demografia sia della storia. L’una e l’altra spazia-no dal singolo individuo all’intera popolazione. Perché allora esse segui-tano a mantenere confini separati, paradigmi diversi? La risposta appa-re ovvia: il corpo è sì lo stesso ma diverso è il vestito; e il vestito è ap-punto fornito dai metodi di osservazione che informano di sé l’indagineche l’una e l’altra hanno come scopo — l’uomo e la sua storia — oltreche, beninteso, dalle ipotesi che sottostanno alla ricerca e dagli scopifinali di questa.

1 Molto è stato scritto sulle ripartizione della «durata», dall’apparire degli scritti diBraudel sull’argomento (1949; 1958). Si deve a Braudel l’elaborazione del concetto di «lun-ga durata» e di aver messo in evidenza l’interazione fra una storia quasi inerziale, formatada strutture, i suoi cicli o congiunture e gli eventi individuali.

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Questa centralità dell’uomo fornisce piena giustificazione dei recentisviluppi della demografia in altri campi, si potrebbe dire dell’irruzionedella demografia sul territorio di altre scienze e — se si vuole, da unpunto di vista opposto — della «cattura» degli interessi e dei metodi diindagine specifici della demografia da parte di altre scienze (altre ancherispetto alla storia) come l’antropologia, l’etnografia, l’economia, la so-ciologia e la genetica, per fare qualche riferimento. Si tratta soprattuttodi una crescente comunanza di interessi che vede scomparire progressi-vamente quella rigidità di orizzonti tematici che ha finora cristallizzatoi rapporti fra le diverse scienze che si occupano dell’uomo. E propriola nuova percezione della «storicità» delle vicende umane, nella loro com-plessità e nella loro interazione, che ha reso più facile, per così dire, Iosmantellamento di posizioni disciplinari arroccate. Fare storia è cercaremessaggi e significati occultati sotto la superficie grezza dei fatti umani;investigarli per averne spiegazione. E si tratta di fatti vivi, o che co-munque corrispondono a persone che sono state vive, non semplici in-venzioni della fantasia, senza corpo.

1.2. Il posto della demografia storica

Demografia e storia sono allo stesso modo scienze d’osservazione equindi scienze del concreto: ma le loro ipotesi di lavoro devono comun-que essere verificate e controllate con i fatti. Di per sé l’ottica demogra-fica si oppone alla ristrettezza di una storia meramente évènementielleproprio perché porta il ricercatore a considerare le popolazioni, le socie-tà, nelle loro strutture e nei loro modi d’essere attraverso i fenomeni,gli eventi oggetto d’indagine: appunto le nascite, i decessi, i matrimoni,le migrazioni, che come si è detto costellano la vita individuale e la vitacollettiva a diversi livelli d’importanza — in termini d’ipotesi di ricerca,ovviamente — e a diverse dimensioni temporali. Il senso della storia, ilsenso del cambiamento è strumento d’interpretazione di fondamentaleimportanza ed è la percezione di questo senso che dà l’abitudine all’os-servazione diacronica e alla spiegazione attraverso la successione deglieventi. I fatti delle società del passato possono essere ritrovati a beneficiodella comprensione del presente mediante i procedimenti e i materialipropri della storia: documenti scritti d’ogni natura, vestigia archeologiche,tradizioni orali e cosi via.

In questo consiste il posto che la demografia storica si è costruitaall’interno della demografia. E ben vero che ogni scienza e ogni discipli-na non vive di per sé in un ambiente sterilizzato: ciascuna è tributariadelle altre e, in particolare per quanto concerne la demografia e le altre

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scienze sociali (economia, sociologia, antropologia e così via), nessunapuò sfuggire a questa interdipendenza. Ciò che appare più interessantee per certi versi più importante è che neppure le scienze della naturasfuggono a questa reciprocità: come avviene per la genetica e per la bio-logia, ad esempio, verso le cui tematiche la demografia ha sempre mo-strato attrazione (si ripensi, a grandi linee, all’evoluzione della demo-grafia come disciplina, come si può leggere nel capitolo secondo di que-sto stesso volume) e anzi una crescente attenzione, a fronte della quale,da parte di queste scienze, si segnala un crescente interesse per le meto-diche d’introspezione caratteristiche della demografia. Tutte vedono al-largarsi il campo d’indagine, crescere i problemi e le implicazioni deimetodi d’investigazione. Come d’altra parte è tramite la genetica di po-polazione che può essere realizzata l’unione tra la demografia e le altrescienze dell’uomo, così è tramite la demografia storica che può essererealizzata l’unione tra la demografia e la storia tout-court. Questo nonsignifica che il singolo studioso dei fatti umani — quale che sia la pro-fondità della ricerca che lo coinvolge — debba necessariamente e semprepiù «comprendere» questi fatti al loro massimo: non è infatti immagi-nabile la polivalenza della conoscenza, nel senso che non si può pensarea un singolo studioso (dei fatti umani, in particolare) che sia capace di«dominare» la conoscenza dell’oggetto di studio in tutta la sua esten-sione, che sia cioè in grado di analizzare e interpretare nella loro com-plessità e nella loro compiutezza tutti i fattori che operano su un deter-minato fenomeno demografico.

Tuttavia si può ben legittimare una polivalenza di interessi nella ri-cerca. Anche se, dobbiamo ammetterlo, sul piano dell’epistemologia re-sta aperto il dibattito a proposito della definizione e delle reciprocheposizioni di ciascuna scienza, è pur vero che sempre più, in ogni ricercasul sociale, si fa strada e si rafforza la convinzione della interdisciplina-rietà o — come altri potrebbero definirla — della multidisciplinarietà diapprocci. Tale convinzione tanto più è convincente nel campo delle ri-cerche che coinvolgono la demografia, l’antropologia, la sociologia, l’e-conomia e dunque, a diverso titolo, la storia.

In questo quadro si colloca dunque in modo peculiare il ruolo o, me-glio, la presenza della demografia storica che — proprio perché settore(anche se questo termine non è del tutto soddisfacente) della demogra-fia tout-court — rappresenta l’area disciplinare che meglio si qualificacome strumento di passaggio tra scienze diverse: è l’area disciplinare checon maggior facilità riesce a veicolare istanze di ricerca che (epistemo-logicamente) appartengono a scienze differenziate. Si potrebbe dire che

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la demografia storica è la terra di confine le cui frontiere hanno le difesepiù fragili.

Si guardi al contenuto della disciplina. Anche per effetto della rapidapresa di potere della demografia e della sua conquista di autonomia nelcampo delle scienze dell’uomo, una rapida evoluzione si è prodotta intermini di corposità, o di dimensione, della stessa demografia storica,soprattutto per quanto concerne la distinzione — il chiarimento, sipotrebbe dire — fra storia della popolazione, o storia demografica, e de-mografia storica. La distinzione può apparire banale o meramente di-dattica, ma non è del tutto così. La demografia storica è, sinteticamen-te, lo studio dei fatti umani deI passato: l’occhio indagatore del demo-grafo sposta la sua attenzione dai fatti immediatamente percepibili delcontemporaneo a quelli non più visibili del passato, utilizzando bensìle stesse metodiche d’investigazione. il procedimento di base è lo stes-so: si tratta di una traslazione nel tempo di ipotesi da verificare, di pro-blemi da risolvere. L’oggetto è lo stesso: è una realtà umana da rico-struire nell’articolazione delle sue componenti. Si tratta comunque diun’indagine accorta di problemi e di fenomeni demografici in un contestospecifico, ma, questa volta, collocati all’indietro nel tempo. La demografiastorica pertiene comunque al gremio della demografia e possiede tutte lecertezze (i metodi d’indagine e di misura) e tutte le incertezze (i problemida indagare) di quest’ultima: analizza gli stessi fenomeni, ancorché coltinel passato.

Anche la storia demografica è la ricostruzione del passato di una po-polazione mediante gli stessi elementi (serie di nascite, decessi, matri-moni, strutture e così via), ma tali dati sono utilizzati in via del tuttostrumentale: ci si avvale dei dati di popolazione con finalità semplice-mente descrittive perché l’oggetto di studio è tutt’altro che la «popola-zione» considerata in demografia. Si tratta cioè di indagini storiche nellequali i dati di popolazione sono sfruttati come dati d’appoggio, comedati esogeni, ausiliari di ricerche che hanno per oggetto altri argomenti,non come dati che hanno una specifica valenza di studio. Non si cercanole cause degli eventi storici (guerre, pestilenze e così via) nei fattidemografici, né si cercano gli effetti degli eventi storici sui fenomeni de-mografici. Così, ad esempio, storia demografica è la ricerca dello stori-co della medicina sui dati di popolazione per studiare l’evoluzione diuna data malattia, ma senza misurarne la specifica cadenza e la specificaintensità. La scomparsa (o la prima apparizione) di una nuova malattianon è funzione soltanto del modo con cui essa viene rilevata «statistica-mente», per effetto di un’accresciuta conoscenza dovuta sia al perfezio-namento degli strumenti tecnici di diagnosi, sia al successo del ricerca-

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tore nella «caccia» ai virus patogeni, né soltanto delle mutate condizio-ni igieniche, sanitarie e ambientali nelle quali vive la popolazione in og-getto; ma è funzione anche del modo in cui questa stessa popolazioneha «vissuto» o sperimentato quella malattia nel passato (effetto di ge-nerazione, si potrebbe dire: se si tratta di una malattia immunizzante,come nel caso del vaiolo, normalmente solo le nuove generazioni ne sa-ranno colpite) e del modo in cui, più specificamente, questa popolazio-ne sta vivendo o sperimentando la malattia, in funzione della sua mute-vole o mutata composizione per età e sesso, per condizioni sociali edeconomiche e così via.

Non vorrei risolvere sommariamente la dicotomia fra demografia sto-rica e storia demografica con una banale trasformazione, assegnando ri-spettivamente all’una quello che nell’altra ha il ruolo di sostantivo. Amio avviso, la distinzione fra le due sta semplicemente nel fatto che chiun-que può fare storia demografica; solo il demografo accorto può fare de-mografia storica.

2. I segni

2.1. Il quadro generale

Si è detto che l’evoluzione della demografia storica, almeno in que-st’ultimo scorcio di secolo, coincide con una sorta di specificazione deicontenuti e delle finalità della demografia: più precisamente, si potreb-be dire che la demografia storica riflette le esigenze di specificazione(in termini di esigenze di dati e di misure, come vedremo fra poco) dellademografia. Ebbene, la maggioranza delle ricerche, pur fondamentali,condotte fino agli anni cinquanta di questo secolo, a opera soprattuttodi storici (e che pertanto appartengono, se vogliamo mantenere la di-stinzione sopra fatta, al campo della storia demografica), hanno avutoil merito indiscusso di sollecitare le ricerche sulla popolazione e di apri-re la discussione, che sembrava sopita, sui problemi demografici e sullaloro rilevanza come esplicatori della storia. Si pensi all’opera di Beloch(1888a; 1888b; 1889a; 1889b; 1908; 1909a; 1909b; 1909c; 1909d), chepure tanto ha apportato alla conoscenza della storia della popolazionedell’Italia, in particolare, cosi come tanto ha operato con le sue pubbli-cazioni stimolando i ricercatori a frugare fra le carte sepolte negli archi-vi; certamente, a posteriori, i risultati allora conseguiti possono appari-re di semplice contenuto. Ma ogni autore, ogni ricerca, si colloca in unafase specifica dell’evoluzione della scienza. Così, ad esempio, nel perio-

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do in cui Beloch conduceva ricerche negli archivi di stato in Italia perraccogliere dati statistici sulla popolazione, l’affermazione del metodoquantitativo nello studio dei fenomeni di massa si estendeva alle ricer-che di statistica (nel cui ambito disciplinare, all’epoca, si collocava lademografia) storica proprio perché queste rappresentavano un’applica-zione naturale del metodo sperimentale, allora al centro degli interessidegli studiosi. La conoscenza statistica del passato veniva a corrispon-dere all’esperimento nel quadro delle scienze naturali e soddisfaceva l’e-sigenza di «sperimentazione» anche nelle scienze umane. E nessun altrocampo meglio si prestava a tale applicazione di quello concernente lapopolazione, perché di essa erano facilmente reperibili dati quantitativi,seppure nascosti negli archivi.

E la storia economica che fornisce i primi impulsi agli approfondi-menti – al ‘irruzione, come si è detto prima – della demografia nella storia,prendendo la strada dello studio delle crisi economiche e, più in genera-le, dello studio della produttività e delle sue relazioni con l’aggregatodi consumo: vale a dire, con la popolazione. Il processo di crescente ri-chiesta di dati di popolazione non è dunque, in questa fase, originatonell’ambito della demografia, ma è un fatto esogeno: «per lo storico eco-nomico la demografia è una disciplina ausiliaria molto importante, cherientra per molti versi nell’ambito dei suoi interessi e che gli consentedi studiare alcuni problemi assai più approfonditamente di quanto nongli sarebbe stato possibile con i metodi propri della sua disciplina» (Ku-la, 1972, p. 348). Poiché la demografia si interessa all’uomo e agli ag-gregati umani - la famiglia, i gruppi etnici e sociali - è nello studio diquesti aggregati che la demografia «si ricollega agli interessi della storiaeconomica. Per di più, siccome molti problemi tipici della demografiasi prestano soltanto a indagini di lungo periodo, i demografi stessi sonospesso costretti a studiare intervalli sempre più estesi al passato».

Questa ancillarità della demografia storica, intesa come disciplina deltutto strumentale, è opinione peraltro condivisa ancora oggi da moltistudiosi, anche fra gli stessi demografi, perché comune è l’opinione cheil «passato» è il periodo per il quale non esistono, o sono carenti, infor-mazioni statistiche sulla popolazione. Ancor oggi, fra molti studiosi, de-mografi e non, è diffusa l’opinione che la demografia storica si distin-gua dalla demografia semplicemente per íl fatto che essa spazia indietronel tempo e che si tratti di un settore di ricerca scandagliato, in un pia-no nostalgico-antiquario, da studiosi che «per fuggire dal rumore pre-sente che li stordisce, incapaci di immergersi nel silenzio che c’è in que-sto rumore, si dilettano in echi e in tintinnii di suoni morti» (MiguelDe Unamuno, riportata da Ungari, 1974).

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Il problema delle fonti (come fra poco vedremo) è peculiare della de-mografia storica ed è quello che, ontologicamente, riesce a dare il signi-ficato più preciso del suo divenire come settore specifico — più corretta-mente si potrebbe dire il settore più specialistico, se non ci fosse pericolodi essere mal intesi — della demografia; del suo essere strumento d’in-vestigazione autonomo basato su informazioni quantitative (questa è,ovviamente, una condizione ineliminabile) ricavate da fonti che nel pas-sato — benché sia comunque un passato dai confini molto sfumati — nonsono state create con lo scopo preciso di studiare la popolazione (Hol-lingsworth, 1969; Van de Walle e Kantrow, 1974; Imhof, 1981).

La demografia storica utilizza dunque fonti di dati, cioè documentidi qualunque natura, che possono anche non avere preliminarmente al-cuna specifica valenza demografica, nel senso oggi comunemente asse-gnato ai dati della demografia. Lo scopo resta quello (immanente) dellademografia: ricostruire le vicende storiche di una data popolazione, odi un gruppo demografico comunque individuato, colte nella dinamicadegli eventi (i flussi: nascite, decessi, matrimoni, migrazioni) e delle strut-ture (AA.VV., 1968; Drake, 1974; Willigan e Lynch, 1982). Così con-cepita, la demografia storica si pone come la congiunzione (naturale) fraricerca storica e ricerca demografica: in questo senso è il contatto conla storia che ha contaminato la demografia creando una trasformazione(un allargamento) dei suoi confini tematici.

Peraltro è a partire da una generazione di studiosi, appunto quellache operava nel corso degli anni cinquanta, e da questa con crescenteintensità trasmesso alle generazioni successive, che si è assistito a un au-mento d’interesse verso i fatti demografici, da più fronti disciplinari;non solo dalla storia in generale, e dalla storia economica e sociale inparticolare, ma anche dall’antropologia, dalla genetica e dalla biologia2.Questa irruzione della demografia nella storia ha contribuito indubbia-mente ad allargare le idee stesse della ricerca demografica, se non altroperché ogni società, ogni cultura, ha una sua eredità demografica. Masi badi bene: questa irruzione non si giustifica banalmente e soltantocome il risultato dell’esigenza di trovare nuovi dati di documentazione

2 L’evoluzione naturale della popolazione, la sua riproduzione, implica ovviamentel’azione di fenomeni biologici: nascita, maturazione e senescenza, morte. E anche perquesto che la demografia è stata considerata scienza biologica, strettamente legata allabiometria e all’antropologia fisica. Sarebbero veramente da tenere a portata di mano, perla loro importanza, i contributi di Lotka (1937; 1939); ma, del resto, è sufficiente rifletteresul titolo della sua opera più importante - e che tanto ha condizionato l’evoluzione dellametodologia demografica -, la Théorie analytique des associations biologiques: I Principes; ILAnalyse démographique avec application particulière à l’espèce humaine.

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sul passato di una popolazione, bensì come rivendicazione tutta genera-le, come una specie di diritto a fare storia, a calarsi nel passato, pur coni problemi e le metodiche specifiche della disciplina.

Il processo che ha portato all’attuale fisionomia della demografia stori-ca non è stato né breve, né lineare, ma anzi piuttosto tumultuoso, apartire dalla fine degli anni cinquanta. Anche se è improprio — nell’evolu-zione delle scienze sociali — cercare di rintracciare l’origine (o gli origina-tori) di un nuovo metodo d’indagine, di un paradigma innovatore, èormai comunemente condiviso che l’attuale fase della demografia storicaha una sua data di nascita, il 1956, anno in cui Fleury e Henry (non a ca-so un archivista e un demografo) pubblicarono un Manuel de dépouillement etd’exploitation de l’état civil ancien con il quale spiegavano, con taglio didattico maprofondamente innovatore, come fosse possibile fare storia della popola-zione (non meravigli che allora si parlasse di storia della popolazione enon ancora di demografia storica) partendo dai registri parrocchiali e dallostato civile (vedremo, tra poco, qual è la differenza fra le due fonti). E nonfu certo un caso che questo manuale fosse tenuto a battesimo dall’Institutnational d’études démographiques (Ined), un organismo statale nato nel1945 per guidare e coordinare la ricerca demografica in Francia in ogni set-tore e, a partire appunto &l 1956, anche in quello storico, mediante la costi-tuzione di una sezione (unité de recherche, come venne denominata) di demo-grafia storica che venne trasformata, a partire dal 1979 (quando all’Inedvenne dato un nuovo assetto organizzativo), in Département de démo-grahie historique et médicale. Due considerazioni avevano dettato la pub-blicazione di questo manuale:

1) l’esistenza e l’abbondanza di documenti di base necessari per lostudio della popolazione in tutta la Francia continentale alla ricerca del-le radici e delle motivazioni di quella che sembrava una peculiarità dellaFrancia: l’anticipato — rispetto ad altri paesi — avvio del controllo dellafecondità e del declino delle nascite iniziato a partire grosso modo nel-l’ultimo quarto del secolo XVIII, in concomitanza (così appariva) conla Rivoluzione;

2) la necessità di dare il via a una ricerca che prendesse la strada nondella mera rilevazione aggregativa — mediante semplice conta di nasci-te, decessi, matrimoni nel tempo — ma della ricostituzione delle fami-glie, l’unico (a quel tempo) strumento che potesse fornire le informazio-ni di base necessarie per analisi approfondite delle caratteristiche e dellecondizioni demografiche che avevano determinato quella che, con unametafora ripresa dagli eventi politici contemporanei, venne definita ap-punto «rivoluzione demografica».

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Peraltro, Henry (1953), già con un articolo pubblicato sulla rivistaPopulation (edita dallo stesso Ined), aveva richiamato l’attenzione deglistudiosi sull’esistenza di questa ricca documentazione, sottolineandonel’importanza ai fini della conoscenza della demografia del passato; inseguito, in collaborazione con Fleury (Fleury e Henry, 1956) e con Bi-raben (Biraben, Fleury e Henry, 1960), venne impostando un program-ma d’indagine nazionale coordinato appunto dall’Ined. Ancora Henry(1956) aveva ricostruito la storia delle Anciennes familles genevoises fra i se-coli XVI e XIX, mentre due anni dopo comparve quello che da alloracostituisce per la demografia storica un contributo d’indiscutibile im-portanza e un riferimento ormai divenuto canonico, dedicato a La po-pulation de Crulai, paroisse normande (Gautier e Henry, 1958), nel quale sisperimentavano i nuovi metodi d’analisi demografica — o meglio, sicalavano in una realtà del passato metodi d’indagine che solo tecnica-mente erano da considerarsi nuovi: lo spirito che li dettava era ben vec-chio — centrati sulla ricostituzione delle genealogie familiari.

Ma questa esigenza, questo desiderio innovatore di comprenderepiù compiutamente una realtà — anche se del passato — non era diunica spettanza di demografi di professione e non si originava soltantoin un ambiente comunque legato a tematiche demografiche, come l’Ined,o nel quale si agitavano idee e problematiche concernenti la popolazionee i suoi destini. In un orizzonte molto più vasto una nuova storia stavanegli stessi anni facendosi strada: una nuova concezione di fare storia icui autori furono Febvre e Bloch e il nutrito gruppo che operava intor-no a Les Annaks. Una nuova concezione che era, in sostanza, di naturametodologica. La (nuova) storia deve far uso di tutto ciò che reca l’im-pronta dell’uomo: lingua, forme del paesaggio, tecniche di coltivazio-ne, segni d’ogni genere — etnologici, antropologici e così via — apren-dosi senza riserve ai metodi e ai risultati di altre discipline, esaltando ilvalore della ricerca specialistica purché questa non si esaurisca in sestessa ma metta in luce nuovi compiti e nuove vie di approccio allastoria nel suo insieme. Lo storico non può semplicemente accumularefatti: egli stesso deve «creare» l’oggetto del suo studio. Come scrivevaacutamente Bloch (1969, p. 41), «la storia vuoi cogliere gli uomini al dilà delle forme sensibili del paesaggio, degli arnesi o delle macchine, de-gli scritti in apparenza più freddi e delle istituzioni in apparenza piùcompletamente staccate da coloro che le hanno create. Chi non vi rie-sce non sarà, nel migliore dei casi, che un manovale dell’erudizione. Ilbuon storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, làsa che è la sua preda».

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Si trattava, in definitiva, dì una riaffermazione del carattere scienti-fico della ricerca storiografica. Una riaffermazione la cui paternità, co-m’è ovvio nel vasto orizzonte delle scienze, è di tanti. Ho ricordato lacosiddetta scuola francese perché è quella che, tutto sommato, ha datoil maggior impulso alla riqualificazione scientifica della disciplina, con piùforte insistenza (forse, con maggiore evidenza); non si deve peraltrodimenticare che anche da altri paesi le stesse esigenze e le stesse espe-rienze venivano manifestate pressoché contemporaneamente, anche secon minor enfasi, come, ad esempio, in Inghilterra (si vedano Glass eEversley, 1965). Tale orientamento ebbe un impatto clamoroso su ge-nerazioni stanche della retorica della storia convenzionale, delle sue in-terpretazioni soggettive e apodittiche, delle sue controversie spurie. L’in-teresse per le tendenze di lungo periodo e per la dinamica della crescitaeconomica implicava quasi di necessità l’accentuazione dei fattori stori-ci: proprio negli stessi anni cinquanta si perfeziona la new economie history, ocliometria (per un suo inquadramento generale si veda Barraclough,1977). Erano comunque gli anni nei quali altre scienze andavanoaffinando i propri metodi, mettendo a fuoco altri e più pressanti problemi,legati alla necessità di spiegazione dei fatti economici e sociali: traqueste la statistica. In ogni campo la ricerca vedeva ovunque un aumentodell’uso di tecniche quantitative, combinate con un più forte apportoteorico e con una più diffusa applicazione ai problemi storici.

Le singolarità e la varietà dell’esperienza storica viene dunque ad as-sumere un rilievo del tutto particolare per quanto concerne la demografia.Sia sul fronte degli storici sia su quello dei demografi si cercano nuovespiegazioni, nuove verifiche, nuove strade da battere, connettendo in-sieme problemi economici e problemi demografici o, meglio, legando fradi loro dati di popolazione e dati economici. Si mira così a spiegare lacrescita economica del secondo dopoguerra riconoscendo alle circostanzedemografiche tutta la loro importanza, così come le trasformazioni nellestrutture e nella dinamica demografica di quegli anni vengono sottoposte anuove analisi cercandone le radici nelle trasformazioni della struttura edella dinamica economica. Ma contemporaneamente vanno conso-lidandosi in entrambi i settori disciplinari nuove esigenze di analisi: inmodo specifico nuovi metodi di analisi longitudinale (contrapposti aquelli che ormai appaiono superati dell’analisi trasversale) si genera-lizzano, prospettando la necessità di ampliare í riferimenti temporali,per recuperare le informazioni che le statistiche correnti non possonofornire. Questi nuovi modi di pensare la realtà spingono a sfruttare (megliosarebbe dire: a ri-utilizzare) i materiali che pure già si conoscevano eche erano disponibili in abbondanza: appunto i dati di popolazione.

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Allora: in modo specifico per quanto concerne la demografia storica,questa nuova mentalità portava a elaborare una metodologia micro-analitica appropriata (su cui fra poco ci soffermeremo) nota come «rico-stituzione delle famiglie», descritta, appunto, in modo particolareggiatonel Manuel sopra richiamato e applicata analiticamente agli abitanti cheavevano vissuto a Crulai fra i secoli XVII e XVIII. Una metodologiache trovò, in seguito, la sua esemplificazione e la sua illustrazioneancora in un volume di Henry (1980) dedicato alle tecniche di analisi.Tale metodologia non era, d’altro canto, di esclusiva invenzione dei de-mografi: ancora in Francia, ad esempio, Goubert (1960) se ne era servi-to — indipendentemente da Henry e Fleury — nel suo vasto lavoro sulBeauvaisis, e prima ancora, nel 1942, Hannes Hyrenius l’aveva utiliz-zata per uno studio sulla minoranza svedese di Estonia3.

L’idea di ricostituire le famiglie non era affatto nuova: era, ed è, lostrumento di base dei genealogisti. Questi studiosi erano particolarmenteagguerriti in Germania già dai primi del Novecento, perché, grazie auna legge del 1933 che rendeva obbligatoria ai cittadini del Reich la provadelle loro origini ariane e, dal 1937, alla costituzione di un servizio ge-nealogico ufficiale, ebbero modo di perfezionare l’applicazione della tec-nica di ricostituzione delle genealogie riportando le informazioni conte-nute nei registri parrocchiali su moduli a stampa, così da pubblicare informa omogenea tutte le informazioni concernenti appunto la storia ge-nealogica di ciascun cittadino a partire dal secolo XVII o XVIII. Secon-do i programmi predisposti, tutta la popolazione della Germania avreb-be dovuto essere oggetto di tali ricostituzioni, che avrebbero dovuto dareluogo a circa trentamila Ortssippenbucher (genealogie di villaggio), ma laseconda guerra mondiale bloccò il lavoro iniziato; di questo enormeprogramma vennero pubblicati appena una trentina di volumi compren-denti tali genealogie (Imhof, 1981; Knodel, 1988).

Ancora alla fine degli anni trenta, negli Stati Uniti, a cura della So-cietà genealogica della Chiesa dei santi dell’ultimo giorno (mormoni) erastata messa a punto una scheda di ricostituzione di genealogie che, sep-pure impostata con scopi eminentemente religiosi, permette comunqueapprofondite analisi demografiche (Bean, Mineau e Anderton, 1990).La strada da battere, dunque (quella della ricostituzione delle genea-logie e, attraverso queste, della storia degli eventi del ciclo di vita diciascun individuo: nascita, matrimonio, cadenza delle nascite dei figli,

3 Si tratta di una ricerca peraltro rimasta quasi del tutto sconosciuta fino a che non nevenne dato da Terrisse (1975) un resoconto in un fascicolo speciale della rivista Poputationintegralmente dedicato alla demografia storica.

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decesso), esisteva già da tempo ed era già stata in qualche modo percor-sa: il compito di Henry fu di disegnarne meglio il percorso e di renderlopiù agevole, chiarendone le tappe di percorrenza e gli sbocchi finali.

Dalle schede di famiglia, in definitiva, possono trarsi informazionidettagliate altrimenti irrecuperabili per epoche precedenti l’istituzionedello stato civile, ma anche per gli anni nei quali oggi noi viviamo — esclu-dendo, ovviamente, la possibilità di intervistare direttamente le personesui loro comportamenti demografici, in termini di fecondità e di ma-trimonio. La caratteristica essenziale di tale metodo di ricerca era l’im-piego di modelli ipotetico-deduttivi, sfruttando appieno le tecniche chela demografia andava affinando, quelle appunto che si riferiscono allepersone-anno, cioè alle durate di vita vissute in un certo stato, o alledurate alle quali si verificano certi eventi (come la nascita di un figlio,ad esempio), per determinare l’effetto di particolari eventi sul corso divita di una popolazione, ricostituita appunto come aggregazione di in-dividui di cui si conoscono le tappe fondamentali di vita. Si tratta diuna (nuova) strada che mette in tutta evidenza la riconciliazione fra sto-ria e demografia, sfruttando la contemporanea riconciliazione fra storiaed economia — riconciliazione perché, come accennato, si tratta in defi-nitiva di un rafforzamento metodologico di legami antichi — che è per-corsa da un interesse per le tendenze di lungo periodo e per la dinamicadella crescita demografica ed economica: è questo dunque il tessuto con-nettivo fra economia, storia e demografia.

La via aperta da Henry e Goubert con il passare del tempo attraeun numero crescente di ricercatori: piano piano parrocchie, villaggi, bor-ghi, città del passato vengono ricostruite nella loro dimensione umana,nelle loro vicende vissute. La micro-demografia della famiglia si diffon-de in Francia apportando indiscutibilmente un sostanziale contributoalla conoscenza della «rivoluzione contraccettiva» del secolo XVIII (Ga-niage, 1963; Valmary, 1965; Charbonneau, 1970; Bardet, 1983; Gania-ge, 1988, per citarne soltanto alcuni). Alla fine del 1980 risultano pub-blicate ben 558 monografie che si riferiscono ad altrettanti comuni sparsiin tutto il paese (Dupaquier, 1984).

La famiglia, come insieme di persone che condividono — seppure perporzioni di durate di vita — la stessa storia, viene così a cadere al centrodell’attenzione dei ricercatori. Ecco dunque, a partire dagli anni sessan-ta, un’altra «rivoluzione» nel campo delle scienze sociali: mentre in Fran-cia la famiglia è utilizzata come fase intermedia per lo studio dei feno-meni demografici — in particolare per l’analisi della fecondità, proprioperché all’interno della famiglia, partendo dal matrimonio della coppiadi genitori, si collocano le nascite dei figli — in Inghilterra (ma anche

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per la mancanza, comparativamente ai paesi di religione cattolica, di ri-levazioni di flusso — nascite, decessi, matrimoni — organiche e genera-lizzate all’intera collettività), l’attenzione dei ricercatori è indirizzataallo studio della struttura della famiglia e alle sue variazioni nel tempoattraverso liste di abitanti, enumerazioni nominative e censimenti.

La famiglia, come insieme di persone residenti sotto lo stesso tetto,diviene oggetto specifico d’indagine ai fini della misura della relazionefra processi economici e processi demografici. E un’ottica specifica, sevogliamo, ma caratteristica dell’Inghilterra, il paese di più antica indu-strializzazione. Il problema delle cause e delle condizioni della rivolu-zione industriale è per i demografi e per gli storici inglesi (così come ilproblema delle cause e delle condizioni della rivoluzione francese lo èper i demografi e gli storici francesi) l’argomento che detta la formazionedi un circolo di ricercatori, soprattutto storici, demografi, statistici: nel1964 viene creato il Cambridge Group for the History of Population andSocial Structure, diretto da Peter Laslett, poi divenuto un centro dirinomanza internazionale. L’anno seguente viene pubblicato il famosovolume The World We Have Lost (Laslett, 1965), nel quale si illustra ilprogramma di ricerca del gruppo4. Le condizioni di fondo che hannoreso possibile l’industrializzazione possono essere spiegate appuntoricostruendo la storia della microstruttura sociale, la famiglia; l’analisi delladinamica di questa microstruttura, corroborata e sostenuta con altri datidi natura economica, lungo il tempo, può fornire le informazioni utili acomprendere le ragioni e l’articolarsi delle trasformazioni economichedell’intera società. I ricercatori inglesi andavano definendo un progetto,ambizioso come quello dei francesi, che vedeva però specificamente nellasociologia storica la forma generale di tutta la ricerca in campo sociale,che faceva della sociologia (storica) la confluenza comparativa di scienzediverse, dall’economia alla demografia, dalla storia all’antropologia, ancorauna volta legate assieme dalla statistica, cioè dalla necessità di misurazioniesatte. La demografia storica inglese, in definitiva, si caratterizza piuttostocome socio-antropologica: è il concetto di struttura sociale checostituisce il principio di intelligibilità della storia e che trova la suaconcretezza nella famiglia.

I due gruppi — i due «circoli» o le due «scuole», come vengono defi-nite — quello francese e quello inglese, testimoniano evidentemente duediversi esperimenti: diversi relativamente, perché entrambi mirano a uno

4 Oltre a Laslett (1965), tra le molteplici pubblicazioni edite a cura del Cambridge Groupsi vedano Laslett e Wall (1972); Wrigley (1973); Wrigley e Schofield (1981); Wall, Robin eLaslett (1983).

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scopo comune, quello di rileggere la storia attraverso le vicende umaneoggetto specifico della demografia (nascite, decessi, matrimoni). Entrambilegano lo svolgersi di queste vicende alla famiglia, che ne costituisce ilcontenitore naturale, sul quale (o intorno al quale) si riaggregano i sin-goli eventi demografici: restano, comunque, due approcci di micro-demografia (per il significato più preciso di micro-demografia si veda ilcapitolo di Santini, «I metodi», in questa Guida). AI di là dei diversipostulati di base è evidente che sono le fonti dei dati a differenziare leapplicazioni e i risultati; ed è proprio il problema delle fonti che con-diziona fortemente non tanto la definizione delle ipotesi di ricerca quantola loro concreta attuazione.

A questi due gruppi di ricerca, in effetti, se ne deve aggiungere unterzo, che ha svolto un ruolo indiscutibile nel campo della demografiastorica pur muovendosi in un’ottica diversa: diversa nel senso che i suoicollaboratori non operano prevalentemente o in modo determinante sul ter-reno della micro-demografia, bensì in quello della macro-demografia (mamicro e macro restano comunque le due espressioni della stessa animadella demografia). Si tratta del gruppo, coordinato da Ansley Coale, cheruota intorno all’Office of Population Research di Princeton (Stati Uniti).Nel 1965, in occasione della conferenza demografica organizzata a Bel-grado dalle Nazioni Unite, Coale presentò alcune riflessioni preliminari suun progetto internazionale avviato due anni prima sulle cause e sullecondizioni della cosiddetta «transizione demografica », cioè su di unoschema interpretativo del declino della mortalità e della fecondità che, ti-picamente, accompagna il processo di modernizzazione demografica diuna società, cioè il suo passaggio da un regime demografico antico (conalta fecondità e alta mortalità) a un regime demografico moderno (caratte-rizzato da bassi livelli di fecondità e di mortalità): una teoria inizialmente im-postata negli anni cinquanta da Frank Notestein, già direttore dell’Office ofPopulation Research e in seguito gradualmente raffinata.

Il Princeton European Fertility Project, a differenza delle ricerchefrancesi e inglesi, si basa soprattutto su dati già pubblicati, che hannoil crisma dell’ufficialità, essendo appunto editi a cura degli uffici nazio-nali di statistica, e che si riferiscono soprattutto a fonti di censimento;si tratta, inoltre, di dati aggregati: il livello territoriale più analitico ècostituito dal comune (com’è nelle situazioni francesi e italiane, ad esem-pio) e, ovviamente, non permette di analizzare le singole biografie (an-che se colte a un censimento o ad altra fonte di stato) individuali. Sfug-gono, pertanto, tutte quelle peculiari (direi sofisticate) possibilità di ana-lizzare gli eventi individuali come avviene con i cosiddetti metodi Hen-

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ry e Laslett, il cui riferimento di base è l’individuo ricondotto alla fami-glia. Un altro limite di questo progetto è che esso può coprire un lassotemporale piuttosto recente: quello, appunto, cui si riferiscono i censimenti,che datano, di norma, dalla metà dell’Ottocento.

Tuttavia il metodo proposto e attuato da Coale e dal suo gruppo hail vantaggio di permettere la raccolta di dati e la loro analisi in un tempominore di quello reso possibile dalla rilevazione, dall’accoppiamento edall’analisi delle singole informazioni «anagrafiche» individuali degli altridue metodi (di Henry e di Laslett). Per far fronte all’esigenza di compa-rabilità, il progetto Coale prevede la costruzione di alcuni indici stan-dardizzati, facilmente calcolabili; se poi, ancora a livello aggregato, sidispone di altre informazioni su certi fenomeni o certe caratteristichesocio-economiche della stessa popolazione, i risultati possono essere ul-teriormente arricchiti e fornire sostegni interpretativi notevolmente pre-ziosi per comprendere più compiutamente le condizioni e le implicazio-ni della «modernizzazione» demografica, cioè del processo di trasfor-mazione del comportamento demografico.

Di fatto, in poco più di vent’anni il progetto è stato portato a termi-ne con la raccolta di una nutrita massa di dati statistici e con la pubbli-cazione di un folto gruppo di scritti5. Certo i risultati conseguiti nonhanno la ricchezza e la compiutezza dei risultati delle ricerche micro-demografiche conseguibili con i metodi Henry e Laslett: la corposità,lo spessore dell’interpretazione «storica» sono comparabilmente più de-boli, ma resta comunque rilevante il contributo apportato alla conoscenzadel processo di modernizzazione demografica.

Resta, dunque, il fatto che il periodo grosso modo compreso fra glianni cinquanta e sessanta vede un generale fiorire di iniziative nel cam-po della demografia storica: esigenze di approfondimenti e curiosità peril passato alla ricerca delle proprie radici storiche si diffondono ovun-que. In Belgio vede la luce l’opera di Mols (1954-56), in tre volumi, cheè un bilancio rigoroso e la rassegna più completa esistente all’epoca sul-le fonti e sui problemi per lo studio della demografia urbana dal secoloXIV al XVIII; e intorno a Harsin e a Hélin si aggrega, all’Universitàdi Liegi, un piccolo gruppo che apporterà comunque risultati molto

5 In precedenza sono stati pubblicati i volumi «nazionali» a cura di Coale, Andersone Harm (1979), sulla Russia; Knodel (1988), sulla Germania; Lesthaege (1977), sul Belgio;Livi Bacci (1971b), sul Portogallo e (1977), sull’Italia (Livi Bacci aveva già pubblicato unlungo saggio sulla rivista Population Studies nel 1968, sulla Spagna); Teitelbaum (1984), sul-l’Inghilterra; van de Walle (1974), sulla popolazione femminile francese. A queste pubblica-zioni, riportate in bibliografia, si rimanda per ulteriori riferimenti su tutta la produzionedel Princeton Project.

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interessanti6. A Liegi, nel 1963, a cura di Harsin e Hélin si tiene unColloquio internazionale di demografia storica sui problemi di studiodella mortalità del passato (Harsin e Hélin, 1965). In Olanda, a Wage-ningen, presso il Centro di storia agraria diretto da Slicher Van Bathtrova asilo questo nuovo settore di ricerche demografiche, in seguito col-tivato sotto la guida di Ad Van Der Woude. Altri gruppi, più o menoagguerriti, sono all’opera in Svezia, a Umea; in Cecoslovacchia, a Praga;in Ungheria, a Budapest e in altri paesi europei.

L’aspetto più rilevante di questo rapido processo, al di là degli specificifini e contenuti di ricerca che caratterizzano studiosi e sedi, va però indi-viduato nell’espansione geografica della demografia storica, nella sua in-ternazionalizzazione. Non c’è oggi quasi paese del mondo che non abbiavisto sorgere iniziative, più o meno aggregate, più o meno importanti, d’in-teresse più o meno nazionale, volte alla ricostruzione delle condizioni del-l’evoluzione demografica del passato. È ovvio che esistono differenzed’approccio dovute appunto alle difformità di contenuto delle fonti dispo-nibili e delle informazioni necessarie allo scopo. Di fatto, anche se le sueorigini sono specificamente di radice europea, con il passare del tempo econ il diffondersi delle ricerche, la demografia storica ha perso le sue con-notazioni eurocentriche: non si tratta soltanto, si badi, di un allargamentogeografico dei temi della demografia storica dall’Europa ad altri paesi, maanche di un ampliamento quantitativo in termini di produzione scientifica.

A questo processo di crescita della disciplina e al di là dei risultaticonseguiti singolarmente, in termini di scambi di idee e di interessi frastudiosi, hanno indubbiamente contribuito altri fattori: un primo è daindividuare nell’organizzazione di centri di ricerca, come quello dell’I-ned nel 1963 e quello di Cambridge nel 1964, come il Laboratorio didemografia storica presso l’Ecole des hautes études en sciences socialesdi Parigi nel 1973 e quello di Princeton, per citare solo i più importantio, per lo meno, quelli che più di altri hanno funzionato come poli chehanno aggregato e formato studiosi di altri paesi che poi hanno «espor-tato» problemi, metodi e tecniche di indagine, contribuendo così all’e-spansione della disciplina. Uno strumento specifico del processo di espan-sione della disciplina è quello individuato nei corsi di formazione inten-siva organizzati annualmente dalla Société: come esempio, si considerila diffusione delle ricerche e degli studiosi di demografia storica in Sviz-zera, con Perrenoud (1979); in Canada con Charbonneau, Légaré e Bou-chard, che pure hanno dato vita a due centri di ricerca separati (Char-

6 Per il taglio che il gruppo di Liegi ha dato alle proprie ricerche si vedano il lavoroiniziale di Hélin (1963) e il recente prodotto di Desama (1985).

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bonneau, 1970; Charbonneau et al, 1987); in Brasile, all’inizio con Mar-cilio (1969) e poi quasi ovunque in America Latina7; tutti formatisi ini-zialmente nell’officina di Henry.

Un secondo fattore va identificato nell’apporto di due organizzazio-ni internazionali: l’Union international pour I’étude scientifique de la po-pulation (Uiesp, o, se si fa riferimento alla sigla anglosassone, Iussp) e ilComité international des sciences historiques (Cish), che, rispettivamentenel 1963 e nel 1965, costituirono una propria commissione di demogra-fia storica. Superando le difficoltà iniziali, le due istituzioni sono riusci-te a dare un forte apporto alla demografia storica, estendendone gli inte-ressi nei paesi scandinavi e nell’Europa centro-orientale (in particolare inBulgaria, Ungheria e Cecoslovacchia), in Giappone, in America Latina ein Africa, in Cina, in India e altrove, organizzando convegni, seminari,riunioni internazionali. Basti riferirsi, come esempio (per riferimenti piùprecisi si rimanda a Dechesne, 1974) al fatto che già nel Congresso del-l’Uiesp, tenutosi a New York nel 1961, erano stati discussi alcuni dei pro-blemi caratteristici della demografia storica, in un’apposita sessione; l’i-niziativa di dedicare alla demografia storica una specifica sessione vennepoi ripresa in quasi tutti i consessi dell’Unione, tra i quali vanno segna-lati quello di Londra nel 1969 e quello di Liegi nel 1973. Di minor enti-tà appare il lavoro svolto dal Cish (che pure già nel 1928, sull’onda del-l’allora in auge «statistica storica», aveva tenuto a battesimo una commis-sione di demografia storica), ma non meno importante, sol che si pensi alcolloquio tenutosi in collaborazione con l’Uiesp a Kristiansand, in Nor-vegia, nel 1979, sul ruolo delle seconde nozze nelle popolazioni tradizio-nali (Dupaquier et al., 1981), e quelli più recenti di Madrid (Cish, Com-mission internationale de démographie historique, 1990a; 1990b).

Le due richiamate commissioni internazionali di demografia storicahanno anche fornito collaborazione ed egida ad altre istituzioni universi-tarie o di ricerca per l’organizzazione di specifici seminari e convegni sutemi di demografia storica: come quello tenutosi a Firenze nel 1971 (AA.VV., 1972), quello in collaborazione con l’Università di Montréal, tenu-tosi a Montebello in Canada, nel 1975, sui problemi di misura dei feno-meni demografici8, quello ancora di Firenze nel 1977 (un sommario degli

7 Per esempio, è molto importante il ruolo svolto dal Celade di Santiago del Cile, comepromotore di ricerche in demografia storica; così come è tutt’altro che di poco rilievo illavoro della Latin American Population History Association. Per un bilancio degli studi inAmerica Latina e nei paesi scandinavi, si veda Annales de démographie historique (1986).

8 Una parte dei contributi presentati al convegno, quelli relativi alle crisi di mortalità,venne raccolta nel volume di Charbonneau e Larose (1973). Un altro gruppo di contributiconcernenti la nuzialità venne pubblicato negli Annales de démographie historique (1978).

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atti in AA. VV., 1977) e, ma solo per saltare nel tempo, quello organizza-to in collaborazione con l’Università delle Baleari nel 1991 (Universidadde les Illas Balears e Iussp C omrnittee on Historical Demography, 1991).

Di un terzo fattore va in verità sottolineata l’importanza, ancora perquanto concerne gli strumenti di diffusione della ricerca in demografiastorica (ma ciò vale per qualunque campo dell’indagine scientifica): ilruolo svolto dalle associazioni di studiosi e ricercatori. Ancora una vol-ta, per questo aspetto, va rilevata l’originalità dell’esperienza francese: ri-sale infatti al 1963 la costituzione della Société de démographie historiqueche si pose come centro di coordinamento per contribuire al migliora-mento delle condizioni della ricerca storica in demografia. Al primo vo-lume di contributi apparso nel 1964 (Études et chronique de démographie historique) fe-ce seguito a partire dal 1965 la serie annuale degli Annales de démographie histo-rique, ai quali si accompagna, dal 1970, il quadrimestrale Bulletin D. H. che, ol-tre alle notizie sull’attività dell’associazione, contiene anche informazioni suricerche in corso, note metodologiche e sommari di pubblicazioni9. LaSociété organizza ogni anno un incontro su tematiche specifiche di de-mografia storica (gli «Entretiens de Malher») e, a cadenza non prefissata,convegni internazionali, tra cui si ricordano quello consacrato a Malthushier et aujourd’hui, in collaborazione con l’Unesco e I’Uiesp (1980) e quellosu Le peuplement du monde avant 1800, in collaborazione con il Cish (1987).

Sulla traccia aperta dalla Société francese si inseriscono altre due as-sociazioni europee: la Società italiana di demografia storica (Sides), co-stituita nel 1977, e la Asociación de demografia histórica (ispano-lusitana),fondata nel 1982. In America, negli Stati Uniti, opera la Latin AmericanPopulation History Association e, in Brasile, il Centro de estudos dedemografia historica da América Latina.

A partire dal 1978, infine, di tutto questo nuovo fervore di iniziativee di ricerche uno strumento importante di diffusione delle conoscenzenel campo viene assunto dalla Bibliographie internationale de la démographiehistorique, edita in collaborazione fra le Commissions de démographiehistorique dell’Uiesp e del Cish e la Société de démographie historiquefrancese e redatta a cura di un gruppo di corrispondenti nazionali. Que-sto preciso repertorio è ben affiancato – nel campo della demografiatout-court – dal Population Index, edito a cura dell’Office of Population

9 Se ne veda l’indice generale in Société de démographie historique, Annales de démo-graphie historigue (1964-82), Bulletin D. H. (1970-82), Tables et Index Editions de l’Ecole deshautes études en sciences sociales (Paris, 1983). Comunque sull’attività della Société, sull’or-ganizzazione della ricerca in Francia (in minor misura, altrove) e sulle problematicherelative alla demografia storica, si consulti Dupaquier (1984).

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Research di Princeton, ma nel quale curiosamente la sezione (bibliogra-fica) Historical Demography and Demographic History compare per la primavolta come subject classificatimi solo dal 1978 (voi. XLIV, n. 1)10.

2.2. La demografia storica in Italia

«L’importanza delle ricerche storiche sullo stato e sul movimento dellapopolazione venne messa in luce, fin dal primo accenno alla costituzionedel Comitato italiano per Io studio dei problemi della popolazione...». CosìGini (1939) apriva una lunga recensione a una pubblicazione uscita nel1936 in Germania, che riportava i risultati di uno studio sull’evoluzione diun insieme di famiglie (effettuato tramite ricostruzione genealogica dellapopolazione di un villaggio, verosimilmente basata sugli Ortssippenbucher. Sitrattava di risultati prettamente demografici — nuzialità, mortalità,riproduttività — che, per il loro interesse e per la loro originalità, facevanoconcludere a Gini: «E da augurarsi che studi consimili vadano facendosisempre più frequenti nei vari paesi di Europa, così da squarciare letenebre che avvolgono la demografia dei secoli passati». Era questaun’opinione allora largamente condivisa.

Gli anni trenta appaiono, infatti, vivaci di idee e di ricerche applicate in I-talia, sul fronte della demografia e particolarmente della demografia storica;ci si muoveva tuttavia nel più ampio quadro della «statistica storica» (cui hosopra fatto cenno), restando condizionati dall’assenza di una specifica meto-dologia demografica (nonostante l’apparente banalità della considerazione sitratta di una carenza di rilevanza cruciale) ma, soprattutto, dalla particolarecongiuntura politica allora imperante nel paese. Erano gli anni a ridosso del-la più grande e profonda crisi economica del secolo — quella del 1929 —che nelle analisi di Keynes, Hansen e Losch, per limitarci ai riferimenti piùnoti11, era riconducibile agli effetti delle onde di natalità (e, quindi, dei ma-trimoni) sul ciclo economico. Per consentire una più completa verifica dellerelazioni fra fattori demografici e fattori economici era ovvio il passaggio daun’analisi di tipo congiunturale a una di tipo storico, da una semplicementestorica a una metastorica; ciò avveniva quasi contemporaneamente nonsolo sul fronte della scienza economica ma anche su quello delle scienze

10 Per un quadro generale delle ricerche di demografia storica negli Stati Uniti si vedaGerhan e Wells (1989). Una recente bibliografia sulla produzione francese si trova inLunazzi (1985). Per la penisola iberica si rinvia al Boletin de la Asociación de demografiahistórica, a partire dal 1982.

11 Si vedano: Losch (1936-37); Keynes (1937); Hansen (1939). Per una prospettiva d’in-sieme — e in particolare per quanto concerne la posizione assunta dagli studiosi italiani e iloro contributi — si rimanda a Santini (1969).

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naturali, nel quadro della nuova «dimensione» storica che si apriva a tuttele scienze. Vanno citati in proposito, oltre all’opera di Lotka, già richiama-ta, i contributi di Pearl e le suggestioni di ricerca che la sua legge bio-sociale di sviluppo di una popolazione (la curva logistica) viene a porre.

In questo stesso periodo, in Italia, sono all’opera diversi gruppi e sin-goli studiosi che coprono molteplici settori disciplinari: dall’economia allastoria economica, dalla medicina alla genetica, dalla biologia alla geografia,dall’antropologia alla demografia (per restare alle scienze vicine alla demo-grafia). Gli anni trenta costituiscono una fase del processo di evoluzionedel pensiero scientifico italiano (si vedano Sonnino et al., 1987; Corsini,1989) che a mio avviso merita di ricevere un’attenzione più consistente diquella finora prestatagli, ma in un approccio più completo, globale, pro-prio per mettere in evidenza gli interscambi, le originalità oltre che le «di-pendenze» da quanto si costruiva all’estero. Ma restiamo alla demografia eolla demografia storica.

Qui, a opera di personaggi come Benini e Niceforo prima (ma si ve-dano anche Corridore, 1915; Salvioni, 1885), Boldrini e Gini poi, glistudiosi di problemi della popolazione erano stati sollecitati a mutareindirizzo agli studi demografici passando da una demografia descrittivaa una investigativa mirante a spiegare i fenomeni, le loro radici e i loroeffetti, a cogliere le interdipendenze tra i fenomeni demografici e l’in-sieme di tutti gli elementi che formano l’«ambiente» — in definitiva,ad affrontare un approccio interdisciplinare. Ecco che a Milano, pressol’Università Cattolica del Sacro Cuore, si aggregano demografi, statisticie medici che fanno perno sul Laboratorio di statistica e che apportanoimportanti contributi sul filone della «demografia costituzionalistica».Lo scopo è quello di studiare i rapporti fra l’architettura morfologicadell’organismo umano — la sua capacità di resistenza e di reazione, cosìcome può essere colta attraverso la statura, ad esempio — e l’insieme deifattori ambientali; poiché è evidente che l’organismo di persone oggiviventi è il risultato dell’influenza di fattori ambientali che hanno operatolungo il tempo, in precedenza, si avvia l’analisi del rapporto tra questifattori ambientali e i fenomeni demografici studiati (sopravvivenza, feconditàe così via) in una nuova dimensione, appunto storica12.

12 Si rimanda a Boldrini (1931); Costanzo (1936); nonché alla serie VIII: «Statistica», dellepubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che raccoglie, in diversi volu-mi, gli studi pubblicati in Contributi del Laboratorio di statistica. La «demografia costituzionalistica»ha comunque il suo caposaldo nelle ricerche statistiche condotte sui militari, ad opera soprattut-to di R. Livi (1896 e 1905; 1900). In questi ultimi anni ha affrontato tematiche «globali» siffatteLivi Bacci (1987; 1989), che pure – sul fronte delle riflessioni aperto da L. Livi – affronta i pro-blemi e le spiegazioni dell’evoluzione della popolazione in un’ottica molto più vasta.

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A Roma, a opera di Gini, si sviluppa un nuovo settore — con un ta-glio più sociologico che si rifà appunto alla sua teoria ciclica (Gini, 1912)sulla legge di sviluppo della popolazione e sul ricambio sociale, quest’ulti-mo con particolare riferimento a gruppi demografici ristretti, come l’aristo-crazia (si veda Savorgnan, 1942) — nel quale sono coinvolti studiosi divaria formazione disciplinare: archivisti, geografi, storici, medici e gene-tisti, insieme con demografi e statistici facenti capo al Comitato italianoper lo studio dei problemi della popolazione (Cisp), costituito nel 1928.Il Cisp intraprende una serie di ricerche a vasto spettro, con un’acutezzadi prospettive veramente innovatrice nella ricerca demografica, compresaquella storica, che si presenta con tratti di indubbia originalità: si indaga-no le cause e le implicazioni sociali e demografiche dell’evoluzione dellapopolazione nel passato, si ricostruisce la densità del popolamento nellastoria e i motivi della decadenza delle popolazioni messicane al tempo del-la conquista spagnola, ma si conducono anche investigazioni antropologi-che e bio-mediche su gruppi di popolazione contemporanea, per studiarel’azione dei fattori demografici nella loro organizzazione sociale 13.

Ma l’iniziativa più rilevante ai fini della demografia storica è quellaconcretizzatasi nella raccolta delle Fonti archivistiche per lo studio dei problemidella popolazione fino al 1848 (Cisp, 1933-41), la cui prima serie venne pre-sentata al Congresso internazionale per gli studi sulla popolazione (Ro-ma, settembre 1931); la prima sessione era peraltro dedicata ai lavori distoria (Cisp, 1933). La serie delle Fonti (nove volumi in oltre seimila pa-gine) fornisce informazioni (raccolte mediante un’apposita scheda) suidocumenti contenenti materiale statistico di rilievo demografico conser-vati negli archivi di stato di 297 città italiane. Si tratta di un inventariocerto incompleto — anche perché la sensibilità del ricercatore, archivi-sta o altro, è notevolmente mutata da allora, visto che la stessa defini-zione di «dato demografico» ha assunto una valenza diversa — ma restacomunque un repertorio all’epoca inesistente in altri paesi e che dimo-stra come concretamente il problema delle fonti e dei dati di base costi-tuisse (come costituisce tutt’ora) il primum movens di ogni ricerca di de-mografia storica.

Tuttavia gli interessi di ricerca per la demografia storica non si esau-riscono qui: di fatto, mentre a Milano ci si muoveva nell’ambito di un’u-niversità privata (appunto la Cattolica), a Roma Gini operava nell’am-

13 La bibliografia completa delle pubblicazioni edite dal Cisp si trova in allegato adogni fascicolo della rivista Genus, organo dello stesso.

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bito dell’Università statale e, contemporaneamente, con l’egida dell’I-stituto centrale di statistica, del quale era presidente. Il legame fra ledue istituzioni non era di poco conto (soprattutto perché, almeno all’i-nizio, mediato da Gini): basti tener conto del fatto che Gini stesso fupropugnatore di una nuova facoltà universitaria, quella di scienze stati-stiche, e di un nuovo corso di diploma universitario, quello appunto instatistica, destinati a fornire alle strutture pubbliche funzionari specia-lizzati in statistica ma entrambi fortemente innovatori ai fini dello svi-luppo della statistica e della demografia. Altrettanto significativo, a mioavviso, è il fatto che, fra gli insegnamenti che figurano negli ordinamentidel corso di laurea e del corso di diploma, compaia proprio «demografiastorica e storia delle popolazioni». A sottolineare ancora il ruolo dell’I-stituto centrale di statistica si deve peraltro osservare che gli Annali distatistica funzionano come trampolino per giovani studiosi di demogra-fia storica, come ad esempio nel caso di de Meo (de Meo, 1962 ma 1931).

L’università — statale o convenzionata — resta comunque la sede pe-culiare della ricerca storico-demografica. à ancora nell’università che sitrovano altri esempi di indagini demografiche applicate alla storia, co-me quelle di Borlandi (1942) e del suo allievo C. M. Cipolla; come quelledi Livi (1914; 1920; 1940), che pure aveva collaborato con Gini allacostituzione dell’Istituto centrale di statistica (del quale era divenutocapo del servizio studi) e, sulla scia di Livi, di Parenti (1937) e di Batta-ra (1935). Livi perfezionò e diede corpo organico alle sue riflessioni sul-la storia dell’evoluzione demografica nel Trattato di demografia (1940-41),fondendo — con indubbia originalità e innovazione rispetto agli studidemografici dell’epoca — una rilevante molteplicità di «prove» etnogra-fiche e antropografiche, demografiche e storiche, per analizzarne le ca-ratteristiche influenti sulle forme associative, sulla struttura e sullo svi-luppo della popolazione. Parenti, a sua volta, arriva alla demografia sto-rica da ricerche di storia economica, collocandosi così nel novero di co-loro che ritengono appunto che la demografia storica sia sussidio dellastoria e fonte preminente della storia economica (secondo l’interpreta-ziOne proposta da Kula cui si è fatto cenno in precedenza; ma si vedanoanche Ciccotti, 1909; Corridore, 1915; Fortunati, 1935).

Il crollo del regime fascista segnò, non a caso, una fase di declinodegli studi di demografia in generale e di demografia storica in partico-lare: la demografia si era segnalata appunto come strumento del regimea giustificazione dei suoi interventi di politica della popolazione, coin-volgendo anche antropologia e genetica e un po’ tutte le discipline cheavevano a oggetto, diretto o meno, l’uomo. Anche la demografia stori-

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ca, che pure risultava semplicemente una disciplina di cerniera fra piùfronti, venne rimossa dal posto di tutto rilievo che si era venuta conqui-stando: basti rileggere gli scritti di Gini, Livi, de Meo, Parenti, Savor-gnan (quelli sinora citati direttamente o quelli la cui segnalazione com-pare in rinvii ad altri autori o fonti richiamati; si veda anche il capitolodi Santini, «I metodi», in questa Guida) per rendersi conto che moltidei problemi e molte delle metodologie che saliranno poi alla ribalta trai demografi storici a partire dagli anni cinquanta erano già stati indivi-duati nel nostro paese una ventina d’anni prima. La ricerca dei dati dibase e l’analisi dei tratti e delle condizioni della riproduttività e dellamortalità erano le motivazioni che avevano spinto Henry da una partee Goubert dall’altra a entrare negli archivi parrocchiali, ma erano le stesseche sottostavano alle indagini del Cisp e ai lavori degli altri studiosi —anche se le metodologie (com’è ovvio, ma solo per certi aspetti) eranoancora da perfezionare.

Solo alla fine degli anni cinquanta anche in Italia si ha una ripresadelle ricerche di demografia applicata alla storia. Tuttavia la demografiaè di nuovo percepita come strumentale nei confronti della storia economica:i dati di popolazione si rendono necessari, in modo determinante, percomprendere gli aspetti economici e il loro divenire nel tempo. Inpreparazione delle celebrazioni del primo centenario dell’Unità, l’IRI(Istituto per la ricostruzione industriale) costituisce un comitato di«saggi» — tra i quali Cipolla, Parenti e Demarco — cui viene affidato ilcompito di avviare una serie di ricerche sull’evoluzione demografica esocio-economica delle regioni italiane nel secolo XIX. Accanto a pub-blicazioni di contenuto specificamente storico-economico (sui prezzi, sulcommercio estero, sulle monete e i salari, sui bilanci economici), l’«Ar-chivio economico dell’unificazione italiana» — questo è il titolo della col-lana — cura la pubblicazione di importanti studi di taglio storico-demo-grafico sulla Toscana (Bandettini, 1956; 1960), sulla Liguria (Felloni,1961), sulle Marche e l’Umbria (Bonelli, 1967). Il progetto, purtroppo,s’interrompe per il venir meno delle forze e degli interessi.

Ma su quella traccia si muovono altri studiosi: a Pavia, dove Cipolla èsucceduto a Borlandi e dove lavora Aleati (1957); a Bologna, dove, sottola guida di Fortunati — che ha collaborato con Gini — Bellettini cominciaa pubblicare una nutrita serie di studi (Bellettini, 1961; 1965; 1971; 1973); aVenezia con Beltrami (1954); a Torino con Germana Muttini Conti (1951;1958; 1962).

Se volessimo mantenere la distinzione fatta all’inizio fra demografiastorica e storia demografica, si tratta in definitiva di studi che rifletto-

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no interessi di storia della popolazione: si cerca bensì di cogliere le ca-ratteristiche demografiche e la loro dinamica nel tempo; si analizzanole cause dei fattori che ostacolano o che sostengono l’evoluzione demo-grafica; ma nell’insieme le nuove vie di indagine, i nuovi problemi cheagitano la demografia e che cominciano a informare di sé la demografiastorica – compresi quelli metodologici - all’opera in questo lasso di tempoall’estero non sembrano trovare spazio o attenzione in Italia. Si ha cioèla sensazione che gli anni del dopoguerra abbiano di fatto coinciso conun vuoto di idee (idee specifiche della demografia storica, così come l’hodefinita all’inizio) rispetto alla vivacità che aveva caratterizzato gli annitrenta.

Nel 1969, in occasione di una riunione scientifica della Società italianadi statistica (SIS), Livi Bacci – forte delle sue esperienze di ricerca nelPrinceton European Fertility Project14 – propose a un gruppo di storicie di demografi di dar vita al Comitato italiano per lo studio dellademografia storica, ottenendo una pronta adesione e il patronato delCisp, allora presieduto da Nora Federici; l’anno seguente il Comitatoper la demografia storica venne costituito, seppure informalmente, e diedel’avvio a una feconda opera di coordinamento degli studiosi che, da frontidisciplinari diversi, si occupavano di demografia del passato. Fra il 1971e il 1974 venne attuato un programma organico di seminari avente peroggetto una rassegna critica delle fonti disponibili e dei loro contenutiper lo studio delle popolazioni italiane del passato, la verifica dei metodidi utilizzazione di queste stesse fonti e, infine, l’analisi di alcuni aspetti delleinterrelazioni fra demografia e condizioni economico-sociali. Le discussionidi questi seminari - cui parteciparono storici dell’economia e dellasocietà, demografi, genetisti, statistici - si realizzarono in una serie diponderosi volumi (Comitato italiano per lo studio della demografiastorica, anni vari) che rappresentano un punto di riferimento indiscutibileper chi intenda accostarsi a questa disciplina, da qualunque settore oorizzonte disciplinare provenga.

Nel contempo, da più parti, ma nel quadro di una fattiva collaborazio-ne, numerosi gruppi portavano avanti importanti progetti di ricerca chedavano luogo a preziose pubblicazioni (Assante, 1975, ma anche 1967;Delille, 1985; Del Panta, 1980; 1984; Zanetti, 1972; si vedano anche

14 Nel 1968 un’apposita riunione di studiosi della «nuova» demografia storica, tra cuiLivi Bacci, tenutasi a Bellagio a cura della American Academy of Arts and Sciences, feceun bilancio delle ricerche nel settore, mettendone in evidenza le innovazioni, sia in ter-mini di metodo, sia in termini di risultati (AA.VV., 1968). L’anno seguente, a Firenze,vide la luce il volume collettaneo dei Saggi di demografia storica (AA.VV., 1969).

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i diversi contributi raccolti in Comitato per la demografia storica, annivari). Nel 1977, infine, al termine di un ultimo seminario del Comitatosulle crisi di mortalità in Italia (Livi Bacci, 1978), venne decisa la sua tra-sformazione in Società italiana di demografia storica (Sides), cui fu asse-gnato lo scopo istituzionale di favorire lo sviluppo degli studi e delle ri-cerche nel settore, promuovendo convegni nazionali e internazionali,curando l’edizione di pubblicazioni scientifiche, organizzando seminarie corsi di formazione.

Da allora sono stati organizzati svariati convegni nazionali e internazio-nali: sulla ripresa demografica del Settecento (Sides, 1980), sulla demogra-fia storica delle città italiane (Sides, 1982), sulla popolazione italiana nel-l’Ottocento (Sides, 1985), sulla popolazione delle campagne in Italia fraXVII e XIX secolo; sul funzionamento demografico delle città (Annales dedémographie historique, 1982); sui problemi di storia demografica medievale(Comba, Piccioni e Finto, 1984); su strutture e rapporti familiari in epocamoderna; sull’infanzia abbandonata (Enfance abandonnée et société, 1991); sutemi diversi di demografia del Mediterraneo (Sides, 1990); su fonti archivi-stiche e ricerca demografica, nel 1990; oltre a un seminario sull’utilizzazio-ne del personal computer in demografia storica e la collaborazione a un con -vegno dell’Università di Bari sulla famiglia nella storia (entrambi nel 1988).

Fra gli scopi che la Sides si è prefissa ha avuto un ruolo importantequello relativo alla formazione tecnica e metodologica di giovani stu-diosi, di diversa formazione culturale, nel campo della demografia sto-rica, mediante l’organizzazione di corsi di formazione, cui si è aggiuntauna mostra su aspetti iconografici e documentaristici dell’evoluzionedella popolazione toscana fra i secoli XIV e XX e un seminario suNuptiality and the Family (1988), in collaborazione con l’Istituto univer-sitario europeo di Firenze. Insieme all’edizione degli atti dei convegninazionali e internazionali, la Sides cura anche dal 1984 la pubblicazio-ne di un Bollettino di demografia storica.

Un’attività molto intensa, dunque, sostenuta da un nutrito insiemedi pubblicazioni che testimoniano l’importante contributo svolto dallaSides alla diffusione in Italia della demografia storica, anche se non im-mune da influenze provenienti dall’estero ma caratterizzata comunqueda peculiari originalità di indagini (ancora una volta sono le fonti a det-tare queste nuove problematiche). Si è così assestato un patrimonio cul-turale, per così dire, che ha concorso al collocamento della demografiastorica, in Italia, come disciplina «chiave», ma fornita di una sua speci-fica autonomia, nell’ambito delle scienze umane e sociali.

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3. Esattezza e indeterminatezza

3.1. Alla conquista dell’autonomia

Mi sono richiamato qua e là al problema delle fonti: questa è la con-notazione specifica che distingue la demografia storica dalla demografiatout-court, nel senso preciso che le fonti dei dati di cui si serve oggi lademografia (per intendersi meglio: la demografia che studia le popola-zioni contemporanee o che le estrapola nel futuro) sono formate con fi-nalità che non sono individuate dal loro diretto utilizzatore, dal demo-grafo: i dati vengono cioè rilevati (di norma) per essere messi a disposi-zione del demografo, senza aver preliminarmente considerato le sue esi-genze di studio. Solo in questi ultimi anni, proprio ai fini di una migliorecomprensione della realtà contemporanea (se vogliamo, da una parteper una sorta di spirito «imperialistico» che viene manifestando il demo-grafo, dall’altra perché i problemi di popolazione divengono sempre piùpressanti e rilevanti e ci si rende ormai conto che soltanto il demografo«professionista» può adeguatamente maneggiarli), i dati sono rilevati die-tro suggerimento dello stesso demografo, per suo intervento diretto nel-la fase preliminare della rilevazione.

I dati di cui si avvale invece la demografia storica hanno una caratte-ristica molto diversa, essendo stati creati in epoche passate con scopiben diversi e, peraltro, con scopi il cui significato preciso sfugge alla com-prensione dello studioso d’oggi. Vediamone qualche aspetto, rapidamente,ricordando che mi riferisco ai dati rilevati in epoche nelle quali non esi-steva alcuna autorità costituita con lo scopo di effettuare tali rilevazio-ni, vale a dire che si parla di epoche pre-statistiche, ben diverse, peral-tro dalle situazioni (anch’esse pre-statistiche) in cui si trovano, oggi, lerilevazioni statistiche di molti paesi (ad esempio i paesi cosiddetti in viadi sviluppo economico e sociale).

Rifacendoci alla classica dicotomia tra fonti di stato e fonti di flusso,per quanto concerne le prime diciamo che le fonti principali per la de-mografia storica sono appunto quelle che forniscono informazioni (me-glio sarebbe dire dati statistici, cioè analizzabili con metodi quantitati-vi) di consistenza riguardo a una determinata popolazione: enumerazio-ni, censimenti, liste di individui, status animarum e così via, fonti cioèche «contano» le persone, che comunque diano allo studioso la possibi-lità di analizzare specifiche caratteristiche di questa popolazione, a unmomento dato. Si badi bene — questa è la prima difficoltà — che non

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si trattava di un «momento» come quello cui si riferisce il censimento con-temporaneo; di norma si trattava di un intervallo di tempo non facilmenteindividuabile, durante il quale potevano verificarsi fenomeni che disturba-no l’analisi che se ne può fare oggi: ad esempio, la redazione di uno «statodelle anime» (effettuato a cadenze annuali, in occasione della benedizionedelle famiglie fatta per le festività pasquali) prendeva diversi giorni, in fun-zione della numerosità delle «anime» da rilevare; se durante questo inter-vallo si verificavano nascite o decessi o matrimoni, o se alcune famiglie e-migravano o altre arrivavano, il parroco non ne teneva conto, perché rile-vava la situazione effettivamente esistente nel giorno in cui procedeva allaconta. Ma il demografo che analizza oggi quei dati deve avere la certezzadella consistenza di tale popolazione, dell’esattezza delle informazioni, inriferimento al tempo. Qual è dunque il tempo di riferimento? La data allaquale il parroco inizia la sua conta, oppure quella terminale? Ancora unadifficoltà, o esigenza di esattezza, è quella che si riferisce alla completezzadelle informazioni: in una simile «conta» ci sono tutti? Il parroco avevaforse motivi per escludere alcune persone dalla lista? Trattandosi di unafonte cattolica, appare ovvio che coloro che professavano una religione di-versa fossero esclusi; e le notizie sugli individui censiti (età, professione,stato civile e così via) sono fornite indiscriminatamente per tutti?

È peraltro evidente che l’esigenza di esattezza, relativa alla qualitàdei dati (completezza, comparabilità e altri criteri), non vale solo peri registri di consistenza delle popolazioni ma si pone per qualunque fon-te, religiosa o civile che fosse, di stato — com’era una lista fiscale, un«censimento», uno status animarum — oppure di flusso — come i battesi-mi, le sepolture, i matrimoni, i quali si svolgono durante il tempo, gior-no per giorno, mese per mese. Di fatto, per quanto concerne le fontisia di stato sia di flusso occorre accertare quale autorità stava all’originedella rilevazione, se non altro perché gli scopi erano ben diversi. È bendifficile che due fonti dello stesso contenuto esattamente contempora-nee forniscano dati esattamente eguali. Si rifletta, ad esempio, sul fattoche le fonti religiose forniscono dati relativi a battesimi che possono es-sere celebrati anche qualche giorno dopo la nascita (nell’intervallo il neo-nato può morire e quindi non essere battezzato), mentre al contrario lefonti civili non si interessano (all’epoca) dei nati-morti, che invece possonoessere rilevati nei registri parrocchiali. Le discordanze attengonoprevalentemente al fatto che i registri parrocchiali accertano l’esistenzadi un sacramento, come venne stabilito nel Concilio di Trento erichiamato nel Rituale Romanum del 1614, o mirano a controllare l’or-todossia dell’individuo (lo stato delle anime era dettato appunto per con-

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trollare il rispetto del precetto pasquale della confessione e della comu-nione almeno una volta l’anno), mentre le registrazioni civili — che, difatto, risalgono alla dichiarazione dei diritti della rivoluzione francesee che, in seguito, sono state recepite dalle istituzioni nazionali — miranoad accertare la situazione di diritto/dovere che coincide con ciascunodegli eventi (nascita, decesso, matrimonio).

Ecco, allora, che prima di sottoporre a qualunque analisi i dati ritrovati,occorre procedere a un attento esame critico degli stessi e della fonte che licontiene: tale esame richiede particolari cure e competenze «storiche» daparte del demografo, che deve essere in grado di «leggere», cioè di inter-pretare il documento avendo presente la doppia condizione in cui questalettura può essere effettuata; infatti il significato di ogni documento è siaquello che sta dentro esso (il segnale interno) così come è stato scritto al-l’origine, sia quello che da esso si può ricavare (il segnale esterno).

Ma l’originalità della demografia storica sta anche nel fatto che i datidi cui essa si serve sono per così dire «ricreati» dal demografo: è ildemografo che, poste certe ipotesi e dati certi problemi d’indagine (adesempio, perché l’età al matrimonio dei giovani del Settecento era di-versa da quella dei giovani d’oggi? A quali condizioni si accedeva al ma-trimonio? Quali ne erano le implicazioni? Perché era il matrimonio Iostrumento determinante dell’evoluzione di una popolazione?) va alla ri-cerca del materiale necessario per portare alla luce le radici nascoste del-l’albero (mi si permetta la metafora) di cui vuol studiare le componentiattuali, le fasi di sviluppo passato, le cause che lo fanno così com’è aisuoi occhi. Ma tutto questo altro non significa che piena autonomia dellademografia storica, molto più, forse, della demografia tout-court: evi-dentemente la ricerca stessa condotta su dati «storici» è la ragion d’es-sere della demografia storica e viene ad assumere il ruolo di una verae propria fondazione epistemologica per la disciplina.

L’esattezza di cui ho parlato ha in effetti due significati: il primoconcerne la completezza dei dati in termini di quantità, il secondo siriferisce al loro contenuto in termini di qualità; per quanto concerne l’a-nalisi ciascun aspetto comporta ricadute specifiche, relative alle meto-dologie che si possono applicare per arrivare a spiegare il modo di collo-carsi degli eventi oggetto di studio in quel tempo e in quella popolazione.Va richiamata in proposito l’opera svolta dal Comitato italiano per lostudio della demografia storica che, nel corso dei seminari cui ho fattocenno in precedenza, ha lavorato assiduamente con lo scopo di chiarire airicercatori e agli studiosi le esigenze di esattezza che devono essereconsiderate come condizioni preliminari di ogni ricerca: tali esigen-

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ze sono state, per così dire, fatte proprie sia dal Cisp — tuttora attivo(se non altro perché pubblica la rivista Genus) promuovendo ad esem-pio l’inventariazione di fonti demografiche o, comunque, di fonti checontengano dati suscettibili di «lettura» in chiave demografica15 — siadalla Sides che, attraverso le sue diverse attività, si propone di legarepiù strettamente tra loro ricercatori formati su territori diversi ma ac-comunati dall’interesse per la popolazione del passato. Tuttavia, comeconseguenza dell’internazionalizzazione della demografia storica, è proprioa opera di organismi internazionali che la verifica di metodologie avan-zate ha ricevuto uno stimolo di tale importanza che non potrà non farraccogliere i frutti auspicati.

3.2. Un pezzetto di legno liscio e vuoto

«Allora Marco Polo parlò:“La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero.

Il tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in unostrato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come si dispon-gono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato: una gemma ten-tò di spuntare in un giorno di primavera precoce, ma la brina della not-te l’obbligò a desistere”.

Il Gran Kan non s’era fin’allora reso conto che lo straniero sapesseesprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo.

“Ecco un foro più grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’untarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un brucoche rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essereabbattuto... Questo margine fu inciso dall’ebanista con la sgorbia per-ché aderisse al quadrato vicino, più sporgente...”.

La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legnoliscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei bo-

15 Così negli ultimi anni il Cisp ha curato la pubblicazione di inventari di fonti religiose,estendendo cioè a un altro settore, appunto agli archivi ecclesiastici, la raccolta originariadelle Fonti: si vedano quello relativo alla Sardegna (Anatra e Puggioni, 1983) e quello delladiocesi di Perugia (Leti e Tittarelli, 1976-80)..Queste stesse esigenze di fotografare la consi-stenza degli archivi e preparare così il terreno a studiosi e ricercatori è comune anche adaltri: per il Veneto Agostini (1989), per il bolognese Bellettini e Tassinari (1977), per la pro-vincia di Parma Moroni et al. (1985), per le campagne lodigiane Roveda (1985), per MilanoSala (1985), per la pianura bolognese Samoggia (1986). In precedenza – oltre a Bandettini(1961), per la Toscana – si vedano quelli pubblicati dal gruppo di Bari facente capo a Giu-seppe Chiassino (Chiassino et al., 1965; 1971; 1973; 1978). Mi scuso con altri studiosi senon sono stato in grado di dar notizie complete sull’argomento, ma, d’altra parte, questomio lavoro non ha la pretesa di fornire un bilancio completo.

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schi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendono i fiumi, degli ap-prodi, delle donne alle finestre »16.

Il tassello di legno di cui parla Marco Polo può essere l’emblema delnulla, agli orecchi di chi lo ascolta o agli occhi di chi, come il Kan, losta guardando, come può essere, del resto, un documento d’archivio —un pezzo di carta antica con numeri ed elenchi di persone, ad esempio— considerato (dal ricercatore) soltanto come il residuo frammentario dell’esi-genza razionalizzatrice di uno scrivano del passato intenzionato a darconto di una realtà aggrovigliata e dal quale il lettore spesso frettolosod’oggi poco può ricavare. Ma lo storico e il demografo accorto possonoin realtà interpretarne il contenuto, cogliere la realtà viva che vi è mala-mente, perché sinteticamente, riflessa: come fa Marco Polo, che di unsemplice pezzetto di legno liscio e vuoto, anche con la forza dell’immagi-nazione, riesce a ricostruire le vicende; intorno a quel pezzetto di legno,che a una prima occhiata del Kan è ridotto a qualcosa di insignificante,riesce a riavvolgere le fila di un vissuto, indietro nel tempo.

Ecco, allora, che il binomio esattezza-indeterminatezza sopra discussoassume non solo i due significati anzidetti, ma prospetta due direzionidi lavoro: da una parte il ricorso — o la riduzione dei dati — a metodid’analisi rigorosi ma razionali, dall’altra anche senso storico (ma non so,in verità, quanto senso storico occorra per fare sul serio demografia sto-rica; e, poi, che cosa significa veramente senso storico?).

La prima direzione, proprio per le difficoltà della ricerca in demo-grafia storica, per la sua palese multi-disciplinarità, per il fatto che coin-volge conoscenze diversificate — linguaggi e vocabolari diversi, modi di-versi di esprimere e di raccontare — richiede autentica collaborazioneinterdisciplinare (se ne è parlato così tanto che, forse, ha perso il suovero significato). La ricerca demografica resta di fatto una struttura, un’or-ganizzazione, sfaccettata: ogni parte potrebbe essere legata alle altre aldi fuori di una consequenzialità o gerarchia e potrebbe risolversi in uninsieme non organico di esperienze e congetture. Per questo, se si vuoiconseguire un’interpretazione unitaria e globale, occorre mettere insie-me al lavoro lettori accorti dei diversi «sintomi» o segni che compaiononei documenti d’archivio. Solo il filtro di esperienze diverse può rendereintelligibile una realtà che all’occhio di uno solo può invece restarenascosta e definitivamente sepolta nel passato.

16 Calvino (1972, pp. 140-41). La spiegazione (in realtà si tratta di auto-esplicazione)più esatta di questo brano è indubbiamente quella che ne dà lo stesso Calvino nel suoscritto postumo Lezioni americane (1988, pp. 70-72).

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Alla base di tutto, poiché la demografia storica è comunque studiodi «masse», anche se può passare attraverso la strada della raccolta didati individuali — come ad esempio nel caso della micro-demografia dellaricostruzione delle famiglie — alla base di tutto sta l’uso di metodologiestatistiche, le uniche che possono accomunare i differenziati punti divista. Esattezza di significati, ma insieme anche esattezza di analisi, odi significanti. Ora è ben vero che pure la demografia ha un suo stru-mentario specifico che in parte si è originato, o per lo meno si è perfe-zionato, nelle ricerche di demografia storica e che è in progressivo asse-stamento (Willigan e Lynch, 1982; Santini e Del Tanta, 1982; Univer-sidad de les Illes Balears e Iussp Committee on Historical Demography,1991; United Nations, 1983). In questo terreno l’apporto delle istitu-zioni, quali le società nazionali di demografia storica e l’Uiesp, è vera-mente importante perché contribuisce a mettere a confronto esperienzediverse, a recuperare idee e proposte e a divulgarle. Pertanto la stradadella metodologia di base, seguita passo passo con il sostegno delle pro-blematiche specifiche della demografia (in quali modi si studia, o si de-ve studiare, una popolazione?) può costituire lo strumento unificantedelle diverse frontiere disciplinari.

La seconda direzione, d’altro canto, richiede al demografo una ri-flessione, non per ripiegare su se stesso ma per aprirsi verso gli altri stu-diosi, senza mistificazioni e reticenze: senso storico non significa dispo-sizione solo verso la storia, ma anche verso la sociologia, la psicologiae la genetica, l’antropologia, la medicina e così via, con un po’ di imma-ginazione: come quella dalla quale, al suono delle parole di Marco Polo,si lascia trasportare lentamente il Kan (d’altra parte, come si può rico-struire il vissuto di persone di cui non restano più tracce, se non scarnie sbiaditi riferimenti su vecchi documenti, e delle quali si pretende in-vece di conoscere in quale modo hanno «regolato» i propri comporta-menti demografici?).

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Capitolo sesto

Demografia e biologia

Italo Scardovi

1. Interrogativi sull’odierna demografia

«Tra l’analisi biologica e quella sociale della popolazione si apre un’am-pia area di ignoranza. Come tanti altri scienziati sociali, i demografi sisono preoccupati di evitare la biologia perché ritenuta non rilevante ailoro fini, o addirittura pericolosa» (Keyfitz, 1984). La domanda è se sipossa fare dell’autentica «demografia» ignorando che le popolazioni sonoprima di tutto realtà naturale, fenomeno biologico; se si possano addurreteorie degli aggregati umani senza la consapevolezza critica dellaparticolare collocazione scientifica della ricerca demografica. Essa si situaidealmente a un suggestivo crocevia intellettuale, luogo di incontro e diconfronto tra scienze naturali e scienze sociali, luogo di superamento edi sintesi tra culture. Ma quale incontro, quale sintesi? «I manuali dibiologia — scrive ancora Keyfitz — incorporano brevi trattazioni didemografia. Ma questa attenzione non è reciproca». Purtroppo è vero.Sembra mancare ogni curiosità (salvo alcune belle eccezioni), negli at-tuali cultori della demografia, verso un’impostazione scientifica dello stu-dio delle popolazioni: essi sembrano paghi del proprio status di «scienziatisociali», della nicchia ecologico-professionale che tale posizione procuraloro, proteggendoli dall’obbligo, intellettuale e morale, di conoscere dipiù e più in profondo; soprattutto in Italia.

Eppure, la tradizione italiana aveva lasciato ben altro retaggio cultu-rale. Richiamandosi espressamente a quello che definisce il «periodo d’o-ro» della demografia italiana, in cui si è formata, e prendendolo a misuradel presente, Nora Federici (1987) vede segni di decadenza negli studidemografici di casa nostra. «Nello sviluppo dei diversi filoni della ricercademografica — è la sua lucida diagnosi — quello biodemografico si èandato progressivamente inaridendo.... L’attenzione alla possibileinfluenza di fattori biologici nel determinare l’evoluzione demograficaè venuta meno.... I demografi si sono mostrati sempre meno propensiad avventurarsi in ricerche che richiedono anche il ricorso ad interpre-

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186 Italo Scardovi

tazioni biologiche»1. La demografia rischia dunque di scadere — è laconclusione sconsolata e sconsolante — «dal rango di scienza a quellodi semplice tecnica», per effetto di questo «lasciare in ombra la sua vo-cazione interdisciplinare..., con una implicita tendenza a delegare even-tualmente ai cultori delle discipline più direttamente coinvolte l’inter-pretazione dei fenomeni demografici». Nora Federici si chiede allora seil demografo debba soltanto «limitarsi all’analisi più propriamente tec-nica e lasciare di volta in volta ai cultori di altre discipline l’interpreta-zione delle tendenze da lui correttamente individuate».

Una demografia che preferisce «delegare» l’interpretazione dei feno-meni che osserva, una demografia che s’appaga della descrizione di su-perficie, non può avere attenzione alla dimensione scientifica dei feno-meni delle popolazioni umane. «La demografia — l’osservazione è diKeyfitz (1984) —... si è ritirata dai suoi confini e ha lasciato una terra dinessuno in cui si sono infiltrate altre discipline». Fra queste, prima di o-gni altra, la genetica di popolazioni. Ma Keyfitz non dispera: «Il nostroobiettivo — scrive —... è sensibilizzare i demografi agli aspetti biologici».

«Non c’è dubbio — osserva Livi Bacci (1981) — che gran parte deglieventi e dei fenomeni demografici siano manifestazioni di processi bio-logici». «E ovvio — soggiunge — che il demografo non può essere biolo-go, genetista, naturalista, geografo, antropologo, economista, sociologoallo stesso tempo. Ma egli deve mantenere rapporti attivi con questediscipline». Di qui «l’interdisciplinarietà dell’indagine demograficaquando essa si sposti dalla fase della enumerazione dei fenomeni... allafase della ricerca delle cause»2.

La domanda è se quest’ultima «fase» non sia ormai sfuggita al domi-nio della demografia. Certo, il demografo non può essere tutto; ma de-

1 «Una più attenta e approfondita analisi dei fattori biologici - spiega Nora Federici (1987)- potrebbe chiarire alcuni andamenti difficilmente spiegabili con il ricorso ai fattori sociali (adesempio, la crescente super mortalità maschile)». La «supermortalità» maschile - un temaclassico della tradizione demografica - è un tipico esempio di sovrapposizione tra variabilibiologiche e variabili ambientali. La minore durata media della vita dei maschi nella specie umana,da sempre attribuita alla diversità sociale del vivere dei due sessi, ha rivelato, all’esame delletendenze storiche, una chiara origine genetica: nel tempo, la difformità nelle condizioni di vita dellecompagini maschili e femminili è andata sensibilmente riducendosi, e non per questo il divario tra idue sessi si è attenuato. Anzi, si è accresciuto.

2 Scrive Livi Bacci (1981): «Nel campo delle discipline prevalentemente sociali - come lademografia - il progresso scientifico avviene sia perfezionando i procedimenti metodologici odinventandone di nuovi, sia migliorando la qualità, il dettaglio, l’ampiezza dell’informazione ed inparticolare modo quella statistica.... Ciò, evidentemente, al fine di analizzare a fondo i fenomenidemografici, mettendo possibilmente in risalto le leggi, le regolarità, le interrelazioni con altrifenomeni - biologici, economici e sociali».

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ve saper intendere gli apporti di altre scienze, così da fare della demo-grafia una vera disciplina di sintesi. Altrimenti — come scrive Nora Fe-derici (1987) — resta «inevitabilmente escluso dalla possibilità di contri-buire al progresso scientifico... nel campo degli studi siila popolazione».

Le opinioni appena riferite — di studiosi di grande spicco — concor-rono a delineare Io stato dell’arte e delle attese in un settore fondamen-tale della ricerca e le difficoltà attuali di una disciplina che rischia diabdicare al suo ruolo. Se la distinzione tra le culture ha una sua ragionestorica di essere, una ragione un poco dimentica dell’unità profonda delsapere al di là delle necessarie specializzazioni, essa non deve costituirealibi di comodo per nessuno: tanto più nelle scienze interdisciplinari,nelle fenomenologie di confine. Qui, l’unilateralità culturale, la chiusu-ra specialistica, l’estraneità corporativa sono ancora più immotivate edannose.

2. La demografia tra «fenomeno» ed «epifenomeno»

Forse perché luogo scientifico di confronto, la demografia soffre og-gettivamente di una sua immanente stranezza. Quanto più se ne appro-fondiscono i contenuti, tanto più essi si trasformano. Se dagli « epifeno-meni » demografici si va ai «fenomeni» che vi concorrono, essi perdonovia via i tratti propri della demografia: diventano, per un verso, biolo-gia, genetica, antropologia e così via; per altro verso, sociologia, econo-mia, etnologia ecc. Sono tutti questi contenuti a fare della demografiauna virtuale koiné euristica, della realtà demografica un contesto naturalee sociale insieme. Ebbene, questa molteplice qualità della demografia,che tanto dovrebbe arricchirla scientificamente e nobilitarla cultu-ralmente, resta di fatto inespressa, quando non addirittura negata. Quasiche una demografia fondata sulle popolazioni, sulla loro genesi storico-naturale, sulla loro struttura biologica profonda, debba per questo sot-trarsi alle inevitabili implicazioni etico-sociali della vicenda umana.

Viene dalle scienze della natura l’immagine di una rinnovata sintesidi fenomeni e di metodi, sul fondamento di una nuova unità metodolo-gica del pensiero razionale: il rigido steccato tra scienze della materiae scienze della vita è ormai caduto e tante discipline un tempo lontanehanno imparato a riconoscere le proprie comuni radici logiche ed empi-riche. Perché una pur parziale integrazione, sintattica e semantica, trasapere naturale e sapere sociale non deve aver luogo nella scienza dellepopolazioni umane, ove l’oggetto della ricerca vede incontrarsi l’uno el’altro mondo fenomenico?

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La risposta è da ricercarsi nelle linee di pensiero donde proviene lademografia, nella sua vicenda di disciplina sempre più dominata dal con-tingente, sempre meno attenta alle popolazioni in quanto popolazioni.Eppure, è per aver guardato alle popolazioni come a realtà divenientiattraverso il gioco della variabilità individuale — un’interpretazione squi-sitamente statistica del fenomeno della vita — che Darwin ha potuto rin-novare dal profondo la biologia portando la natura nella storia e la sto-ria nella natura.

Si vuole che demografia e statistica siano cresciute insieme, «sorelledi latte» (l’espressione è di Nora Federici), nella culla di certa praticasecentesca intesa alla descrizione numerica di popoli e di luoghi. Di lì,certo, hanno tratto la loro ragion d’essere, nei tempi moderni, organismipubblici dediti alla rappresentazione quantitativa delle comunità organizzate,allo scopo, nel passato e nel presente, di offrire elementi per un’azione digoverno fondata sulle cose, argomentata nei dati. Ma quando s’avviavanoquelle notitiae cominciavano ad apparire, attorno al cenacolo baconianodella nascente Royal Society, alcuni curiosi tentativi di indaginequantitativa sulle popolazioni, motivati dall’istanza empirista di cercare,nei fatti del reale, negli avvenimenti del quotidiano, proporzioni,regolarità, leggi. Qui, l’intento non è amministrare: è conoscere; non èdescrivere una collettività definita e circoscritta nelle sue caratteristichestatiche e dinamiche: è cogliere, in un contesto empirico assunto comeespressione contingente di una più ampia realtà fenomenica, le leggi ditendenza delle popolazioni, le loro determinanti remote, le loro im-plicazioni collettive. Che nelle parrocchie londinesi della metà del Sei-cento si battezzino più maschietti che femminucce o nei sobborghi lavita si concluda in età più giovane che nei quartieri dei privilegiati, noninteressa al reggitore della cosa pubblica quanto all’indagatore dei feno-meni, naturali e sociali, delle compagini demografiche. Ed è costui a in-terrogarsi sul grado di generalità e di stabilità delle regolarità acquisite.Coraggiose induzioni, che verranno etichettate come «aritmetica politica»per il loro tradurre in numeri e in rapporti tra quantità — dominio finoallora incontrastato delle scienze della phỳsis — gli eventi della polis, levicende dell’uomo.

Quella filosofia empirista rivivrà in qualche modo due secoli più tar-di, nel movimento di pensiero da cui prenderanno forma — ad opera diastronomi intenti a cercare sulla Terra regolarità matematiche appenaassimilabili a quelle scorte nel cielo — una nuova fenomenologia e unanuova metodologia. Ne verrà la statistica scientifica: un metodo uni-versale della ricerca che riprende ed estende il canone galileiano — il ca-

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none della scienza — a tutti i fenomeni calati nella immanente variabili-tà. Ne verrà, poi, una nuova intuizione della realtà e il concetto di «leg-ge statistica» diverrà enunciato comune a tutto un sapere, a cominciaredal sapere fisico, mentre una nuova filosofia naturale, non più rigida-mente determinista, appresterà i fondamenti — statistici, appunto — diuna nuova «logica». Sì che pare quasi impossibile riconoscere, in queiremoti e stravaganti «aritmetici», i pionieri di un metodo andato ormaitanto lontano dalle loro concezioni e dai loro intendimenti. Un metodoche detta il codice interpretativo delle particelle elementari della mate-ria, dei costituenti intimi della vita, delle leggi delle popolazioni, sianoesse di molecole o di viventi.

Ma senza l’apporto di conoscenze e di problemi venuto dai fenome-ni demografici, forse la statistica non avrebbe avuto tanto successo ela stessa demografia non avrebbe saputo proporsi senza una coerenteinnervatura metodologica.

3. La demografia tra «essere» e «dover essere»

La scienza è tale in quanto è conoscenza, in quanto coglie le leggidel reale, la natura profonda dei fenomeni, le componenti intime deiprocessi. Così è nelle scienze naturali: scienze vere e proprie, scienzedell’«essere». E una sorta di sovrapposizione all’«essere» di un «doveressere» quasi ignaro delle ragioni dell’«essere» a collocare certe discipli-ne sociali in una sorta di limbo parascientifico, tanto più vago e sfug-gente quanto più lontano dai canoni del sapere razionale.

E un poco la sorte della demografia. In essa s’avverte talvolta l’affla-to precettistico di certo sociologismo rivolto alla realtà non tanto comea un contesto da cogliere nella sua genesi e nei suoi algoritmi quanto,e più, come a un problema da risolvere in qualche modo. E pur veroche non è sempre facile guardare gli aggregati umani con l’occhio ogget-tivo del naturalista, considerare le leggi demografiche come leggi scien-tifiche senza accompagnarvi motivazioni etiche, studiare il divenire dellepopolazioni con lo stesso distacco del fisico al cospetto di un processotermodinamico nella freccia del tempo o del microbiologo davanti al-l’accrescersi di una coltura batterica. « Si possono facilmente considera-re con l’indifferenza scettica della scienza sperimentale le formiche; èmolto più difficile considerare allo stesso modo gli uomini» — ha scrittoPareto; ed è ben noto l’interrogativo di Skinner: «Perché è tanto diffi-cile trattare scientificamente del comportamento umano?».

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Non si può certo pretendere di rispondere proponendo di far tutt’unodegli schemi concettuali costruiti sui fenomeni della natura e di quellicostruiti sui fenomeni della società: per molte discipline dell’ordine nonnaturale un autentico assetto nomotetico — semmai sia pensabile — è an-cora assai lontano; né ci si deve illudere di giungervi attraverso superfi-ciali forrnalizzazioni, spesso destinate a risolversi in goffe mascheraturesimbolistiche. Tuttavia una sintesi transdisciplinare che sia confrontocritico di paradigmi, che assuma gli schemi formali come artefatti-limite,può contribuire ad allargare l’orizzonte conoscitivo. Se non è lecito pen-sare di trapiantare, sic et simpliciter, da un campo all’altro, principi emetodi, regole e modelli, nemmeno si può credere — ammonisce Lewontin(1984) — di «esportare concetti» dal contesto sociale, per reimportarlidopo aver ad essi fornito una «rispettabilità scientifica» in ambitobiologico (come non pensare, un esempio fra i tanti, a Herbert Spencer,al suo rivestire di un evoluzionismo biologico male inteso tesi sociologi-che incompatibili con la teoria darwiniana?).

Tra demografia e scienze della natura sussistono intersezioni feno-menologiche e metodologiche: quelle fenomenologiche attengono alle de-terminanti genetiche dei fenomeni demografici e alle conseguenze ge-netiche di questi; quelle metodologiche non sono tanto e soltanto nel-l’uso di comuni strumenti quanto e più nell’unicità del canone di letturadei fenomeni, un canone essenzialmente statistico.

L’interpretazione scientifica del fenomeno della vita è ormai irridu-cibilmente «popolazionistica», sulla falsariga di un’analisi statistico-probabilistica dei fenomeni naturali: è la linea di pensiero di tutte lescienze che hanno imparato a trattare popolazioni (di particelle, di nu-cleotidi, di genotipi o di viventi): dalla cinetica del calore alla biologiaevoluzionistica, dalla genetica alla meccanica quantistica; e perché nonanche alla demografia, il cui oggetto, la popolazione umana, è in se stes-so espressione di variabilità, immanente e diveniente? Che cos’è la ter-modinamica se non lo svolgersi di processi molecolari collettivi statisti-camente irreversibili? Che cos’è la disintegrazione radioattiva se non l’e-stinguersi nel tempo di un aggregato di atomi? Che cos’è la meccanicaquantistica, se non codificazione delle proprietà statistiche di insiemi dicostituenti elementari? E che cos’è l’evoluzione biologica se non ildivenire delle specie viventi attraverso il gioco combinatorio, nelle po-polazioni, di quella variabilità individuale in assenza della quale la vitascomparirebbe3? Dunque, un canone statistico e demografico insieme:

3 Per eventuali approfondimenti in argomento si rinvia a Scardovi (1983a; 1988). Sipuò inoltre vedere Scardovi (1977).

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l’incontro di natura e storia, di gene e ambiente, di accidentalità e neces-sità. Nell’alfabeto del «caso» una grande unità linguistica e concettuales’è ormai affermata e coinvolge scienze della materia e scienze della vita.E Jacquard (1984) a ricordarci che la «probabilità statistica» può esserelo strumento intellettuale di una nuova interdisciplinarità, di un legamegnoseologico tra demografia e biologia. Se il genetista — questa, in so-stanza, la tesi di Jacquard — s’avvale delle conoscenze della demografiaper definire la popolazione di riferimento, il demografo che non vogliasoltanto descrivere non può ignorare la genetica e i suoi modelli, chesono modelli statistico-probabilistici.

Interrogarsi sul ruolo conoscitivo della demografia, quale luogo di incon-tro tra ricerca sulla natura e ricerca sull’uomo, tra cultura scientifica ecultura umanistica, significa dunque ripensare il contenuto di una discipli-na per molti aspetti «strana». Quanto più la si approfondisce, tanto piùessa sfugge; tanto meno, per così dire, è demografia; la sua duplice ani-ma, del naturale e del sociale, sembra essere diventata ormai una pietrad’inciampo, un principio di contraddizione. Non sempre il demografo èl’osservatore razionale dei fenomeni delle popolazioni: è, più spesso, ilportatore di visioni e di problemi contingenti, più attento alla politica de-mografica che a una scienza demografica; tratta di natalità, di mortalità, dimigrazioni, facendo tutt’uno dell’analisi degli eventi e della preoccupa-zione sociale suscitata dal divenire di questi. Ancora il «dover essere», quel«dover essere» che fa, delle scienze dell’uomo, scienze di tipo assai parti-colare. Di qui il difficile comporsi di una vera scienza delle popolazioni u-mane e la crisi d’identità di una demografia ormai incapace di compierela sintesi — direbbe un poeta — di «frantumi di vari universi / che nonriescono a combaciare».

4. La demografia nella grande tradizione italiana

Una demografia che non voglia ridursi a semplice numerologia cen-suaria non può non riandare alle radici di un passato — un passato italia-no — ormai lontano nel tempo e ancor più nelle scelte culturali. Dall’o-pera dei più illuminati demografi del primo Novecento e degli eredi diquella tradizione viene, pur tra contraddizioni e contrasti, una lezioneautentica di interdisciplinarità, un esempio ancor vivo di ricerca del fe-nomeno oltre l’epifenomeno, nonché un invito a non guardare con di-stacco, se non addirittura con sospetto, chi osa porre certa fenomenolo-gia in chiave biostatistica.

Nel discorso inaugurale al Congresso internazionale per gli studi sullapopolazione (Roma, settembre 1931), premesso che lo studio della

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popolazione si conduce sui fatti, ma «senza le direttive di schemi teoricii fatti risulterebbero, invero, un’accozzaglia informe di materiale», ungrande caposcuola, C. Gini (1931), affermava: «Molte delle indagini sullepopolazioni attuali e sulle passate a poco tuttavia approderebbero se irisultati della demografia non fossero ravvicinati a quelli ottenuti dallealtre scienze.... E non solo intendo delle altre scienze sociali e inparticolare dell’economia politica, con cui da Malthus in poi la teoriadella popolazione è rimasta indissolubilmente connessa, ma anche, e vorreidire soprattutto, delle scienze biologiche... e delle scienze fisiche».

In quell’età aurea della demografia italiana Gini aveva pensato e av-viato, attivissimo, nel 1931, il Comitato italiano per lo studio dei pro-blemi della popolazione (Cisp), articolato in otto sezioni, tre delle qualidedicate ai: temi di interesse bionaturalistico, e diretto a promuovere,a condurre e a coordinare indagini autenticamente interdisciplinari sullepopolazioni: l’orizzonte investigativo andava dalle scienze della naturaalle scienze dell’uomo, dalla biologia alla demografia, per l’interme-diazione logica e tecnica della statistica. Quella che Gini chiamava «unaconcezione più larga degli studi sulla popolazione» improntava tutta unaserie di riflessioni sulla metodologia della ricerca e di ricerche sul campofra le più diverse etnie: dai danada tripolitani ai bantu rhodesiani, aiberberi del Gebel, ai samaritani di Palestina, alle comunità umane del-l’Himalaya e a quelle del Messico; dagli otomi dell’Hidalgo agli aztechidi Tuxpan, ai cora della Sierra Nayarita, ai taraschi del Michoacan ecosì via. Una demografia davvero scientifica e multidisciplinare: una verascienza delle popolazioni umane4. Esponendo, nel 1933, al MedicalBuilding di Cleveland il programma di ricerche del Comitato, Gini (1934a)ammoniva: «lo studio scientifico delle popolazioni non può essere limi-tato... alla illustrazione dei dati sullo stato e sul movimento della popo-lazione, quali si possono desumere dalle rilevazioni dei censimenti e daquelle del movimento dello stato civile... Una conseguenza di tale situa-zione è che lo studio della popolazione viene quasi dovunque inclusonelle scienze sociali e separato dalle scienze biologiche». Dunque, giàin quegli anni si avvertiva la tendenza a una scelta monoculturale dellademografia, al seguito delle rilevazioni pubbliche sulle popolazioni.

Ma non per questo la ricerca demografica di Gini e della sua scuolatrascurava d’avvalersi dei risultati delle rilevazioni nazionali. «Se io penso— chiariva Gini (Gini, 1934a e Federici, 1943), a commento delle prime

4 Le inchieste del Cisp erano ispirate a una visione «globale» delle realtà osservate: in-dagine demografica, indagine antropometrica e indagine biomedica si affiancavano e siintegravano l’un l’altra. Si veda Gini e Federici (1943).

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spedizioni scientifiche da lui guidate — che il metodo migliore per stu-diare le popolazioni è rappresentato da ricerche di questo genere, nonsvaluto tuttavia le ricerche fatte sui dati statistici del movimento dellapopolazione». Di ciò dava prove esemplari in saggi illuminanti per ori-ginalità di metodo e acutezza di interpretazione (basti ricordare, per unsolo riferimento, una prima, parziale raccolta di scritti: Gini, 1934b).Nel 1934, Gini fondava Genus, rivista scientifica del Cisp5 e nel 1936la Facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali dell’Univer-sità di Roma. Uno dei corsi di laurea era in «scienze statistiche e de-mografiche», e nel piano degli studi figureranno, in un breve volgerd’anni, discipline naturalistiche; è avvilente notare come tali discipline(tuttora previste negli ordinamenti universitari) siano oggi in gran parteneglette. Ancora un sintomo dell’allontanarsi degli studi demografici dallabiodemografia e dalla biostatistica, ancora un effetto della scelta mono-culturale a orientamento socio-economico6.

Se le analisi giniane sui dati censuari e anagrafici della popolazioneitaliana anticipavano metodi e criteri destinati ad affermarsi, talora perriproposizioni autonome, nei decenni che verranno e ancora ai giorninostri, le spedizioni scientifiche nei più svariati angoli del pianeta pre-correvano certe intuizioni della genetica attuale. Lo stato delle cono-scenze in materia era ancora lontano dagli sviluppi delle scienze che ver-ranno, ma quelle indagini su popolazioni isolate e sul loro divenire, sul-l’evolversi di etnie appartate e sui processi di decadenza possono benritenersi d’avanguardia, soprattutto se si pensa al difficile incedere diuna biologia evoluzionistica nella cultura scientifica dell’Italia di allora.Tali erano, ad esempio, le indagini sugli effetti dell’endogamia o sullafecondità degli ibridi in popolazioni groenlandesi, neozelandesi, messi-cane, non meno importanti delle analogie probabilistiche tra i processierratici che si avverano nei piccoli gruppi di viventi, nel loro diveniree scomparire, e i modelli di estrazione da urne (erano gli anni in cui Se-wall Wright meditava le sue tesi sul random genetic drift); così pure leinterpretazioni della scelta matrimoniale nel raffronto con i fenomeni

5 Ora la rivista Genus è diretta, con immutata apertura transdisciplinare, da Nora Fe-derici, succeduta a Gini anche nella direzione del Cisp: un ente ricco di tradizioni, ma pur-troppo non di mezzi.

6 Tant’è che, di tre facoltà di scienze statistiche, demografiche e attuariali funzionantiin Italia soltanto una, quella dell’Ateneo bolognese, ha cercato di dare al piano di studi perla laurea in scienze statistiche e demografiche anche una coerente impostazione biostatisti-ca, aprendo lo studio demografico delle popolazioni alle discipline bionaturalistiche: dall’an-tropologia alla biologia delle popolazioni, dalla biometria alla genetica. Discipline affiancate,ovviamente, alle discipline d’impronta economica e sociale e innestate sulle discipline delmetodo: matematiche, statistiche, probabilistiche, informatiche.

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di ibridazione di popolazioni non umane (già nel 1925, Gini aveva datorilievo su Metron, rivista internazionale di statistica da lui fondata e diretta,a una limpida indagine di Luzzatto-Fegiz, 1925, sui processi di fissazionee di sostituzione che avvengono nelle comunità isolate, attraverso ilconcentrarsi dei cognomi nel comune toscano di San Gimignano).

L’apertura a tutte le scienze era totale e coinvolgente, nello spiritodi una libera ricerca che non conosceva vincoli di sorta, e andava dal-l’antropologia all’etnologia, dall’etologia alla genetica7. Ai temi generalidella popolazione, ai problemi dell’equilibrio, ai modelli demografici,alle teorie evolutive, Gini presterà sempre una particolare attenzionecritica, nell’intento di una fondazione scientifica della demografia, sinoagli ultimi anni della sua vita, quando, fra l’altro, raccoglierà in un den-so volume (1963) riflessioni bio-demografiche e socio-demografiche sullateoria delle popolazioni e sui modelli matematici, sui fattori demograficie sociali del «metabolismo demografico», sulle caratteristiche dei primitivi(per tacere di altri scritti di grande respiro intellettuale, fra i quali uncospicuo numero monografico di Genus dedicato agli interrogativi intornoall’«uomo delle nevi»).

Questo orientamento multidisciplinare degli studi demografici avevatrovato suggestive premesse nel primo trattato demografico italianomoderno, apparso agli albori del secolo, i Principii di demografia di Benini(1901). Un libro arguto e colto, rivolto al naturale e al sociale: ai caratteriantropologici o alle proporzioni numeriche tra i sessi non meno che allastratificazione socio-economica o ai fattori della «coesione sociale », allecaratteristiche demografiche degli agglomerati non meno che alle teoriequantitative dello sviluppo delle popolazioni. S’apriva, quel testo, sultema della variabilità individuale dei caratteri umani e dei modelli che ladescrivono, non senza interrogarsi sui processi che vi contribuiscono. Equanto interesse all’eredità dei caratteri, trattata nei termini delle«regressioni galtoniane » (quando Benini dava alle stampe quelle pagine — laprefazione è datata settembre 1900 — De Vries, Correns e vonTschermack si erano appena imbattuti, ciascuno all’insaputa dell’altro,nelle leggi — e sono leggi statistiche — scoperte trentacinque anni primadall’abate Mendel nell’orto di un convento moravo).

Fra i temi di quel testo figurava anche il rapporto numerico dei sessialla nascita, oggetto di curiosità e di dibattito da lungo tempo e ancorpiù negli anni a venire: una sorta di filo rosso semantico nella storia del

7 Tutto ciò nello spirito della più assoluta indipendenza intellettuale. Il Comitato offriva,secondo le rassicuranti parole di Gini, «ogni collaborazione a tutti gli organismi scientifici cheintendono operare nello stesso senso, con scopi seri e senza pregiudizi di razza, che non hannonulla a che vedere con la scienza».

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pensiero biodemografico. Sette anni dopo il libro di Benini, sarà l’argomentodi un’opera magistrale di Gini (1908)8, in cui metodologia statistica,fenomenologia naturalistica e analisi biodemografica comporranno (alla lucedelle scarse e contraddittorie conoscenze dell’epoca) un discorso assaiarticolato e tuttavia unitario e coerente9. Tre anni più tardi, Gini (1911)tratterà la questione della variabilità della tendenza a produrre i sessi inuna memoria10 della quale non si sa se più ammirare la rigorosainterpretazione statistico-critica dei famosi e discussi «dati di Geissler» ol’originale idea metodologica che la sostiene: una generalizzazione della«regola di successione» di Laplace, di grande rilievo negli studi logico-matematici sull’induzione; certo si tratta di uno dei tanti fondamentalicontributi di Gini alla metodologia statistica induttiva. Il rapportonumerico tra i sessi (al concepimento, alla nascita, alla pubertà) è fra gliargomenti maggiormente trattati e discussi ancora ai nostri giorni e copre piùdi un quarto della saggistica biodemografica internazionale raccolta neirepertori: in Population Index contende il primato agli studi sul ciclo fecondodella donna e a quelli sulla durata della vita.

Se nella regolarità delle proporzioni numeriche tra i sessi nelle nasciteumane Arbuthnot aveva intravisto, agli inizi del Settecento, l’intervento diuna volontà capace di domare il caso e Siissmilch il segno provvidenziale di unagdttlische Ordnung, l’odierna genetica vi riconosce una conseguenza della divi-sione meiotica alla spermatogenesi e interpreta il lieve e sistematico sopran-numero di maschi nelle nascite umane alla stregua di una risposta adattativaalla selezione, a svantaggio del sesso eterogametico, nelle prime età della vita,il cui risultato è l’equilibrio quantitativo tra i sessi nell’età riproduttiva.

Alle «leggi della produzione dei sessi» Gini sarebbe ritornato piùvolte, sino agli ultimi anni della sua vita, anche in alcuni «discorsi d’aper-tura» o «di chiusura» alle riunioni della Società italiana di statistica (SIS),sorta nel 1939, di cui era presidente. Alla biometria e alla biodemografiala SIS riservava un’attenzione non occasionale e non superficiale, dibat-

8 Sia consentito ricordare che, nel 1960, Gini volle affidare all’estensore di queste no-te una nuova versione, reimpostata e aggiornata, di quel libro pieno di idee (alcune dellequali possono apparire, oggi,piuttosto stravaganti: ma quando Gini scriveva nulla ancorasi sapeva, per tacer d’altro, di cromosomi sessuali); e grande fu il dispiacere del maestronel dover convincersi che quell’opera doveva rimanere così: così impostata e così datata.

9 Gini si riferiva alle altre specie viventi in una visione naturalistica comparata delleproporzioni tra i sessi per cogliere l’influenza di possibili fattori che egli identificava in:«l’ambiente, la selezione naturale, la variabilità individuale, l’eredità», intuendol’importanza biogenetica della parità numerica tra i sessi ai fini riproduttivi.

10 Si noti la collocazione di questo scritto (il saggio apparve in Studi economico-giuridicidell’Università di Cagliari). Gini era professore di statistica e, in Italia, la statistica era inse-gnata, a quel tempo, nelle sole facoltà di giurisprudenza.

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tendo argomenti di grande interesse, sempre attuali11: ancora nelle ul-time riunioni annuali da lui presiedute, Gini svolgeva ampie e profonderassegne critiche dei problemi, delle ipotesi, dei dati12.

E suggestivo veder ritornare, oggi, nel linguaggio della più avanzatagenetica, tesi e ipotesi, interrogativi e confronti che figuravano nell’o-pera di Gini e, si può dire, di tutti i grandi demografi della prima metàdel Novecento, a cominciare da Benini, dalla sua concezione naturali-stica della popolazione e della società umana: egli definiva la demogra-fia «scienza quantitativa della popolazione» intesa allo studio degli ag-gregati sociali «da un punto di vista naturale-meccanico» allo scopo di«stabilire leggi empiriche e di trattare... i fatti collettivi come risultatimeccanici di forze»; un’ispirazione di chiaro stampo newtoniano-laplaciano, anche nell’esplicito richiamo a quella phisique sociale in cuiQuételet aveva azzardato, fra tante intuizioni e illusioni, una visionemetodologica unitaria dei fenomeni della natura e dell’uomo: una de-mografia certamente «datata», anche nella Weltanschauung di riferimento,ma non unilaterale e non superficiale.

Di questa demografia aperta e colta è immagine esemplare anche l’o-pera di Livio Livi. Figlio di Ridolfo Livi, antropometrista d’avanguar-dia, L. Livi cercava nella realtà naturale i fondamenti della vita sociale,non mancando di dar rilievo, come Benini e Gini, anche ad aspetti nonquantitativi. In un saggio monografico, Livi (1915) approfondiva l’in-fluenza dei fattori biologici e delle caratteristiche organiche sulla for-mazione della famiglia e della società; e, dal confronto tra i periodi diallevamento delle varie specie di mammiferi, traeva una ragione biode-mografica della persistenza dei nuclei familiari umani. Livi stesso (1941)avrebbe ripreso, in un più ampio contesto, questa suggestiva concezionenei due volumi del suo Trattato di demografia. Essi s’ispiravano allabiologia darwiniana prendendo lucidamente le distanze dagli stravolgi-menti di certo sopraggiunto sociologismo, che aveva tradito il pensieroevoluzionistico.

Livi assegnava alla demografia il compito di cercare «il fondamentobiologico della struttura sociale». «Le forme associative — scriveva nel

11 La Società italiana di statistica, anche dopo Gini, non ha mai negato attenzione —soprattutto durante la presidenza di G. Leti — alle tematiche bíostadstiche. Si legga inproposito Federici (1989).

12 Si citano, fra gli altri, Gini (1960a; 1960b; 1961a; 1962). Dello stesso periodo sonoaltri saggi biostatistici apparsi su Metron nonché Gini (1961b). Nella penultima riunionescientifica della SIS da lui presieduta, venne svolta da chi scrive, su invito, la memoriaindicata in Scardovi (1963); e l’ultima riunione si concluse con un «discorso di chiusura»sulla biometria (Scardovi, 1964).

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Trattato — possono considerarsi... come conseguenze di taluni caratteridella specie»; e, muovendo da tali caratteri, studiava le forme dell’aggre-garsi umano — la famiglia, il gruppo, la popolazione — nell’interagire difattori «interni» e di fattori «esterni», soffermandosi sulla variabilitànaturale dei caratteri, sui suoi riflessi nell’organizzazione sociale. Si dif-fondeva poi nel trarre «prove dal regno animale», cui accostava le «prove etno-grafiche e demografiche» e le «prove antropogeografiche»: una sorta di«sociobiologia» ante litteram, ove era dato rilievo, come già nell’opera di Gini,agli effetti dell’isolamento dei gruppi umani e della conseguente endoga-mia (spiace che quegli scritti di Livi non siano stati tradotti in lingua in-glese: certa trattatistica, oggi in gran voga, dovrebbe riconoscervi i se-gni di una indubbia priorità concettuale).

Prendendo a esempio le piccole comunità di talune isole dell’Egeoe il decadere dei gruppi umani scesi al di sotto di un certo ordine digrandezza, Livi (1941) delineava, con bella intuizione statistica, la que-stione della minima dimensione demografica. «La scarsità numerica —scriveva — compromette la normale variabilità dei caratteri e delle atti-tudini, base anch’essa della saldezza sociale, potendo consentire al casodi porre insieme una eccessiva proporzione di individui troppo deboli»:sono temi, oggi, di genetica evoluzionistica, ma non per questo estraneia una demografia che non voglia fermarsi alle descrizioni numeriche.Livio Livi rivendicava l’autonomia scientifica di quella demografia. Co-me motivare l’autonomia scientifica dell’odierna demografia?

Si sfogli, per un’ulteriore esemplificazione, il primo volume delle Lezionidi demografia di Alfredo Niceforo (1924). Più di cento pagine sono dedicatealle «differenze biologiche individuali tra gli uomini». Una concezionemultidisciplinare alla quale si rifaceva, ancora, il trattato di MarcelloBoldrini (1946), attraverso un’analisi delle determinanti naturali degliaggregati umani: «una demografia sperimentale» tesa — scriveva Boldrini— «ad intendere i fenomeni biologici delle collettività umane», vale a direuna demografia di ampia prospettiva, altrettanto attenta alle componentisociali delle comunità. Cogliendo abilmente i chiaroscuri degli studi dibiodemografia in Italia, tra le due guerre mondiali, Colombo (1979) hascritto: «Penso quanto felice fosse il momento per gli studi italiani dicui ora ci interessiamo tra il 1920 e il 1940».

Questa la linea di pensiero della demografia italiana fin verso la metàdel secolo. Una demografia irripetibile, oggi, anche per l’affermarsi dinuove discipline specifiche. Una demografia che precorreva, negliintenti e nei modi, tanta «genetica di popolazioni» e certa «sociobiolo-gia» (quest’ultima è proposta da Wilson, 1975, come «studio sistema-tico delle basi biologiche di ogni forma di comportamento»: quando

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Wilson scrive che «il comportamento della società considerata nel suocomplesso è definito dalla sua demografia», assegna all’immagine demo-grafica di una comunità un ruolo preciso).

Si sente dire che quella demografia non era tutta «statistica» in quantonon trascurava i caratteri non quantitativi, gli eventi non numerabili.Ma l’assetto statistico di una disciplina non è necessariamente nei cal-coli e nelle cifre: è nel canone interpretativo dei fenomeni13. Prima epiù che un opportuno modus operandi della ricerca, il metodo statistico èun autentico modus intelligendi della realtà. Tale è il paradigma evolu-zionistico: un modo di intendere le popolazioni e di intenderne la varia-bilità, l’accidentalità, la storicità. Senza un’intuizione statistica della na-tura, senza riferirsi alle popolazioni e alla variabilità di cui sono espres-sione, le scienze naturali non avrebbero mai ottenuto la loro conquistapiù importante: l’idea di evoluzione.

Quella demografia italiana anticipava linee di pensiero che oggi pro-cedono, forti delle nuove conoscenze scientifiche e di nuovi strumentimetodologici, al di fuori della demografia. Eppure era ancora demografiaquando Benini attribuiva alla variabilità individuale un ruolo nel diveniredelle popolazioni, quando Gini coglieva le proprietà stocastiche delladeriva e intuiva — al pari di Boldrini — il valore del tasso riproduttivo diun biotipo, quando L. Livi cercava il fondamento genetico delcomportamento sociale. Una demografia di ricerca, con le intuizioni, idubbi, le ingenuità di un’epoca pionieristica, in cui ancora non s’era dif-fusa — e tanto più in Italia — la consapevolezza di una nuova scienza,che quella demografia in qualche modo presagiva: anche nella scelta delcontesto, anche nell’interesse alle popolazioni-limite. Come Gini e i suoicollaboratori conducevano ricerche biodemografiche nelle isole mediter-ranee di Carloforte e Calasetta o, nel Pacifico, nell’isola di Janitzio, cosìl’odierno genetista sperimenta i suoi modelli di deriva nell’atollo diPingelap (oceano Pacifico), osserva l’effetto del fondatore nell’isola diTristan da Cunha (oceano Atlantico), coglie le componenti evolutive dellecomunità delle isole Andamane (oceano Indiano).

Il retaggio di quella tradizione italiana sopravvive, forse, nell’operadi qualche studioso, ma non v’è dubbio che negli ultimi quarant’anniil panorama degli studi demografici italiani è sensibilmente cambiato.Ne sono un riflesso anche i trattati: tutti, o quasi, offrono un’altra im-magine della demografia. Anche quello del figlio di Livio Livi (e nipote

13 È il canone che ha ispirato la grande sintesi tra genetica mendeliana ed evoluzioni-smo darwiniano, su di una matrice statistica e probabilistica. Basterà ricordare tre operefondamentali: Fisher (1930); Wright (1931); Haldane (1932).

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di Ridolfo Livi), Massimo Livi Bacci (1981). È un fatto che, dal secondodopoguerra ai nostri giorni, la demografia si è sempre più «specializzata» insenso politico-sociale. Se Gini non volle mai rinunciare alla sua matricescientifica a largo spettro, continuando a spaziare dal metodologico al fe-nomenologico, dal naturale al sociale, altri preferirono invece dedicarsi apiù contingenti problemi. Si vuole vedere in questo abbandono una sortadi rifiuto verso una disciplina in qualche modo compromessa con gli impera-tivi di un regime proteso ad attuare una politica demografica, dapprima in-coraggiando la natalità (lo si è fatto, e ancora Io si fa, in molte altre na-zioni) e poi affermando una sorta di « demografia razziale» detestabile sulpiano scientifico non meno che su quello morale: si era giunti addirittura asostenere, ma non dai demografi, l’esistenza di una «razza ariana»; unpoco di cultura sarebbe bastato a far capire che dire «razza ariana» è co-me dire, altrettanto ridicolmente, «lingua dolicocefala». Ma cercare la ra-gione dello stato presente degli studi in qualche vago cedimento ideolo-gico della demografia prebellica appare troppo facile e comodo14.

5. Gli studi di demografia in Italia

Considerando lo stato della ricerca demografica di casa nostra, LiviBacci (1969) dava l’allarme, dichiarando a tutte lettere che «la demogra-fia si trova, in Italia, ed ormai da qualche tempo, in una situazione di cri-si;... gravata da un passato ricco di prestigio... conscia del rapido cresceredell’interesse internazionale verso i problemi della popolazione, ma in-certa se rifarsi alle tradizioni nazionali o se seguire le tendenze degli stu-di — quando non della moda — affermatesi in altri paesi». «È certo...— osservava — che la crisi è reale; che essa ha origini assai complesse,come complesso è il carattere interdisciplinare della demografia». «Chene è — si domandava ancora, richiamandosi ai grandi statistici-demo-grafi italiani — del patrimonio di idee, di studi, di risultati da loro accu-mulato in oltre mezzo secolo di attività?» «La risposta — soggiungeva— è un poco penosa». «La rigidità dell’osservazione demografica — no-tava poi — è il maggiore ostacolo contro il quale debbono lottare i de-mografi, in particolar modo quelli italiani».

Forse non è solo un problema di dati, di fonti, di rilevazioni correnti,di «rigidità dell’osservazione»: forse incombe, anche, una sopraggiunta

14 Dopo un attento esame dei principali scritti di tre fra i maggiori studiosi italiani di bio-demografia nell’epoca fascista - Giní, Livi e Boldrini - Colombo (1979) ha dato questo giu-dizio: «Ho letto varie loro opere fondamentali... e in nessuna ho mai visto il termine “fasci-smo” o l’aggettivo “fascista”. Erano persone che avevano una libertà intellettuale assoluta».

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rigidità culturale. In primo luogo, la grande demografia italiana era stret-tamente avvinta alla metodologia statistica, che nelle popolazioni avevatrovato un immediato riferimento empirico per sperimentarvi euristica-mente i propri strumenti, tecnici e logici, senza peraltro fermarsi allefonti censuarie: s’avvaleva argomentatamente delle rilevazioni sistema-tiche pubbliche, ma andava oltre quei temi e quei dati. Il modo di pen-sare statistico-scientifico era essenziale alla fondazione teorica della di-sciplina non meno che alla determinazione oggettiva delle grandezze edelle tendenze. Un modo al quale non sembrano essersi sempre attenutiquanti, ancora pochi anni fa, estrapolando nel lungo periodo andamentidi più breve momento, gettavano allarmi malthusiani sulle nostre popo-lazioni esortando a comprimere la natalità, per poi passare, di lì a nonmolto, a deplorare la gravità dello slittare della distribuzione per età edell’accrescersi del peso relativo degli anziani. Una poco men che atten-ta analisi delle tendenze storiche delle due componenti naturali del ri-cambio demografico avrebbe suggerito di trarre meno sbadate profezie:la natalità era da tempo in progressiva diminuzione e la mortalità erasensibilmente discesa in un breve volger d’anni — donde l’accrescersi dellapopolazione — ma la curva era pur sempre destinata ad asintotizzarsi.Non ci voleva molto a capire ciò che mostrava d’aver capito il capotribù bantu di un gustoso aneddoto: interrogato da una spedizione scien-tifica circa la «mortalità» dei suoi amministrati, avrebbe risposto constupefatta malizia: «Ma..., qui da noi, la mortalità è di circa un de-cesso per persona».

È vero che da tempo l’informazione statistica — come scrive LiviBacci — «è rimasta quasi immutata», il che è indubbiamente un ostaco-lo. Ma una demografia che non sia soltanto notitia rerum publiearum15,che abbia respiro scientifico, non può andare a rimorchio delle rileva-zioni ufficiali. Certo, sono necessarie indagini speciali. Così faceva il Cispginiano, così fa l’Ined francese16 (al cui confronto Livi Bacci (1969) giu-dicava ancor più grave il «relativo regresso degli studi demografici nelnostro paese »); ma a patto che tali indagini non si risolvano in una sem-plice «produzione» di dati. Andare oltre la ritualità anagrafica e cen-suaria significa avvalersi di indagini ad hoc (ad esempio longitudinali,

15 Non che sui censimenti non si possa fare della ricerca scientifica. Ne hanno datoesempi magistrali Gini e tutta la sua scuola. E proprio dall’osservazione di dati censuari (delNuovo Galles del Sud) venne suggerita l’ipotesi di un nesso causale tra la rosolia contrattadalla donna in gravidanza e malformazioni congenite del neonato.

16 L’Ined è un grande istituto pubblico di ricerca, che s’avvale di matematici, statistici,demografi, biologi, sociologi e di molti altri apporti scientifici. Ma quale è il posto e quale lafunzione del demografo in tali équipes multidisciplinari?

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come suggeriva Livi Bacci, 1969) su campioni, in significativo paralleli-smo con la genetica; ciò che già avviene nelle indagini intese al recuperodi «microstorie». Tale è, ad esempio, la ricostruzione delle famiglie equella delle genealogie: diversi per metodi, per contenuti, per finalità, idue percorsi si integrano tuttavia nella ricerca della trasmissione deicaratteri attraverso le generazioni; v’è, infatti, una «fitness biologica »e v’è una sorta di «fitness sociale».

È questione, anzitutto, di finalità conoscitive. Quando si allude aindagini speciali non necessariamente obbligate alla «rappresentativitànazionale» (così Livi Bacci) deve essere chiaro che i confini politici eamministrativi hanno un significato nello studio scientifico delle popo-lazioni umane in quanto introducano varianti fenomeniche oggettive.Il contare e il classificare le persone appartenenti a questa o a quellacircoscrizione, operazione quanto mai utile e necessaria al governo dellacosa pubblica, non è di per sé ricerca scientifica. Questa impone allademografia di liberarsi dal ruolo di specie parassita delle fonti istitu-zionali. Altrimenti la si degrada davvero — sono ancora parole di LiviBacci (1981) — «a tecnica di indagine di fenomeni che sarebbero megliostudiati da altre discipline (la sociologia o una delle sue infinite varietà,per esempio) dislocandola dalla sua naturale posizione centrale nell’am-bito dello studio scientifico dei fenomeni sociali».

Se la demografia deve «tornare al centro delle scienze sociali» — èl’auspicio di Livi Bacci — ciò non può non avvenire attraverso un coe-rente recupero di un’immagine scientifica. Ritiratasi dal versante «na-turale», dove s’è ormai affermata, con coerenza metodologica e feno-menologica, la biologia popolazionistica, essa deve potersi riaffermare,in quanto scienza, sul versante «sociale». Non per questo giova alla de-mografia tenersi lontana, nei contenuti e nei metodi, dalla biostatistica;dai suoi paradigmi, dai suoi strumenti, dal suo linguaggio. Un illustregenetista dell’Ined, Albert Jacquard (1974), avverte che «la demografiaè una scienza e non una semplice cronaca descrittiva della realtà solo seva al di là della descrizione degli avvenimenti e cerca di gettare luce suimeccanismi e sui processi». Uno dei maggiori demografi dell’epoca nostra,Jean Bourgeois-Pichat (1987), riconosce «l’insoddisfazione di molti ricercatoridi altre discipline nei confronti della ricerca demografica».

L’odierna situazione degli studi demografici in Italia registra, a direil vero, un certo risveglio d’interesse verso un approfondimento delletendenze delle popolazioni nel senso di una sostanziale interdisciplina-rietà. In saggi recenti non mancano argomentate aperture verso una de-mografia scientifica a largo spettro: una prospettiva che si intravvede,ad esempio, in Livi Bacci (1987; 1989a; si veda anche 1989b) e, più

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specificatamente, in certe suggestive ricerche demografiche esplicitamenteo implicitamente rivolte all’orizzonte naturalistico dei fenomeni: cosìtaluni scritti apparsi su Genus, rivista diretta e ispirata da Nora Federi- ci,che non ha mai escluso dai propri interessi le componenti naturalistichedel fenomeno demografico 17; così le rigorose analisi di Colombo (1955;1957; 1989) sul sex ratio o sulla biometria del ciclo femminile; così isuggestivi sviluppi logico-formali di Petrioli (1979; 1981; 1985) in temadi tavole di fertilità, di schemi di eliminazione. I modelli matematici sonoessenziali all’interpretazione dei dati fenomenici, destinati a rimaneremateria «informe» — sono parole di Gini (1934b) — senza «le direttivedi schemi teorici». Come intendere, ad esempio, il distribuirsi asintoticosecondo la «curva normale» di molti caratteri biometrici dovuti alconcorso di molteplici fattori, genetici e ambientali, senza leggerli nellagrammatica del teorema fondamentale della convergenza stocastica?Scriveva Darwin: «Chi vuoi essere un buon osservatore deve essere unbuon teorico».

6. Demografia e genetica di popolazioni

Demografia e biologia trovano la più immediata intersezione nellaparte in cui la genetica di popolazioni si rivolge alle popolazioni umane:l’una è attenta agli individui, l’altra ai geni di cui sono portatori. L’in-treccio fenomenologico è dunque in re ipsa: non c’è evento osservato indemografia che non abbia un’origine o una ripercussione biologica.Attraverso i fenotipi, il ricambio demografico incide sulle frequenze deigenotipi modificando il pool genico della popolazione; l’affermarsi di unindividuo o di un gruppo, il contribuire attraverso i suoi discendenti allegenerazioni successive è legato ai processi demografici della collettività.

È vero che la genetica non può non passare attraverso gli eventi cheattengono agli individui, mentre la demografia può ignorare, almeno nelbreve periodo, gli effetti di quegli eventi sul genoma della popolazione;ma non per questo si può dimenticare che storia demografica, storia ge-netica e storia sociale si intersecano a più livelli; che evoluzione biologicaed evoluzione sociologica, eredità genetica ed eredità culturale sono alcentro di un comune interesse scientifico, ciò che presuppone una visionenon settoriale dei fenomeni delle popolazioni.

17 In questo senso, sono da ricordare pure le indagini sulla mortalità compiute da al-lievi dell’insigne studiosa; ad esempio Caselli (1989); Caselli e Vallin (1990); Caselli et al.(1990).

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Se il genetista deve fare i conti con le componenti sociali del rinnovar-si di una popolazione, il demografo non può ignorare le determinantinaturali del divenire delle società umane. Le variabili si intrecciano e,con esse, i corpi di dottrina. La consistenza e la composizione di una com-pagine demografica, così come il suo ricambio naturale e sociale, non sonofenomeni privi di motivazioni biologiche, e ancor meno di effetti evoluti-vi, nella propria scala temporale, sulla specie: sul rinnovarsi degli assettigenotipici, sulla variabilità dei caratteri fenotipici. Così, l’eliminazionedifferenziale e la migrazione differenziale (ad esempio rispetto al sesso eall’età) sono importanti tanto per il genetista quanto per l’economista e peril demografo sociale: possono avere sia motivazioni biogenetiche ed eco-nomico-sociali, sia ripercussioni nell’uno e nell’altro verso: un individuoche esca da una compagine demografica prima di raggiungere l’età ripro-duttiva non ne impronta il pool genico, né le attività economiche e le strut-ture sociali. I movimenti migratori hanno riflessi immediati sul mercatodel lavoro, ma ancor più rilevanti, seppur meno immediati, possono esseregli effetti sulla struttura profonda della popolazione. Il migrante porta consé il proprio corredo genetico: modifica, migrando, il genoma della co-munità che lascia e può incidere su quello della comunità che trova.

La mobilità delle popolazioni trasforma il volto biologico (con ilcambiare delle distanze genetiche) e il volto sociale (con l’integrarsi deicomportamenti e delle scelte); la mobilità trasforma inoltre il più imme-diato profilo demografico di una popolazione: la composizione per ses-so ed età, socialmente ed economicamente tanto importante, è prima ditutto un fattore di idoneità, di fitness: segna il destino di una popolazionein termini di sopravvivenza e di tempo di estinzione. La stessa dimen-sione dell’aggregato ha una rilevanza biologica, una rilevanza demogra-fica e una rilevanza sociale. Così pure il grado di isolamento riprodutti-vo e la fecondità o l’assortimento coniugale: fattori di evoluzione biolo-gica delle popolazioni attraverso il modificarsi delle frequenze alleliche egenotipiche.

Il genetista che delinea i processi di omogeneizzazione e di differen-ziamento dei gruppi, seguendo le storie dei geni attraverso gli indivi-dui, e indaga su similarità e distanze isonimiche (attraverso l’analisi deicognomi, trasmessi di generazione in generazione come messaggi cro-mosomici) e ricostruisce linee familiari, fa anche della demografia. Il de-mografo che analizza l’eliminazione differenziale per cause — un temache ha raccolto e raccoglie tante attenzioni descrittive — appresta, nesia consapevole o no, qualcosa di più di una rassegna socio-sanitaria: viaffiorano componenti biogenetiche, le quali vengono tanto più allo sco-

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perto quanto più si attenua la cosiddetta mortalità esogena. Il ridursidi taluni tassi di mortalità (anzitutto di quella perinatale e infantile) nonè senza effetti sulla fitness di una popolazione: i processi evolutivi e se-lettivi vi sono, per più aspetti, coinvolti. Altrettanto vale per il ridursisecolare del tasso di natalità o dell’elevarsi dell’età riproduttiva media:fenomeni di grande rilevanza sia demografica sia genetica.

In quanto risultante dei vincoli tra gli individui di una popolazione, lasocietà è l’espressione di complesse e profonde interazioni, anzituttobionaturalistiche. In genetica, una popolazione omospecifica è identifi-cata in ragione di un elemento aggregante: il riprodursi degli individuiper ricombinazione di un «fondo genico comune». Nemmeno in demo-grafia si può definire popolazione un qualunque insieme di individui18.Deve sussistere un nesso non contingente, un elemento strutturale. Ep-pure, passando dal «naturale» al «sociale», la definizione di popolazionesembra diventare meno oggettiva e rigorosa: andando dalla fenomenologiadella natura a quella della società si perde spesso in valore nomico, inunità metodologica, in sistematicità teorica.

Ogni società ha un suo assetto demografico, ogni assetto demograficoha una sua genesi storico-naturale e storico-sociale. Come una popolazionenaturale — che è il soggetto dell’evoluzione biologica — cambia per ilcambiare delle frequenze statistiche di geni e di genotipi, anche inragione dell’idoneità adattativa degli individui e dei gruppi, così nel-l’evoluzione sociale altri fattori, mirati e non mirati, determinano il di-venire delle comunità. Certo, la socialità umana è soprattutto un fattoculturale, e culturali sono le origini e i riflessi dei comportamenti demo-grafici degli individui; ma per quella parte del comportamento socialeche ha radici biologiche (l’uomo è pur sempre l’individuo di una specie,un unicum genetico in un contesto di tante altre unicità genetiche,reali o virtuali) il raffronto, in re statistica, alle popolazioni naturali puòavere un qualche valore euristico.

E l’etologia ad avvertirci che nelle azioni di un vivente si manifestaanche l’informazione codificata nell’alfabeto degli acidi nucleici. Nel-l’uomo — a dir vero — ancor più che negli altri viventi, il dibattito tra«genetisti» e «ambientalisti», tra chi vede le azioni del singolo tutte di-pendenti dal cariotipo individuale e chi le vede determinate soltanto dacondizioni e da scelte estranee a quello, è qualcosa di più di un contra-sto tra teorie scientifiche. Ancora una volta le scienze biologiche —

18 E forse non è sufficiente definirla (come si può leggere in una nota apparsa sul n. 3-4, 1979 diGenus) «un insieme di individui, stabilmente costituito, identificato da caratteristiche che nedefiniscono i limiti e i confini», perché così diventano «popolazione» gli ospiti di una casa diriposo, i reclusi di un penitenziario e così via.

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distinguendo tra genotipo e fenotipo — offrono un essenziale schema dilettura e fanno intendere la sterilità delle posizioni estremiste, qualisono appunto il «genetismo» radicale e il radicale «ambientalismo».

Ma il primo elemento di connessione tra demografia e genetica è nelmetodo: l’affinità fenomenologica non può non tradursi in affinità me-todologica. Nessuna intenzione, è ovvio, di riproporre unificazioni fit-tizie di stampo positivistico, nessuna pretesa di ridurre l’analisi della va-riabilità statistica nelle popolazioni a un fisicismo di tipo queteletiano(tuttavia si deve anche a Quételet e a Comte, come a Malthus e a StuartMill, lo spostarsi dell’interesse conoscitivo dall’individuo agli insiemi diindividui); ma nemmeno rassegnazione di fronte a uno stato di cose cheha visto una disciplina essenzialmente statistica, la demografia, via viaritrarsi di fronte al farsi sempre più «statistiche» (e sempre più «demo-grafiche ») delle scienze naturali: un approdo coerente con il paradigmadarwiniano, con gli algoritmi mendeliani, con la moderna biologia dellepopolazioni; un approdo che non può non offrire nuovi indirizzi con-cettuali alla demografia.

In questo contesto fenomenico e logico, in questo avvicinarsi e con-frontarsi, nell’intreccio evoluzionistico di natura e storia, delle ricerchesull’individuo naturale e sull’individuo sociale, non è forse impossibileintravvedere la premessa di una futura unità metodologica sul tema del-l’uomo, capace di superare certa ostinata incomunicabilità tra gli addettiai diversi settori del pensiero. Se la filosofia naturale ispirata al mec-canicismo newtoniano-laplaciano e retta da leggi assolute e inderogabiliescludeva dal pensiero scientifico le discipline sociali (le grafi, tuttavia,nulla lasciavano di intentato per imitare quella gnoseologia), la scienzauscita dai lacci del determinismo sembra andare metodologicamente in-contro alla ricerca sui fenomeni dell’uomo: una scienza di aggregati diunità discrete, di cui si possono addurre le proprietà statistiche d’insie-me, e prevedere induttivamente non i singoli eventi bensì le loro proba-bili risultanti collettive. Il teorema di Hardy-Weinberg — il principioteorico che innerva la genetica di popolazioni — ne è la più coerente espres-sione: una relazione formale tra frequenze statistiche, secondo gli assio-mi del calcolo delle probabilità, che fissa le condizioni del formarsi edell’alterarsi dell’equilibrio tra i costituenti di una popolazione19.

Abbattute le tradizionali barriere tra scienze della materia e scienzedella vita, il paradigma «statistico» sembra apprestare le basi di un’uni-

19 Sul significato statistico del teorema si possono vedere Scardovi e Monari (1983); Mo- nari eScardovi (1989).

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tà epistemologica di tutte le scienze positive; eppure, le scienze sociali ap-paiono adesso più incerte, quasi che il tramonto del determinismo classicone abbia ridotta l’aspirazione «scientifica», spingendole a una rinuncia incui sembra esprimersi il rimpianto di un paradigma perduto. Ma si deveevitare ogni superficiale schematismo, respingere ogni facile analogia. Quan-do sorse l’evoluzionismo biologico, l’ottimismo deterministico di certi filo-sofi ne trasse una visione fatalistica e progressiva del divenire delle societàumane: una visione ora meccanicistica ora finalistica (quando non pan-glossiana) del mondo e della sua storia, che nulla aveva a che vedere conl’immagine darwiniana dell’evoluzione come cambiamento: delle frequenzealleliche e genotipiche, dice il genetista di popolazioni.

E difficile scorgere l’equazione in cui potrebbe essere formalizzatoun eventuale «teorema fondamentale» della dinamica sociale, anche sepensare a una sorta di legge formale probabilistica del mutevole trascor-rere degli elementi sociali attraverso le generazioni, la quale non potrebbeche esprimersi in termini di rapporti tra grandezze demografiche, è forsemeno stravagante di quanto possa a prima vista apparire. Nemmeno sidebbono trascurare alcuni suggestivi spunti culturali diretti a una visioneintegrale di tutti i fenomeni, naturali e sociali, che si trasformano neltempo: dalle teorie di Ilya Prigogine sui «sistemi lontani dall’equilibrio»alle indicazioni di Ervin Laszlo per «una storia sistemica generaledell’evoluzione che valga tanto per gli atomi e le molecole del cosmoquanto per gli organismi viventi e le società umane della biosfera». Nelpensiero evoluzionistico, Prigogine coglie infatti «una nuova possibilitàdi comunicazione tra scienze della natura e scienze umane» e identifica«analogie strutturali tra sviluppo delle popolazioni biologiche e cineticachimica e sistemi sociali». Analogie che trovano il loro « oggetto» nellepopolazioni.

L’assetto statistico e probabilistico della fenomenologia genetica san-cisce il definitivo abbandono del determinismo meccanicistico e sembrafar posto alle scienze dell’uomo. Anche nel sociale la realtà è fatta diinsiemi, di pluralità ineguali di casi: in una parola, di variabilità. Unavariabilità che diviene nel tempo. Non è senza significato che il concetto,essenzialmente biometrico, di deriva genetica abbia ormai suggerito ecoinvolto quello di deriva sociale, in un’immagine dell’evoluzione socio-culturale tracciata sulla falsariga dell’evoluzione biologica al punto chel’insorgere, in quella, di una nuova idea viene intesa — così Feldman eCavalli-Sforza (1975) — alla stregua dell’insorgere, in questa, di una mu-tazione (in proposito si veda anche Bodmer e Cavalli-Sforza, 1977).

L’intersezione tra genetica di popolazioni e demografia scientifica

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attiene dunque anche ai paradigmi teorici: e sono paradigmi statistico- pro-babilistici; come la genetica di popolazioni indaga il modificarsi dellefrequenze statistiche dei geni, così la demografia osserva il rinnovarsi eil distribuirsi dei portatori di quei geni: e sono distribuzioni statistiche.Se oggi la biologia vede l’evoluzione come cambiamento di frequenze relative,la selezione naturale come riproduttività differenziale e la deriva geneti-ca come casualità innovativa, è perché ha fatto propri concetti e lin-guaggi essenzialmente statistici. Sono concetti e linguaggi per i feno-meni calati nella variabilità individuale: una variabilità alle origini della vi-ta, che la vita continuamente rinnova. Perché tale variabilità non dovrebbeinformare anche i concetti e i linguaggi della demografia? Se la geneticadi popolazioni è una scienza essenzialmente statistico- probabilistica,può non esserlo la demografia in quanto scienza di popolazioni?

7. Un’osservazione critica

Il richiamo a una demografia scientifica, attenta al divenire naturale,oltre che alla storia sociale, delle popolazioni, non deve essere frainteso.Ignorare le componenti biologiche è antiscientifico al pari dell’ignorare ilcontesto socio-economico, e non ha alcun senso contrapporre la storicitàdi questo a una presunta astoricità di quello. La genetica dellepopolazioni, che ha occupato e rinnovato tutto un settore lasciato liberodalla demografia, è biologia evoluzionistica e, in quanto tale, nonatemporale e non deterministica. Come dimenticare che, dopo Comte,Laplace, Quételet, è venuto Darwin? Perché voler intendere la conver-sione «sociologistica» della demografia italiana del dopoguerra come unasorta di redenzione da un preteso riduzionismo naturalistico positivi-sta, ignaro della storia? L’evoluzione biologica non è storia? Non è for-se la storia di un divenire indeterministico, non progettato e non fina-lizzato, che trova nella probabilità il suo linguaggio e nella statistica lasua linea di pensiero?

Eppure v’è una certa tendenza a compiacersi, da parte sociologica,del «riscatto » avvenuto nella ricerca demografica italiana con il chiu-dersi del cosiddetto periodo naturalistico (ma quella ricerca, si noti, ri-servava altrettanto spazio e non minore attenzione alle componenti so-ciali: purtroppo non è più vero il viceversa). Il compiacimento sembraaver conquistato anche i demografi, sempre più convinti dell’assetto nonnaturalistico della loro disciplina. È da chiedersi tuttavia se essi sianoaltrettanto convinti della funzione assegnata alla demografia dell’Inter-

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national Encyclopedia of the Social Science (1968). La voce dedicata allademografia recita: «La demografia è, in certo senso, l’ancella (the generaiservant) delle altre scienze sociali. Essa valuta e anzitutto ordina l’ampiariserva di dati sociali predisposti dai censimenti e dalle anagrafi. E pro-cura materiale grezzo essenziale per lo studio dei cambiamenti econo-mici, politici e sociali».

Dunque, una demografia fedele servente, provvida vivandiera; unademografia che osserva e non spiega, che raccoglie per gli altri; che sivorrebbe occupasse, ormai, un piccolo posto, circondato da vasti am-biti disciplinari forse contrassegnati da una grande scritta: «hic suntleones», come s’usava nelle antiche cartografie per indicare territorisconosciuti, aree di ignoranza. Che cosa ne penserebbe A. Guillard,che, battezzando la disciplina, aveva inteso la demografia come «storianaturale e sociale della specie umana»? Che cosa ne penserebbero glistudiosi dell’Ottocento, che tanto avvertivano l’esigenza di dare unassetto compiuto alla disciplina, temendo — così G. Mayr — che ilvocabolo «demografia» potesse etimologicamente evocare l’immaginedi una disciplina semplicemente descrittiva, più che di una scienzaprotesa alla ricerca di leggi?

Del compiacimento, da parte sociologica, della perduta «eredità bio-logistica» della demografia italiana non dovrebbe troppo rallegrarsi ildemografo, ridotto — così sembrerebbe — a uno stato di sudditanza, con ilcompito di dare i numeri, per il presente e per il passato. Ai numeridel passato attende, si sa (si veda il capitolo di Corsini, «Demografia estoria », in questa Guida), una demografia «speciale», la demografia storica.Essa acquisisce e valuta cifre importanti delle vicende dei popoli, numeriessenziali al tessuto umano di una storia che non sia soltanto storia didinastie, di trattati, di annessioni, di eccidi. Ma quale sarebbe il ruolo diquesta demografia? Offrire i dati all’interpretazione altrui, diventare unasorta di «reparto antiquariato» dell’Istat? È ovvio che la demografia storicatrovi da sé, nella polvere degli archivi, i propri dati; ma anche qui sideve uscire dall’equivoco: una demografia storica che sia mera«rilevazione» e faccia dell’acquisizione delle cifre il punto di arrivo (e nondi partenza) dell’analisi storico-statistica dei particolari fenomeni rischia dinon essere né vera scienza storica né vera scienza della popolazione.

Che cosa resta allora alla demografia? Ha scritto Henry (1966): «Aldi fuori dell’osservazione statistica, non restano di proprio alla demo-grafia che le dottrine e le teorie della popolazione». Non è poco, a direil vero. Ma le teorie della popolazione presuppongono una visione inte-grata e razionale delle molteplici componenti e delle rispettive tenden-

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ze, dei modelli e degli strumenti: richiedono, insomma, una cultura scien-tifica capace di superare, avvalendosene, le necessarie specializzazionidisciplinari. «La demografia — ricorda Henry — ha per oggetto lo studiodelle popolazioni umane, sotto il loro profilo quantitativo e statistico»«Vediamo così la demografia aver necessità: 1. nel momento dell’analisiinterna, delle matematiche; 2. nel momento della spiegazione, della bio-logia, della medicina, dell’antropologia, dell’etnologia e della sociologia,dell’economia e del diritto, della storia». Conclude Henry: «Se è im-possibile che un demografo sia allo stesso tempo matematico, biologo,economista, geografo, storico, giurista, medico e sociologo, egli ha inte-resse tuttavia a ciò che trova in queste materie di conoscenze generalie di conoscenze particolari».

L’accento è posto, anzitutto, sull’impianto teoretico, l’impianto diuna demografia che non voglia limitarsi alle pratiche enumerative e ri-trovi la sua ragion d’essere scientifica nella sintesi dei più diversi appor-ti culturali — s’intende sintesi metodologica. La bella «demografia ma-tematica» di Keyfitz ne costituisce un aspetto. Per quella via si risale aigrandi modelli logico-formali di Volterra, di Lotka, di Verhulst, pertacer d’altri; e si possono riconoscere i tratti della rivoluzione scientificache ha dato un nuovo paradigma a tutte le scienze positive.

E il paradigma della genetica di popolazioni: essa trae da una rela-zione tra probabilità statistiche un fondamentale principio di equilibrioe ne fa un modello teorico di confronto alle concrete popolazioni avva-lendosi di linguaggi e strumenti che sono, insieme, statistici e demogra-fici: quando, ad esempio, misura la fitness di un genotipo, ossia la suaidoneità adattativa, in ragione dei suoi discendenti fecondi; o quandointende la deriva genetica come «errore di campionamento»: un errorecasuale tanto più rilevante quanto più è piccolo il gruppo. Ancora mo-delli e metodi essenzialmente statistici e demografici.

Tra la tentazione di «biologizzare» le scienze sociali e quella di « so-ciologizzare » le scienze biologiche, la demografia dovrebbe evitare ogniunilateralità culturale e rendersi sempre più consapevole del suo collo-carsi nella lunga zona di confine tra settori del sapere che trovano nellarealtà delle popolazioni una connessione non episodica. Se un tempo eranodi moda le analogie deterministiche tra macchina e organismo e tra or-ganismo e società, oggi il pensiero scientifico offre una nuova intuizio-ne della natura, nella quale scienze un tempo lontane hanno imparatoormai a riconoscersi.

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Capitolo settimo

Demografia e sociologia

Giovanni B. Sgritta

1. Premessa

A livello elementare, sul piano delle quantità numeriche che descri-vono i gruppi umani, tutte le conoscenze della società convergono inun solo obiettivo fondamentale e la demografia costituisce la base di ognisapere sociale. Popolazione e società appaiono a questo livello come equi-valenti: entrambe definite come un insieme di individui, stabilmente co-stituito, legato da vincoli di riproduzione e identificabile da modalitàterritoriali, politiche, giuridiche, etniche e religiose.

In effetti, non è da escludere, come ha osservato Lévi-Strauss, che ci«potrebbero essere proprietà formali dei gruppi in funzione diretta e im-mediata della cifra assoluta della popolazione, indipendentemente da ognialtra considerazione». Sicché, in caso affermativo, «bisognerebbe comin-ciare con il determinare queste proprietà e lasciare loro un posto, prima dicercare altre interpretazioni» (Lévi-Strauss, 1958, trad. it. 1966, p. 362). Etuttavia è agevole presumere che i concetti di società e di cultura e la strut-tura sociale, così come è intesa all’interno delle discipline sociologiche eantropologiche, non combacino con questo substrato. A misura che con-sideriamo, accanto agli aspetti formali della popolazione, i processi chedeterminano il formarsi, conservarsi, accrescersi ed estinguersi delle po-polazioni, emergono divergenze sempre più importanti. Il concetto disocietà richiama aspetti e fenomeni che non sono contenuti implici-tamente nel concetto di popolazione. Una stessa collezione di indi-vidui, purché sia oggettivamente data nel tempo e dislocata su un de-terminato territorio, dipende per le sue caratteristiche da un insiemeindefinito di altri fenomeni; dà luogo a un «insieme di scarti signi-ficativi» (Lévi-Strauss, 1958, trad. it. 1966, p. 329), a un insieme di nor-me e regole specifiche di quella determinata società e dunque essen-ziali per comprenderne la natura e il cambiamento. A differenza dellapopolazione, intesa come mero aggregato di parti elementari, la società èdefinita e delimitata essenzialmente da processi di scambio e comu-

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nicazione: scambio e comunicazione delle persone (nella riproduzione),di beni e servizi (nella sussistenza), di messaggi (nell’integrazione e nellasocializzazione delle nuove generazioni). Di modo che, a ciascuna dellefunzioni essenziali per garantire nel tempo la conservazione della popo-lazione e il suo adattamento all’ambiente naturale e artificiale si asso-ciano diversi tipi di istituzioni, regole e valori, che precisano le soluzio-ni e le scelte sviluppate e adottate da diverse società, in un determinatoambiente e in una determinata epoca, per rispondere alle esigenze fon-damentali della vita umana e dell’esistenza del gruppo (Malinowsld, 1944,trad. it. 1962, pp. 68 e segg.). Se dunque dal livello della popolazionepassiamo a quello della società, siamo costretti a tener presente un nuo-vo elemento, che non appartiene al piano della natura. Siamo dunqueposti di fronte a un’opposizione: quella tra i fatti elementari della natu-ra umana e i simboli che danno ad essi significato e rendono possibilela comunicazione attraverso il linguaggio. Il che presuppone che tuttiquesti fatti attingano il loro senso solo se e in quanto siano riferiti auna data cultura.

Il concetto di società viene dunque a designare piuttosto le relazionitra gli elementi della popolazione e le regole simboliche cui quelle relazio-ni soggiacciono, che non gli elementi e le loro semplici descrizioni in rap-porto ai meccanismi e ai processi che riguardano la formazione e la strut-tura della popolazione stessa. Specifici della sociologia, in quanto scienzadella società, «non sono gli oggetti suoi, che appaiono tutti anche nellealtre scienze, ma l’accento che essa conferisce all’oggetto, cioè il rapportotra tutti quegli oggetti e le leggi della socializzazione, che appunto la so-ciologia istituisce» (Horkheimer e Adorno, 1956, trad. it. 1966, p. 51).

Occorre tuttavia ricordare che questo concetto di società giunge apieno svolgimento soltanto in epoca relativamente recente, a seguito dellosviluppo della scienza sociale come disciplina autonoma della società.Prima che ciò avvenisse, alle origini della formazione del pensiero scien-tifico, la riflessione sui fatti relativi alla popolazione, alle cause e allecaratteristiche della sua struttura e della sua trasformazione, attingevaa un crogiolo comune, utilizzava materiali consimili e muoveva grossomodo dalle medesime premesse teoriche. Sul terreno materiale demo-grafia, economia, antropologia e sociologia erano perciò inevitabilmen-te destinate a incontrarsi e a confondersi. Con lo sviluppo successivodelle scienze sociali, in coincidenza con l’affermazione più moderna dellaricerca sociale e con l’avanzamento dei metodi statistici per il trattamentodei fenomeni collettivi, gli itinerari delle due discipline prendono a di-stanziarsi e iniziano a percorrere cammini sostanzialmente distinti. Il

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resto è storia recente. La fase terminale alla quale riconduciamo lo statoattuale delle conoscenze che si comprendono nel corpo della demografiae della sociologia sembra caratterizzarsi soprattutto per il superamentodelle tradizionali barriere disciplinari, il recupero di un ampio noverodi prospettive diverse e, in definitiva, per un sostanziale riavvicina-mento delle rispettive posizioni per quanto concerne sia i contenuti siai metodi di indagine utilizzati nell’analisi dei fenomeni sociali.

Nel complesso, la vicenda percorsa dai rapporti tra le due disciplinepuò essere raffigurata tramite il disegno geometrico di un doppio arcosovrapposto: con un’origine comune all’inizio, una divaricazione semprepiù accentuata nello stadio intermedio dello sviluppo disciplinare dellademografia e della sociologia e un’approssimazione verso un punto diconvergenza in epoca più recente. Questa rappresentazione risente evi-dentemente di tutti i limiti della schematizzazione. Un esame accuratodelle stazioni intermedie ci condurrebbe a delineare un quadro più com-plesso e accidentato, meno lineare e assai più frastagliato e incoerente.

Tuttavia, l’analisi che segue non intende affatto proporsi come unaricostruzione storica dello sviluppo delle due discipline: impresa, questa,che richiederebbe uno sforzo ben maggiore e un apparato assai piùcomplesso di riferimenti alla storia del pensiero demografico e sociolo-gico. Più modestamente, invece, quest’analisi si propone di illustrare inmodo schematico, con particolare riferimento alla situazione italiana,le principali ragioni che si pongono a fondamento di un rapporto co-munque difficile e tuttora aperto a diverse soluzioni.

2. L’origine comune

Le origini della demografia e della sociologia, come peraltro quelledell’economia e della statistica, appaiono, sotto molteplici riguardi, so-stanzialmente coincidenti. In effetti, i contributi ai quali convenzional-mente si fanno risalire i fondamenti di queste discipline sono caratteriz-zati dalla medesima preoccupazione conoscitiva che consisteva, da unlato, nell’esigenza di fornire una descrizione quantitativa dei principalicaratteri della popolazione all’interno di un determinato spazio geopoli-tico e, dall’altro, in quella di pervenire all’individuazione di alcune re-golarità nella distribuzione territoriale e nell’andamento temporale diquegli stessi caratteri. Il comune intento conoscitivo e documentario alquale erano orientati questi primi contributi e la semplicità degli stru-menti di osservazione e di analisi sui quali essi facevano assegnamento

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costituiscono i motivi fondamentali della loro sostanziale omogeneità dalpunto di vista dei contenuti e dei metodi.

Fino a oltre la metà dell’Ottocento, le conoscenze demografiche e so-ciali relative alla popolazione si innestano in una comune matrice di ideee di considerazioni. Esse concernono tanto il rapporto dell’uomo con lanatura, quanto i metodi appropriati per l’indagine dei fatti sociali e na-turali. Il primo riguarda la forma che caratterizza le scienze umane diquesto periodo e perciò il tipo di razionalità mediante il quale esse cercanodi costituirsi in quanto sapere; il secondo, gli strumenti di cui esse si ser-vono nella descrizione e nell’analisi dei fenomeni osservati.

Quanto al primo aspetto, la posizione condivisa dalla gran parte delleopere alle quali possiamo far risalire i fondamenti di queste discipline èin sostanza contraddistinta dal tentativo di ricondurre la conoscenza deifatti umani alle leggi generali che governano i fenomeni naturali. L’assi-milazione delle scienze sociali alle scienze della natura che, come la fisica,la chimica e la biologia, hanno ormai raggiunto lo stadio positivo, costitui-sce l’obiettivo fondamentale e il compito comune di tali opere. La premes-sa da cui esse muovono si riduce alla considerazione che l’uomo non deb-ba essere trattato diversamente da come si trattano, nel regno dellescienze naturali, i fenomeni della natura inanimata. Il carattere fonda-mentale della nuova «scienza naturale della società», così come esso vieneespresso nel Cours de philosophie positive di A. Comte (1830-42), «è di con-siderare tutti i fenomeni come soggetti a leggi naturali invariabili, la cui pre-cisa individuazione e riduzione al minimo numero possibile è il fine diogni nostro sforzo» (Comte, 1864, p. 65).

Nella trattazione datane da Comte, peraltro estensibile a larga partedel pensiero a lui contemporaneo, la storia umana e l’evoluzione dei fattisociali si identificano, in ampia misura, con lo sviluppo delle scienze natu-rali. La nuova scienza avrebbe dovuto fornire lo schema teorico, l’ordineastratto, in base al quale i mutamenti più significativi delle società uma-ne devono susseguirsi l’un l’altro in maniera necessaria. Alla base di que-sto modo di pensare troviamo pertanto il proposito di fornire il sistemadelle idee e delle leggi scientifiche che potrà permettere la compren-sione e la riorganizzazione della società; ovvero, nelle parole di Comte,quello di fornire «la coordinazione razionale della serie fondamentale dei diversieventi umani secondo un unico disegno». Ma affinché tale obiettivo possaessere raggiunto è indispensabile, anzitutto, che l’ordine della natura siaconsiderato secondo i suoi aspetti fondamentali. Il che comporta, a giu-dizio di Comte (1864, p. 4), che si stabilisca in primo luogo «il regime normaleche corrisponde alla vera natura dell’uomo».

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L’opera di Malthus, precedente a quella di Comte, riflette in modoemblematico l’applicazione dei principi fondamentali che informano glistudi prodotti in questo periodo. Benché priva di una riflessione adegua-ta sulle basi della conoscenza scientifica e carente sul piano della sistemati-ca, essa anticipa con sorprendente puntualità alcuni dei principali ele-menti che, in epoca successiva, troveranno posto nel quadro delle scien-ze positive e nella filosofia positivistica in modo particolare. La preminen-za accordata a una considerazione prettamente naturalistica dei fenomenidella popolazione gioca in essa un ruolo essenziale. Il suo obiettivo fonda-mentale è «costituito dal tentativo di determinare la legge naturale dellapopolazione, ossia il saggio d1 incremento del genere umano quando gliostacoli siano i minori possibili» (Malthus, 1830, trad. it. 1977, p. 245).Il principio di popolazione si comprende così nell’ambito di una visio-ne scopertamente naturalistica delle popolazioni umane, alla quale posso-no essere contrapposte le leggi, altrettanto naturali, dello sviluppo del mon-do vegetale e animale. Sicché, in definitiva, i principali fattori della popola-zione — le nascite, le morti e il suo incremento naturale — sono sostan-zialmente assunti come elementi biologicamente e perciò naturalmente dati,ossia esogeni tanto al sistema economico quanto a quello sociale.

L’applicazione del metodo positivo allo studio dei fatti sociali si pro-poneva allora di realizzare l’unicità di metodo per tutte le scienze di os-servazione. A questo obiettivo si associa il secondo carattere al qualepossiamo ricondurre l’impostazione comune alla demografia e alla so-ciologia in questa prima fase del loro sviluppo; ossia, quello dei metodia cui deve ricorrere, secondo gli autori classici, la descrizione e l’analisiscientifica dei fenomeni sociali. La volontà di fondare una conoscenza«spoglia di ogni altra ambizione intellettuale che non sia la scoperta dellevere leggi naturali» comporta come conseguenza la necessità «di subor-dinare le conoscenze scientifiche ai fatti di cui esse devono unicamentemanifestare la connessione reale» (Comte, 1864, p. 294). Il che impli-ca, da un lato, la rinuncia «a ogni vana e inaccessibile ricerca delle cau-se, sia primarie sia finali, per limitarsi allo studio delle relazioni invaria-bili che costituiscono le leggi effettive di tutti gli eventi osservabili» (Com-te, 1864, p. 599); dall’altro, quale «indispensabile complemento dellalogica positiva» (p. 671), l’introduzione del principio fondamentale se-condo il quale l’oggetto delle scienze della natura, così come di quelledella società, debba essere non già l’individuo o il singolo aggregato bensìla popolazione nel suo insieme.

Come nella biologia (l’analogia è in questo caso tutt’altro che occa-sionale), «anche qui [nella sociologia] l’insieme è certamente molto me-

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glio conosciuto e più immediatamente accessibile» (Comte, 1864, p. 258)che non le singole parti. In effetti, sia il presupposto secondo il qualel’indagine dei fenomeni naturali debba limitarsi agli aspetti quantitatividella loro manifestazione, sia l’assunto che i fenomeni di massa sianoaccessibili all’indagine delle scienze positive, costituiscono i cardini suiquali poggia tutta la costruzione scientifica dell’epoca alla quale si rife-risce questo primo stadio della formazione della scienza demografica edella sociologia. «Nel mondo delle cose inanimate, questo atteggiamen-to porta alla nascita della meccanica statistica; nel mondo degli esseriviventi, è la condizione necessaria per l’avvento della teoria dell’evolu-zione» (Jacob, 1971, p. 207). Darwin, ad esempio, esprime una concezionechiaramente statistica della popolazione. I fenomeni naturali sonoassunti nelle sue opere unicamente nella forma di fenomeni di massa;comunque, la speranza di poter pervenire all’individuazione di de-terminate regolarità nello studio dei fenomeni biologici e sociali è fon-data esclusivamente sull’applicazione della legge dei grandi numeri. Se-condo tale impostazione, l’analisi statistica e il calcolo delle probabilitàforniscono le regole basilari della stessa logica dell’universo e della natura.

Queste regole, insomma, opererebbero nel modo più rigoroso soloquando il numero degli individui considerati è assai elevato. Nell’indagi-ne dei fenomeni legati al mondo naturale e a quello sociale, pertanto, que-sta procedura è destinata a rilevarsi come particolarmente efficace. «Anzi-ché ricercare le cause di avvenimenti isolati, si osserva un gran numerodi eventi appartenenti alla medesima classe, si operano scelte, si metto-no insieme i risultati e se ne calcola la media per mezzo di regole empiri-che: diventa possibile, allora, prevedere gli eventi futuri» (Jacob, 1971, p.238). Se si assumono come oggetto di studio i grandi numeri non è per-ché le singole unità si sottraggano alla conoscenza, ma piuttosto perché ilcomportamento delle unità elementari e isolate non presenta per il ricerca-tore alcun interesse scientifico. «Di fatto — ha osservato Jacob (1971, p.239) — una delle caratteristiche del metodo statistico consiste proprionell’ignorare deliberatamente e sistematicamente il caso particolare. Pocoimporta ottenere tutte le informazioni possibili su un singolo avvenimentoe poter descrivere minuziosamente ogni circostanza; non è questo il finedell’analisi statistica, bensì quello di elaborare una legge che superi i casiindividuali». La sorprendente regolarità con la quale si presentano all’os-servazione scientifica tutti i fenomeni naturali starebbe dunque a signi-ficare che essi sono da ricondurre a un unico meccanismo comune.

In effetti, a questa stessa logica si uniformano pressoché tutte le co-noscenze che, dalla metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento e ol-

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tre, nei campi più diversi dell’astronomia, della biologia, della geografia,della demografia, della sociologia e dell’economia, si prefiggono di fornireun’interpretazione scientifica e una descrizione sistematica delle leggiche governano i fatti naturali e sociali. Il loro denominatore comune, dalpunto di vista metodologico, sta nel fatto che esse non si propongono piùl’obiettivo di raggiungere una spiegazione causale della realtà, quanto piuttosto didarne una descrizione. Non cercano il perché, ma il come degli eventi. Non sioccupano delle strutture relazionali tra i singoli elementi, ma delle frequenzecon le quali nella realtà fisica e sociale ricorrono talune regolarità, che per illoro carattere di stabilità sono riconducibili a leggi.

3. Popolazione e società: le basi della scienza demografica e la nascita dellasociologia

L’orientamento positivistico che informa i diversi contributi scien-tifici prodotti nella seconda metà del secolo XIX riposa su una dupliceesigenza: da un lato, ricondurre i fatti reali a un ristretto numero di legginaturali; dall’altro, impiegare un metodo di lavoro che permetta diraggiungere tale risultato mediante l’osservazione sistematica di un nu-mero elevato di casi. L’appiattimento delle scienze dell’uomo e della so-cietà sulle leggi che governano i fenomeni biologici e naturali rappre-senta la conseguenza più eclatante di quest’impostazione. Per tutto ilsecolo XIX e per la prima parte del successivo, demografia e sociologiacondividono appieno quest’impostazione. La popolazione è intesa co-me un’unità organica formata e dominata da forze naturali e regolatanel suo sviluppo da leggi invarianti. La teoria della società, d’altro can-to, si appoggia anch’essa alle leggi che governano la vita degli organismianimali, come testimonia la diffusione di quadri di pensiero organizzatisulla base di sterili analogie di tipo organicistico.

L’occasione di questa riflessione è troppo specifica per consentircidi seguire in dettaglio la successiva evoluzione delle conoscenze. La di-varicazione degli studi sociologici dalla demografia può nondimeno, agrandi linee, essere ricondotta alla diversa influenza che sulle due disci-pline ebbe lo sviluppo di quella concezione storico-filosofica che derivavadalla revisione critica tanto della scuola positivistica francese quantodell’idealismo tedesco. Così come si era venuta configurando nel quadrodel cosiddetto storicismo tedesco contemporaneo, questa nuova im-postazione della conoscenza era destinata a produrre «un rinnovamentoprofondo delle prospettive metodologiche delle discipline storico-sociali,

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fornendo ad esse strumenti di comprensione storiografica e di indaginesociale che sono diventati un patrimonio permanente della cultura delNovecento» (Rossi, 1971, p. XXIV).

L’influenza dello storicismo sulle scienze storico-sociali può essere e-quiparata, quanto a diffusione e profondità, a quella che il positivismo e-sercitò, nel periodo appena precedente, sulla concezione idealistico- ro-mantica. Come il positivismo favorì l’assimilazione da parte delle scienze na-turali e sociali di quegli strumenti di osservazione e analisi che consenti-vano di procedere in modo più aderente all’effettiva realtà dei fatti, cosìlo storicismo contribuì a introdurre un’opportuna correzione nella tendenza,allora prevalente negli studi di impostazione positivistica, ad assimilare l’a-nalisi dei fatti sociali a quella dei fenomeni naturali. La posizione di apertapolemica assunta dallo storicismo nei confronti dell’approccio positivisticosi appuntava, in effetti, proprio sulla visione ricluzionistica che questa scuo-la di pensiero adottava nei confronti dei fenomeni sociali e, di conseguen-za, anche sulla riduzione metodologica delle discipline storico-sociali almodello delle scienze naturali. In definitiva, il contributo fornito daquesta filosofia allo sviluppo delle discipline storico-sociali può esserecolto precisamente nel tentativo, in gran parte coronato da successo, distabilire la fisionomia specifica delle scienze sociali differenziandole dallescienze naturali; ovvero, nel tentativo di definire il valore costitutivo deirapporti sociali per l’esistenza storica dell’uomo e della società. Come?«Interpretando lo sviluppo storico... come il processo di trasformazionedei rapporti degli uomini con la natura e delle relazioni reciproche tra gliuomini» (Rossi, 1971, p. XVII). L’affermazione susseguente del pensierosociologico — avviata dalla revisione critica della filosofia hegeliana e del-la concezione utilitaristica compiuta dapprima da Marx e poi proseguita,non senza distinzioni di accento e di metodo, da Durkheim e da Weber— rappresenta l’espressione più matura e compiuta del cammino iniziatonell’ambito dello storicismo tedesco.

Esula dagli intenti di questo capitolo l’esame analitico dei contenutiche, a seguito di questa revisione dei fondamenti della conoscenza so-ciale, sono poi confluiti nell’architettura elementare del pensiero socio-logico a partire dai primi anni del Novecento. In breve, tuttavia, il con-tributo fornito dalla riflessione sociologica all’indagine dei fenomenisociali si riassume nell’introduzione del concetto di cultura. Le teoriepositivistiche hanno certamente percorso itinerari diversi all’interno dellediscipline che tradizionalmente si sono divise l’interpretazione delle vi-cende umane. Ma esse sono immancabilmente pervenute al medesimorisultato, cioè all’estromissione, dal quadro teorico di riferimento, della

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cultura intesa come qualità costitutiva dell’uomo, come oggetto di stu-dio specifico delle scienze umane e sociali. Ovviamente, non si può so-stenere che la filosofia del positivismo escludesse totalmente il concettodi cultura dalle proprie considerazioni. Il fatto è però che, in quest’otti-ca, la natura veniva concepita come la (principale) modalità di adatta-mento dell’uomo all’ambiente, come strumento tendente a mantenerela popolazione umana all’interno dei limiti della sua capacità di riprodursi.

L’artificio mediante il quale, in questo sistema di pensiero, la cultu-ra veniva estromessa dal quadro teorico di riferimento consisteva, comeha giustamente osservato Sahlins (1982, p. 101), «nel suo assorbimen-to, in un modo o nell’altro, nella natura ». L’anello mancante in questaspiegazione dei fatti sociali è difatti costituito dal carattere simbolicodei fenomeni sociali; sicché l’intento della sociologia e delle altre scien-ze dell’uomo sarà proprio quello di dimostrare come la cultura sovrap-ponga sempre un ordine simbolico — dotato di significato — alla naturae come essa assimili le parti di questa che hanno rilevanza per la condi-zione umana. La definizione del contenuto del sociale costituisce per-tanto l’elemento specifico e al tempo stesso differenziale delle scienzedell’uomo rispetto alle scienze della natura.

La spiegazione fornita dal positivismo di determinate pratiche socialie culturali come conseguenze necessarie di qualche circostanza materialeo di specifiche esigenze di adattamento dell’uomo rispetto all’ambientenaturale appare con ciò superata da una posizione più complessa e arti-colata, secondo la quale il rapporto natura/cultura si ribalta a tutto van-taggio delle qualità simboliche dell’ordine culturale. «La natura deglieffetti — questa in sostanza la tesi sostenuta — non può essere derivatadalla natura delle forze, poiché gli effetti materiali dipendono dalla lorodelimitazione culturale» (Sahlins, 1982, p. 203). In chiaro: i fenomenidi ordine superiore adattano i fenomeni di ordine inferiore ai loro sco-pi, anche se non possono cambiare le loro proprietà. Così, i fenomenitipici dell’analisi demografica come ad esempio la nascita, la morte, ilmatrimonio, gli spostamenti della popolazione, risulterebbero in questomodo ricompresi in un’intelaiatura simbolica che attribuisce loro un si-gnificato che va al di là della loro funzione naturale; di modo che l’ana-lisi di questi fenomeni da parte della scienza sociale non può arrestarsialla descrizione delle loro quantità numeriche o del loro andamento, as-sunti in un determinato momento come dati. Ma dovrà, oltre a ciò, con-siderare le strutture di significato alle quali tali quantità e tali dinamichesono irriducibilmente associate nella realtà concreta della vita sociale.

Tale questione trova illuminanti chiarimenti già nell’opera di Marx.La condizione naturale e materiale delle società umane, così come essa

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si riflette nei principali parametri numerici della popolazione, non co-stituisce, a giudizio di Marx (1859, trad. it. 1966, p. 713), che apparenza:«L’apparenza estetica — come egli scrive — delle piccole e grandi ro-binsonate». Vale difatti anche per la popolazione ciò che Marx riflettesul concetto di produzione. La questione centrale è, anche a tale propo-sito, da ricondurre «al modo in cui le condizioni storiche generali inci-dono sulla popolazione e al rapporto che essa ha con il movimento stori-co in genere» (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 727). In altre parole, ognifenomeno relativo alla popolazione è sempre al tempo stesso un feno-meno sociale e l’esistenza di un particolare tipo di popolazione o dideterminate sue caratteristiche presuppone sempre un altrettanto de-terminato tipo di società. Soltanto in apparenza, dunque, nello studiodella società possiamo cominciare con la popolazione. «A un più atten-to esame, ciò si rivela falso» o comunque inappropriato alla compren-sione della realtà sociale (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 730). «Lapopolazione è un’astrazione — prosegue Marx — se tralascio ad esempiole classi di cui essa è composta. A loro volta, queste classi sono una pa-rola priva di senso, se non conosco gli elementi su cui esse si fondano».Partendo quindi dalla popolazione saremmo condotti a fornire una rap-presentazione astratta della società che non ci consentirebbe di comprenderela specificità storica degli accadimenti e dei fenomeni che in essa siesprimono. Giunti a questo punto, invece, ci troviamo nella condizioneadatta per intraprendere «il viaggio all’indietro, per arrivare nuovamentealla popolazione: ma questa volta non come a una caotica rap-presentazione di un insieme, bensì a una totalità ricca, fatta di moltedeterminazioni e relazioni» (Marx, 1859, trad. it. 1966, p. 731).

In base a questo modo di procedere, che Marx definisce come il me-todo scientificamente corretto, «il concreto è concreto perché è sintesi dimolte determinazioni, quindi, unità del molteplice». Sicché, «se per laprima via, la rappresentazione piena della realtà viene volatilizzata adastratta determinazione; per la seconda, le determinazioni astratte con-ducono alla riproduzione del concreto» (Marx, 1859, trad. it. 1966).Così è per la popolazione, così per la famiglia, il matrimonio, la riprodu-zione e quant’altro si comprenda nello studio scientifico della popola-zione. In generale, la più elementare delle proprietà della popolazionepresuppone, secondo questa visione delle cose, una specifica determina-zione sociale: una pluralità di regole e norme sociali, determinati valori,determinati tipi di famiglia, un definito sistema di relazioni sociali, undato insieme di orientamenti culturali. Ancora, l’esame analitico dellanatalità, della nuzialità, della mortalità, dei movimenti e della strutturadelle popolazioni, laddove esso fosse improntato al presupposto astrat-

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to della loro naturalità, resterebbe irrimediabilmente privo della capaci-tà di fornire una rappresentazione adeguata della realtà sociale in cuihanno luogo. A questo esame resterebbe per sempre preclusa, altrimen-ti, la facoltà di comprendere tali fenomeni nella loro specificità, nellaloro variabilità relazionale con altri non meno rilevanti, ma anzi essen-ziali, aspetti della vita sociale.

L’insieme di queste considerazioni, peraltro destinate a essere ulterior-mente sviluppate nella riflessione sociologica e antropologica seguente ancheindipendentemente dall’ottica marxiana, ha sortito risultati diversi nellediscipline dell’uomo che derivavano dalla medesima matrice epistemologi-ca; meno sulla demografia, più sulle restanti scienze sociali. La naturaambivalente della demografia, collocata in termini equidistanti tra i fon-damenti biologici dei fenomeni vitali delle popolazioni e le loro deter-minazioni sociali, è indubbiamente uno dei motivi a cui possiamo ricon-durre l’effetto relativamente debole che sulla sua evoluzione hanno avutole conoscenze elaborate nell’ambito della riflessione sociologica. Ma, indi-pendentemente dalle ragioni che possono aver prodotto questo risultato, èindubbio che sino a un’epoca relativamente recente, collocabile grossomodo alla metà del secolo XX, l’influenza che sulla demografia hanno e-sercitato le teorie naturalistiche sia stata assai più consistente di quelladella sociologia e delle scienze sociali in genere. Entro certi limiti, sa-rebbe finanche lecito sostenere che per un lungo tratto di tempo la de-mografia ha opposto più di una resistenza alla permeabilità delle cono-scenze sociali nel suo consolidato assetto di contenuti e metodi di inda-gine. La rassegna accurata di quelle opere che si sono proposte di ri-flettere sui fondamenti istituzionali della disciplina giustificherebbe dicerto tale affermazione. Le stesse sistemazioni scientifiche della materia,prodotte a opera di quegli autori che pur hanno manifestato una sensibilitànon comune per le problematiche sociali, consentono di evidenziare la pre-senza prevalente e, in definitiva, determinante di un orientamento pret-tamente biologico e naturalistico.

A questo indirizzo possono ad esempio essere ricondotte — inverocon qualche forzatura, che non rende pienamente ragione del caratterecomplesso del pensiero degli autori che ci apprestiamo a considerare —le opere di tre fra i maggiori demografi del Novecento: Rodolfo Benini,Corrado Gini e Livio Livi.

Negli scritti del primo, che — occorre riconoscere — non manca diampi riferimenti ad alcuni temi importanti dell’analisi sociologica di quelperiodo, la popolazione è intesa principalmente come un’unità organicaformata e dominata da naturali e intime forze di coesione e regolatanel suo sviluppo da leggi affatto specifiche. Mentre laddove l’autore

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affaccia la tesi che le popolazioni soggiacciono all’influenza congiuntadi un duplice ordine di cause, orientate ad accrescerne la dissomiglianzao all’opposto a moltiplicarne la coesione interna, anche in tal caso risul-tano in definitiva manifeste le premesse bio-organiche su cui riposa l’in-tero discorso (Benini, 1901).

Analoghe considerazioni possono essere affacciate con riferimentoall’opera, peraltro assai più complessa e articolata di quanto qui si possadar ragione, di Corrado Gini. E nota, difatti, l’influenza che la scuolaorganicistica esercitò sulla sua concezione della popolazione e della so-cietà. E benché la teoria neo-organicistica sviluppata da Gini si diffe-renzi in più punti dall’ingenuo organicismo che si limitava a tradurre,servendosi di analogie meramente descrittive (Castellano, 1974), i ri-sultati degli studi anatomo-fisiologici del corpo umano, nel suo pensieroè comunque evidente l’importanza attribuita alle premesse biologichenello studio della popolazione e della società. Emblematica, a tale pro-posito, è la spiegazione che egli dà del declino della fecondità; come ènoto, Gini lo riconduceva a un fenomeno affatto naturale e incontrasta-bile di «senescenza o deperimento biologico» delle popolazioni, riecheg-giando da presso, almeno per taluni aspetti, la teoria paretiana della cir-colazione delle élite (Gini, 1930; 1931).

A complemento di questo breve e insufficiente quanto affrettato esamedei contributi forniti dalla demografia italiana alla costruzione delle basidella disciplina, una più ponderata attenzione merita l’analisi dellaproduzione scientifica di Livio Livi. Nella sua esposizione più sistema-tica dei fondamenti della demografia, difatti, Livi ribadisce in più luoghii collegamenti che lo studio della popolazione intrattiene con le altrediscipline sociali. «Anche la demografia — egli scrive — considera infatti lapopolazione non come amorfa accolta di viventi, ma come massa ordinata equindi capace di dar vita a organizzazioni sociali». Cosicché, inquest’esigenza di comprendere l’organizzazione della società nelle suediverse manifestazioni, il contatto con la sociologia generale «è talmenteforte che i confini tra le due scienze sono i più incerti» (Livi, 1940, II,p. 3). Tra esse, osserva ancora Livi, «corrono rapporti non soltantocollaterali, ma anche verticali», dal momento che «la popolazione in-quadrata dalle sue leggi naturali è una massa dominata da vincoli di so-cialità, ed è quindi vero che la demografia che studia queste leggi è unapiattaforma della sociologia» (Livi, 1940, II, p. 4).

Nondimeno, accanto a riflessioni tanto lungimiranti sui rapporti trascienza della popolazione e scienza della società, permangono in nuceampi legami con le concezioni esaminate in precedenza. In altre paginedella sua opera principale si sostiene che la sistemazione dei fenomeni

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demografici non possa non essere fondata su una «concezione naturalisti-ca delle cause fondamentali e primarie dell’organizzazione sociale» (Livi,1940, II, p. 15). Sicché, in definitiva, Livi dimostra di avere della popola-zione una visione sostanzialmente naturalistica, secondo la quale «le lineeessenziali della società umana sono dunque tracciate dalle stesse caratte-ristiche bio-organiche della specie, e più lo è la conformazione della po-polazione su cui si basa la società stessa» (Livi, 1940, II, pp. 18-19). Ladistinzione dei sessi, la prolificità, la crescita, la mortalità e la variabi-lità dei caratteri fisico-psichici sono tutti fenomeni che dipendono, a giu-dizio del demografo italiano, da «intime leggi biologiche» e la cui distribu-zione si esprime normalmente in una determinata forma naturale. Per cui,lo scopo della demografia è individuato da Livi proprio nella ricerca diquelle «leggi naturali dei caratteri demografici che sono come il riflessodelle caratteristiche biologiche della specie» (Livi, 1940, II, p. 20).

Ma se Atene piange, Sparta non ride: se cioè, con il senno di poi, cisembra evidente che la demografia non può non annoverarsi tra lecondizioni che strutturano la vita sociale, la medesima osservazione vale ariguardo della sociologia. Se la demografia è nella società, la società è asua volta nella demografia; nel senso che ne dipende intimamente, nelsenso che una qualsiasi analisi esaustiva del sociale non può sfuggireall’esame accurato delle componenti della sua popolazione, pena l’incom-prensione dei suoi caratteri e dei suoi processi di Stasi o di cambio fon-damentali. «La sociologia — ha osservato icasticamente Lévi-Strauss —era apparsa come il prodotto di una razzia: compiuta frettolosamente aspese della storia, della psicologia, della linguistica, della scienza eco-nomica, del diritto e dell’etnologia. Ai frutti di questo saccheggio, lasociologia si accontentava di aggiungere le sue ricette: qualunque pro-blema le si ponesse, si poteva essere certi di ricevere una soluzione so-ciologica prefabbricata» (Lévi-Strauss, 1967, pp. 53-54). La forse affrettataformazione del pensiero sociologico, congiunta all’esigenza di prendere ledistanze dal sistema filosofico positivistico (insieme naturalista eutilitaristico), da cui aveva pur ricevuto i natali, avevano indubbiamenteconcorso allo sviluppo di un atteggiamento di incomprensibile suf-ficienza, da parte del sociologo, nei confronti dei fatti biodemografici.Comunque stiano le cose, l’estraniazione da tanta parte dell’analisi so-ciologica contemporanea di un’attenta considerazione dei processi de-mografici di riproduzione e di movimento delle popolazioni rappresentail costo pagato dalla sociologia nel tentativo di sottrarsi all’influenza, untempo preponderante, di orientamenti e quadri di riferimento orga-nicistici che, in forma analogica o sostanziale, hanno dominato la scena

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degli studi sociali sino ai primi decenni di questo secolo. La consapevo-lezza di questa carenza da parte di non pochi dei maggiori esponentidella sociologia non è bastata a evitare che si scavasse un solco profon-do, non agevolmente valicabile, tra le prospettive metodologiche e i con-tenuti delle due discipline. Ma, soprattutto, non è bastata a impedireche la formazione del sociologo e quella del demografo procedessero suitinerari distinti, tra loro scarsamente comunicanti e perciò con una per-dita in termini di apprendimento che indubbiamente deve essere anno-verata tra i motivi fondamentali del progressivo declino professionaledella figura del sociologo e della scarsa duttilità di quella del demografo.

4. Demografia e sociologia: contenuti e metodi negli studi italiani del secondodopoguerra

Almeno sino alla fine del secondo conflitto mondiale, l’immagine delladivaricazione tra le due discipline può essere assunta come una rappre-sentazione corretta dello stato dell’arte. E non occorre aggiungere che,anche in questo caso, un esame più accurato dei contributi scientificiprodotti in questo arco di tempo ci porterebbe a delineare una divisionemeno profonda tra la demografia e la sociologia. Se dunque ci risolvia-mo a ribadire il giudizio precedente è per la semplice ragione che, tuttoconsiderato, esso si addice assai meglio all’obiettivo di fornire una de-scrizione generale dei loro rapporti. C’era, è vero, chi verso la metà delterzo decennio del secolo si adoperava per ricondurre la demografia subspecie sociologica (Coletti, 1926); o chi, come Gini (1952), non molti annidopo, si sforzava di evidenziare i legami organici tra le due discipline.Ma si trattava, dopo tutto, di voci alquanto isolate nel panoramascientifico italiano: come basta a dimostrare una rassegna anche fugacedelle raccolte bibliografiche relative agli studi e alle ricerche prodottinell’immediato dopoguerra (Barbano e Viterbi, 1959; Golini, 1966).

Il fatto è che la situazione italiana presentava da questo punto di vista piùdi una particolarità rispetto al contesto internazionale (Livi Bacci, 1969, p.165). In sostanza, a differenza di altri paesi, essa si caratterizzava per una piùstretta aderenza degli studi demografici alle scienze biostatistiche, anziché al-le scienze sociali. Come avverte Barbano, «nel corso degli anni ‘20 e ‘30 ... viera stato in Europa un notevole calo di interessi sociologici, cui non furonoestranee le vicende e il clima politico; ma in nessuno dei paesi europei l’inter-ruzione fu così lunga e profonda come nel nostro, ove un limitatissimo di-scorso sociologico rimase possibile solo nell’ambito di talune scienze socialitradizionali, quali la demografia, la statistica, ecc.» (Barbano, 1970, p. XXXIII).

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Le ragioni? Le stesse che convenzionalmente si avanzano per spiegareil ritardo nello sviluppo della sociologia nel nostro paese: cioè la mancanzadi una tradizione positiva critica, capace di stimolare la crescita e lo svilup-po della scienza sociale, « spostandone subito le premesse filosofiche daiproblemi eterni della conoscenza a quelli più moderni del metodo» (Gar-bano, 1970, p. xm); ovvero il predominio di una filosofia idealista che al-meno sino alla fine del secondo conflitto mondiale avversò profondamen-te la stessa possibilità di esistenza di una scienza sociale, contribuendo cosìa restringere l’applicazione del metodo scientifico al solo ambito delle scien-ze cosiddette esatte. Il che spiega, a un tempo, sia perché il terreno di col-tura elettivo delle scienze sociali fosse in Italia costituito essenzialmentedalla statistica, dall’economia e dalla demografia, sia perché la sociologia sisviluppò con tanto ritardo rispetto ad altri paesi. Laddove l’empirismo inInghilterra, lo storicismo in Germania e il pragmatismo negli Stati Unitisvolsero un ruolo maieutico nei confronti della nascita della sociologia, favo-rendo l’estensione delle metodologie delle scienze di osservazione anche alcampo delle scienze umane; in Italia tale compito fu affidato, da un lato,alle forze endogene della crescita economico-industriale del dopoguerra e,dall’altro, a quel complesso di fattori esogeni che si riassumono nella sud-ditanza culturale del nostro paese dalla sociologia americana a partire daglianni cinquanta (Balbo, Chiaretti e Massironi, 1975).

Così, per questo insieme di ragioni, le vicende della sociologia si lega-no nel nostro paese, per lungo tempo, a quelle della metodologia e del-l’informazione statistica più in generale; nel senso che esse vengono adipendere, insieme, dalla produzione di adeguate informazioni sulla real-tà sociale e dall’atteggiamento che la comunità scientifica manteneva neiriguardi della ricerca sociale empirica. Per quanto qui ci preme di rileva-re, e limitatamente al periodo di tempo compreso tra il secondo dopo-guerra e oggi, possono pertanto individuarsi tre fasi distinte di questorapporto. Nella prima, collocabile grosso modo nel periodo della rico-struzione degli anni cinquanta, la sociologia si muove in controtendenzarispetto agli studi statistico-demografici: complici, da un lato, l’insuffi-cienza della documentazione statistica di parte sociale rispetto allameglio corredata informazione economica e demografica, nonché unanon meno esiziale insufficienza della cultura del dato statistico tra lacomunità dei ricercatori sociali; e, dall’altro, gli interessi tematici suiquali si orientava giocoforza il lavoro di ricerca dal momento che, perragioni tutt’altro che contingenti, si privilegiavano quali temi di indaginevuoi lo studio di comunità arretrate, localizzate soprattutto nel Mezzo-giorno, vuoi l’impatto dello sviluppo industriale sul territorio, dove la

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presenza della grande impresa esercitava più marcate influenze sulla tra-sformazione dei modi di vita tradizionali delle popolazioni. Sicché, inentrambi i casi (sia per la mancanza di informazioni aggregate sulla real-tà sociale del paese, sia per le esigenze dettate dalla situazione economico-politica), veniva ampiamente favorita l’adozione di un’impostazione dellavoro di ricerca di tipo self-contained, ossia autosufficiente dal puntodi vista della metodologia e dell’apparato informativo impiegato nell’in-dagine sociale.

Anche in questo caso è sufficiente scorrere le rassegne bibliografi-che per rendersi conto della pertinenza di questo rilievo. Su 1624 vocilistate nella Bibliografia curata da Barbano e Viterbi per il periodo1948-58, ad esempio, circa un terzo riguarda studi e ricerche di sociolo-gia economica, industriale, rurale e urbana o sulle interdipendenze tracittà e campagna, mentre soltanto uno sparuto 16 % si riferisce ai me-todi e alle tecniche di ricerca, alla metodologia sociologica e ai rapportitra la sociologia e le altre scienze sociali; con l’avvertenza che molti de-gli autori citati non sono assimilabili alla figura del sociologo in sensostretto, ma appartengono piuttosto ad ambiti disciplinari diversi qualila scienza politica, il diritto, la filosofia, la storia, la statistica, la demo-grafia e l’economia (Barbano e Viterbi, 1959).

Per qualche tempo non si avvertono sostanziali cambiamenti di sce-na. In seguito è ancora l’evoluzione dei temi economici, politici esociali a sollecitare un mutamento di rotta degli studi sociali. Tra la metàdegli anni sessanta e la fine del decennio successivo, via l’estensione deiprimi grandi programmi di riforma, il ricercatore sociale venne in effettisollecitato a porsi come interlocutore credibile e dunque preparato difronte alle nuove domande che provenivano dai decisori politici e dallastessa società civile. In questo mutato panorama istituzionale prendonoforma, lentamente e invero timidamente, nuovi, inusitati interessi daparte del sociologo nei riguardi dell’informazione statistica aggregata,con riferimento a una pluralità di aspetti e fenomeni della vita sociale;e si dipana, al tempo stesso, una sempre più consistente attività di ricer-ca empirica, connessa in parte ai temi tradizionali dell’analisi sociale,in parte a nuovi campi di indagine, quali il mercato del lavoro, la fami-glia, la condizione femminile, i giovani, le politiche sociali, le comuni-cazioni di massa. Di nuovo, è agevole verificare, scorrendo la produzio-ne scientifica dell’epoca, come temi assenti fino a qualche anno primafacciano in questo periodo la loro apparizione tra gli studi e le ricercheempiriche in campo sociale. Loro caratteristica comune è il ricorso pres-soché generalizzato alle tecniche di survey (mutuate dalla sociologia sta-tunitense, allora imperante soprattutto all’interno dell’accademia) e l’assai

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limitato impiego di dati strutturali o macrosociali provenienti da fontistatistiche ufficiali.

Nel panorama generale non si avvertivano ancora i segni di un muta-mento di atteggiamento del ricercatore sociale nei confronti dell’infor-mazione e del metodo statistico: il solo terreno, come si è detto, sul qualeavrebbe potuto compiersi l’incontro tra la sociologia e la demografia.O, se c’erano, questi segni apparivano alquanto fievoli. La tendenza al-lora dominante pareva piuttosto procedere nel senso di un progressivoaccentuarsi del divario tra le due discipline, anziché in quello della suaattenuazione. Lo sviluppo di una sempre più complessa metodologia neglistudi demografici della natalità, della mortalità e dei fenomeni migratori,da una parte; l’estensione di quadri analitici contraddistinti dalla presenza dicomplesse architetture concettuali, ove gli aspetti teorici astrattigiocavano un ruolo affatto predominante a tutto discapito dellecomponenti empiriche e strutturali, dall’altra: entrambe queste tenden-ze degli studi demografici e sociologici, rispettivamente, rendevano l’e-vento del loro possibile ricongiungimento sempre più aleatorio e remoto.

Solo in prosieguo di tempo, più o meno all’inizio degli anni settanta,si verificano finalmente condizioni più favorevoli per l’organica inte-grazione delle due discipline. Solo in questi anni, come vedremo, la de-mografia pare aprirsi a riflessioni più ampie sui fattori economici, socialie culturali che intervengono nella dinamica delle popolazioni, sforzandosidi elaborare interpretazioni più audaci e pertanto più articolate e complessesui meccanismi del comportamento demografico; mentre, dal canto suo, laricerca sociale rivolge un’attenzione sempre più matura e consapevoleverso il patrimonio di informazioni concernenti la struttura dellapopolazione e la dinamica dei fenomeni demografici. Ma la lentezza concui si compie il processo di avvicinamento delle due sfere dellaconoscenza sconta evidentemente il divario alimentato da un lungoperiodo di diffidenza reciproca.

5. Recenti tendenze integrative negli studi demografici e sociali

In effetti, se le premesse di un’ineluttabile integrazione tra le duediscipline erano rintracciabili nella stessa convergenza su un comune og-getto di studio, i primi passi concreti in questa direzione non furonomossi dalla demografia né dalla sociologia, intese in senso stretto. Essiderivarono piuttosto dall’esigenza di tenere presenti, sul piano dell’ana-lisi, aspetti e problemi della vita sociale che, in quanto tali, non eranocurati da alcuna delle due discipline singolarmente considerate.

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L’attenzione ai problemi posti dall’integrazione tra variabili stretta-mente demografiche e variabili strettamente sociologiche prese avvio,infatti, dapprima nell’ambito degli studi storico-sociali e in un secondomomento nel quadro appena più ristretto degli studi e delle ricerchesulle strutture e i comportamenti delle famiglie, accompagnati da nonoccasionali riferimenti alla problematica politico-sociale.

In primo luogo, non è difficile identificare nei contributi forniti dallastoria sociale i prodromi di una fruttuosa sintesi delle conoscenze e dei metodidi indagine autonomamente sviluppati sia dalla scienza demografica siada quella sociale. Se, seguendo un suggerimento fornito in un diversocontesto da C . Tilly, identifichiamo gli obiettivi di questi studi nellapossibilità di condurre simultaneamente l’analisi delle relazioni diparentela, della composizione dell’aggregato domestico, del comportamentosessuale, delle opportunità economiche e dei condizionamenti desumibili dallastruttura demografica delle popolazioni, nonché nell’alloggiamento distudi locali e di dettaglio entro modelli generali e analisi di ampiorespiro (Tilly, 1978,.p. 7); allora, se questi sono gli obiettivi, si puòritenere che in larga parte essi siano stati conseguiti e perfino superatidalla pubblicistica italiana; quantunque sia ancora prematuro parlare diuna consolidata tradizione di ricerca nella promettente direzione in cuisi sono incamminate le prime esperienze compiute in questo settore.

Più radicata e quindi più imponente la produzione realizzata nel campodegli studi sulla famiglia. È su questo versante che si affacciano i piùconsistenti tentativi di integrazione tra approccio demografico e socio-logico. I motivi sono ovvi. La famiglia, in effetti, si pone come unitàintermedia tra individui e popolazione: sede elettiva dei comportamentiprocreativi e dei processi di socializzazione delle nuove generazioni,costituisce soprattutto il contesto prevalente in cui ha luogo l’adatta-mento degli individui all’ambiente sociale tramite la soddisfazione deiloro bisogni essenziali. Cosicché in essa convergono una pluralità di espe-rienze e aspetti dell’organizzazione sociale quali la riproduzione, la for-mazione, l’attività lavorativa, la salute, le pratiche politiche e religiosee così via, cui corrispondono, nel catasto ormai secolare della tradizionescientifica e accademica, altrettante espressioni disciplinari, quali la de-mografia, l’economia, la psicologia, la sociologia, la scienza politica el’antropologia. Più di altri temi di ricerca, la famiglia esprime perciò unavocazione singolare ad aggregare in un quadro unitario, istituzionale, unapluralità di elementi della vita sociale. Tentare di separarli, di conside-rarli distintamente al di fuori della cornice in cui convergono in una nuovae diversa sintesi, equivarrebbe a perdere di vista l’oggetto stesso dell’a-nalisi; significherebbe ridurre l’insieme alle sue parti elementari, disper-

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dere ciò che è singolarmente correlato; privarsi insomma dellapossibilità di ricostruire e conoscere il fenomeno famiglia nella suainterezza e, ciò che più importa, nella sua specificità.

In definitiva, l’analisi della famiglia rappresenta l’unità di riferimentopiù appropriata e un primo banco di prova per valutare la realizzabilitàe la validità di una proposta di lavoro che si ponga come obiettivo prio-ritario la ricomposizione del sapere sociale. Dal punto di vista metodologico,il riferimento alla famiglia porta anzitutto a ridimensionare l’utilità diun’indagine che si muove esclusivamente o prevalentemente a livello dialcuni aspetti della popolazione o del più limitato oggetto di indagine.«Costruiamo una demografia della famiglia - ha scritto BourgeoisPichat(1987, p. 63) - ma non dobbiamo dimenticare che la stessa famiglia vacollocata in un contesto di entità superiori: il villaggio, l’appartenenzasociale, religiosa ecc. ». Allo stesso tempo, essa sollecita l’indagine adaffrontare le difficoltà tecniche, di rilevazione e di analisi dei dati, cheindubbiamente emergono quando dal riferimento a un numero limitatodi casi (tipico dell’inchiesta sociale condotta su campioni di ridottedimensioni) si passa a un livello aggregato superiore, talvolta coincidentecon l’intera popolazione. Ancora: l’analisi della famiglia sollecita ilricercatore a prestare attenzione a problemi di significato e pertanto a tenerepresenti aspetti e questioni specificamente attinenti al campo di studidella sociologia. L’indagine micro pone, in effetti, il ricercatore acontatto con situazioni nelle quali la similarità di forma della struttura odella composizione della famiglia si associa a una diversità talvolta in-conciliabile di funzioni e di significati nel più ampio contesto sociale.L’adozione di determinati comportamenti demografici, nel campo dellariproduzione, della nuzialità, del movimento della popolazione sul ter-ritorio, ad esempio, può essere il risultato di motivazioni o di condi-zioni strutturali all’intorno anche assai diverse, delle quali nell’analisioccorre dar conto. Vale a dire che, percorrendo la strada dell’interdisci-plinarità, ci si imbatte inevitabilmente in un problema cruciale delle scienzesociali e del comportamento: in breve, che l’accumulo crescente diinformazioni nell’ambito ristretto di un contesto disciplinare pone im-mediatamente il problema dei limiti e dei confini della disciplina. Aumentaconsiderevolmente la variabilità dei fenomeni oggetto di osservazione; maaumenta di concerto l’incapacità di un solo apparato disciplinare dispiegare la varianza totale del fenomeno ricorrendo alle sole variabili o aisoli fattori che costituiscono il corredo concettuale e strumentale di quelladisciplina.

Tipico, solo per esemplificare, il caso della fecondità, dove risultaoltremodo difficile ricondurre a un’interpretazione monolitica e unidi-

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sciplinare la presenza di forti variabilità nelle misure consuete della fe-condità in paesi che pur presentano a tutta prima caratteristiche sostan-zialmente omogenee; o, di contro, l’esistenza di significative variazioninei tassi di natalità entro contesti che, in base al sapere convenzionale,dovrebbero presentare correlazioni di segno diverso tra le caratteristi-che strutturali della popolazione e del territorio e gli esiti riproduttivi.Identici risultati possono, evidentemente, essere prodotti da un diversoordine di fattori causali. Ma, con altrettanta evidenza, non necessaria-mente questi diversi ordini di fattori appartengono legittimamente allostesso ambito disciplinare. Spesso ne fuoriescono, creando connessioniaffatto inusitate rispetto alle tradizionali partizioni disciplinari.

«Non esistono scienze umane dai confini limitati», ha giustamente os-servato Braudel. Ciascuna di esse «è una porta aperta sull’insieme del so-ciale che si apre su tutte le stanze e conduce a tutti i piani dell’edificio, acondizione che l’investigatore non si arresti nel suo cammino, mosso daun atteggiamento di riguardo nei confronti degli altri specialisti suoi vicini,ma essendo al contrario pronto a utilizzare, quando ce ne sia la necessità,le loro porte e le loro scale» (Braudel, 1984, p. 57). Di modo che «ogni se-parazione, ogni barriera tra le scienze sociali è una regressione. Ogni pro-blematica separata dall’insieme è condannata ad essere infruttuosa» (Brau-del, 1984, p. 58). Come dire che non esistono discipline sociali che possa-no pretendere un’autonomia di metodi e di contenuto nello studio dei fe-nomeni sociali, senza perciò limitare drasticamente la natura molteplice ecomplessa dei fatti che formano l’oggetto della loro indagine.

Ora, sebbene l’obiettivo di un’integrazione sistematica di tutte lescienze sociali non possa realisticamente essere posto se non in terminiideali, il tentativo di superare le barriere disciplinari che erano andatestratificandosi nel corso del tempo si sarebbe dimostrato più difficiledel previsto. In Italia, più che altrove: quando si tengano presenti, dallato della demografia, la gravosa eredità biologistica lasciata dagli stu-diosi dei fenomeni demografici nel nostro paese e l’immagine tutt’altroche positiva associata di riflesso alla disciplina dalla «politicizzazionedella demografia negli ultimi anni nefasti del fascismo e dalla sua tra-sformazione in demografia della razza al servizio di teorie antiscientifiche edisumane» (Livi Bacci, 1969, pp. 166-67); ovvero, dal lato della sociolo-gia, la già rilevata influenza regressiva esercitata dalla filosofia idealistasull’introduzione e sullo sviluppo dei metodi quantitativi negli studisociali in epoca più o meno contemporanea. Comunque sia, se dueinfluenze di segno negativo non danno luogo di regola a un risultato fa-vorevole, sta di fatto che, a datare dall’inizio degli anni settanta, le ten-

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denze evolutive presenti negli orientamenti scientifici e culturali della demo-grafia e della sociologia si instradarono lungo itinerari sostanzialmente conver-genti. C’è chi ha intravisto, non senza ragione, in questa comune evoluzionedella scienza demografica e della sociologia il risultato di una tendenza di piùlungo periodo delle scienze umane verso la sociologizzazione, «che rappre-senta forse il parallelo del fenomeno di biologizzazione delle scienze so-ciali che ha caratterizzato la seconda metà del secolo XIX e l’inizio delXX» (Federici, 1971, p. 182). Certo è così. Anche se in termini più ba-nali si potrebbe osservare che a un certo punto della loro evoluzione, rag-giunto un soddisfacente grado di consolidamento e di consapevolezza scien-tifica, sia l’una sia l’altra disciplina dovevano necessariamente approdarealla conclusione che la descrizione e la spiegazione del medesimo oggettodi analisi avrebbero richiesto l’adozione di concetti, metodi e strumenti diindagine sostanzialmente coincidenti.

In linea di principio, nessuno dei temi classici della demografia e della so-ciologia poteva sottrarsi a quest’ineluttabile conclusione: non l’accresci-mento naturale della popolazione, non la mortalità, né tanto meno glispostamenti territoriali della popolazione, per quanto concerne il versantedemografico; ma nemmeno lo studio delle classi e della stratificazione,l’indagine sul lavoro, sulla povertà, l’educazione, la famiglia, gli stili divita, per quanto attiene ad alcuni dei temi canonici della sociologia. Nellaconsapevolezza di quanto è accaduto, non è difficile comprendere che al-cune tematiche si prestavano meglio di altre a favorire il salto nell’inter-disciplinarietà. Che il lavoro, la famiglia, la condizione femminile, i feno-meni migratori, godevano ceteris paribus di uno statuto tematico particolar-mente propizio per un’incursione degli studi demografici e sociologicientro i confini inveterati segnati dalle reciproche tradizioni disciplinari.Ciascuno di essi si trovava, come dire, al crocevia di fenomeni della vita so-ciale che solo dal punto di vista di un’astratta quanto esiziale divisione socialedel sapere potevano essere considerati come una sommatoria incongruentedi tratti distinti. Come separare, ad esempio, l’analisi della fecondità daquella della famiglia o dalla condizione lavorativa della donna? Che sensoha, nella prospettiva di un’indagine esaustiva del reale, distinguere ilmovimento della popolazione dalle cause economiche e sociali che nestanno a fondamento o prescindere dagli effetti che tali spostamenti pro-ducono tanto nei luoghi di provenienza quanto in quelli di destinazione?Idem per quanto riguarda l’analisi delle classi o lo studio di aspetti al-trettanto fondamentali dell’organizzazione sociale.

Ma dove inizia il processo? Su quale fronte è più agevole romperecon la tradizione e avviare un rinnovamento di quadri disciplinari con-

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solidati? Virtualmente è impossibile, e forse inutile, tentare di dare rispo-sta a queste domande. In pratica, è alquanto agevole ripercorrere il cammi-no a ritroso e ricostruire le fasi salienti del cambiamento. A puro scopo diinventario, si potrebbe collocare l’origine del processo di avvicinamentodelle due discipline nel momento in cui si avverte, da parte della demo-grafia, la necessità di ricorrere a quelle tecniche di indagine che contrad-distinguono — per tradizione — la ricerca sociale, ovvero di accrescere ilnovero delle variabili ritenute influenti sulla dinamica dei fatti demo-grafici; e, da parte della sociologia, la necessità di disporre di un’analisidi quadro all’interno della quale situare gli studi di maggiore dettaglio,ovvero l’esigenza di inglobare le caratteristiche della popolazione e le suedinamiche nella descrizione del sistema sociale oggetto di indagine.

Se teniamo presenti entrambi questi criteri, un utile punto di riferi-mento è costituito dall’indagine sulla fecondità e il lavoro della donnacondotta nel 1969, a cura dell’Istituto di demografia dell’Università diRoma, su un campione di oltre duemila donne in età feconda. Anzitut-to per la sua impostazione metodologica che, non a caso, muove dallaconsapevolezza dei limiti delle tradizionali indagini sulla fecondità ba-sate «quasi esclusivamente sull’analisi demografica di dati desunti dallestatistiche correnti» (Federici, 1973, pp. 1-2); a proposito delle quali,in quello studio si rilevava in effetti l’opportunità di introdurre profon-de innovazioni sul piano degli strumenti di indagine, in particolare nelpassaggio dalle rilevazioni sui grandi aggregati censimentari a quelle supiccoli campioni condotte «sulla base di interviste individuali dirette chedevono — secondo le autrici — essere articolate su una pluralità di quesi-ti, tanto più numerosi e complessi quanto più completo è il quadro chesi vuol tracciare» (Federici, 1973, p. 5).

Nel complesso, la scelta adottata conduce da un lato a effettuare l’in-dagine «non già sulla totalità della popolazione ma su un campione, piùo meno ristretto, di essa e — dall’altro — a centrare l’indagine su un aspetto,che viene di volta in volta scelto come obiettivo principale di analisi,impostando, così, i quesiti in funzione soprattutto dell’approfondimen-to di tale aspetto, rispetto al quale gli altri vengono a costituire il neces-sario quadro di riferimento» (Federici, 1973). Quanto ai contenuti, sievidenziava «che una valida analisi delle relazioni tra lavoro della donnae fecondità richiedeva da un lato di formulare ipotesi circa le altrevariabili che si poteva presumere intervenissero a modificare tali rela-zioni» e si proponeva, dall’altro, «l’opportunità di considerare la fecon-dità non già esclusivamente in termini quantitativi di numero di figliavuti, ma anche in termini di comportamento nei confronti dei tempi

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e dei modi di formazione della famiglia» (Federici, 1973, pp. 6-7). Co-sicché anche un aspetto specifico quale quello affrontato nello studioveniva a investire un’ampia problematica. E le variabili che si ritenevadovessero essere considerate comprendevano aspetti solitamente tra-scurati dalle indagini tradizionali sulla fecondità quali, ad esempio, lazona geografica di residenza, l’ambiente rurale o urbano di dimora, lacollocazione socio-economica della famiglia, il lavoro eventualmentesvolto dalla donna, il tipo di lavoro e la sua continuità nel corso del ciclodi vita della donna (Federici, 1973, p. 7).

Se questa e altre indagini che ad essa seguirono valsero ad attenuarequella «sostanziale rigidità dell’osservazione dei fatti demografici» più voltelamentata dagli stessi demografi (Livi Bacci, 1969, pp. 171 e segg.; Federici,1969), un effettivo punto di svolta nel processo di avvicinamento dellademografia e della sociologia coincise con l’avvio di una serie pluriennale diincontri seminariali promossi dal Comitato per le Scienze economiche,sociologiche e statistiche del CNR tra il 1975 e il 1980. Tali incontri — a cuifurono invitati a partecipare sociologi, demografi, biologi, statistici,economisti, psicologi, storici sociali e antropologi — avevano lo scopo difavorire la comunicazione e lo scambio di informazioni e di metodologie trastudiosi che, pur appartenendo a diversi ambiti disciplinari, erano legatida un comune interesse scientifico per lo studio della famiglia. Per la primavolta, a studiosi di diversa formazione veniva offerta l’opportunità di unconfronto incrociato dei risultati delle loro ricerche; ma soprattuttoveniva data loro la possibilità di valutare i limiti di un approccio al temadella famiglia fondato su un unico impianto disciplinare, e con ciò divenire a conoscenza di esperienze di lavoro e fonti di dati cheusualmente sfuggivano all’attenzione di ogni singolo specialista.

Al di là dei risultati apprezzabili tramite i consueti criteri di produ-zione scientifica (Cisp, 1982-83; Centro studi e ricerche sulla famiglia,1983; Sgritta, 1984), il dato positivo di questi incontri fu indubbiamentela redazione di un progetto di indagine, poi inoltrato all’Istat, sulle strut-ture e le caratteristiche delle famiglie italiane. Il progetto, che costituivala sintesi di un lavoro interdisciplinare condotto nell’arco di circa unquinquennio, diede luogo a sua volta alla prima indagine nazionale sulleStrutture e i comportamenti delle famiglie italiane, alla cui predisposizionecollaborarono, nell’apposita commissione istituita presso l’Istat, alcunidei partecipanti ai seminari di studio del CNR. Di fatto, si apriva così unorizzonte affatto nuovo sul terreno dell’incontro tra demografia esociologia; non tanto e non solo per la particolare vocazione dell’analisidella famiglia a porsi come punto di incontro tra orientamenti disciplinaridiversi, né perché a quella prima indagine seguì dappresso il va-

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ro della ben più impegnativa Indagine multiscopo sulle famiglie (dicembre 1987).E nemmeno a motivo del fatto che quest’ultima indagine si siaproposta come obiettivo di massima di migliorare qualitativamente illivello delle rilevazioni già esistenti tramite significative innovazioni sulpiano metodologico. Ma piuttosto perché, su un terreno così importanteper la tradizione scientifica italiana, si tentava per la prima volta diinglobare l’apporto specifico della conoscenza sociale nel processo diproduzione del dato statistico-demografico: per tutta la lunghezza idealedel percorso che si snoda dalla fase di formulazione del progetto aquella della predisposizione del modello di raccolta, dall’esecuzione dipreliminari esperienze pilota al controllo di qualità del dato, dal pianodi spoglio e incrocio delle variabili al quadro di elaborazione tecnica,sino alla sua utilizzazione operativa nella pratica sociale.

Non a caso nell’ambito delle commissioni scientifiche incaricate dipredisporre le suddette indagini operano studiosi di formazione diver-sa; ossia convergono sensibilità nuove, rispetto al passato, nell’indivi-duazione delle esigenze e degli aspetti della vita sociale che si reputanomeritevoli di approfondimento. Già la selezione dei temi introdotti nel-l’Indagine multiscopo — tra gli altri l’uso del tempo, la struttura delle reti direlazione familiare, la condizione dell’infanzia, l’economia familiare ecosì via — denota un salto di qualità rispetto al ventaglio di temi tradi-zionalmente tenuto presente dall’indagine demografica. Di più. L’intro-duzione di questi temi comporta a sua volta la necessità di trovare al-trettante soluzioni sul piano della metodologia. Obbliga il produttoredel dato ad affrontare problemi nuovi, che nascono dal fatto di trovarsidi fronte a fenomeni di non agevole misurazione, o dalle difficoltà po-

‘ ste dall’impiego delle più incerte misure di atteggiamento rispettoalle (più o meno oggettive) misure di comportamento. Ma in primo luogocostringe la ricerca statistica e demografica a spingersi al di là dei confiniristretti delle rispettive competenze disciplinari e ad «abbeverarsi» allafonte, ormai copiosa, delle tante indagini sociali su piccoli campioni,che vengono così a costituire un serbatoio prezioso di idee e metodi dirilevazione e trattamento del dato che possono risultare assai utili nellapreparazione e nell’esecuzione delle indagini.

Da allora, il percorso dell’integrazione tra sociologia e demografia,se non in discesa, è stato certamente pianeggiante. Gli eventi che l’hannoaccompagnato, almeno sul terreno degli studi e delle ricerche sullafamiglia, non possono che essere giudicati positivamente. Studiosi ericercatori che, secondo le convenzioni tradizionali, trovano tuttoracollocazione in un fronte disciplinare, tendono sempre più a muoversicon inusitata disinvoltura anche nell’altro fronte. In effetti, se nella

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prima metà degli anni ottanta, sulla scia delle esperienze pilota di cuisi è detto, è già consueto imbattersi in pubblicazioni che raccolgono sottola medesima veste grafica contributi di demografi e sociologi (Centrostudi e ricerche sulla famiglia, 1983b; 1984), a partire dal 1985 — conla pubblicazione degli atti del convegno organizzato dall’Istat e dal Comi-tato nazionale della popolazione in occasione della presentazione dei risul-tati dell’indagine sulle Strutture e i comportamenti familiari (Istat, 1986)— tali occasioni non solo si fanno più frequenti ma si assiste da allora aun fenomeno alquanto singolare nel panorama scientifico italiano. Quasiil prodursi di una sorta di «mutazione genetica» nell’atteggiamento del so-ciologo e del demografo nell’approccio al tema della famiglia. Un cambia-mento che si esprime nell’estensione degli interessi di ricerca dell’uno edell’altro al di là dei confini stabiliti dalla tradizione; uno scambio dei ruo-li, che porta non solo all’interscambiabilità dei contenuti, ma spesso addi-rittura all’adozione di consimili metodologie nell’impostazione del lavoroe nel trattamento delle informazioni.

Un rapido sguardo alla letteratura demografica e sociologica della finedegli anni ottanta-inizio anni novanta è già sufficiente a cogliere i segnidel cambiamento, specie se rapportata alla produzione scientifica deglianni immediatamente precedenti; ma non se ne trae che una pallida idea.Ben più esteso, profondo e radicato è il mutamento intervenuto nel frat-tempo nel modo di far ricerca sui due versanti della demografia e dellasociologia. Per poterne apprezzare appieno la portata dovremmo, tuttavia,gettare lo sguardo nella mole considerevole di lavori in gestazione all’inter-no delle università, nelle tesi di laurea; ovvero, attendere la conclusionedi quella cospicua massa di ricerche destinata a essere alimentata dallaperiodica pubblicazione dei risultati dei sei cicli tematici dell’Indaginemultiscopo sulle famiglie, tuttora in fase di svolgimento presso l’Istat.Perché è qui, in effetti, che si appuntano le maggiori possibilità di colla-borazione tra le due discipline. Deriva da qui, come sempre del resto, lapossibilità di alimentare lo sviluppo della teoria, delle metodologie e del-le tecniche di rilevazione, indagine e analisi dei dati con riferimenti de-sunti dall’osservazione dei fenomeni reali, a partire dall’esperienza con-creta della ricerca e dai problemi che essa pone con continuità al ricerca-tore. Ampliandosi Io spettro dei fenomeni oggetto di osservazione, manmano che ci si addentra su inesplorati campi di indagine, si produce ne-cessariamente un rimescolamento dei punti di vista. Si avverte l’esigen-za di estendere i propri orizzonti conoscitivi e di rivalutare aspetti e ca-ratteristiche della realtà che in una visuale tradizionale delle specifiche com-petenze disciplinari potevano più agevolmente essere tralasciati.

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6. Conclusioni

Non servono dunque doti divinatorie per prevedere che il terrenodi lavoro comune tra demografia e sociologia è destinato, in un futuronemmeno troppo lontano, ad ampliarsi ulteriormente. Né si pecca di ec-cessivo ottimismo se si ritiene probabile il costituirsi di un’area semprepiù ampia di interessi scientifici comuni alle due discipline, sia sotto ilprofilo dei contenuti sia sotto quello dei metodi di ricerca; area dallaquale residueranno le sintesi più astratte della teoria sociologica e i tec-nicismi più esasperati dell’analisi demografica, che andranno per contoloro a costituire nicchie di sapere a un tempo esoteriche e limitate.

Già ora, del resto, le considerazioni sulle quali ci siamo precedente-mente soffermati bastano a dimostrare l’esistenza di spinte centripeteche, grazie alle innovazioni introdotte sul piano della rilevazione e dellaregistrazione magnetica delle informazioni, consentono di passare pro-gressivamente dal dato aggregato (tipico della scienza demografica delpassato) al dato individuale e quindi di mantenere a questo livello ancheil taglio della successiva analisi interpretativa. Il che non significadisconoscere l’importanza dell’analisi aggregata, ma solo «apprezzamentoper nuove opportunità di approfondimento» (De Sandre, 1990, p. 55).In effetti, la possibilità di utilizzare i dati relativi ai singoli individuiosservati, mantenendo il riferimento individualizzato, ha consentito neltempo l’apertura di nuovi orizzonti di lavoro interdisciplinare. Da unlato, come riassume De Sandre (1986, p. 48), essa «ha aperto spazi enormiall’analisi statistica multivariata dei dati, alla ricerca di modelli struttu-rali di rappresentazione dei fenomeni, e alla micro-simulazione», am-pliando in tal modo i punti di contatto tra le metodologie di lavoro tipi-che della sociologia e quelle demografiche. Dall’altro, «ha spinto ad au-mentare i caratteri osservati per meglio conoscere le dinamiche dei com-portamenti: tipica è stata la diffusione di indagini a obiettivi plurimi(in senso estensivo) e di quesiti retrospettivi (in senso intensivo), anchenei censimenti, e la promozione di indagini campionarie sia da parte diorganismi ufficiali sia da parte di privati ricercatori» (De Sandre, 1986).

Con riferimento agli orientamenti metodologici che investono diret-tamente, anche se non unicamente, la realtà familiare, un ulteriore spa-zio di lavoro congiunto tra demografia e sociologia è andato inoltreformandosi recentemente intorno al tema della natura temporale del-l’indagine; specificamente, intorno al confronto tra indagini di tipotrasversale (cross-sectional) e indagini longitudinali. Anche in questo caso,l’esigenza del cambiamento deriva dalla percezione di una carenza.

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Il ricorso a metodologie di lavoro di tipo trasversale congiunto alla tratta-zione aggregata dei dati risulta, come noto, gravato da tali distorsionida non consentire di seguire l’evoluzione dinamica dei gruppi oggettodi osservazione, né di comprendere l’insieme dei fattori dai quali dipen-de la variabilità dei comportamenti sociali e demografici; laddove, invece,l’adozione di una più sofisticata metodologia di lavoro che consenta difondere l’approccio longitudinale con il livello di analisi individuale offrel’opportunità di ovviare ai limiti delle analisi tradizionali, pur affaccian-do problemi di rilevazione e trattazione dei dati non sempre di agevolesoluzione (De Sandre, 1985; Sgritta, 1990). Tenuto conto che l’analisilongitudinale non è che un’approssimazione alle vere modalità di svolgi-mento della vita sociale, che in essa si ricapitola anche lo studio perbiografie, per cicli di vita — individuali e/o familiari — e per genera-zioni; e che analisi di questa natura sollecitano fortemente il demogra-fo e il sociologo a ricorrere a tecniche di trattamento dei dati di tipomultivariato, segue da tutto ciò che, anche su questo piano, le possibilitàdi convergenza tra studi sociologici e studi demografici siano sempre piùconsistenti.

Purtroppo in Italia non si dispone ancora di esperienze di lavoro edi risultati di ricerca che consentano di stilare un bilancio della collabo-razione tra demografi e sociologi. Esistono le condizioni per l’avvio diquesta collaborazione, ma è prematuro esprimere un giudizio sulla qua-lità degli esiti che ne deriveranno. In linea di principio, è indubbio chela confluenza di metodi e di contenuti non possa che essere ritenuta po-sitiva da entrambi i versanti disciplinari. Quanto Livi Bacci, ormai ven-t’anni fa, diceva a proposito dello stato e degli orientamenti della de-mografia, si applica agevolmente anche alla sociologia. A entrambe è of-ferta oggi «la possibilità di arricchirsi, di rinnovarsi, inserendosi ... inun vasto campo di ricerche che mai come oggi sembrano importanti enecessarie per la corretta conoscenza della società» (Livi Bacci, 1969,p. 180). Così come, di contro, per entrambe si presenta il rischio di noncogliere appieno questa possibilità. Non certo per ragioni epistemologi-che (che anzi, come abbiamo visto, risultano da ogni punto di vista as-solutamente congeniali all’obiettivo della loro integrazione), quanto piut-tosto per motivi di ordine pratico, che risiedono nella struttura delleistituzioni accademiche, nei percorsi formativi del sociologo e del de-mografo, nei modi in cui è tuttora impartito l’insegnamento delle duediscipline, nei mezzi che saranno messi a disposizione della ricerca e nellasensibilità dei pubblici poteri. Difficile fare previsioni. Ma si può for-mulare una speranza: che, una volta tanto, all’ottimismo della ragionenon sia d’ostacolo il pessimismo della volontà.

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Capitolo ottavo

Demografia ed economia

Renato Guarini

1. Introduzione: il dibattito e la teoria

La popolazione, la sua dimensione e la sua composizione interna svol-gono un ruolo centrale nella dinamica del processo economico, chiara-mente riconosciuto già nelle opere dei primi grandi economisti, che fio-rirono a cavallo tra Settecento e Ottocento.

I fondatori dell’economia classica, da Smith a Ricardo, riconobberola centralità della popolazione sia come soggetto di bisogni da soddisfa-re in condizioni di scarsità di risorse, sia come forza produttiva da cuisi origina la crescita economica. Il processo economico viene infatti vi-sto in termini di svolgimento e cambiamenti nel tempo, e non, comepiù tardi fecero Walras, Pareto e altri, in termini di equilibrio astratto,essenzialmente statico. Tra gli italiani, anche senza risalire a Galiani,basta ricordare Genovesi, Verri e De Sismondi, per i quali ricchezza epopolazione costituiscono un binomio inscindibile.

In realtà, anche nelle opere dei grandi economisti dell’Ottocento edel primo Novecento, da Marshall a Pareto, si trova un capitolo dedica-to alla popolazione. Ma, come ammette lo stesso Pareto, in molti casisi tratta più di un tributo pagato alla tradizione che di una trattazioneorganica delle interdipendenze tra dinamiche demografiche e fenomenieconomici. Bisognerà arrivare a Keynes per trovare di nuovo la popola-zione non solo come parte integrante, ma come fattore esplicativo delfenomeno economico, con il riconoscimento del problema centrale del-l’equilibrio tra disponibilità di risorse e crescita della popolazione, cheha determinato la distribuzione degli insediamenti stessi e la crescita dellepopolazioni interessate.

A Malthus va il merito di aver concepito fra i primi l’interazione tra fe-nomeni economici e variabili demografiche non in senso astratto, ma aven-do riguardo alle concrete manifestazioni della realtà, sia in atto sia in di-venire. Ma nella sua opera, come osserva Pareto, occorre distinguere leparti scientifiche da quelle precettive. Le due celebri ipotesi malthusianedi crescita della popolazione e delle sussistenze hanno dato origine, nel cor-

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so del tempo, a numerose polemiche, non limitate alla sfera scientifico-accademica, ma estese a coinvolgere aspetti etici, ideologici e religiosi.

Secondo Amoroso (1929), Malthus avrebbe commesso l’errore, comu-ne a tutti gli economisti della scuola classica, di interpretare una relazionedi interdipendenza in termini di relazione di causalità. Quando Malthus af-ferma che la popolazione è in ogni istante limitata dalle risorse di sussi-stenza, dovrebbe aggiungere, reciprocamente, che a sua volta la popolazio-ne determina l’ammontare di risorse, sì che in sostanza le due incognite(popolazione e sussistenza) sono determinate da due equazioni simultanee.Ciò esclude a priori che possa presupporsi per una di esse un movimen-to arbitrariamente prefissato.

Tuttavia Amoroso, nota Barberi (1969), alla denuncia dell’errore logi-co di Malthus non fa seguire un apporto costruttivo per la specificazionedelle interdipendenze tra popolazioni e risorse, in termini di un modelloteorico che colleghi in un sistema l’equazione differenziale del movimen-to della popolazione con quella del movimento delle sussistenze. Ancorasecondo Barberi, Amoroso, preso dall’analisi logistica di Verhulst, rima-ne a un passo dall’equazione rappresentativa della dinamica della popola-zione, costituita dalla derivata seconda della popolazione, da mettere a si-stema con l’equazione della dinamica delle sussistenze espressa dal prin-cipio dell’azione smithiana.

Con l’avvento della rivoluzione industriale, osserva Livi Bacci (1989), itermini dell’equazione popolazione-economia cambiano rapidamente: cre-scita demografica e crescita economica anziché essere antagoniste si sosten-gono l’un l’altra. Ma questo non è che il quadro generale e si intuisce cheprecisare i contorni e il senso delle relazioni tra economia e popolazionediventa impresa ancor più difficile.

Compito del ricercatore non è quello di discutere se le variazioni de-mografiche determinino o no lo sviluppo economico ma piuttosto quel-lo di individuare in quale modo o in quale misura lo condizionino. An-che se il problema della relazione causale tra popolazione ed economianon è teoricamente risolvibile, Livi Bacci osserva che, esaminando lun-ghe serie di variabili demografiche ed economiche, si possono compiu-tamente individuare alcuni fattori che possono aver contribuito nel cor-so dei secoli ad accelerare piuttosto che a ritardare lo sviluppo. In parti-colare individua tre gruppi di fattori:

a) fattori puramente demografici;b) fattori di scala e dimensionali;c) stock delle conoscenze e processo tecnico.

L’analisi empirica da lui effettuata considerando un lungo periodo,pur nell’incertezza circa le forze e il senso delle relazioni tra economia

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e popolazione, consente di affermare che la crescita demografica è statapiù un incentivo che un ostacolo alla crescita economica soprattutto pereffetto dell’accresciuta efficienza media della popolazione nell’arco deltempo considerato.

Nel seguito, verranno esaminati i principali meccanismi attraverso iquali le componenti demografiche sono in relazione con gli aggregatieconomici. In particolare, nel paragrafo 2 vengono analizzati gli impattidello stato e dell’evoluzione della popolazione, considerata in terminidi dimensione quantitativa e di struttura per età, sulle principali macro-variabili economiche (consumi, risparmio e così via). Nel paragrafosuccessivo vengono invece prese in esame le interrelazioni tra i feno-meni economici e i parametri strutturali che definiscono la dinamicadi una popolazione, sia come movimento naturale sia come movimentomigratorio.

2. Variabili economiche e variazioni della popolazione

2.1. Fattori demografici e indicatori di reddito

È quasi intuitivo affrontare il complesso argomento dei legami trademografia ed economia, esaminando in primo luogo le relazioni tra iprincipali indicatori che gli statistici cercano di quantificare per misura-re lo stato e l’evoluzione dei due fenomeni: il reddito e l’ammontaredella popolazione in una data unità territoriale.

Anche a questo riguardo le posizioni sono contrastanti. Alcuni autoriritengono che il reddito pro capite sia una funzione crescente delladensità demografica, poiché all’aumentare di questa in una unità terri-toriale si incrementerà il mercato delle risorse e quindi la possibilità disfruttare i vantaggi della divisione del lavoro e le economie di scala. Inol-tre, la crescita della popolazione stimolerebbe la diffusione e l’adozionedelle innovazioni tecnologiche.

Altri invece considerano le risorse materiali, rinnovabili e non rin-novabili, come un vincolo quantitativo fisso; quindi, all’aumentare del-la popolazione in una data unità territoriale diminuisce la quota dellerisorse pro capite disponibili.

Entrambe queste posizioni risultano concettualmente deboli e si pre-stano a osservazioni critiche; alcune intuitive, altre che possono forma-lizzarsi. I primi studi a sostegno di un impatto favorevole della crescitadella popolazione possono essere fatti risalire a Child (1693) e Dave-nant (1698), mentre in epoca più recente Kelley e Williamson (1974),

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sulla base dell’esperienza giapponese, sottolineano gli effetti positivi del-l’incremento demografico sullo sviluppo economico attraverso l’impul-so alla formazione di capitale. La seconda impostazione teorica, iniziatada Ortes (1774) e Turgot (1766), appare attualmente la più seguita neldibattito economico, con la diffusione delle preoccupazioni ambientali-stiche per una crescita sostenuta, che ha dato vita a una letteratura dinotevole ampiezza, a partire dallo studio precursore di Meadows et al.(1972) sui limiti allo sviluppo.

Con l’inizio del Novecento, Wicksell (1910; 1913) e Cannan (1914)operano un tentativo di sintesi: il reddito pro capite è funzione dell’am-montare della popolazione, ma questa funzione è in un primo tratto cre-scente e successivamente decrescente. Nella storia economico-demograficadi ciascuna unità territoriale esiste un periodo in cui, a parità di tuttigli altri fenomeni e soprattutto in assenza di interrelazioni con altre unitàterritoriali, si raggiunge il più alto reddito pro capite. Si tratta quindidi individuare quale sia questo valore ottimale e quali le condizioni o ifattori che lo hanno determinato.

Anche nelle analisi dello sviluppo economico non ci si può limitarea considerare il solo reddito pro capite, ma è invece necessario, comeafferma Kuznets, esaminare comparativamente l’incremento del reddi-to e quello della popolazione. Questa affermazione sottende l’ipotesi im-plicita che sul piano storico la relazione tra sviluppo demografico e svi-luppo economico sia di mutua dipendenza e che l’uno tenda a favorirel’altro, benché non possano escludersi effetti di segno diverso.

L’esperienza empirica sembra avvalorare queste tesi; tra le variericerche si ricorda Io studio comparativo per sedici paesi sviluppati,effettuato da Maddison (1982) riferito al periodo 1870-1979. Le con-clusioni desumibili dalle analisi comparative delle variabili popolazionee reddito — anche se, come osserva Livi Bacci, abbastanza deboli —dimostrano se non altro che, nel corso degli ultimi secoli, la crescitademografica non ha intralciato Io sviluppo economico; esiste anzi qual-che prova che l’abbia favorito. Livi Bacci, pur sottoscrivendo l’ipo-tesi di neutralità osserva che tra i paesi sviluppati, quelli che hannoavuto maggiore sviluppo demografico hanno anche assunto posizionidi preminenza.

E però da osservare che il confronto tra la dinamica del reddito equella della popolazione non soddisfa tutte le esigenze conoscitive e nonpermette rigorose analisi interpretative. È infatti da rilevare che in taleconfronto si considera, da un lato, la risultante dell’attività produttivadi una parte della collettività e dall’altro il numero complessivo dellepersone che esprimono sia i bisogni individuali sia quelli collettivi.

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Mentre però il grado di soddisfazione dei bisogni dell’intera collettivitàdipende dall’efficienza produttiva di una parte soltanto della popolazione(popolazione attiva), il benessere dipende dalla popolazione complessi-va. A questo riguardo, il rapporto tra la popolazione attiva e l’interapopolazione può essere letto (Fuà, 1986) come rapporto tra la capacitàproduttiva di una collettività e il volume dei bisogni che questa devesoddisfare. Inoltre è da tenere presente che la stessa efficienza produt-tiva dipende da vari fattori quali: il capitale per addetto, il numerodelle ore di lavoro effettuate da ciascun lavoratore, la composizione qua-litativa degli occupati e così via.

Al fine di procedere a corrette misure dello sviluppo economico oc-corre dunque isolare i diversi fattori che influenzano il reddito pro capi-te, tenendo conto che il giudizio sullo sviluppo va espresso in terminisia di grado di efficienza produttiva, sia di grado di diffusione del be-nessere economico.

Tra questi fattori un ruolo importante, talora trascurato dalle analisieconomiche, viene occupato da quelli di natura demografica checaratterizzano le varie unità territoriali. Ad esempio, l’ammontare dellapopolazione in età lavorativa tende, a parità di circostanze, ad accre-scere le forze di lavoro, quando aumenta la sua consistenza totale, eviceversa incide negativamente sulle stesse, quando se ne osservi undecremento.

Anche la struttura per età della popolazione influenza l’entità delleforze di lavoro, perché le diverse classi di età nelle quali si distribuiscela popolazione sono contraddistinte da diverse quote di partecipazionealle forze di lavoro, o tassi di attività.

Il problema dell’individuazione delle determinanti demografiche esociali sulle variazioni del reddito tra le regioni italiane è stato affronta-to da Guarini (1975), che tra i fattori demografici e sociali ritenuti espli-cativi del reddito pro capite ha considerato: la quota della popolazionein età lavorativa sul totale della popolazione, il tasso generico di attività,il tasso specifico di attività, la produttività del lavoro, il tasso di oc-cupazione. I risultati della ricerca hanno messo in evidenza, con riferi-mento ai dati del censimento 1971, che i differenziali di reddito procapite nelle regioni italiane sono significativamente legati alla popola-zione in età di lavoro e alla produttività del lavoro, mentre sono trascu-rabili le relazioni con le altre variabili.

Le variazioni del reddito pro capite non dipendono ovviamente sol-tanto dalla dinamica di alcune variabili demografiche e sociali, ma sonolegate anche alle trasformazioni di alcune caratteristiche dei fattori strut-turali del sistema produttivo, verificatesi in un determinato intervallo

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di tempo. Questo problema è stato affrontato da Denison (1967) cheha cercato di determinare, prima per gli Stati Uniti e successivamenteper gli altri paesi industrializzati, i diversi contributi che le variazionidei singoli fattori possono fornire al tasso medio annuo di incrementodel reddito. Denison, com’è noto, considera come determinanti dellosviluppo del reddito i tre fattori primari della produzione: lavoro, capi-tale e terra, ma la sua attenzione si concentra soprattutto sull’analisi delfattore lavoro, la cui quota sul reddito, in tutti i paesi, si è notevolmenteaccresciuta con la conseguente diminuzione delle quote spettanti alcapitale e alla terra. L’aumento di tale quota può essere spiegato da unacreazione di capitale umano legato non soltanto a fattori economico-sociali(orario di lavoro, grado di istruzione dei lavoratori, migliore utilizzazio-ne dei lavoratori), ma anche a variazioni nella composizione per sessoe per età della popolazione totale e di quella occupata.

Il nostro paese è stato particolarmente interessato al fenomeno dellevariazioni della quota del reddito spettante al fattore lavoro (de Meo,1973); una interpretazione dello sviluppo economico italiano nel perio-do 1961-71 è stata effettuata da Guarini (1975), applicando uno sche-ma del tipo Denison alle regioni italiane.

2.2. Il consumo e le variazioni dinamiche e strutturali della popolazione

Le relazioni tra economia e popolazione possono analizzarsi consi-derando, in luogo del reddito, le varie componenti in cui esso può esseresuddiviso se analizzato dal lato degli impieghi. In questa prospettiva,particolare rilevanza assume l’aggregato dei consumi.

Le teorie dello sviluppo economico richiedono la costruzione di unaspecifica teoria dei consumi, che mostri l’utilizzo della produzione. Dalpunto di vista dinamico i problemi di una teoria dei consumi si articola-no perciò in problemi di crescita quantitativa e di articolazioni qualita-tive, in relazione a un livello di vita che configuri un miglioramentodelle condizioni esistenti nel dato stadio di sviluppo della popolazionepresa in considerazione.

Vaste sono, in particolare, le interdipendenze tra l’aggregato dei con-sumi e la dinamica e la struttura della popolazione.

L’aumento della popolazione determina in primo luogo un aumentodel consumo aggregato, giacché si ammette che non esistano vincoli diofferta tali da impedire un aumento della produzione complessiva pro-porzionale, o più che proporzionale, all’incremento demografico. L’au-mento della produzione, inoltre, avviene a costi minori in termini di di-struzione di risorse, con gli incrementi della produttività del lavoro e

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del progresso tecnico derivanti dallo sviluppo economico. Tuttavia taleaumento comporta necessariamente, oltre che un aumento della dimen-sione dei consumi, un mutamento nella loro composizione.

Modifiche nella composizione dei consumi derivano anche dalle va-riazioni nella struttura per età della popolazione, ovvero dal ringiovani-mento della popolazione che si determina quando è alto il saggio di au-mento della stessa, e dall’invecchiamento che è conseguenza della sta-zionarietà o del declino demografico.

Anche l’effetto della dimensione demografica sull’ammontare dei con-sumi è tuttavia controverso. Infatti, se la popolazione declina non è dettoche i consumi aggregati debbano diminuire; essi possono anche aumen-tare se il decremento non riguarda la popolazione attiva e se il progressotecnico è tale da indurre un incremento della produttività del lavoro piùrapido della flessione del numero assoluto dei lavoratori. Di conseguenzaemergono i nessi tra popolazione e consumo da un lato e quelli trapopolazione e forze di lavoro dall’altro.

Nel dibattito internazionale sulle relazioni tra l’aumentare dellapopolazione e la dinamica del reddito e delle altre variabili macro-economiche, gli studiosi italiani si sono inseriti sia con apporti di tipoconcettuale-metodologico, sia con numerose e interessanti verificheempiriche. In questo filone vanno inquadrati quei lavori che, partendodai coefficienti di spesa introdotti da Mortara, riferiti a una popola-zione avente caratteristiche medie, cercano di utilizzarli per misuraregli effetti della composizione per età sui consumi.

Livi Bacci (1969) osserva che i livelli di consumo variano non solo se-condo l’età ma anche secondo il tipo di residenza (urbana e rurale) e diattività (agricola ed extragricola), anche quando siano eliminati gli effettidella disuguaglianza sociale. Le diversità nel tipo di vita produrranno, in-fatti, livelli differenti di bisogni e quindi di consumi. I risultati delle sueanalisi portano ad affermare che lo spostamento della popolazione dalleattività agricole a quelle secondarie e terziarie tenderebbe ad aumentarela massa dei consumatori più che proporzionalmente all’incremento de-mografico. Egli pertanto afferma che, nella realtà italiana del primo se-colo dopo l’unità, due sono i fattori di natura demografica che più hannoinfluito sullo sviluppo dei consumi: l’invecchiamento della popolazione egli spostamenti territoriali. L’invecchiamento si è concretizzato in unaumento della quota di popolazione in età adulta, che presenta consumipro capite generalmente più elevati rispetto ai giovani. Gli spostamentidi popolazione hanno dal canto loro prodotto certamente un mutamentonei gusti e nella struttura dei consumi e una notevole diminuzione dei beniprodotti e destinati all’autoconsumo nell’ambito dell’unità familiare.

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Il problema dell’introduzione degli effetti demografici sulla doman-da di beni di consumo viene affrontato da alcuni autori (Bollino e Rossi,1989) seguendo la teoria della produzione familiare, proposta da Gorman(1976) e formalizzata da Lewbel (1985).

Questa teoria inquadra il problema dal punto di vista della caratte-rizzazione tecnologica dell’unità di consumo. Infatti, si ipotizza che lefamiglie ottimizzino una funzione obiettivo espressa in termini di «benitrasformati» o intermedi che generalmente non sono disponibili sulmercato. Questi beni intermedi vengono prodotti dal nucleo familiarecombinando beni elementari acquistati sul mercato. Più chiaramente,unità familiari con caratteristiche socio-demografiche diverse presenta-no la stessa struttura di preferenza rispetto ai beni intermedi ma diffe-riscono nella tecnologia produttiva che permette loro di passare dai benielementari a quelli intermedi.

Le funzioni modificatrici (modifyingfunction) di Lewbel applicate in Italiada Bollino e Rossi permettono la più ampia interazione fra caratteristicademografica, spesa totale e prezzi, e comprendono come casi particolaritutte le principali metodologie di introduzione degli effetti demografici insistemi di domanda (Engel, 1895; Prais e Houtahakker, 1955; Barten,1964; Gorman, 1976).

2.3. Risparmio, investimenti e popolazione

La dinamica della popolazione influenza la formazione del risparmioconsiderato nell’ambito sia dell’economia familiare, ciò che implica deci-sioni e comportamenti dei singoli individui, sia del sistema economico nelsuo complesso, implicando quindi il comportamento e l’azione dei governi.

Le motivazioni del risparmio delle famiglie legate principalmente allanecessità di distribuire i propri consumi nel tempo, al desiderio di pre-munirsi contro rischi di cadute del livello di vita, all’aspirazione a elevarequegli stessi livelli, sono determinate dalla variazione della popolazionee nello stesso tempo influenzano le variazioni stesse (McNicoll, 1984).

Un’interpretazione di tali relazioni può essere ricollegata alla teoriabasata sull’ipotesi del ciclo vitale. In sintesi si ipotizza che le persone mirino,nell’arco della loro vita lavorativa, a distribuire il proprio reddito traconsumo e risparmio in modo da assicurarsi un adeguato tenore di vitanelle età improduttive. Nel caso più semplice (in cui non si consideranotrasferimenti di ricchezza intergenerazionali) si accumula per poiconsumare, quindi la vita di ognuno si chiude con un risparmio nettopari a zero. Questo non vuol dire che il paese complessivamente non

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possa realizzare in ogni momento un risparmio positivo. Ciò si verifica,come è accaduto nei paesi occidentali, se le varie generazioni che si succe-dono producono sempre più reddito rispetto alle precedenti, mantenendo lastessa logica di comportamento nei confronti del risparmio. Saremmo alloraportati a concludere che, coeteris paribus, l’incremento della popolazione agiscein senso positivo sulla formazione del risparmio. Ma bisogna considerareche questi risultati acquistano validità empirica solo se riferiti a realtà sta-bili dal punto di vista dei fenomeni demografici. Ad esempio, un baby boomche si protragga per molti anni inciderà negativamente sulla formazione delrisparmio, fino a quando quei bambini non raggiungeranno l’età produttiva, ela riduzione del risparmio e quindi dell’accumulazione di capitale compro-metterà il progresso economico anche nel futuro. Oltre che il comporta-mento delle famiglie anche quello delle imprese può spiegare il livello aggre-gato del risparmio, e di conseguenza l’ammontare degli investimenti siapubblici sia privati. Ciò porta a considerare l’economia nel suo complessoe ad analizzare a livello aggregato le relazioni tra variazioni della popola-zione, risparmio e investimenti.

Anche per le implicazioni di sentieri alternativi di crescita della popola-zione si contrappongono due distinti filoni di pensiero. Il primo, cheparte dagli studi di Coale e Hoover (1958), vede in una crescita rapida unfattore di ritardo sul risparmio e sull’investimento. Nel secondo, a cui siriconduce ad esempio l’analisi di Kelley e Williamson (1974) già citata,una rapida crescita contribuisce alla formazione del capitale.

La possibilità della coesistenza di punti di vista così divergenti, legataa evidenze empiriche a conforto di entrambe le posizioni, può essere colle-gata a diversi fattori. In primo luogo le scelte di politica economica sono ingrado di influire — se non di determinare in toto — sulla propensione al ri-sparmio, sul livello degli investimenti pubblici, ma anche privati, e ingenerale sul modello di allocazione delle risorse. Diversi orientamentigovernativi, quindi, determinano diverse traiettorie di sviluppo a paritàdi condizioni demografiche.

Ancora, come già osservato da Wicksell a proposito della relazione trapopolazione e reddito, una via di conciliazione interpretativa può indivi-duarsi tenendo conto dello specifico stadio dello sviluppo della popolazio-ne caratterizzante l’unità territoriale che si esamina, e quindi presupporreimpatti diversi nelle differenti fasi di sviluppo, connessi alla distanza dall’op-timum, ovvero dall’ipotetico livello di equilibrio tra risorse e popolazione.

In generale, la crescita della popolazione è pericolosa per l’equilibriose l’organizzazione produttiva è «statica». Un aumento della popolazio-ne ha infatti un riflesso negativo sulla distribuzione del reddito qualora

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non si verifichi un processo di accumulazione che, anche attraverso il progres-so tecnico incorporato, renda maggiormente produttive le risorse disponibili.Se invece sono valide le condizioni alla base delle teorie della crescita distampo keynesiano, l’aumento della popolazione determina un aumen-to di investimenti e un maggiore impiego di lavoro e di capitale. Tali con-dizioni presuppongono buone prospettive di profitto, ovvero aspettati-ve degli operatori in termini di una espansione del mercato. In definiti-va, quindi, l’impatto positivo della crescita della popolazione sul proces-so di accumulazione ha luogo solo sotto favorevoli condizioni del sistemaproduttivo e del mercato. Nelle realtà cronicamente sottosviluppate unacrescita della popolazione, in una situazione di mancanza di stimoli allosviluppo della domanda, è certamente dannosa.

Anche l’influenza positiva della crescita della popolazione sull’accumu-lazione del capitale in termini di accelerazione del tasso di diffusione del-l’innovazione tecnologica e di maggiori rendimenti di scala viene meno seil sistema produttivo è «statico». In un’economia stazionaria, nota Solow(1970), la crescita della popolazione sottrae risorse all’accumulazione delcapitale, che quindi può procedere a un ritmo più veloce se l’incrementodemografico è più lento. E inoltre da tener presente che la crescita dellapopolazione influisce sul livello e composizione degli investimenti delleimprese attraverso la sua influenza sulla dimensione e struttura del merca-to, sui prezzi dei fattori e sull’ambiente imprenditoriale attuale e futuro.

Nella loro analisi degli effetti della crescita della popolazione sul pro-cesso di accumulazione Coale e Hoover considerano, oltre alla dimen-sione e al tasso &crescita, anche la distribuzione per età della popolazione.

A questo proposito, è particolarmente rilevante (Fuà, 1986) il rap-porto tra popolazione in età improduttiva e in età produttiva. Variazionidella distribuzione per età determinano un cambiamento nello stato didipendenza, ovvero nel numero delle persone che non partecipano alprocesso produttivo, e modificano la distribuzione del reddito tra consumoe risparmio.

Che cosa può essere detto, in conclusione, dell’impatto sui risparmi einvestimenti di una rapida crescita della popolazione? In generale bisognaessere molto cauti. La generalizzazione della teoria neoclassica della crescita,le analisi dei trasferimenti intergenerazionali e le argomentazioni neo-ricardiane puntano su un impatto netto negativo. Tuttavia, anche se larelazione tra crescita della popolazione e tassi di risparmio al momentonon è determinabile (Leibenstein, 1976), è da tener presente l’esperienzadegli ultimi anni che ha visto notevolmente crescere il tasso di risparmioin tutti i paesi. Ciò induce a ritenere che nel complesso processo di

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interazione tra le variabili demografiche ed economiche occorre consi-derare le dimensioni qualitative dei fattori produttivi, le determinantidelle innovazioni, le questioni dell’organizzazione e dell’efficienza.

2.4. Il lavoro e i fattori demografici

Tra i meccanismi tramite i quali lo stato e l’evoluzione della popola-zione sono in grado di incidere sull’andamento dell’economia, il più im-mediatamente intuitivo appare senz’altro quello che passa attraverso l’ef-fetto sulla partecipazione all’attività lavorativa.

Anche in questo caso, tuttavia, la regolazione del rapporto tra fattoridemografici e fenomeno economico è più complessa di quanto non ap-paia a prima vista.

Il volume e la composizione delle forze di lavoro, e la loro evoluzionenel tempo, possono essere ricondotti (Dell’Aringa, Faustini e Gros Pietro,1986) sia alla struttura demografica sia a comportamenti individuali,soggetti a vincoli economici e istituzionali. Semplificando, si potrebbericonoscere nei fattori demografici i determinanti dell’offerta di lavoro,mentre i vincoli economici definirebbero la domanda di lavoro. In realtà,come si vedrà in seguito, offerta e domanda di lavoro, e quindi compo-nenti demografiche ed economiche, sono tra loro interdipendenti.

Le variazioni nel tempo delle forze di lavoro possono essere scompo-ste in due effetti principali: un effetto «variazione della struttura demo-grafica» e un effetto «variazione dei tassi di attività»1.

1 Il tasso di attività esprime il rapporto tra la popolazione attiva e quella totale. Si distingue tratasso generico, se riferito al complesso della popolazione, e tasso specifico, se riferito adeterminate classi di età e sesso. La scomposizione della variazione delle forze di lavoro daltempo 0 al tempo t può essere chiarita da una notazione algebrica (Pilloton, 1991). Indicandocon axs e Pxs, rispettivamente, il tasso di attività specifico e la popolazione di età x e sesso s,l’ammontare delle forze di lavoro al tempo 0 e al tempo t può essere espresso da:

dove a xs, = O per x< 14. Introducendo l’ammontare teorico delle forze di lavoro che si sarebbeavuto al tempo t mantenendo costanti i tassi di attività del tempo 0, FL*ts la variazione delleforze di lavoro dal tempo 0 al tempo t è pari a:

Il primo termine di questa espressione rappresenta l’effetto delle modifiche nelladimensione e nella composizione per classi di età e sesso della popolazione, il secondo lavariazione dei tassi di attività, che risente dei comportamenti e dei vincoli citati in precedenza.

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Esaminando dapprima l’effetto «struttura demografica» è immediatoosservare che, a parità di condizioni, la crescita della popolazione ha unimpatto positivo sulla dimensione delle forze di lavoro, impatto tantomaggiore se la crescita si produce nelle classi di età caratterizzate dai mag-giori tassi di attività di partenza.

A questo proposito si può ricordare l’esperienza avutasi nei maggioripaesi industrializzati con il baby boom della fine degli anni cinquanta edell’inizio anni sessanta (Flaim, 1990). Per tutto il periodo 1959-79, lastruttura per età della popolazione determinata dall’incremento de-mografico all’inizio del periodo, ha frenato lo sviluppo quantitativo del-l’offerta di lavoro. Negli anni ottanta, con l’ingresso nell’età adulta deibaby-boomers, l’effetto sulle forze di lavoro diventa invece chiaramentepositivo.

Sull’ammontare delle forze di lavoro esercita inoltre un effetto im-portante il saldo del movimento migratorio. Poiché, come si vedrà piùin dettaglio nel sottoparagrafo 3.3, le correnti migratorie interessano so-prattutto la popolazione in età attiva, e in particolare i giovani e gli adultidi sesso maschile, quindi le classi caratterizzate dai maggiori tassi di at-tività, nei paesi di emigrazione si riduce la dimensione delle forze di la-voro, mentre avviene il contrario in quelli di immigrazione.

È importante osservare che le variabili demografiche interagisconocon le variabili economiche non solo direttamente, come si è appena vi-sto, ma anche con riferimento al secondo fattore che determina la va-riazione delle forze di lavoro, ovvero le variazioni dei tassi di attivitàspecifici.

Tra i modelli interpretativi delle interrelazioni tra offerta e domandadi lavoro, particolare rilevanza assumono l’ipotesi del lavoratore scoraggiatoe del lavoratore addizionale. In entrambi i casi, l’offerta di lavorocomplessiva viene scomposta in due componenti, «primaria» e«secondaria». Nell’ipotesi del lavoratore scoraggiato, l’offerta si adeguaalla domanda, nel senso che mentre per le forze di lavoro primarie illavoro è una «necessità», per quelle secondarie (donne, giovani, an-ziani) esso è una « opportunità», che viene incentivata da contingenzefavorevoli e depressa dalla carenza di occasioni (Faustini, 1984). Un mec-canismo contrario è alla base della seconda ipotesi, in cui l’offerta variain senso inverso alla domanda. In questo caso, infatti, le forze di lavorosecondarie sono stimolate all’ingresso sul mercato del lavoro dalla necessitàdi integrare i redditi familiari in periodi di diffusa disoccupazione.

Sull’offerta di lavoro, inoltre, agiscono anche le caratteristiche strut-turali del sistema economico e istituzionale. Esempio tipico è la parteci-

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pazione femminile, vincolata dalla diffusione dell’industria pesante, dalladisponibilità di servizi sociali e così via, mentre la partecipazione nelleetà giovanili è funzione della normativa sull’obbligo scolastico.

Nella direzione opposta, l’effetto dell’offerta di lavoro sulla domandaassume connotazioni diverse a seconda delle «condizioni al contorno»in cui il sistema si trova a operare. Così, l’incremento dell’offerta puòstimolare la domanda se, in presenza di flessibilità dell’organizzazione dellavoro, si traduce in riduzione del costo del lavoro e/o in economie di scaladerivanti da una migliore organizzazione del lavoro. Ancora, un aumentodelle forze di lavoro in età giovanile potrebbe stimolare la domanda sel’organizzazione aziendale è in grado di sfruttare il maggior potenziale diinnovazione, mobilità e, in molti casi, istruzione che è proprio delleclassi più giovani.

Più articolato è l’impatto netto dei fattori di natura demografica sullecomponenti della forza lavoro, in particolaré su occupazione e disoc-cupazione. Ad esempio, un aumento dell’incremento naturale della po-polazione ha effetti differenziati a seconda dell’orizzonte temporale chesi considera. Nel breve-medio periodo, come dimostra l’esperienza deglianni sessanta e settanta, esso genera una maggiore disoccupazione, vistoche le classi di età giovanili sono caratterizzate dai maggiori tassi didisoccupazione. Nel lungo periodo, traducendosi in un rafforzamentodelle classi di età centrali, dà invece luogo a riduzioni notevoli delladisoccupazione.

Anche le migrazioni possono dar luogo a risultati controintuitivi. Se lamigrazione territoriale implica — come nella generalità dei casi — ancheuna modifica nel settore di attività (un abbandono dell’agricoltura) enella condizione professionale (da autonomo a dipendente), l’effettonetto può essere una riduzione del tasso di attività e/o un incrementodel tasso di disoccupazione, connesso all’abbandono dell’attività lavo-rativa da parte dei familiari.

Nota Faustini (1984) che, nell’analisi del mercato del lavoro, la fram-mentazione e l’eterogeneità dei fattori spiegano perché movimenti disegno opposto anziché compensarsi, si cumulano: ad esempio, un au-mento della domanda di lavoro, stimolando l’incremento dei tassi di at-tività, può creare maggiore disoccupazione.

In definitiva, quindi, non si dispone di regole certe e/o applicabilialla generalità delle situazioni concrete. Lo sforzo dello studioso è alloraquello di cercare di classificare le diverse esperienze nel rispetto dell’os-servazione empirica, evitando di forzarne l’interpretazione in base a spie-gazioni preconcette.

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3. Componenti della popolazione e variabili economiche

3.1. Fertilità e variabili economiche

Negli ultimi anni, dalla letteratura demografica emerge sempre piùchiaro l’orientamento a considerare l’andamento della fecondità non sol-tanto determinato da modelli di comportamento individuale, ma ancheda variabili economico-sociali. In questo ambito si sono sviluppate di-verse teorie interpretative, suffragate da altrettante analisi empiriche,tendenti a interpretare le relazioni tra fecondità e fenomeni economici.Le divergenze tra i diversi studiosi riguardano inoltre il giudizio su qualisiano le cause e quali gli effetti dell’attuale situazione demo-economica.

Una prima relazione riguarda i legami tra fecondità e reddito, alloscopo soprattutto di capire perché, nei paesi maggiormente sviluppati,una data variazione di reddito può avere effetti diversi e spesso contra-stanti sulla fecondità. Tale relazione si deve affrontare in due sensi.

Considerando l’aspetto relativo all’effetto della fertilità sulla distri-buzione del reddito, come chiarito da Kuznets e Paglin, diminuzioni dellafertilità, che determinano cambiamenti nella struttura per età della po-polazione, facendo variare la proporzione della popolazione attiva, in-fluenzano la distribuzione del reddito. Inoltre il minore ricambio gene-razionale, allungando la piramide per età della popolazione, riproponein tutta la sua gravità il problema degli anziani, con evidenti implicazionieconomiche.

Per quanto concerne l’altro aspetto relativo all’effetto della distri-buzione del reddito sulla fertilità (Repetto, 1978), si rileva che i miglio-ramenti delle condizioni di vita sono fattori di declino della fertilità.Ma la relazione tra reddito e fertilità non è lineare, in quanto nella de-terminazione dei tassi di fecondità interagiscono altri fattori dipenden-ti dalle aspettative e dai desideri delle famiglie. Infatti, considerandofamiglie con differenti livelli di reddito, ci si dovrebbero aspettare com-portamenti differenziali nell’offerta di figli cioè nei livelli di fecondità,in relazione a incrementi del reddito. In realtà, ciò non avviene e il tas-so di fecondità rappresenta il mezzo per l’adeguamento della dimensio-ne delle famiglie all’obiettivo di raggiungere l’equilibrio tra numero difigli avuti e numero di figli desiderati.

Le relazioni tra fecondità e variabili economiche sono state per mol-ti anni esaminate in un’ottica macro ricollegandosi prevalentemente al-le teorie della crescita economica.

Negli anni più recenti alcuni economisti, soprattutto americani (Bec-

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ker, 1964; 1981), hanno cercato di spiegare le strategie familiari in ter-mini di analisi economiche tradizionali nell’ambito della macro-economia.

Il pioniere di questa new household economica ha ispirato molti autori facendoleva e dando particolare enfasi ai problemi della fecondità in relazionealla forza di lavoro femminile e al matrimonio. Egli assume che ognifamiglia massimizzi una funzione di utilità costituita dalla quantità e qualitàdei figli e degli altri beni propriamente materiali. Considerando i figlicome «beni» particolari prodotti con l’impiego del tempo dei genitori edelle merci acquistate sul mercato, Becker sostiene che la domanda difigli dipende dal loro costo relativo. Pertanto, un aumento del «prezzo»dei figli, rispetto a quello di altri beni, a parità di condizioni, riduce ladomanda di figli e aumenta quella di altri beni.

Nell’applicare il termine produzione a quei beni particolari rappre-sentati dai figli, è evidente che il concetto di produzione adottato è moltopiù ampio rispetto alla pura trasformazione di beni in altri beni. Si trattacioè di un processo o di una trasformazione, secondo Becker, che non puòessere valutato in termini esclusivamente monetari, ma che comunque sicerca di inquadrare in un’analisi economica, pur ammettendo i limitiche da tale approccio possono derivare.

È da tener presente in questa analisi economica della fecondità l’ef-fetto dell’interazione tra quantità e qualità dei figli, che può giustificaresia il calo della natalità nei paesi più progrediti sia il contestuale aumentodella qualità dei figli (in termini di investimenti o per istruzione eformazione professionale). Un incremento di qualità, raggiunto ad esempiocon una maggiore spesa in istruzione, innalza il costo marginale dellequantità dei figli, causando una diminuzione della domanda di quantitàfino ad arrivare a un nuovo punto di equilibrio.

La relazione tra fecondità e grado di istruzione può essere esaminataconsiderando la fecondità differenziale per titolo di studio. Interessanti irisultati dell’analisi empirica di Castiglioni e Dalla Zuanna (1988) che, ri-costruendo la serie della fecondità totale delle generazioni di donne vene-te nate tra il 1880 e il 1944, rilevano che le differenze di fecondità si ridu-cono progressivamente fino a raggiungere la massima omogeneità nel1934 (anno di alta fecondità); successivamente la forbice si allarga di nuovo.

I livelli di fecondità, in funzione del livello di istruzione e dell’attivitàlavorativa, sono anche esaminati applicando il metodo dei figli propri(own children); tale metodo può essere applicato per contemporanei e pergenerazioni. L’analisi per contemporanei presenta forti limiti derivantiin particolare dall’aggregazione dei gruppi non necessariamenteomogenei rilevati in momenti diversi della loro carriera riproduttiva: ini-

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ziale, scolastica e lavorativa; limiti superati dall’analisi per generazioni.L’analisi della fecondità in Italia per il periodo 1967-81, effettuata contale metodo da De Santis (1989), mostra che la fecondità varia inversa-mente al grado di istruzione raggiunto ed è minore per le donne che la-vorano ma non tra le donne attive in agricoltura, che risultano anchepiù feconde delle casalinghe.

Nel caso dell’Italia, caratterizzata da diversi comportamenti ripro-duttivi nelle varie zone geografiche, Grussu (1984), analizzando il mo’dello riproduttivo a bassa natalità della popolazione italiana complessi-va, ritiene che un vincolo importante sia dovuto ai mutamenti socio-culturali, mentre considera poco significativi gli effetti diretti dei fatto-ri prevalentemente economici, quali industrializzazione e urbanizzazio-ne. Tali fattori provocherebbero effetti indiretti, in quanto indicatoridei cambiamenti culturali.

Il comportamento riproduttivo può esaminarsi considerando (Pinnelli,1984) alternativamente due variabili dipendenti: il numero dei figli vi-venti e il numero dei figli attesi. La verifica effettuata da Pinnelli (1984)applicando la path analysis mette in evidenza che i condizionamenti socio-economici e culturali collettivi sono i fattori più rilevanti considerandoil numero dei figli attesi.

Un’analisi dell’andamento della fecondità in Italia nell’ultimo quaran-tennio basata su un approccio micro è quella effettuata da Cigno (1988),che formula due ipotesi: una statica (fecondità completa) e una dinami-ca (calendario nascite), costruendo uno schema di relazioni tra variabilieconomiche e demografiche. In base a tale schema interpretativo il calodella fecondità completa verificatosi in Italia sarebbe spiegato dal miglio-ramento del livello medio di istruzione della donna, che avrebbe fatto au-mentare sia l’età al matrimonio sia il valore del capitale umano delle don-ne. Per quanto riguarda il calendario delle nascite, la tendenza all’anti-cipo osservata negli anni cinquanta e sessanta sarebbe attribuibile all’au-mento del reddito medio e all’aumento dell’età al matrimonio, mentre latendenza al ritardo osservata negli anni settanta sarebbe attribuibile al-le opportunità di carriera delle donne e a un aumento del salario.

Le relazioni tra il fenomeno della natalità e i fattori economico-socialirisultano più significative se analizzate con riferimento a dati territoria-li disaggregati. Livi Bacci (1980), per valutare i fattori delle differenzedi livello e di tendenza della fecondità nelle diverse province dell’Italia,effettua un’analisi di correlazione territoriale ponendo in relazione l’in-dice di fecondità legittima con alcune variabili, tra le quali l’indicatoredella porzione delle coniugate, la ruralità, l’industrializzazione, l’urba-nizzazione. Interessanti i risultati, dai quali si evince che gli indicatori

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di carattere più dichiaratamente economico sono anche quei fattori me-no strettamente legati alla fecondità o ad essa legati in modo contrad-dittorio. La definizione di questi indicatori, in generale citati dai soste-nitori della teoria della transizione demografica come i fattori principalidel declino della fecondità, si è rivelata poco precisa e ambigua.

Le relazioni tra il fenomeno della natalità e fattori economico-socialirisultano più significative se analizzate con riferimento a dati territoria-li disaggregati.

La disponibilità in Italia di dati relativi a unità territoriali di limitatedimensioni (i comuni) ha permesso di effettuare ulteriori verificheempiriche sui dati. Bellettini (1966), analizzando la natalità (oltre chela mortalità) della popolazione dei comuni della provincia di Bolognain relazione ad alcuni indicatori del livello di agiatezza e delle caratteri-stiche socio-professionali della popolazione, osserva che la natalità e lafecondità generale aumentano con l’aumentare della proporzione dellapopolazione operaia, mentre un trend inverso si osserva quando si con-sidera la fecondità legittima.

La relazione fra natalità e sviluppo economico è molto stretta anchequando si considerano periodi molto lunghi. Ciò emerge dalle analisi diSantini (1971), che considera la natalità e le fluttuazioni economichein ordine ciclico sulla base dell’analisi di concordanza tra una serie de-mografica e una economica, previa individuazione delle rispettive com-ponenti cicliche. Suddividendo il periodo 1863-1964 in ventuno cicli,per ognuno dei quali viene studiata la concordanza tra i profili dei flussidemografici e di quelli economici, l’analisi empirica conduce a verifica-re per la natalità una conformità positiva molto elevata con le fluttua-zioni economiche di natura ciclica almeno per i primi settantacinqueanni dell’unità d’Italia. Per gli anni successivi alla seconda guerra mon-diale si osserva invece un’attenuazione delle concordanze.

Questa attenuazione secondo Santini non invalida però il legame po-sitivo tra fluttuazioni economiche e natalità; essa deve ricondurci all’e-levato tasso di sviluppo del sistema economico italiano nel periodo con-siderato, che ha reso meno incisivi gli impulsi ciclici, e all’attenuazionedei movimenti ciclici dovuti sia alle politiche anticongiunturali sia al pro-cesso di industrializzazione della struttura produttiva.

3.2. Mortalità e variabili economiche

La riduzione della mortalità negli ultimi cento anni in tutti i paesie anche in Italia ha rappresentato il fenomeno più caratteristico dellacosiddetta «rivoluzione demografica». L’evoluzione della mortalità, co-

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m’è noto, può analizzarsi sia considerando misure basate sui quozientidi mortalità (generici o specifici), sia considerando la misura della duratamedia della vita di una generazione.

Anche se i demografi considerano la seconda misura più idonea a co-gliere il fenomeno, si ritiene che per analizzare le relazioni tra mortalitàe aggregati economici sia interessante riferirsi a entrambe le misure.

La riduzione della mortalità è indubbiamente da attribuire alla dif-fusione delle conoscenze scientifiche ma, entro certi limiti, anche all’au-mento del reddito pro capite (soprattutto per la mortalità perinatale einfantile, da malattie infettive, da malnutrizione). Si produrranno ef-fetti diversi a seconda di quale classe di età è interessata a una minoremortalità; ad esempio, una riduzione nelle età infantili ha come effettodi breve periodo un aumento delle presenze nelle età pre-lavorative conun abbassamento del rapporto tra popolazione in età da lavoro e popo-lazione complessiva. Dal punto di vista economico, in queste condizionila «produzione di lavoratori» viene a costare meno perché è stato ridottolo spreco derivante da una elevata mortalità infantile.

Una riduzione della mortalità nelle età post-lavorative, a lungo an-dare, tende ad abbassare il rapporto tra popolazione in età lavorativae popolazione totale proponendo il problema di come sopportare il cari-co di una quota accresciuta di improduttivi. La riduzione della mortalitànelle classi di età lavorative provoca un miglioramento del rapporto fraproduttivi e popolazione totale. Come afferma Tapinos (1985), larelazione tra il livello di mortalità e il grado di sviluppo economico esprimel’incidenza dei fattori socio-economici sulla mortalità e ribadisce l’esi-stenza di una forte correlazione negativa tra la mortalità infantile e ilreddito pro capite. La correlazione resta elevata anche per la speranzadi vita. Egli inoltre sostiene, come si desume dai lavori di Preston (1975),che la speranza di vita si è allungata nel tempo pur considerando unostesso livello di reddito pro capite; il che fa presumere che operano fat-tori esogeni indipendenti dalle variabili economiche. I fattori socio-economici della mortalità sono messi in luce con più evidenza conside-rando la mortalità differenziale secondo i gruppi sociali. Non mancanointeressanti contributi italiani su questi aspetti.

Sylos Labini (1990) osserva che per analizzare correttamente i lega-mi tra mortalità ed evoluzione economica in un dato paese occorreriferirsi alla sequenza della « transizione sanitaria» che corrisponde aidiversi stadi dello sviluppo economico. Infatti le malattie socialmenterilevanti non restano le stesse nel tempo e negli ultimi secoli possonodistinguersi tre periodi: periodo delle grandi epidemie (peste, vaiolo ecosì via); periodo del predominio delle malattie infettive e di quelle

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degli apparati respiratorio e digerente; periodo delle «tre c» (cancro, cuo-re, cervello). Tra i molteplici fattori che condizionano le diverse causedi morte sono rilevanti quelli economici (alimentazione, disponibilità diinfrastrutture e di servizi sociali) e quelli culturali (livello medio di istru-zione, professioni e così via) e tra di essi esiste una forte interrelazione.

Sarebbe un errore ritenere che tra livello del reddito e saggio di mor-talità sussista una stretta relazione. Secondo Sylos Labini la relazioneesiste ma non è stretta; ci sono paesi che, pur avendo un reddito bassoo molto basso, hanno un saggio di mortalità relativamente basso e unavita media relativamente alta. Sono i paesi in cui i governi hanno com-piuto notevoli sforzi nel campo degli investimenti per infrastruttureigienico-sanitarie e nel sistema educativo.

Inoltre Sylos Labini concorda con Livi Bacci nel ritenere che la dispo-nibilità di alimenti non ha quel ruolo decisivo, attribuito dagli economistidel passato, sulla mortalità in generale e su quella imputabile alle ma-lattie infettive. Se si mettono da parte le situazioni di carestie e di mal-nutrizione acute, altri fattori quali acqua, fognature, conoscenze medi-che e conoscenze igieniche-alimentari, hanno svolto e svolgono nei paesieconomicamente arretrati un ruolo ben più importante. Sylos Labini inol-tre afferma che non deve sembrare strano che un economista attribuiscatanta importanza ai fattori culturali a scapito di quelli propriamente eco-nomici. Esiste un’interazione tra questi due fattori e tra questi e quelliambientali. Ma come nel tempo non restano invariate le cause di morte,non resta neppure invariato il peso relativo dei fattori economici in diver-si stadi di sviluppo. I primi economisti, i quali attribuivano la massima im-portanza ai fattori economici, facevano riferimento a uno degli stadi del-lo sviluppo. Nello stadio delle «tre c» il peso dei fattori economici si ri-duce fortemente a vantaggio dei fattori culturali.

Un tentativo di analisi della mortalità differenziale secondo le cate-gorie professionali di appartenenza è quello compiuto da Caselli ed Egi-di (1984), collegando le caratteristiche delle mortalità alla struttura socio-economica prevalente in aree territoriali di limitate dimensioni demo-grafiche. Dalla ricerca è emerso che dove maggiore è la presenza di ma-no d’opera occupata nell’industria più alta è la probabilità di morte, men-tre dove più alta è la proporzione di occupati in agricoltura o di quadriintermedi e superiori si registrano livelli di mortalità più vantaggiosi,soprattutto nelle età lavorative e post-lavorative. Sicuramente una stra-tificazione territoriale della mortalità conduce a risultati per la cui in-terpretazione è necessario far ricorso a concetti più ampi e diversi dellasola composizione per categorie socio-professionali. Risiedere stabilmentein una certa area comporta infatti l’appartenenza dell’individuo a una

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comunità umana caratterizzata da livelli di comportamento e culturaliche possono essere anche molto diversi da zona a zona. Condizionamentidell’ambiente in cui si vive e in particolare effetti del reddito sulla mor-talità emergono dalle varie analisi effettuate, ma per cogliere meglio ilfenomeno e isolare i diversi fattori di influenza occorre operare su datiil più possibile disaggregati, tenendo conto del maggior numero possibiledi informazioni. Pertanto, analizzare i tassi di mortalità distinti per causadi morte può aiutarci nell’interpretazione dei dati.

Coale e Hoover (1958), considerando le interrelazioni tra fenomenieconomici e demografici, fanno riferimento allo sviluppo economico ealla crescita della popolazione seguendo l’approccio della «transizionedemografica». Secondo questa teoria la storia dell’uomo è stata caratte-rizzata da periodi di equilibrio demografico intervallati da fasi irregolariche preludevano a nuovi momenti di stabilità. Cronologicamente, si èpassati da una crescita modesta, determinata dalla reciproca compen-sazione di alta natalità e alta mortalità, a un equilibrio di crescita mode-rata basato sulla combinazione di una bassa natalità con una bassa mor-talità. Il passaggio dall’una all’altra situazione avverrebbe attraverso unafase intermedia caratterizzata da un forte e netto incremento della po-polazione; in questa fase, alla forte riduzione della mortalità, conse-guita attraverso i progressi tecnico-scientifici, non si accompagna un’al-trettanto decisa riduzione della fecondità (riduzione che si verifica conritardo e lentamente, giacché richiede un mutamento delle abitudini edei costumi del passato). Secondo questi autori la riduzione dei tassi dimortalità registrata nell’Occidente europeo è legata, nel Settecento enella prima metà dell’Ottocento, agli effetti generati da miglioramentieconomici, mentre nella seconda metà dell’Ottocento e specialmente nelNovecento beneficia dei progressi medico-terapeutici e della maggioreattenzione dei governi in tema di salute pubblica.

3.3. Conseguenze economiche del movimento migratorio

Il movimento migratorio influenza fortemente il comportamento eco-nomico e sociale delle collettività interessate e di conseguenza lo svilup-po economico dei paesi, Inoltre, essendo un fenomeno di accumulazione i cuieffetti si manifestano nel corso del tempo, esso va esaminato in unaprospettiva dinamica.

Le conseguenze economiche del fenomeno sono differenti a secondadella realtà territoriale che si considera. In generale, le migrazioni ten-dono a modificare il rapporto tra produttori (individui in età giovanilee centrale) e consumatori (individui in età infantile e senile); in partico-

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lare il rapporto si abbassa nei paesi di emigrazione e si alza in quelli diimmigrazione. Se l’emigrazione fa diminuire la pressione demograficadel paese di origine e stimola lo sviluppo economico, l’effetto finale saràpositivo. Ma tale effetto dipende dalla struttura per età della popolazionestessa; se questa è caratterizzata da una elevata proporzione di classi dietà senili, la perdita di forze di lavoro in età produttiva rappresenterà unfattore negativo per l’espansione economica. Il paese di immigrazione puòinvece fruire di vantaggi derivanti dall’acquisizione di energie lavorativetanto più utili quanto più qualificate. Tuttavia, se i flussi di immigrazionesono troppo elevati rispetto alla potenzialità di sviluppo economico delpaese, l’ingresso di nuove forze di lavoro può comprimere il livellomedio salariale e creare solo disoccupazione.

La valutazione di questi fenomeni in termini economici può essereeffettuata ricorrendo al concetto di capitale umano e ai conseguenti cri-teri di misura statistica. Fecondi e non privi di originalità sono stati icontributi degli studiosi italiani su questo argomento.

Nella valutazione del capitale umano è implicita un’interpretazionedegli effetti economici delle migrazioni di tipo strutturale. In questaipotesi possono svilupparsi due linee interpretative che suggeriscono ri-spettivamente un bilancio negativo e un bilancio positivo.

La tesi secondo cui il movimento migratorio (immigrazione) si carat-terizza per un bilancio negativo può essere sintetizzata nel seguente sche-ma logico: il ricorso a manodopera immigrata con bassa qualificazioneesercita pressione sul livello generale dei salari e abbassa artificialmenteil prezzo del fattore lavoro. Ciò spinge l’impresa a modificare il rapportodei fattori capitale/lavoro e a una specializzazione basata su tecniche labourintensive. Fin quando è possibile il ricorso a manodopera straniera sidetermina un aumento dello stock degli stranieri presenti sul territorio diimmigrazione e gli effetti di cui sopra potranno anche determinaredistorsioni nel sistema produttivo. Nell’utilizzazione della manodoperastraniera devono considerarsi anche gli aspetti settoriali, in quanto essa èdeterminata da carenza di offerta interna dovuta a una disaffezione deilavoratori nazionali per alcune mansioni o qualifiche professionali; ciòconduce nel tempo a un accentuato ricorso a lavoratori stranieri.

In assenza di immigrazione la penuria di manodopera potrebbe con-durre a una trasformazione delle condizioni di lavoro, a variazioni delleretribuzioni e all’introduzione di nuove tecnologie; in altre parole l’im-migrazione potrebbe rappresentare nel lungo periodo un freno ai cam-biamenti. Nella storia recente del movimento migratorio in Europa sisono verificate situazioni di questo tipo; è sufficiente riferirsi a quanto

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è accaduto nella Repubblica federale tedesca negli anni settanta o a quantosta avvenendo in Italia negli ultimi anni.

Un’altra tesi attribuisce, invece, all’immigrazione un effetto positivosui fattori determinanti le modifiche del sistema industriale e le politicheindustriali. Gli effetti riguardano la formazione del capitale e la flessibilitàdel sistema produttivo. In una situazione di sovraimpiego l’immigrazione,considerando la contrazione della manodopera nel contesto di offertalimitata di lavoro, favorisce una crescita alla Lewis con accumulazione dicapitale che esercita una pressione sui salari. Inoltre l’immigrazioneaccresce la flessibilità del sistema produttivo nella misura in cui si rendepossibile la messa in moto di progressi di produttività a certi stadi disviluppo industriale. Effetti positivi di tipo strutturale associati alleimmigrazioni si verificano nei paesi d’origine in dipendenza sia dellerimesse degli emigranti sia del loro ritorno con un più avanzato livello diqualificazione professionale. La partenza degli emigranti ha inoltreconseguenze sul livello dell’occupazione, sulla produzione e sui salaridelle unità territoriali di origine, mentre l’invio dei risparmi agisce sullivello di vita delle famiglie, modifica la ripartizione dei redditi, illivello dei prezzi, il processo di accumulazione e la crescita. Il ritornodegli emigrati modifica molto, come già prima considerato, lo stock dicapitale umano.

Un’altra interpretazione delle conseguenze economiche delle migra-zioni considera il significato congiunturale del fenomeno; tali interpre-tazioni hanno avuto origine analizzando la recessione economica della Re-pubblica federale tedesca del 1967 o più generalmente le recessioni ve-rificatesi in quasi tutti i paesi europei negli anni 1974-76. Al fenomenomigratorio è stato attribuito il ruolo di ammortizzatore della congiuntu-ra che si esplica in una flessibilità all’attrazione nei periodi di espansio-ne economica e in una flessibilità alla repulsione nei periodi di recessione.In entrambe le situazioni il fenomeno migratorio ha i suoi effetti sullivello dei salari, sull’organizzazione del sistema produttivo, sul funzio-namento del mercato di lavoro, sul ritmo di accumulazione, sulla spe-cializzazione produttiva.

I flussi migratori possono interpretarsi anche attraverso la costruzionedi modelli analitici statistico-matematici che nella letteratura vengono di-stinti a seconda che riguardino flussi interregionali o flussi internazio-nali (Garonna, 1977). I modelli relativi ai flussi interregionali sono ditipo gravitazionale o catene di Markov.

I flussi internazionali si basano sull’incidenza che i flussi di manodo-pera in entrata o in uscita hanno sulla crescita, sui tassi di inflazionee dei salari, sulla struttura produttiva. Queste variazioni rappresentano

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variabili esplicative dei flussi migratori e vengono considerate sia per ipaesi di origine sia per quelli di destinazione.

L’esperienza italiana delle migrazioni, tanto interregionali quanto in-ternazionali, pone in discussione queste distinzioni fatte in letteratura.Le caratteristiche delle migrazioni dal sud al nord dell’Italia corrispon-dono infatti a quelle che la letteratura analizza nell’ambito delle migrazioniinternazionali. Al riguardo, Salvatore (1987), nell’ambito dei modellidelle migrazioni interne, riformula i lavori di Todaro2 (1969) migliorandol’impostazione dei precedenti modelli di Schultz (1961) e Becker (1964)basati sull’approccio del capitale umano.

Nel caso italiano il fenomeno delle migrazioni interne non può essereconsiderato separatamente dallo sviluppo economico del paese. Anzi sipuò asserire che, nel processo di evoluzione e trasformazione del sistemaeconomico del paese, la migrazione ha avuto un ruolo di fattore attivodelle stesse tendenze evolutive.

Le influenze dei movimenti migratori interni sono molteplici e si espli-cano nei più diversi campi. In Italia, nei decenni successivi alla secondaguerra mondiale, la non uniforme localizzazione delle attività produtti-ve e il diverso ritmo di sviluppo delle singole zone hanno determinatonotevoli flussi migratori (prevalentemente forze di lavoro) diretti versoquelle aree che (per la loro accertata esuberanza di risorse disponibili)hanno offerto ai migranti maggiori disponibilità di diminuire l’esistentedislivello del tenore di vita.

Nel breve periodo gli effetti delle migrazioni hanno contribuito al-l’incremento del reddito complessivo e a un impiego più efficiente dellerisorse disponibili. Ma considerando un arco di tempo più lungo, si notache i flussi migratori influiscono anche negativamente in quanto, fa-vorendo lo sviluppo economico delle cosiddette aree ad alto livello a di-scapito delle aree a basso livello, hanno contribuito ad accentuare glisquilibri demografici, sociali ed economici tra di esse esistenti; né a mi-gliorare le situazioni hanno contribuito i trasferimenti di una parte deiredditi percepiti dagli emigrati nelle loro nuove sedi.

Per analizzare gli effetti del movimento migratorio e costruire mo-delli interpretativi occorre disporre di numerosi dati statistici a livelloterritoriale molto disaggregato. Come per tutti i fenomeni, infatti, mo-delli aggregati possono nascondere gli effetti di importanti variabili.

2 Secondo Todaro la migrazione riflette la differenza positiva tra i guadagni attesi (for-niti dai guadagni reali ponderati per la probabilità di trovare un lavoro) nelle campagne enelle città. Se la migrazione verso la città è più veloce della creazione di posti di lavoro laprobabilità di trovare occupazione diminuisce riducendo i guadagni reali attesi nelle cittàa livello di quelli agricoli facendo crescere lo stimolo a emigrare.

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Natale e Guarini (1975) hanno costruito una dettagliata matriceorigine-destinazione, per regione e provincia, dell’Italia nel periodo1955-70. Oltre a un’analisi empirica del fenomeno è stato quantificatoun modello gravitazionale a correnti interdipendenti di tipo moltiplica-tivo in cui sono state considerate ventotto variabili raggruppate in quattrogruppi: variabili demografiche, economiche, livelli di occupazione, indi-catori sociali. I risultati hanno messo in evidenza la significativa influenzasul fenomeno migratorio interno degli indicatori economici e sociali.

La complessità del fenomeno migratorio e le difficoltà di individuareadeguati modelli interpretativi emergono riflettendo su quanto si è verifi-cato negli ultimi anni, nel corso dei quali alcuni paesi di tradizionale emi-grazione come Italia, Spagna, Grecia si sono trasformati in paesi di immi-grazione, a causa dei flussi immigratori di ritorno o di flussi provenienti daipaesi in via di sviluppo. In passato la Repubblica federale tedesca e laFrancia erano stati i soli paesi di destinazione di consistenti flussi migra-tori, peraltro sensibilmente ridotti nell’ultimo decennio dall’ azione fre-nante di alcuni provvedimenti governativi (Tassinari e Tassinari, 1990).

Quanto all’impatto dei flussi di immigrati sulla situazione economica,demografica e sociale di questi paesi e particolarmente dell’Italia,occorre distinguere tra effetti di lungo e di breve periodo.

Nel breve periodo i flussi di immigrazione hanno svolto una funzionedi aggiustamento degli squilibri qualitativi tra domanda e offerta dilavoro che caratterizzano i paesi europei e che hanno originato, soprat-tutto in Italia, Spagna e Grecia, paradossali situazioni di disoccupazionestrutturale (Malinvaud, 1986). In questi paesi si è infatti creata una vera epropria domanda esplicita di lavoratori stranieri per i quali si rendonodisponibili posti di lavoro in attività poco qualificate a più bassi salari econ scarse garanzie.

Nel lungo periodo le conseguenze, anche se non ancora completa-mente valutabili, sono diverse e molto più complesse. Tali effetti dipen-dono anche dall’introduzione di politiche di regolamentazione dei flussimigratori. L’integrazione economica e culturale degli immigrati ripro-pone in termini nuovi, rispetto alle esperienze storiche passate, le con-traddizioni, i problemi del mercato del lavoro, delle abitazioni, dell’i-struzione e della sicurezza sociale con il rischio di un’attenuazione, nelperiodo lungo, di alcune spinte che hanno tradizionalmente sostenutola crescita economica di questi paesi e il profilarsi di prospettive che sol-leciterebbero cambiamenti negli indirizzi politici (Fuà, 1986). Inoltre,in mancanza di incisive politiche nazionali del lavoro tendenti a equili-brare qualitativamente la domanda e l’offerta del lavoro dei paesi euro-

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pei, è prevedibile che sarà ancora molto sostenuta la domanda di lavoroper occupazioni poco protette e a bassa rimunerazione, attualmente sod-disfatta in larga misura dai lavoratori dei paesi in via di sviluppo.

Nell’analisi di flussi migratori, oltre alle determinanti socio-econo-miche, devono essere considerate variabili strutturali quali la rallentatadinamica demografica e l’elevato processo di invecchiamento; fenomeni questiche sono particolarmente rilevanti in una fase di terziarizzazione delsistema economico quale quella attualmente presente in Italia (Tapinos eTurci, 1986).

Il processo di invecchiamento in atto nella popolazione italiana, oltread avere effetti sull’economia italiana in quanto muta la disponibilitàdel fattore lavoro nel processo produttivo, ha effetti indotti nelquadro internazionale all’interno del quale si contrappongono paesi in-dustrializzati caratterizzati da un’elevata quota di popolazione anzianae paesi in via di sviluppo con popolazioni giovani e numerose. In questedue realtà si maturano differenziali di condizioni economico-sociali checostituiscono le determinanti dei flussi migratori. Il comportamentomigratorio rilevato in Italia negli ultimi anni avvalora questa interpre-tazione. L’ipotesi su cui si fonda la lettura del fenomeno è che nellaseconda metà degli anni settanta siano maturate condizioni naturali esociali internazionali, oltre a quelle economiche e politiche, che hannodeterminato i flussi migratori verso paesi come l’Italia, tradizionalmen-te di emigrazione. Tali flussi traggono origine da condizioni più com-plesse di quelle che hanno determinato le grandi migrazioni della primametà del secolo. Fra queste appunto il crescente divario nei saldi demo-grafici: infatti negli anni settanta, mentre i saldi naturali di molti paesiindustrializzati presentano valori bassi o negativi, quelli dei paesi in viadi sviluppo risultano sempre molto elevati. In Italia, in particolare,l’immigrazione da questi paesi, che alcuni inizialmente avevano consi-derato un fenomeno transitorio, trova invece nel processo di invecchia-mento della popolazione italiana un alveo strutturale che ne permettel’assestamento e ne favorisce la dinamica (Tapinos e Turci, 1986).

4. Conclusioni

Dalla rassegna delle diverse posizioni teoriche e dei contributi italianisul tema delle interrelazioni tra economia e demografia, svolta nellepagine precedenti, emerge in primo luogo che, anche se a livello inter-nazionale, problemi, osservazioni e dispute intorno al problema sono sem-pre vivi e attuali, l’interesse per l’argomento, considerato di frontiera

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tra economia, demografia e statistica, non è testimoniato con continui-tà nelle ricerche degli studiosi italiani.

L’attenzione degli economisti italiani sulla materia delle relazioni trapopolazione ed economia, come osserva Fuà (1986), dopo aver suscita-to un’importante letteratura fino a mezzo secolo fa, appare oggi note-volmente ridotta. La stessa osservazione può formularsi nei riguardi deidemografi e degli statistici economici italiani: pochi sono e sono statigli studiosi che hanno sviluppato e approfondito questi temi in relazio-ne ai numerosi e valenti cultori di demografia e di statistica che esisto-no nel nostro paese. Non è risultato, di conseguenza, sempre agevoleindividuare i contributi qualitativi e quantitativi degli studiosi italianisull’argomento nel contesto del dibattito internazionale, che è stato edè, invece, molto ampio e approfondito. La disponibilità di dati statisticistorici e territoriali sui fenomeni economici e demografici avrebbe do-vuto invece incoraggiare lo sviluppo di tali filoni di ricerca.

In secondo luogo emerge che nell’esame della letteratura economico-demografica non si individuano posizioni univoche sulle relazioni cheoperano tra popolazione ed economia; le controversie riguardano nonsolo l’intensità ma addirittura il segno degli impatti dei fattori demo-grafici sulle variabili economiche. Inoltre vengono prevalentemente ef-fettuate analisi di singole relazioni, mentre si evita il ricorso a modelliglobali e a processi di sintesi, anche per le difficoltà obiettive che sorgo-no a questo livello di analisi. Non soltanto, infatti, la storia dello svilup-po — o del mancato sviluppo — dei diversi paesi mostra evidenze contra-stanti in merito al rapporto fra struttura ed evoluzione della popolazio-ne e crescita economica. Ciò che più evidenzia, nel complicare lo sforzodi sintesi, è l’abbondanza di ipotesi interpretative dei meccanismi di re-golazione del rapporto fra caratteristiche demografiche e condizioni eco-nomiche, ciascuna confortata da un adeguato supporto intuitivo, le cuidiverse combinazioni danno luogo a risultati completamente differenti.

In questa situazione, rimane scoperto un ampio spazio di ricerca spe-cificamente rivolto alla sensibilità dell’economista quantitativo, del de-mografo e dello statistico economico. L’utilizzazione delle informazionidei dati statistici consente infatti di verificare la teoria dell’interdipen-denza tra popolazione ed economia, affinché questa non resti allo statodi semplice ipotesi astratta, giustificata, come scrive Polja, solo da unragionamento plausibile in assenza di evidenze empiriche.

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Capitolo nono

Riproduttività

Franco Bonarini, Fausta Ongaro, Fiorenzo Rossi

Il presente capitolo raggruppa vari argomenti, dalla nuzialità alle rot-ture dell’unione matrimoniale, dalla fecondità al controllo dei conce-pimenti, dall’abortività alle opinioni su vari temi, ma principalmenteancora su fecondità, contraccezione, aborto. Tutti questi fenomeni oc-cupano indubbiamente un posto centrale nella scienza che studia la so-stituzione delle generazioni e i processi, di ordine sia biologico sia sociale,che la regolano; inoltre essi, proprio negli ultimi vent’anni, hanno subi-to variazioni di grande rilievo, hanno visto modificazioni del quadrogiuridico entro cui si esplicano e sono stati oggetto di particolare atten-zione, mai prima manifestata, da parte della pubblica opinione. Nono-stante le evidenti connessioni con i temi del presente capitolo, sarannotrascurati, con poche e motivate eccezioni, sia lavori che riguardanonuzialità e fecondità dei tempi passati sia lavori in tema di politichedemografiche.

La nuzialità, come si vedrà nel paragrafo 1, è stata considerata spes-so solo come fattore importante ai fini dello studio della fecondità, mauna parte non trascurabile degli studi sull’argomento riguarda invece lanuzialità come variabile sociale, di per se stessa degna di considerazio-ne. I principali lavori concernenti questo tema saranno esaminati vedendodapprima i contributi sui livelli di nuzialità in Italia e in aree più circo-scritte, evidenziando l’eventuale uso di modelli particolari, tra cui lesimulazioni e il ciclo di vita; seguiranno i lavori concernenti alcuni ca-ratteri specifici della nuzialità. A questo paragrafo è stata aggregata laparte concernente le rotture dell’unione matrimoniale per separazioneo divorzio, la cui produzione, meno numerosa, rende più difficile la di-stinzione tra studi su livelli e tendenze e studi su aspetti particolari.

La fecondità, quale determinante, assieme alla mortalità, della dina-mica naturale della popolazione, ha da sempre rappresentato uno dei te-mi centrali della ricerca demografica. Da quando, tuttavia, si è consta-tato che essa sta diventando il più importante regolatore dello sviluppodelle popolazioni contemporanee, l’interesse nei suoi confronti ha subi-

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to un ulteriore incremento. Esaurita la transizione demografica «classi-ca», i paesi sviluppati stanno vivendo quella che è stata chiamata la «se-conda transizione» (Van de Kaa, 1987), a sottolinearne l’importanza nellosviluppo delle società avanzate. In questa seconda transizione, l’accentoè posto sulla diminuzione della fecondità e sulle sue possibili cause:conoscenza e diffusione di metodi contraccettivi, abortività, cambiamentinel modo di vivere la famiglia e nel ruolo dei suoi componenti e cosìvia. I livelli di fecondità, le tendenze e le loro determinanti, le differen-ze tra i vari gruppi sociali e così via sono pertanto di estremo interessenella demografia delle società sviluppate. Il paragrafo 2, concernente l’e-same dei contributi in tema di fecondità, si occuperà solo dei lavori incui il fenomeno è collocato al centro della riflessione, le eventuali altrevariabili essendo solo esplicative. La successione degli argomenti segueun ordine logico, che distingue:

a) studi sulla fecondità e sulle sue determinanti demografiche;b) studi sulle determinanti non demografiche (socio-culturali, econo-

miche, biologiche e così via);c) studio della fecondità di gruppi circoscritti di popolazione.

La distinzione presenta ovviamente elementi di arbitrarietà e non èpriva di sovrapposizioni, ma consente una trattazione per grandi areeomogenee, che aiuta a comprendere meglio l’articolazione dei temi af-frontati dagli anni settanta.

Il raggiungimento degli attuali bassi livelli di fecondità in Italia passanecessariamente attraverso il controllo dei concepimenti e il ricorsoall’aborto. Queste due «variabili intermedie» — contraccezione e abor-to — sono le più strettamente correlate con la fecondità, mentre altrevariabili — come l’abortività spontanea, l’infertilità e la durata dell’al-lattamento — nel nostro paese non hanno certo un peso molto significa-tivo. Nel paragrafo 3, dedicato al controllo dei concepimenti, e nel suc-cessivo paragrafo 4 sull’abortività, viene documentata la produzione scien-tifica sui rispettivi temi, che usa dati tratti essenzialmente da indaginispeciali su campioni della popolazione.

Infine, il capitolo si chiude con un breve paragrafo su opinioni, preferenze,atteggiamenti. Questo argomento ha una storia più recente, ma staassumendo tuttavia piena cittadinanza in demografia. In Italia ha avutoinizio praticamente con alcuni specifici quesiti, inseriti nella primaIndagine sulla fecondità, condotta nel 1979. Il campo si è tuttaviarapidamente arricchito con ulteriori inchieste, e la stessa Seconda indaginenazionale sulla fecondità prevede alcuni sviluppi in questa direzione.

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Riproduttività 283

1. Nuzialità, separazioni e divorzi

1.1. Introduzione

Tradizionalmente la nuzialità era ritenuta, tra le variabili di cui sioccupa la demografia, quella più stabile. I manuali usati fino a pochianni fa dicevano che essa si manteneva a un livello quasi costante, dalquale si allontanava solo in occasione di eventi del tutto eccezionali, qualiguerre prolungate, o epidemie particolarmente gravi. In ogni caso, passatiil periodo di forzata diminuzione di matrimoni e la ripresa che nor-malmente ne consegue, il livello della nuzialità tornerebbe ai valori «nor-mali» (Boldrini, 1956; Federici, 1979). Se questa lettura fosse dovutaanche alle scarse capacità descrittive e investigative degli indicatori usatilo vedremo tra breve: sta di fatto che la gran parte degli studi in temadi nuzialità si concentrava sull’attrazione matrimoniale, ossia sulla vici-nanza (di età, di luogo di nascita o di residenza, di attività economica,di istruzione e così via) tra i caratteri dei coniugi. Piuttosto rari eranoinvece gli studi su altri aspetti legati alla nuzialità, quali la frequenzae le caratteristiche dei matrimoni successivi al primo o le rotture di ma-trimonio (per separazione legale, essendo non rilevabile quella di fatto,e non ancora consentito dalla legge italiana il divorzio), o ancora gli ef-fetti dello scioglimento del matrimonio per la causa che era — ed è tuttora— la più frequente, cioè la morte di un coniuge.

I motivi che inducevano a privilegiare quelle aree di interesse e nonaltre e quelli che hanno portato allo sviluppo odierno degli studi in talesettore, sono probabilmente molteplici. Tra i primi a essere elencati vasenz’altro menzionato il mutato atteggiamento della società (italiana) neldopoguerra — la collocazione precisa sembra più difficile, trattandosi pe-raltro di un processo che si è evoluto progressivamente e non improvvi-samente — nei confronti del matrimonio come istituzione. Esso era vis-suto nel passato come una tappa imprescindibile nella vita della mag-gior parte della gente (come peraltro il fatto di avere nel matrimonioun certo numero di figli), a cui si arrivava, prima o poi, secondo le atti-tudini individuali; ed era guardato con estrema considerazione ancheda parte di chi non poteva o non voleva accedervi. La frequenza deimatrimoni rifletteva pertanto questa propensione generale, che era tur-bata — nel ritmo, non nell’intensità — soltanto da circostanze eccezionali:l’attenzione si concentrava su altre cose, come appunto l’attrazionematrimoniale.

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Il fatto che non esistesse un unico «modello» di nuzialità valido pertutte le popolazioni risultò evidente dopo l’articolo, ormai famoso, diHajnal (1965, trad. it. 1977), che, usando due indici sintetici (età me-dia alle prime nozze e intensità finale dei matrimoni), descriveva le dif-ferenze di comportamento tra due grandi aree: Europa occidentale (aovest dell’ideale demarcazione data dalla linea Leningrado-Trieste), conmatrimonio relativamente raro e tardivo; Europa orientale e Asia, conmatrimonio pressoché universale e a età precoce. L’Italia si situava nelcontesto sud-europeo, con una proporzione di nubili attorno al 15% eun’età media alle prime nozze vicina, per le donne, ai 25 anni. All’in-terno del nostro paese, le differenze, con gli stessi indicatori, verrannomostrate da De Sandre (1969) e successivamente, ma in una prospetti-va più storica, da Barbagli (1990). Il matrimonio, tra l’altro, veniva in-dividuato sempre più come uno dei principali fattori «di manovra» ca-paci di influenzare la fecondità. L’affinamento delle misure di nuziali-tà, la possibilità di costruire misure sia con dati di censimento sia condati correnti ma non troppo difficili da ottenere, e l’uso sempre più estesodi misure per coorti insieme con misure trasversali, hanno mostrato chein realtà l’uniformità di comportamento non è poi così monolitica nénel tempo né nello spazio. L’evoluzione recente della nuzialità e i nuovifenomeni delle convivenze senza matrimonio, della divorzialità e dellapossibilità, per questo motivo, di nozze successive hanno fatto il resto,con una necessità di analisi dei livelli e delle tendenze, prima ancora chedelle somiglianze tra i coniugi, per capire eventuali mutate propensioninei confronti del matrimonio, o dei tempi delle nozze, anche nelle pos-sibili relazioni con i tempi della prolificazione.

1.2. Nuzialità

È innegabile che dagli anni settanta a oggi il lavoro più completo sullanuzialità, sotto entrambi i punti di vista (metodologico e sostanziale),sia quello di Santini (1974b). La cosa forse più curiosa è che egli esami-na la nuzialità (femminile) in quanto variabile essenziale — benché nonunica — per lo studio della fecondità (femminile), anzi più precisamen-te, per riprendere il titolo del suo lavoro, della «fecondità delle coorti». Ilvolume continua la serie di pubblicazioni che sull’argomento il Dipar-timento statistico di Firenze ha prodotto a partire dal 1968 (Istituto distatistica dell’Università di Firenze, 1968; Livi Bacci e Santini, 1969).La metodologia con cui egli affronta il problema è quella degli «eventiridotti», usata sia per la nuzialità sia, successivamente, per la feconditàgenerale e per quella legittima. Non è questo, in realtà, il primo studio

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Riproduttività 285

in Italia in cui viene usato tale approccio metodologico, tuttavia essovi trova una certa sistematicità di trattazione, forse non ancora supera-ta. È del tutto nuovo, invece, lo studio (non certo l’idea) della nuzialitàdei contemporanei associato a quello delle coorti. Gli anni interessativanno dal 1920 al 1967; le generazioni di donne dalla 1895 alla 1941,con problemi, evidentemente, di stima prospettiva per la nuzialità dellecoorti più giovani, che non avevano completato la loro storia matrimo-niale entro il 1967. Un aspetto importante di questo lavoro è propriola relazione, anche — ma non soltanto — formale, che egli esamina coninsistenza, tra il comportamento delle coorti e quello trasversale, confini interpretativi delle tendenze recenti e anche previsivi per il futuro.Un suo lavoro, che può essere considerato preliminare al volume (Santi-ni, 1974b), fu quello riguardante la nuzialità delle coorti femminili1900-1941 (Santini, 1972), mentre un aggiornamento è costituito dallarelazione al convegno La famiglia in Italia, organizzato dall’Istat nel 1985per presentare alcuni risultati della prima Indagine sulle famiglie (Santini,1986b). In quest’ultimo si trova uno sviluppo delle tendenze con-giunturali fino al 1981 e dei comportamenti delle coorti fino a quellanata nel 1956. Viene tra l’altro ridimensionato l’incremento di nuzialitàfinale che le generazioni più giovani sembravano mostrare con i dati delprecedente lavoro: anzi, quelle nate dopo il 1946 mostrerebbero unanuzialità in declino.

Curioso, dicevamo, il fatto che uno studio così massiccio come quellodi Santini sia stato svolto in funzione delle conseguenze sulla fecondità.Non inconsueto, per la verità, dal momento che si tratta di un’im-postazione classica in demografia e che anche nella modellistica più re-cente la nuzialità è ritenuta, tra le «variabili intermedie», quella forsepiù importante per il controllo della fecondità. Tuttavia, è opinione dif-fusa che essa possa costituire oggetto di interesse anche di per se stessa,in quanto variabile che rispecchia un’evoluzione di costumi, di pensie-ro, di modo di vivere. Sotto questo aspetto, essa è spesso associata, an-che e specialmente nei lavori di carattere più storico, alla forme familiarie — ancora — al ricambio intergenerazionale. Su questo punto sono diun certo rilievo i lavori di De Sandre (1974, 1976), in cui il matrimonio èosservato in quanto variabile non solo demografica ma anche sociale, eancora De Sandre (1983b), in cui nuzialità e divorzialità sono viste neiloro legami con le forme familiari.

Barbagli (1990), usando ancora misure classiche come la nuzialità finalee l’età media alle prime nozze, ricavate per lo più da dati censuari, studiale differenze tra le regioni italiane dall’Unità in poi (anche per iperiodi precedenti, con dati più dispersi), mostrando modelli diversi

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da zona a zona, con conseguenze sulla formazione delle famiglie. Anco-ra su dati di censimento (fino al 1961), a livello regionale, aveva lavora-to De Sandre (1969), con un taglio più nettamente demografico.

Il valore innovativo dei lavori di Santini si può cogliere osservandogli studi sulla nuzialità inseriti in rassegne di carattere generale, editinegli stessi anni, come quello di Visco (1974) nel volume italiano dellaserie del Cicred dedicata alla situazione demografica dei vari paesi delmondo. In esso Io studio si limitava all’esame del quoziente genericoe dell’età media al matrimonio (nei contemporanei) dei celibi e delle nu-bili (entrambi estesi all’ultimo secolo e alle ripartizioni geografiche ita-liane). In lavori dello stesso tipo (rassegne della problematica connessaallo sviluppo della popolazione, o quadro generale della situazione de-mografica) apparsi successivamente (ad esempio, Comitato nazionale peri problemi della popolazione, 1980; De Sandre, 1982a; Golini, 1987 ealtri ancora), i cenni alla nuzialità, per quanto rapidi, comprendono ilnumero di prime nozze nelle generazioni (reali o fittizie), oltre al — otalvolta proprio in luogo del — tasso generico. Per non parlare di studiappositamente dedicati alla nuzialità (o a nuzialità e fecondità: la pri-ma, ancora, in quanto variabile importante per quest’ultima), in cui illinguaggio e la metodologia degli eventi ridotti sono largamente usati(Santini, 1986b; De Sandre, 1983a) o sottintesi (Rossi, 1982) o anche...abusati, come in Santini (1986b), dove vengono usate diverse denomi-nazioni per lo stesso concetto di intensità finale — o comunque fino aicinquant’anni — della nuzialità in generazioni, reali o fittizie!

I lavori più recenti (ad esempio De Sandre, 1988b) evidenziano i li-velli molto bassi della nuzialità degli ultimi anni (sui 700 primi matri-moni per una generazione fittizia di 1000 donne) e una tendenza, daverificare con dati più completi, delle generazioni più giovani ad antici-pare nei tempi e a ridurre nell’intensità i comportamenti nuziali.

Non numerosi, ma stimolanti, gli studi di carattere regionale. Oltrea quelli già citati, effettuati sui dati delle regioni italiane (De Sandre,1969; Barbagli, 1990), cui si può aggiungere quello di Di Comite (1974),sono di un certo interesse alcuni lavori su popolazioni locali: Di Staso(1974) su Bari, Di Nicola (1989) sull’Emilia-Romagna, Riva (1982) suVercelli, Lauro et al. (1986) sulla Lombardia, Ires (s. d.) sul Piemonte.

In particolare, Riva lavora su un campione di famiglie, entro cuiraccoglie i dati sulla nuzialità e sulla fecondità femminile (751 donnedi ogni età, il 3,5% del totale). Vengono esaminati, per la nuzialità,la frequenza del matrimonio, l’età alle nozze, nonché una tavola di eli-minazione per matrimonio di un gruppo di mille nubili quindicenni,il tutto considerando come variabili di differenziazione alcuni gruppi

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di generazioni di nascita, il titolo di studio, il luogo di nascita, l’attività la-vorativa.

Lo studio sulla nuzialità in Lombardia, invece, è interessante per lostrumento impiegato, la tavola di eliminazione, in disuso ormai da pa-recchi anni in Italia. Infatti, dopo le tavole di nuzialità elaborate in pas-sato da singoli ricercatori o dall’Istat (le ultime riferite al periodo 1960-62,edite nel 1971), nessun’altra tavola di nuzialità è stata più prodotta. Oc-corre aggiungere che tavole per zone ristrette (quelle della Lombardiasono costruite anche per provincia) presentano indubbiamente, rispettoa quelle nazionali, problemi metodologici ulteriori; ad esempio, quali ma-trimoni considerare: quelli celebrati nella zona considerata o quelli deiresidenti?, o, ancora, quelli che vi andranno ad abitare? Gli stessi inter-rogativi si pongono per i denominatori; inoltre una certa coerenza tranumeratori e denominatori delle probabilità di matrimonio può essereostacolata dall’indisponibilità dei dati territoriali necessari.

Lo studio sul Piemonte non sembra altrettanto interessante, almenoper il capitolo sulla nuzialità, in quanto si basa sui dati ottenibili dalleschede di nascita: si tratta quindi dell’esame di alcuni caratteri riferitiai soli matrimoni fecondi negli anni osservati (1971 e 1978).

L’uso di modelli di nuzialità non appare molto esteso negli studi ita-liani. Forse l’ampia documentazione statistica di base, tradizionalmentedisponibile nel nostro paese, non rende necessaria l’utilizzazione di mo-delli empirici per età, quali l’ormai famoso modello di Coale (1971) esuccessive elaborazioni: ad esempio, Coale e McNeill (1972). Né sonopresenti altri contributi concettuali sul tipo dei «cerchi» matrimoniali, ocomunque che tentino di descrivere o interpretare i meccanismi cheportano al matrimonio, o, con processi più complicati, alle combina-zioni nell’assortimento dei caratteri della coppia nel matrimonio. Suquesto piano, è da rilevare l’assenza di studi su un aspetto che, benchédi complessa definizione, ha più volte attirato l’attenzione di demografistranieri, cioè il cosiddetto marriage squeeze, il turbamento della nuzialitàdovuto a cause strutturali che fanno variare il mercato matrimoniale inmodo diverso tra i due sessi. Per il nostro paese il fenomeno, richiama-to in passato da Colombo (l’ultimo accenno in Colombo, 1975) comeconseguenza dell’andamento delle nascite negli anni della prima guerramondiale, può tornare alla ribalta oggi e nei prossimi anni, a causa dellaprolungata diminuzione delle nascite che si protrae ormai da più diventicinque anni: tenendo conto della differenza usuale di età alle noz-ze, le generazioni maschili sono, ormai sistematicamente, più numero-se di quelle femminili più giovani di tre o quattro anni. E questopotrebbe avere conseguenze sulla frequenza alle nozze (più alta tra gli

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uomini che non tra le donne) e sul celibato-nubilato definitivo (più bassotra i maschi e più alto tra le femmine). Ma, più in generale, un filone distudi, di carattere anche metodologico, assente negli studi italiani è iltentativo di arrivare a misure di nuzialità costruite non a sessi distinti,ma che tengano conto della disponibilità sul «mercato matrimoniale» dientrambi i sessi.

I modelli di nuzialità, dunque, in particolare quello di Coale (1971),hanno trovato poche applicazioni: tra queste, Santini (1974b) ha stima-to, sfruttando appunto tale modello, la parte finale della nuzialità peretà delle generazioni di donne più giovani. Amodeo (1980) ha esamina-to il modello di Coale, confrontandone i parametri con quelli del mo-dello di Keely (1979) e applicando quest’ultimo, con intenti anche pre-visivi, ai dati ricavati dai censimenti italiani del 1961 e 1971. Gli altricasi (Bonarini, 1978 e De Sandre, 1975; 1978) non si limitano ad appli-cazioni del modello di Coale, ma ne traggono spunti per una discussio-ne critica, rilevandone ora la non buona approssimazione alla storia dellegenerazioni quando queste siano perturbate da eventi eccezionali, ora lamancanza del tempo storico di riferimento, ora la difficoltà di includervinuove forme di convivenze non sancite da un matrimonio, che vannosempre più diffondendosi, anche nel nostro paese.

Un particolare settore di studi, in cui matrimonio e nuzialità costi-tuiscono un elemento portante, ha avuto invece una certa espansione:si tratta dell’approccio cosiddetto del «ciclo di vita», riferito inizialmentealla famiglia, successivamente alla persona (con l’espressione preferita di.«corso di vita»). Conviene farne ora un breve cenno, anche perché spessonei lavori sul ciclo di vita si è fatto ricorso a modelli particolari, le simu-lazioni. Il ciclo di vita è un modo di avvicinarsi agli eventi demograficiche associa eventi tipici nella vita di persone (o, nel caso più complesso,di famiglie) e ne osserva i tempi di accadimento nella storia individualeo familiare, e le distanze tra di essi. In questo quadro, il matrimonioassume un’importanza basilare, essendo un evento che separa nettamentediverse fasi del ciclo: il passaggio dal celibato-nubilato alla fase demo-graficamente strategica della convivenza e della riproduzione, nel cicloindividuale; l’inizio del ciclo in quello familiare. Inoltre, esso serveanche a definire, in mancanza di variabili meglio qualificate, la fase del-l’uscita di un figlio dalla famiglia (su questo tema, ulteriori sviluppisono in De Sandre, 1988a). Dopo la definizione di alcune fasi tipichedel ciclo di vita della famiglia e un esame dell’evoluzione con dati tra-sversali (Rossi, 1975a), apparve sullo stesso tema un modello di micro-simulazione (Rossi, 1975b) che mostrava, sempre con dati trasversali,

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l’evoluzione delle fasi familiari anche in momenti della storia familiaresolitamente trascurati dalle rilevazioni consuete (ad esempio, la fase pre-cedente la nascita del primo figlio o l’uscita dei figli dalla famiglia). Lasimulazione consentiva inoltre l’input di varie combinazioni di dati, co-sicché si poteva valutare l’effetto della variazione di una sola delle va-riabili di input, ad esempio la nuzialità. Un intervento di Santini (1977)chiariva, dal punto di vista concettuale, i legami tra variabili demografi-che individuali, tra cui matrimoni e divorzi, e ciclo familiare. Successi-vamente, Rossi (1983) riprendeva il tema del ciclo di vita familiare, avan-zando alcune ipotesi di lavoro, quali la necessità di seguire non un unicopercorso (quello maggioritario), ma eventualmente anche altri di impor-tanza emergente (ad esempio le convivenze familiari senza matrimonio),o comunque di accompagnare la descrizione di ogni percorso con l’indi-cazione della frequenza di casi (persone, famiglie) che lo seguono; oppureil suggerimento di ricostruire cicli di vita longitudinali (difficilmenterealizzabile con i dati ufficiali disponibili), o quello di approfondire sin-gole fasi, rinunciando a voler dare una visione completa dell’intero ciclofamiliare. Sempre in tema di modelli di microsimulazione, Blangiardo(1984) usava questa via per la proiezione di famiglie, mentre, alcuni annidopo, Bertino riprendeva l’uso di modelli per la demografia della famiglia,con alcune applicazioni (Bertino et al., 1988). Da notare che tra i primiapprocci del 1975 e questi ultimi del 1988 c’è stata la grande espansione,qualitativa e quantitativa, ossia di prestazioni ma anche di diffusione, deipersonal computer.

Hanno continuato intanto ad apparire studi su singoli aspetti dellanuzialità. Tra i più tradizionali, sono da citare quelli di De Candia (1974)sull’attrazione per stato civile, di Di Staso (1974) sulla stagionalità deimatrimoni, di Cusimano (1978) sull’evoluzione delle età al matrimonio.La nuzialità per rito, che può essere assunta come un indice delle muta-zioni in corso sul significato del matrimonio, fu oggetto di studio da partedi Cagiano de Azevedo (1972) e di Ventisette (1975), ma l’argomentonon fu più ripreso successivamente, quando forse sarebbe risultato an-cora più interessante, se non di passaggio in lavori più ampi. Clerici (1985)esamina la nuzialità maschile e la confronta con quella delle donne;Manese (1986) studia la nuzialità di cittadini stranieri come indicatoredella loro presenza. Zei et al. (1981) trovano una correlazione tra etàdel marito ed età del padre, ma lo studio è più antropologico che de-mografico. Infine, una curiosità: Marzocchi e Masi (1983) ricercanorelazioni tra nuzialità (insieme con altre variabili demografiche) e segnozodiacale.

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1.3. Separazioni e divorzi

È del dicembre 1970 la legge che introduce il divorzio in Italia: maè strano che prima di quella data (e in realtà anche per alcuni anni dopo)non ci fossero grandi interessi specifici sulle rotture (per separazione)o comunque sullo scioglimento (per morte) del matrimonio, e questo no-nostante il fatto che le separazioni legali fossero raddoppiate tra il 1961e il 1970. E da rilevare soltanto qualche articolo (ad esempio Di Cotriite,1969) che, usando la tecnica delle tavole di eliminazione, misuraval’estinzione, per la morte di uno dei coniugi, di un gruppo di matrimoniin cui gli sposi avessero una data combinazione di età: effetti della solamortalità, dunque. Più recentemente, Breschi (1984) stimava invece, re-lativamente ai matrimoni delle coorti 1954-79, quelli sopravviventi allevarie durate (sfuggiti a morte, ma anche a divorzio e separazione), peròai fini di un più accurato calcolo della fecondità matrimoniale.

Dopo l’introduzione della legge sul divorzio, arriva nei tribunali ungran numero di istanze relative a rotture già verificatesi in passato, pro-vocando un’eccezionale frequenza dei divorzi negli anni dal 1971 al 1974,e specialmente nel 1972. In questi anni iniziano a comparire studi sul-l’argomento: Sgritta e Tufari (1977) esaminano i primi dati sui divorzi,insieme con quelli sulle separazioni: essi studiano, arrivando fino al1973-74, l’età dei coniugi, la loro professione, la durata della conviven-za, l’affidamento dei figli e così via. Anche Brunetta (1976) esamina iprimi effetti della legge sul divorzio. Si tratta però di studi di carattereprevalentemente sociale o sociologico. I demografi iniziano a occuparsidi questo tema più avanti nel tempo, quando la situazione si è abbastanzastabilizzata. Essi sembrano interessati a osservare la tendenza già norma-lizzata più che il boom dei primi anni, la divorzialità delle coorti più chequella trasversale. Così, solo dopo alcuni anni compaiono i primi studicon taglio prevalentemente demografico sulla divorzialità. De Sandre(1980), esaminando i dati fino al 1976, ricostruisce la divorzialità dellecoorti di matrimoni e definisce un quadro dell’incidenza combinata diseparazioni e divorzi su un’ipotetica coorte di matrimoni (alle condizio-ni correnti registrate negli ultimi anni disponibili). Un aggiornamento ditale schema, insieme con una rassegna dei problemi connessi, appare inDe Sancire (1983b): l’interesse di un quadro di riferimento per descrivereil destino di una coorte di matrimoni nasce dall’originalità del quadro giu-ridico italiano, in cui divorzio, separazione legale, separazione di fattosi intrecciano, costituendo in certi casi l’una la premessa dell’altro, macon una normativa che fa diminuire l’importanza delle separazioni di fatto.Pertanto, per un matrimonio che si interrompe sono possibili diversi

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corsi, ciascuno con un particolare esito: le frequenze relative di tali percorsivariano nel tempo, in modo tale che appare estremamente interessanteseguirne l’evoluzione, nonché prevederne alcuni possibili cambiamenti.

Greco e Carannante (1981), con dati che arrivano fino al 1978, stu-diano separazioni e divorzi per età dei coniugi, durata della convivenza,età al matrimonio, anno del matrimonio; gli stessi in Istat (1982a) si occupano dialcune caratteristiche dei divorzi avvenuti nei primi dieci anni diapplicazione della legge (1971-80): ripartizioni geografiche, istruzione estato professionale dei coniugi, figli minorenni e così via, con una riccadocumentazione statistica. Ancora Maggioni (1990) esamina ladivorzialità delle coorti di matrimoni, oltre che quella trasversale, mettendoin rilievo sia l’eccezionale divorzialità dei matrimoni formatisi negli annidell’ultima guerra, peraltro già notata negli studi precedenti, sia l’aumentodella divorzialità finale — o anche attuale, per le coorti più giovani — neimatrimoni più recenti: egli attribuisce entrambi i rialzi alle condizionidel momento di formazione delle coppie, più che a quelle degli anni incui si verifica la rottura. In ogni caso, i livelli di rotture di matrimoniosono per l’Italia notevolmente bassi (nove separazioni legali e quattrodivorzi — secondo i dati degli anni più recenti — per ogni centomatrimoni di una coorte fittizia), se confrontati con quelli di altri paesi(20, 30, 40%, con punte che si avvicinano al 50% negli Stati Uniti.d’America e in Svezia; Corsini e Ventisette, 1988). E da attendersituttavia un lieve rialzo nella divorzialità trasversale degli ultimi anni,per effetto delle variazioni introdotte dalla legge del 1987, che riduceda cinque a tre gli anni di separazione necessari per ottenere il divorzio;ma questo non dovrebbe avere effetti di rilievo sulla divorzialità dellecoorti di matrimoni. Ancora, recentemente Barbagli (1990) esaminava, contaglio sociologico, molteplici aspetti della divorzialità, nonché delle nozzesuccessive, argomento, quest’ultimo, piuttosto trascurato invece daidemografi. Sulle separazioni tra i coniugi c’era stato anche un lavoro diVentisette (1981) che, osservando i separati per età, ragionava sullepossibili conseguenze delle separazioni a età giovani sull’andamentofuturo dei divorzi. Ma negli ultimi anni il tema non è più stato ripreso,nonostante gli accresciuti livelli e il fatto che la separazione costituisca ilpasso preliminare per arrivare al divorzio.

1.4. Commenti conclusivi

Non si può chiudere l’argomento senza citare la necessità di studisulla nuzialità secondo un’ottica di indagine largamente utilizzata altro-ve e — in misura più limitata — anche nel nostro paese, per altri temi

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come la fecondità, ma non ancora diffusa per i matrimoni (e le rotture).Indagini retrospettive, di tipo campionario, per la necessità di esami inprofondità di molte variabili, e su dati individuali, consentirebbero dicogliere aspetti differenziali della nuzialità tra categorie di persone, trapercorsi con cui si arriva al matrimonio ecc. In particolare, sarebbe diestremo interesse la conoscenza di informazioni sul marito, da abbinarealle consuete notizie rilevate per la donna: questo è possibile, in casilimitati, per indagini effettuate in passato (De Sandre, 1982a), ma ledisponibilità di dati sia per la donna sia per il marito sembrano oggi au-mentate, con buone prospettive per il futuro (ad esempio Istat, Indaginemultiscopo sulle famiglie; Seconda indagine sulla fecondità in Italia; Casti-glioni, 1990-91).

Alcuni argomenti rimangono largamente, se non del tutto, inesplo-rati: si tratta di aspetti che le rilevazioni statistiche basate su eventi am-ministrativi non possono cogliere. Tra questi vanno nominate, ad esem-pio, le separazioni di fatto, che vengono alla luce solo in quanto esse(ma solo una parte) sfociano nel divorzio. Ma un altro esempio è costi-tuito dalle coabitazioni, le unioni di fatto da parte di coppie non legateda matrimonio. Su queste, alcuni tentativi in realtà sono stati effettuati,e da parte del principale produttore italiano di statistiche ufficiali.Alcuni dati in proposito sono stati rilevati dall’Indagine sulle strutturee i comportamenti familiari (Istat, 1985), che ha rilevato non solo la si-tuazione all’intervista, ma anche alcune informazioni retrospettive, conrisultati soddisfacenti, se non nel numero di casi (ritenuti forse sottosti-mati), quanto su alcune caratteristiche delle persone. Alla stima delleconvivenze e di alcuni caratteri delle coppie dovrebbero giungere anchei dati dell’Indagine multiscopo sulle famiglie.

2. Fecondità

2.1. Considerazioni preliminari

La maggiore disponibilità di nuovi e più accessibili mezzi di limita-zione delle nascite e l’allentamento di molte norme sociali hanno con-tribuito a sganciare il processo riproduttivo delle popolazioni contem-poranee dai fattori di ordine biologico e dai modelli comportamentalirelativamente stabili (costume matrimoniale, allattamento, astinenza post-partum, ricorso all’aborto procurato) che regolavano la fecondità del pas-sato. Il passaggio sotto il controllo della volontà individuale e l’aumen-to di mutevolezza e imprevedibilità che ne derivano acquistano un si-

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gnificato particolare nel momento in cui l’altra componente della dina-mica naturale (la mortalità) si evolve secondo una direzione imposta daiprogressi della scienza e della tecnologia.

L’interesse non è orientato solo nei confronti dei paesi in via di svi-luppo che, a causa degli alti livelli di fecondità (in relazione alla mortali-tà), stanno sperimentando tassi di crescita naturale così elevati (nel con-tinente africano anche del 2-3% annuo) da far temere un’esplosione de-mografica difficilmente gestibile sul piano sociale ed economico. Di estre-mo interesse sono anche la dinamica e la struttura della fecondità deipaesi economicamente più avanzati.

Ciò che ci si chiede è: i bassi livelli di fecondità (in particolare quelliche configurano uno sviluppo della popolazione al di sotto del livellodi sostituzione delle generazioni) sono espressione di un aggiustamentonella cadenza dei fenomeni o di una situazione contingente, o non piut-tosto di tendenze di fondo acquisite dalle generazioni più giovani? Ilfatto che la riproduzione si sia sganciata dalla nuzialità e a quest’ultimasi siano affiancate alternative un tempo inesistenti (come in effetti è av-venuto in numerosi paesi europei del centro-nord) ha qualche peso sul-l’evoluzione dei comportamenti riproduttivi? E più in generale: qualifattori determinano il numero di figli e la cadenza della loro nascita,oggi che la riproduzione è subordinata alla volontà degli individui?

La discussione, negli ultimi venti anni, è stata particolarmente sti-molante, sul fronte sia del dibattito teorico, sia degli approcci tecnico-metodologici relativi allo studio della fecondità.

Con la riduzione a uno schema descrittivo della teoria della transi-zione demografica avanzata negli anni sessanta (Freedman, 1961-62) sisviluppano nuove ipotesi interpretative che cercano di spiegare la dina-mica della fecondità non solo integrando il pensiero precedente (Coale,1973) ma anche introducendo chiavi alternative di lettura che di voltain volta sottolineano l’importanza dei fattori di ordine economico (Ea-sterlin, 1973; Butz e Ward, 1979), le modificazioni di natura culturale ein particolare il cambiamento di valore attribuito ai figli (Bulatao eLee, 1983), i cambiamenti nei trasferimenti intergenerazionali (Cald-well, 1982; Ryder, 1984).

Particolarmente ricco è il panorama delle proposte emerse sul frontedell’analisi dei dati. Seguendo una traccia utilizzata da De Sandre (1986),possiamo distinguere due aree di sviluppo, l’una legata al tentativo diidentificare misure al netto di interferenze di varia natura e di articolarei singoli indicatori dell’analisi demografica tradizionale in relazioniformalizzate (Tuma e Hannan, 1984; Page, 1977; Hobcraft et al., 1982;Coale e Watkins, 1985; Berent e Festy, 1973), l’altra orientata all’uti-

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lizzazione di veri e propri modelli di analisi, siano essi tentativi dianalizzare l’evoluzione della fecondità come deviazione da intensità estruttura per età in equilibrio (Coale e Trussel, 1974; 1978; Bongaarts,1978; Gaslonde e Carrasco, 1982) o modelli che, in forma multivariata,descrivono l’effetto di un set di regressori sulle variabili dipendenti cheesprimono il processo riproduttivo (Bulatao, 1980; Rindfuss, 1987;Rodriguez et al., 1984; Courgeau, 1985).

Un passo avanti nella riflessione è rappresentato dal fondamentaleconcetto di variabile intermedia (Henry, 1953; Davis e Blake, 1956), in-tendendo con ciò qualsiasi fattore che inibisca la fecondità potenziale(fecondabilità/sterilità, esposizione ai rapporti sessuali e frequenza, usodella contraccezione, abortività spontanea e indotta, natimortalità).

Le riflessioni a livello di interpretazione e analisi interagiscono an-che con gli avanzamenti della ricerca sul piano della rilevazione e del-l’osservazione dei fenomeni. Nonostante le critiche di Ryder (1984), chesottolinea come la rilevazione micro-demografica sia insufficiente a co-gliere l’effetto delle norme sociali sul comportamento riproduttivo, daglianni settanta sono state varate numerose indagini campionarie conl’intento di sondare aspetti ritenuti rilevanti per lo studio della fecondi-tà, non osservabili con le rilevazioni ufficiali censuarie e correnti (Une-ce, 1976; Bulatao, 1980; Fisher e Way, 1988). Caratteristiche comunidi queste rilevazioni sono:

– il riferimento individuale;– un approccio allo studio dei fenomeni di tipo longitudinale che permetta

di collocare gli eventi nel tempo;– una rilevazione delle variabili che tenga conto di un’ottica multi-

disciplinare.

L’indagine mondiale sulla fecondità (WFS), che ha preso il via a ca-vallo degli anni ottanta, rappresenta Io sforzo più significativo in questadirezione (De Sandre, 1980; 1985). Avviata nel quadro di un programmainternazionale patrocinato dall’ISI con la cooperazione della Iussp su 42paesi in via di sviluppo e 20 sviluppati (tra cui anche l’Italia), essa costituiscesia una inestimabile fonte di informazioni per lo studio delle variabiliintermedie e delle condizioni contestuali che influenzano i comportamentiriproduttivi (con qualche attenzione anche agli aspetti che influenzano ledecisioni), sia un’occasione di accelerazione della discussione sulla fecon-dità nei suoi diversi aspetti teorico e tecnico-metodologico.

In questo contesto si colloca il dibattito sulla fecondità da parte deiricercatori italiani. Nel 1986 si tiene a Napoli un forum sulle ricerchein tema di famiglie e fecondità concluse e in corso negli anni 1984-86

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(CNR, Gruppo nazionale di coordinamento degli studi demografici, 1987)e, a conferma del forte interesse nel nostro paese per la fecondità, siosserva che essa costituisce uno dei temi dominanti della ricerca demo-grafica.

2.2. Fecondità generale e sue determinanti demografiche

Numerosi lavori esaminano evoluzione e struttura della fecondità ita-liana in relazione a variabili di natura strettamente demografica (coortedi nascita della madre, età della donna al parto, anno di matrimonio,durata dello stesso al momento della nascita e così via) e/o territoriale(consideriamo in questo gruppo anche i lavori che fanno riferimento astudi a carattere differenziale dove la delimitazione territoriale è di na-tura politico-amministrativa).

Già negli anni settanta analisi demografiche di ordine generale (San-tini, 1974a; Pinnelli, 1975; Federici et al., 1976) e studi centrati sul-l’approfondimento delle caratteristiche di fecondità in periodi tempo-rali circoscritti (Chiassino e Di Cornite, 1975; Meccariello, 1975; DelPanta, 1975) individuano per gli anni 1950-70 un andamento congiun-turale del comportamento riproduttivo (crescita moderata degli indicidi natalità e fecondità del momento fino alla metà degli anni sessantae successivo declino nel periodo più recente) che, pur con differenze re-gionali, colloca l’Italia a pieno titolo tra i paesi europei a fecondità bas-sa e controllata. Gli stessi studi approfondiscono anche alcuni aspettidel fenomeno che costituiranno materia di riflessione per tutto il periodosuccessivo. Essi suggeriscono in particolare l’ipotesi che:

a) all’origine della diminuzione della fecondità generale registrata apartire dalla seconda metà degli anni sessanta ci sia una diminuzionedella fecondità legittima (Del Panta, 1975; Pinnelli, 1975);

b) la fecondità per contemporanei, soprattutto nella fase calante, pre-senti andamenti più accentuati di quella misurata per generazioni di donne(Del Panta, 1975);

c) pur permanendo una sensibile differenziazione nei comportamentiriproduttivi tra centro-nord e sud del paese (Del Panta, 1975), le dif-ferenze regionali vanno attenuandosi nel tempo (Chiassino e Di Corni-te, 1975; Meccariello, 1975).

Una trattazione organica di questi temi trova spazio in due lavoriche, in forma diversa, approfondiscono le caratteristiche di struttura diun lungo periodo della fecondità italiana.

Il lavoro di Santini (1974b) costituisce un riferimento importantenello studio della fecondità, sia per gli aspetti di metodo sia per quelli

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contenutistici. Esso ricostruisce con dati provenienti dalle statistiche uf-ficiali le caratteristiche della fecondità delle generazioni italiane nate dallafine del secolo scorso fino ai primi anni quaranta dando conto dei muta-menti di struttura avvenuti nei processi di costituzione della discenden-za familiare con la transizione dall’alta alla bassa fecondità. Da questoimpegno, che si estende a considerare anche l’evoluzione della nuzialitàe della fecondità congiunturali, l’intensità e la cadenza di nuzialità e fe-condità e i processi di formazione della famiglia, emerge, tra l’altro, chel’evoluzione degli indici del momento registrata dopo il secondo con-flitto mondiale è in gran parte frutto di variazioni di cadenza dei matri-moni e delle nascite che riguardano le coorti più giovani. Il lavoro diLivi Bacci (1977; trad. it., 1980) rientra nel più ampio European Ferti-lity Project dell’Office of Population Research dell’Università di Prin-ceton diretto da Coale (Coale e Watkins, 1985) e si estende a conside-rare poco più di un secolo di storia della fecondità italiana (1861-1971).L’impiego degli indici di Coale che, con dati anche relativamente poveri,consentono di scomporre l’intensità della fecondità generale negli effettidella fecondità legittima, della fecondità illegittima e della propensione almatrimonio, contribuisce a chiarire la dinamica della fecondità delmomento per periodi e ripartizioni territoriali italiane per i quali poco eranoto in termini di determinanti demografiche della fecondità.

Lo spettacolare calo della fecondità del momento che si registra nelnostro paese soprattutto a partire dalla metà degli anni settanta (e chenel primo scorcio degli anni novanta non accenna ancora a sensibili in-versioni di tendenza) costituisce il principale tema di discussione deglianni ottanta.

I rapporti dell’Istituto di ricerche sulla popolazione sulla situazionedemografica del paese (IRP, 1985 e 1988) documentano con regolaritàquesto fenomeno: dopo l’aumento degli indici annuali culminato attor-no al 1965 con 2,66 figli per donna (peraltro concentrato soprattuttonelle regioni settentrionali), la fecondità del momento inizia un calo pro-gressivo che, dopo il 1974, è particolarmente brusco e porta l’Italia nel1987 su livelli di 1,30 figli per donna. La preoccupazione per questostato di cose è ben espressa da Golini, il quale osserva (IRP, 1988) che:

a) tale valore è simile a quello della Repubblica federale di Germania, cherappresenta probabilmente il livello di fecondità più basso del mondo;

b) nello stesso anno la Francia sperimenta un indice pari a 1,82 e laSvezia un indice pari a 1,87, superiore cioè a quello di tutte le regioniitaliane compresa la Campania che rappresenta il massimo italiano con1,80 figli per donna.

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Ciò che ci si chiede è: l’evoluzione osservata riflette un calo altret-tanto drammatico anche nelle tendenze di fondo, o non si tratta ancorauna volta di effetti perturbatori della cadenza dei matrimoni e/o dellenascite? E in quest’ultimo caso, quali sono le variabili maggiormente in-fluenti? È possibile che la fecondità delle coorti italiane sia scesa al disotto di quella dei livelli della maggior parte dei paesi europei, dove tral’altro è in atto una disaffezione per l’istituto del matrimonio che nonè paragonabile con quella dell’Italia? Come si differenziano questi feno-meni a livello regionale?

Nel 1979, nell’ambito della World Fertility Survey, si realizza in Italiala prima Indagine nazionale sulla fecondità (INF/1), condotta da ricercatori delleUniversità di Firenze, Padova e Roma e riguardante un campione di5499 donne non nubili in età 18-44 anni e 845 mariti. Essa costituisceun’occasione unica per lo studio del comportamento riproduttivo dellegenerazioni più recenti, che i due volumi del Rapporto generale (De Sandre,1982a; Rossi, 1982) e la serie di monografie successivamente pubblicata,comunque ponderosi, solo in parte riescono a esprimere.

Il dettaglio fornito sulla storia delle gravidanze (data di esito, dura-ta, tipo di esito, notizie sul parto e così via) e dei matrimoni (data di ini-zio e conclusione, tipo di conclusione) consente a diversi autori (Bona-rini, 1982; 1984a; De Sanno Prignano e Natale, 1984) di approfondirealcuni aspetti della dinamica della fecondità legittima e di confrontarlacon quella ricavabile dalle statistiche ufficiali. Bonarini (1984a) in par-ticolare evidenzia come, in assenza di prove definitive di distorsione deirisultati dovuti alla sostituzione delle donne del campione, si possa ipo-tizzare che tra le coniugate sia in atto un calo nel tempo dell’infecondità.

I più interessanti tentativi di interpretazione della dinamica corren-te delle fecondità italiana, specialmente degli anni a cavallo del 1980,sono però ancora una volta espressione di riflessioni su dati rilevati dallestatistiche ufficiali.

L’interesse per le tavole di fecondità non è nuovo. Già prima del1970 l’Istat aveva provveduto a costruire misure di fecondità per etàdella donna al matrimonio e durata dello stesso basandosi su informa-zioni raccolte in occasione del censimento del 1931 (Istat, 1936) e l’I-stituto di statistica di Firenze aveva prodotto tavole di fecondità deimatrimoni per l’Italia (Istituto di statistica di Firenze, 1968).

Negli anni settanta tavole di fecondità per matrimoni e per coortivengono messe a punto rispettivamente dell’Istat (1974) e da Santini(1974b). Del secondo lavoro si è già detto. Di quello dell’Istat è oppor-tuno ricordare che, sfruttando informazioni presenti nel foglio di censi-

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mento del 1961, per la prima volta vengono presentate tavole di fecon-dità matrimoniale che analizzano il fenomeno congiuntamente per ge-nerazione di matrimonio (1906-61), età al matrimonio e durata di ma-trimonio, introducendo anche elementi di differenziazione legati a va-riabili socio-economiche.

Dopo gli anni ottanta sono ben cinque i tipi di tavole di feconditàche vengono proposte da diversi autori. Le tavole pubblicate dall’Istat(1982b) si caratterizzano per la capacità di offrire un quadro dettagliatoa livello territoriale della fecondità per contemporanei tra il 1952 e il1979 (per la prima volta sono stati eleborati quozienti per singola etàdella madre a livello di regione). Quelle di Ventisette (1985 e 1986) eBreschi (1984) analizzano in dettaglio la fecondità matrimoniale: il pri-mo autore con riferimento alle coorti di matrimoni celebrati tra il 1930e il 1981; il secondo con riferimento a quelli celebrati tra il 1954 e il1979, tenendo conto anche degli effetti delle dissoluzioni civili e natu-rali dei matrimoni. Le tavole costruite da De Simoni (1989 e 1990), in-vece, approfondiscono la fecondità per contemporanei di due periodi(1980-82 e 1985-87), congiuntamente per ordine di nascita ed età dellamadre al parto, evidenziando anche caratteristiche differenziali tra centro-nord e meridione d’Italia. Il lavoro di De Santis (1989) si differenziadai precedenti perché, a seguito dell’adozione del metodo own-children(Cho e Feeney, 1978), fa uso esclusivo di dati di censimento (in questocaso un campione del 2% del censimento del 1981). Il metodo, la cuiapplicazione è stata più volte sollecitata da Colombo (1982) e che avevagià trovato impiego per lo studio di popolazioni territorialmente circo-scritte (si veda anche iL paragrafo 2.4), consente all’autore di costruireindicatori di fecondità con dati ricavati da indagini trasversali in cui siapossibile attribuire i giovani con meno di quindici anni alle loro madrie di pervenire alla costruzione di tavole di fecondità per contemporaneie per generazioni, differenziabili, tra l’altro, secondo caratteristiche socio-economiche rilevate nel censimento. L’applicazione del metodo portainoltre alla costruzione di misure di fecondità anche maschile, di cui neivent’anni considerati si trova traccia precedente in un solo contributo(Pennino e Pennino, 1975).

Dall’insieme di questi lavori emerge un quadro piuttosto articolato,anche se per certi aspetti non definitivo, delle caratteristiche e delle ten-denze di struttura della fecondità italiana nella seconda metà del secolo.L’analisi del comportamento riproduttivo per contemporanei (De Si-moni, 1990) chiarisce che, pur con differenze regionali, la riduzione dellafecondità dell’ultimo decennio si esprime con uno slittamento verso gliordini di nascita più bassi e un innalzamento dell’età media al parto che

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interessa un po’ tutti gli ordini, ma è particolarmente accentuato in coin-cidenza del primo. Due lavori di Santini (1986b; 1988) descrivono benele restanti caratteristiche della fecondità italiana di questo periodo. Nelsecondo, in particolare, esse sono così riassunte:

a) il declino della fecondità non si è mai interrotto lungo tutte le ge-nerazioni nate dal 1917 alla metà degli armi cinquanta;

b) il calo di tale fecondità è dovuto in un primo tempo alla sola fles-sione della fecondità legittima e successivamente al combinarsi di que-sta con una ridotta e ritardata propensione a sposarsi;

c) le (talora forti) oscillazioni degli indici di fecondità annuali sono ilrisultato di anticipazioni (prima) e di ritardi (poi) nella cadenza dellafecondità legittima e della nuzialità.

2.3. Determinanti non demografiche di fecondità

In Italia l’assenza di una tradizione di indagini campionarie sulla fe-condità ha per lungo tempo rallentato lo sviluppo di ricerche intese adapprofondire la dinamica del comportamento riproduttivo in funzionedi variabili di natura sociale, economica e culturale.

La maggior parte dei lavori degli anni settanta analizza i differenzialidi fecondità su dati delle statistiche ufficiali e come tale si limita adapprofondire le relazioni del fenomeno con approssimazioni relativamentesemplici dello stato socio-economico della popolazione (livello di istru-zione, condizione professionale, posizione nella professione).

Salvo qualche eccezione (Galli Parenti nel 1974 analizza la relazionetra fecondità e condizione occupazionale della donna con dati delle schededi nascita del 1961), le riflessioni sul tema sono alimentate da dati cen-suari.

Quesiti sulla storia procreativa delle donne sono inseriti nei censi-menti del 1931, 1961 e 1971. L’indagine Istat sulla fecondità della donnaabbinata al censimento del 1961 costituisce la principale fonte ufficialeper Io studio di aspetti differenziali della fecondità matrimoniale. Daquesti dati si ricava che i livelli più alti di fecondità si registrano pressole donne analfabete, presso le non occupate e, tra le occupate, pressoquelle impegnate in agricoltura, che comunque esprimono i livelli di fe-condità più alti (Istat, 1974; Livi Bacci, 1977; Ciucci e De Sarno Pri-gnano, 1974).

Più recentemente, anche i dati del censimento del 1981 hanno tro-vato modo di essere utilizzati per analisi differenziali di fecondità. Dellavoro di De Santis abbiamo già accennato nel paragrafo precedente. Qui

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preme sottolinare che, pur con alcune perplessità dovute all’impossibilitàdi standardizzare per durata del matrimonio e di conoscere l’esatta di-mensione della variabile socio-economica al momento della prolificazione,l’autore individua alcune relazioni per la generazione di nate nel 1947:

a) la fecondità continua a mantenersi massima per le attive in agri-coltura, seguita nell’ordine da quella delle casalinghe e delle lavoratriciin altri settori;

b) la fecondità decresce al crescere del titolo di studio della donna;c) una fecondità più elevata caratterizza le donne che tra il 1977 e

il 1981 (periodo preso in considerazione dal quesito censuario) hannoabbandonato l’attività lavorativa o cambiato residenza.

Il lavoro di Brunetta e Rotondi (1989) va invece ricordato per il me-todo utilizzato (analisi a livello macro dei valori dell’indice di feconditàlegittima di Coale per le diverse regioni italiane in funzione di indicatoridi natura socio-economica e politica) e per le differenze rilevate neicomportamenti regionali, che confermano l’ipotesi già avanzata da Liví.Bacci (1977) per cui le ripartizioni italiane si differenziano anche quandovengono controllate variabili ritenute usualmente discriminanti dellecaratteristiche sociali, economiche e culturali di una popolazione.

Agli inizi degli anni settanta l’Istituto di demografia di Roma con-duce tre indagini campionarie che rappresentano per il nostro paese ilprimo tentativo del secondo dopoguerra di approfondimento organicodelle relazioni tra fecondità e alcune variabili socio-economiche (del primodopoguerra ricordiamo le ricerche sulla natalità differenziale delle variecategorie sociali di Gini, 1922 e di Livi, 1927; più recentemente, unaricerca di Bruno, 1965, analizza il comportamento differenziale osser-vato nei comuni secondo il grado di urbanità-ruralità). La prima indagi-ne, del 1969, viene effettuata su un campione casuale di 2236 donnein età 18-’45 anni residenti in sei comuni tipici del nord e del sud d’Ita-lia (un comune urbano e due comuni rurali del Piemonte e altrettantidella Calabria); la seconda, condotta nel 1972, si riferisce a un campio-ne di 2994 coniugate in età 21-45 anni residenti in tre grandi centri ur-bani (Milano, Napoli, Palermo); la terza, realizzata nel 1973, riguardainvece 3893 donne ricoverate per parto nelle cliniche ostetrico-ginecologichedei tre maggiori ospedali di Roma.

Le indagini, che considerano numerosi elementi di contesto, difficil-mente esaminabili con dati provenienti da statistiche ufficiali (atteggia-menti delle donne nei confronti di procreazione, contraccezione e lavo-ro; conoscenza e pratica del controllo delle nascite; condizioni economi-che e lavorative e così via), offrono anche interessanti spunti di ricerca

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circa le relazioni tra fecondità e condizione socio-economica (Bielli etal., 1973), fecondità e migrazione (Pinnelli, 1972), fecondità e inurba-mento (Bielli et al., 1975).

Sul fronte della relazione tra fecondità e lavoro della donna le inda-gini consentono approfondimenti più mirati. In un articolato saggio suprocreazione, famiglia e lavoro di qualche anno più tardi, Federici(1984b), svolgendo una rassegna critica delle principali teorie interpre-tative del declino della fecondità (Easterlin, new home economics, teoria deisette ruoli e altre ancora), osserva che nella maggior parte dei casi sichiama in causa il ruolo della donna e la sua condizione di lavoratriceextradomestica.

Ma in che misura l’attività lavorativa della donna si lega al processoriproduttivo? È possibile cogliere il fenomeno senza farsi fuorviare daaltri fattori quali il livello di istruzione o la condizione economica? Ecome si può controllare il fatto che esiste un’interazione tra feconditàe attività extradomestica?

Le indagini consentono di approfondire alcuni di questi aspetti. Inlinea di massima (fanno eccezione particolari tipi di lavoro pesante e si-tuazioni in cui l’occupazione si innesta in condizioni di precario equili-brio psico-fisico della donna), il lavoro extradomestico della donna, sesvolto nel rispetto delle norme legislative in materia di tutela della ma-ternità, non comporta effetti negativi sullo svolgimento e sull’esito dellagravidanza e del parto (Maffioli, 1980). Il lavoro della donna ha peròconseguenze sulle decisioni riproduttive. Coerentemente con i risultatidi un precedente studio condotto da Federici (1967), sulla base di stati-stiche ufficiali, è possibile trovare conferme all’ipotesi che la correlazio-ne inversa tra lavoro femminile e fecondità ha origine nel momento incui il primo entra in conflitto con il ruolo tradizionale della donna (Bielliet al., 1973).

Nel 1979 l’INF/1 (si veda anche il paragrafo precedente) costituisceun progresso in tema di rilevazione di dati per lo studio della fecondità.Con l’indagine, oltre alla storia delle gravidanze e dei matrimoni, si pon-gono alle donne anche quesiti retrospettivi sulla storia contraccettiva(in alcuni intervalli tra gravidanze) e sulla partecipazione all’attività la-vorativa (nei primi tre intervalli fra nati vivi) e quesiti di contesto e diopinione, che tentano di tradurre in coerente fabbisogno informativouna serie di riflessioni maturate fino a quel momento circa le modalitàdi approccio allo studio empirico delle determinanti di fecondità.

I dati dell’INF/1 riaprono il dibattito sulla relazione tra feconditàe lavoro della donna: Federici (1984a) discute delle implicazioni concet-tuali che un tale studio comporta e presenta uno schema in cui vengono

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evidenziate le connessioni tra le molteplici variabili in gioco; Salvini (1984)individua invece, con un’analisi di tipo descrittivo, una (relativamentedebole) relazione negativa tra dimensione familiare e impegno extrado-mestico della donna anche quando si standardizza per durata del matri-monio e livello di istruzione.

La numerosità e la natura delle informazioni rese disponibili dall’INF/1costituiscono però anche uno stimolo all’adozione di nuovi, più com-plessi strumenti di analisi dei fenomeni. Negli ultimi dieci anni i datidell’Indagine sulla fecondità hanno costituito materiale insostituibile peruna serie di lavori tendenti ad approfondire con strumenti di analisi al-ternativi l’insieme delle relazioni tra fecondità e sue determinanti nondemografiche. Tra questi, ricordiamo in particolare le tecniche di pathanalysis e i modelli per l’analisi di dati di sopravvivenza (hazard models)con variabili esplicative.

La path analysis, in combinazione con analisi delle corrispondenzemultiple, viene applicata da Pinnelli (1984) con l’intento di verificarel’ipotesi che la fecondità dipenda dall’influenza di norme riguardanti lariproduzione prevalenti nell’ambiente e dalla condizione socio-economicaindividuale. Tecniche di path analysis vengono utilizzate da Salvini (1985e 1986) anche per studiare più in dettaglio la reciprocità dei legami chesussistono tra fecondità e lavoro della donna.

La dinamica di fecondità per intervalli tra le nascite viene approfon-dita con metodi per l’analisi di dati di sopravvivenza. Applicando unmodello di Cox con variabili esplicative ai primi tre intervalli fra le na-scite, De Rose (1988) e Ongaro (1991) analizzano come varia il rischiorelativo di avere un nato vivo rispettivamente di primo, secondo o ter-zo ordine in funzione di una serie di caratteristiche demografiche e socio-economiche delle intervistate. Un approfondimento dello studio con ri-ferimento al primo intervallo (Ongaro, 1991), mentre precisa ulterior-mente le relazioni tra variabili di background socio-economico, variabiliintermedie (in particolare contraccezione) e rischio di avere un primonato vivo, discute la validità dei risultati e propone soluzioni più artico-late di analisi del fenomeno.

2.4. Fecondità in gruppi circoscritti di popolazione

Lo studio del comportamento riproduttivo di gruppi particolari dipopolazione è importante non solo di per se stesso. L’esame della fecon-dità di tali popolazioni può costituire anche uno strumento utile per avereconferma o per lo sviluppo di nuove ipotesi di ricerca, soprattutto se igruppi considerati sono sospettabili di esprimere elementi di natura

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etnico-culturale e/o politico-organizzativa non facilmente rilevabili in for-ma diretta. Questa interpretazione, pur con le debite precauzioni, puòessere allargata anche alle popolazioni individuate con criteri geografico-amministrativi.

Lo studio dei fenomeni demografici presso popolazioni particolaritrova tuttavia un limite nella disponibilità di dati. L’assenza di indaginicampionarie ad hoc condiziona lo studio all’analisi delle popolazioni in-dividuabili con i dati raccolti nel corso di rilevazioni ufficiali, con la con-seguenza che la maggior parte di esse sono identificate sulla base di cri-teri geografico-amministrativi. Eccezioni a questa regola sono, per mo-tivi diversi, i lavori di Della Pergola (1970; 1980; 1983) su alcune co-munità ebraiche della diaspora e il lavoro di Manese (1986) che, utiliz-zando dati delle schede di nascita Istat del 1984, analizza alcune carat-teristiche della fecondità dei cittadini stranieri del comune di Roma.

Numerose sono le ricerche che approfondiscono il comportamentoriproduttivo di popolazioni locali con dati di provenienza statistico-amministrativa: Bellettini (1972; 1975) studia con dati del censimento1961 la fecondità differenziale (per generazioni di matrimonio, luogo dinascita, titolo di studio, condizione socio-professionale) delle donneconiugate con più di 45 anni residenti nel comune di Bologna; Orviati(1976) approfondisce la fecondità legittima (in particolare la durata del-l’intervallo protogenesico) delle residenti nel comune di Trieste in variperiodi che vanno dal 1930 al 1971; Riva (1982) analizza la feconditàdifferenziale (durata di matrimonio, titolo di studio, luogo di nascita,attività lavorativa) della popolazione di Vercelli; Schiaffino (1974) studiala fecondità differenziale su dati del censimento del 1961 delle donneconiugate di Carpi che hanno compiuto 45 anni; Lauro et al. (1986)ricostruiscono la fecondità per contemporanei della popolazione dellaLombardia per gli anni 1972-80 su dati correnti e di censimento.

Questa produzione si arricchisce negli anni ottanta con l’impiego delmetodo own-children negli studi a carattere locale. La prima applicazionedel metodo a dati italiani è relativa alla popolazione dell’Alto Adige.Sfruttando il quesito sull’appartenenza al gruppo linguistico inserito nelcensimento del 1971 per i residenti in provincia di Bolzano, Colombo,Maffenini e Rossi (Colombo et aL, 1983; Maffenini e Rossi, 1984) stu-diano la fecondità differenziale dei tre gruppi etnici (italiano, tedesco eladino) ed evidenziano le sensibili (seppure in via di attenuazione) diffe-renze nella cadenza e nei livelli di fecondità esistenti tra la popolazionedi lingua italiana, da un lato, e quelle di lingua tedesca e ladina, dall’altro.

In seguito, numerosi altri lavori applicano il metodo con la doppiafinalità di valutare le potenzialità dello strumento e di cogliere ulteriori

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elementi informativi su fenomeni poco noti. Tra essi ricordiamo i la-vori di Rossi e Calovi, Dalla Zuanna e Clerici. L’applicazione del me-todo alla popolazione del comune di Trento (Rossi e Calovi, 1987)non permette solo di confermare con dati di censimento del 1971 edel 1981 l’influenza sul comportamento riproduttivo di variabili qualiil titolo di studio, la condizione occupazionale, la mobilità territoriale equella professionale. Con essa gli autori pervengono anche a una seriedi considerazioni di ordine tecnico circa la validità del metodo. Un’a-naloga ricerca su dati di censimento del 1981 della provincia di Milano(Clerici, 1987; 1988; 1989) permette di indagare con maggiore detta-glio sull’evoluzione degli indici di fecondità congiunturali tra donne la-voratrici e non e, pur con alcune cautele legate alla mancata tempora-lizzazione di alcune variabili esplicative, di avanzare interessanti ipotesiinterpretative circa le componenti di tale trend. Su questa stessa linea,Dalla Zuanna (1989) propone di studiare la fecondità femminile in po-polazioni circoscritte territorialmente (nel lavoro si considerano alcunerealtà del Veneto), sia applicando il metodo own-children agli archivianagrafici, sia ripartendo gli iscritti per nascita alle anagrafi secondo ladistribuzione delle partorienti in ospedale per età e stato civile ricavatadai dati di dimissione ospedaliera.

2.5. Uno sguardo d’insieme

L’esame della produzione del ventennio 1970-90 in tema difecondità configura un contesto estremamente fluido in cui, a fianco diuna consistente riflessione ispirata alla tradizione degli studi demograficiitaliani, si fanno strada nuovi approcci all’approfondimento dellafecondità sollecitati dai più articolati bisogni conoscitivi maturati direcente sul fenomeno.

La tradizione (magari aperta a elementi di innovazione come nel casodel metodo own-children o all’uso di fonti alternative di natura amministra-tiva) è ben rappresentata dalla robusta produzione di studi a carattere de-scrittivo condotti spesso a livello macro con dati di provenienza statisti-co-amministrativa (si veda analisi sulla struttura e sulle determinanti de-mografiche del comportamento riproduttivo e, in particolare, la ricca pro-duzione di tavole di fecondità). Con essa si approfondiscono anche aspet-ti particolari della fecondità, come nel caso dei concepimenti prenuziali(Bonarini, 1981; Natale e Pasquali, 1975a; De Sarno Prignano, 1985).

Elementi di tradizione si esprimono nel perdurante interesse per laricerca di soluzioni tecniche volte a rendere sempre più utilizzabili sul

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piano scientifico i dati provenienti dalle rilevazioni ufficiali. Lo sforzonon è volto solo in direzione del miglioramento delle procedure di rac-colta, spoglio e pubblicazione dei dati (si ricorda che l’Istat stesso, a partiredall’inizio degli anni ottanta, ha avviato alcuni tentativi di modificazio-ne delle modalità di pubblicazione e di presentazione dei dati delle sta-tistiche demografiche, con l’intento di renderle più compatibili con le esigenzedei ricercatori). Un forte investimento è stato prodotto anche sul pianodella valutazione della qualità dei dati e dell’individuazione critica disoluzioni tecnico-metodologiche che consentano un uso sempre piùefficiente delle fonti statistico-amministrative. Numerosi sono i lavoriche presentano riflessioni di questa natura. Tra questi ricordiamo quellidi Natale e Pasquali (1974; 1975b), Lenzi (1980), Lombardo (1980), DeBartolo (1982), De Simoni (1982), Breschi et al. (1982), De SarnoPrignano (1985), Bonarini (1987).

In qualche misura espressione della tradizione è anche il precipuointeresse per Io studio della fecondità nazionale. Di numero relativamentecontenuto, e per la stragrande maggioranza relativi a circoscrizioni so-vrannazionali, sono infatti i lavori che analizzano il fenomeno con rife-rimento a paesi a bassa fecondità. Tra questi, ricordiamo quelli di Papa(1978) e Chiassino (1978) sulla fecondità dei paesi europei, quello diLivi Bacci e Ventisette (1980) sul comportamento riproduttivo delle ado-lescenti, quello di Santini (1986a) sulle aree problematiche di feconditàin Europa e quello (peraltro con incursioni storiche) di Petrioli (1984)sulla fecondità della Finlandia. Recente è invece l’interesse per la fe-condità nei paesi in via di sviluppo. I problemi di ordine tecnico checomporta la rilevazione di dati sulla fecondità in quei paesi sono discussida Maffioli e Giunti (1990).

Riflessioni nel merito del fenomeno riguardano invece paesi dell’areamediterranea. Un primo lavoro di Livi Bacci (1988) analizza il problemadella crescita demografica sotto molteplici aspetti, compreso quello dellafecondità. I due lavori di Salvini (1988 e 1990) sono invece centratisulla fecondità: il primo riguarda il comportamento riproduttivo dellaTunisia, il secondo quello dei paesi del Mediterraneo sud-orientale.

Meno organica nei contenuti e nelle linee evolutive è invece la rifles-sione ispirata alle più complesse esigenze di studio della fecondità emersein questi ultimi decenni. L’articolazione delle problematiche e deglisviluppi teorici e metodologici è oggetto di ampia e approfondita discus-sione (De Sandre, 1986 e 1987).

L’impegno più consistente in questo senso si ha probabilmente sulfronte delle strategie di rilevazione dei dati. L’INF/1 rappresenta, a ta-le proposito, un’occasione importante di aggancio al dibattito interna-

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zionale, per quanto riguarda sia l’aspetto della complicazione degli schemiconcettuali necessari a spiegare la fecondità dei paesi sviluppati, sia lemodalità di osservazione della realtà. Elementi qualificanti dell’indagi-ne sono:

a) la possibilità di mantenere il riferimento individuale;b) l’attenzione per la rilevazione delle variabili intermedie (abortivi-

tà, contraccezione, sterilità, nuzialità);c) il tentativo di individuare percorsi evolutivi nell’ottica di una os-

servazione dinamica degli eventi;d) la rilevazione di nuove variabili tradizionalmente trascurate quali

il contesto delle risorse organizzative della donna (servizi pubblici, aiutinon strutturati, distibuzione dei compiti familiari e così via) e i suoi ri-ferimenti culturali e di valore.

Da questa esperienza trae beneficio, fra l’altro, l’intero sistema del-le statistiche nazionali, se è vero che di lì a poco tempo lo stesso Istatvarerà un nuovo programma di indagini campionarie sulle famiglie (siveda Indagine sulle strutture e i comportamenti familiari, 1983 e successiveIndagini multiscopo), ispirato a una logica di osservazione adottata perla prima volta nell’ambito dell’INF/1.

Più eterogeneo è, invece, il dibattito sull’interpretazione e analisi deidati. Rispetto alle ipotesi interpretative della dinamica calante della fe-condità, emerge soprattutto il bisogno di valutare in termini critici quelleavanzate a livello internazionale (Bielli, 1983; Federici, 1984b).

Sul fronte delle metodologie di analisi la riflessione è più articolata,ma anche più eterogenea. Alcuni temi (peraltro di estremo interesse perla ricerca del settore) sono ancora legati più a specifici interessi dei sin-goli ricercatori che a un dibattito vero e proprio. Tra questi, ricordiamoi lavori sui modelli instabili per tener conto dei possibili cambiamentidi fecondità sviluppati da Micheli (1985 e 1988); quelli di Petrioli (1975e 1978) e di Petrioli e Menchiari (1986) sui modelli e sulle tavole di fer-tilità per la popolazione italiana costruite mediante una funzione di Gom-pertz; quello di Tonini (1988), sull’analisi e previsione delle nascite mensilicon modelli usati per l’analisi delle serie temporali.

L’applicazione di metodi di analisi più complessi, in particolare ditipo regressivo (hazard models, path analysis) sui dati dell’INF/l ha datoil via, peraltro, a un dibattito estremamente stimolante non solo perquanto riguarda la possibilità di conferme o di precisazioni di ipotesiavanzate con tecniche di analisi demografica più semplice. Essa ha ali-mentato anche la riflessione a livello di approfondimento delle poten-zialità degli strumenti tecnici e a livello di qualità e natura dei dati ne-

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cessari per lo studio della fecondità nel nostro paese e, più in generale,nei paesi a bassa fecondità.

Il tema dell’effetto delle variabili intermedie, in particolare, è og-getto di un’articolata discussione. Lavori che organizzano variabili diquesto tipo all’interno di modelli complessi si trovano in Palloni (1984)e in Palloni e Kephart (1989). Ma su questo fronte è ancora carente ladisponibilità di informazioni. L’assenza di dati più precisi sulla contrac-cezione, la sostanziale mancanza di controllo e di conoscenze degli aspettibiometrici della fecondità (a questo argomento è attribuibile un numeroesiguo e molto eterogeneo di lavori, tra cui ricordiamo quelli di Pinnelli,1973, e di Marchesi e Cittadini, 1976), sono elementi richiamati più voltenella discussione di risultati di incerta interpretazione emersi conl’applicazione di modelli di varia natura (Rindfuss et al., 1987; Palloni,1984; Ongaro, 1991).

La prossima Indagine nazionale sulla fecondità (INF/2) raccoglierà sicura-mente i frutti di questo lavoro. I criteri che stanno guidando la scelta dellapopolazione di riferimento (campionamento di donne, uomini e mariti;estensione dell’indagine anche alle nubili) e la natura dei quesiti previstiper il questionario (rilevazione di informazioni relativamente dettagliatesulla storia delle convivenze, dei matrimoni, delle gravidanze, della con-traccezione, della formazione scolastica e lavorativa della donna; atten-zione particolare agli aspetti di formazione delle decisioni e di valore chesorreggono tali decisioni e così via) ne rappresentano già una conferma.

3. Controllo e pianificazione dei concepimenti

Per affrontare il tema della contraccezione in Italia nel corso dell’ul-timo ventennio, conviene prendere le mosse da un articolo di Lombardo(1966) che, ancora a metà degli anni sessanta, constatava la scarsadocumentazione statistica su tale argomento. In effetti, nel suo « tenta-tivo di analisi statistica» del fenomeno — parafrasandone il titolo — eglinon trovava informazioni più esaurienti di quelle relative a un gruppodi 277 donne coniugate (immigrate dalle regioni del centro-nord) e cheavevano frequentato il consultorio dell’Aied di Roma. Tre quarti delledonne riferivano di «controllare sistematicamente» le nascite e quasi novesu dieci di queste ultime ricorrevano al coito interrotto.

Tale tipo di documentazione relativo a gruppi particolari di donne— avvicinate pur con approcci diversi, ma tali da non dare garanzia dirappresentatività statistica — si incontra frequentemente, anche in annipiù recenti: se ne possono trarre quadri difficilmente generalizzabili, ma

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pur utili per avere indicazioni da sviluppare successivamente. Alcuni esem-pi più significativi sono: lo studio di Palmieri (1966), il quale riferivadelle pratiche contraccettive di 300 coppie napoletane avvicinate in oc-casione di consultazioni mediche specifiche; quello di Montanari (1967),che esponeva i risultati di un’indagine effettuata tra gli operai e le ope-raie di un’azienda di Faenza; le due indagini, di più ampio raggio, con-dotte dall’Istituto di demografia di Roma nel 1969 (Bielli et al., 1973)e nel 1972 (Bielli et al., 1975), con campioni probabilistici della popola-zione di alcune zone tipiche dell’Italia settentrionale e meridionale; laricerca realizzata nel 1976-77 da Fabris e Davis (1978) sul comporta-mento sessuale degli italiani, con un campione per quote di duemila in-terviste somministrate a uomini e donne tra i 18 e i 64 anni di età; einfine, un’indagine più recente attuata nel 1979-80 tra le donne frequen-tanti i consultori o i centri di pianificazione familiare — ventisei intutto — di sette regioni italiane (Landucci Tosi et al., 1981).

In ogni caso, solo l’indagine nazionale sulla fecondità (INF/1) effet-tuata nel 1979 (De Sandre, 1982a) è la prima vera occasione — e unicafino a ora — che consente di fornire un quadro più preciso e meno ap-prossimato sulla contraccezione in Italia. Pur con alcune limitazioni chepossono derivare dall’alto tasso di non risposte e dal fatto che sono sta-te intervistate solo le donne coniugate, questa inchiesta costituisce unpunto di riferimento dal quale non si potrà prescindere anche in futuro.In tale ambito viene esplorata la conoscenza sulla contraccezione e l’usoeffettuato sia in passato — con riferimento a intervalli definiti tra gravi-danze — sia nell’«intervallo aperto» tra l’ultima gravidanza (o il matri-monio, se nulligravida) e l’intervista. Inoltre, limitatamente a un grup-po di donne, sono stati intervistati anche i relativi mariti (con un altroquestionario distinto), pervenendo a un sottogruppo di unità caratteriz-zato dalle risposte di entrambi i coniugi. Nella tabella 1 sono riportatisinteticamente alcuni dei risultati salienti derivanti da questa indagine.Essi evidenziano come l’uso dei vari metodi contraccettivi in Italia siafortemente consolidato nel tempo e in armonia con quanto veniva sug-gerito dai risultati già emersi dalle precedenti ricerche. Decisamente pre-valente è il coito interrotto: il 67% delle intervistate lo ha usato e quasiil 60% delle donne non incinte al momento dell’intervista continua afarne uso. Frequente è l’impiego combinato di più metodi che riguardaquasi un quarto delle donne non incinte. Modesto è l’uso della spiralee anche quello della pillola, la cui quota di uso è del 7% quando nonla si considera in associazione con altri metodi e risulta pressoché dop-pia in caso di uso congiunto. I metodi naturali hanno una diffusione piùo meno analoga a quella della pillola ma, da soli — senza altri contraccet-

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tivi — riguardano il 4% delle donne non incinte al momento dell’inter-vista. Pressoché assente è la sterilizzazione volontaria.

Si vede dunque che l’uso dei metodi che comunemente vengono de-finiti «moderni» (come sinonimo di più efficaci) — pillola, IUD, steriliz-zazione — riguarda appena il 10% delle donne esposte al concepimentoo poco più del 15%, quando si considerano anche nel loro uso mistocon altri metodi. La diffusione di questi ultimi tre contraccettivi ha rea-lizzato quella che viene definita la seconda rivoluzione contraccettiva— la prima sarebbe quella che ha fatto perno sul coito interrotto e cheha portato dagli alti livelli di fecondità del secolo scorso ai bassi livellidegli anni sessanta — o comunque la rivoluzione contraccettiva tout-court(Westoff e Ryder, 1977). Con questa specificazione si vuole indicareun cambiamento radicale da una contraccezione di arresto della fecon-dità — cui si ricorre quando si è realizzata la dimensione voluta dellaprole — a una contraccezione di copertura continua dalle gravidanze, in-dipendentemente dal rapporto sessuale in sé, dalla quale ci si sottrae quan-do si è deciso di intraprendere una gravidanza. L’azione positiva è spo-stata dal controllo della fecondità all’interruzione della contraccezioneper realizzare la fecondità. La diffusione di questi metodi contraccettiviefficaci — metodi «femminili», peraltro — avrebbe consentito la rea-lizzazione della seconda transizione demografica (Van de Kaa, 1987),caratterizzata dall’attuale bassa fecondità, inferiore a quella di sostitu-zione, che contraddistingue già tutti i paesi del mondo occidentale.

Tuttavia, si fa fatica a conciliare il basso livello di fecondità a tut-t’oggi raggiunto dall’Italia — tra i più bassi mai osservati nel mondo —con il quadro di una contraccezione, come quello presentato, che è cosìlontano dal modello che dovrebbe caratterizzare tale seconda rivoluzione.La deduzione più immediata è che debba necessariamente esserci stato unmassiccio ricorso all’aborto provocato. Né, d’altra parte, dopo l’INF/1 del1979 dovrebbero esserci stati radicali cambiamenti nel nostro paese,come suggeriscono í risultati riportati nella seconda parte della tabella 1.Si possono caratterizzare meglio i comportamenti contraccettivi sot-tolineandone i cambiamenti negli intervalli tra gravidanze successive ocomunque in fasi diverse della vita fertile delle donne. C’è continuitànell’uso di uno stesso metodo contraccettivo tra prima e dopo una gra-vidanza sopravvenuta. Con i dati della INF/1 (Bonarini, 1989) si vedeche in media sei donne su dieci continuano a usare lo stesso metodo do-po le gravidanze. Tale frequenza è più alta tra coloro che usano il coitointerrotto o più metodi congiuntamente, anche quando la gravidanza siè verificata a seguito di fallimento del metodo. Anzi, in quest’ultimo casola perseveranza è la più elevata. Coloro che abbandonano l’uso di un

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metodo — fosse anche la pillola o lo IUD — prevalentemente si orientanoo verso nessun uso della contraccezione o verso l’uso di metodi misti.

Conformi a questi sono altri risultati ottenuti procedendo, attraver-so l’analisi dei clusters, all’individuazione di profili riproduttivi tipicidi gruppi di donne nel corso della loro intera vita matrimoniale. Almenoper i percorsi più diffusi — definiti rispetto alla frequenza d’uso dellacontraccezione e alla sua efficacia — le differenze di comportamento trai vari gruppi di donne si delineano fin dall’inizio della vita riproduttivae si mantengono nel seguito, nonostante le gravidanze avvenute. Per dipiù questi comportamenti contraccettivi non sono riconducibili a variabiliben individuabili, ma sembrano legati a differenti intrecci di più fattori(Maset, 1985-86). Non è immediata la comprensione dei motivi delle sceltecontraccettive, soprattutto quando c’è continuità nell’uso di metodipoco efficaci in presenza di fallimenti e pur avendo accertata una diffusaconoscenza di metodi più efficaci.

Un pregiudiziale criterio di razionalità efficientistica che dovrebbegovernare le scelte contraccettive delle donne, approdando all’opzioneper il metodo più efficiente, porta ad analisi inconcludenti. Ciò è statoben sottolineato dall’indagine effettuata in Emilia-Romagna dal gruppoLenove (1986). Utilizzando le «interviste biografiche», raccolte nell’in-dagine, vengono individuate delle strategie contraccettive nell’ambitopiù ampio di strategie riproduttive, con un’analisi della successione tem-porale dei vari comportamenti, visti rispetto alle varie condizioni bio-grafiche, agli aspetti relazionali e agli orientamenti culturali e psicologici.I profili emersi (Giacobazzi et al., 1989) vanno da un tipo «tradizionale»— centrato su una concezione materno-familiare della stessa identitàsessuale femminile (nell’ambito del quale si trova un uso massiccio deicontraccettivi non strumentali o farmacologici) — a uno caratterizzato(all’estremo opposto) da un’inibizione della maternità — poiché l’interessedella donna su di sé è prevalente — e nell’ambito del quale si utilizzanopressoché tutti i metodi contraccettivi. Ce n’è un altro caratterizzato daelementi di mobilità e segnato da momenti più o meno marcati dicambiamento — si ha un prima e un poi — spesso coincidenti con il climasociale del femminismo degli anni settanta. Le scelte contraccettive diqueste donne passano dai metodi tradizionali usati «prima» ai metodifemminili usati «dopo». Infine, c’è un ultimo profilo nel quale lacollocazione di tali eventi «cruciali» è all’inizio del ciclo di vita: qui lacontraccezione è orientata a provare tutti i metodi, scegliendo quelli cheappaiono più adatti al momento.

Al di là del significato più o meno generale di questi percorsi, si vuo-le sottolineare che i comportamenti contraccettivi difficilmente si com-

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prendono attraverso classificazioni tipologiche delle donne, ma che ilmutare o meno delle strategie contraccettive si comprende se inquadra-to nell’ambito del modificarsi di scelte di vita.

Ritornando all’indagine INF/1 del 1979, i risultati ottenuti mostranoche il livello complessivo della contraccezione (77% delle donne la usano)non è inferiore a quello di molti paesi occidentali né, del resto, è lontanodalla soglia massima che si ritiene osservabile. Le potenziali utenti dellacontraccezione — togliendo le incinte, le sterili, quelle che sono alla ricercadi una gravidanza... — sono stimate nell’ordine dell’80% delle donne spo-sate e in età riproduttiva. Le differenze emergono,rispetto ai metodi usati.

Per gli anni successivi al 1979 le informazioni frammentarie che pos-siamo ricavare dalle varie indagini effettuate su popolazioni particolari— alcune delle quali sono riportate nella seconda parte della tabella —ci danno indicazioni che, pur prese con le cautele già evidenziate in pre-cedenza, possono essere interessanti.

L’aumentato uso della pillola, che risulterebbe dalle statistiche dellevendite, non riguarderebbe le donne coniugate, ma eventualmente le nonconiugate, almeno in Emilia-Romagna. La stessa percentuale d’uso (14%)dell’Emilia-Romagna si trova in Puglia (anche qui calcolata tra le donneconiugate e non) mentre è più bassa nell’indagine effettuata dall’IHF(International Health Foundation, 1986). In quest’ultima indagine c’èun eccesso di donne in età più elevata e si registra un’alta frequenzad’uso della spirale, così come tra le coniugate dell’Emilia-Romagna. Ciòpotrebbe indicare dei cambiamenti sopravvenuti, rispetto alla INF/1 del1979, nella direzione di una contraccezione d’arresto spostata verso laspirale, cioè verso un quadro analogo a quello che si è verificato in Francianel 1988. Naturalmente questo va verificato.

La sterilizzazione — anche dopo molti anni dall’abrogazione della suapunibilità — non pare abbia assunto livelli significativi, sulla base delleindicazioni che emergono dal campione della Puglia e da quello dell’Aied,anche se potrebbe essere la natura stessa dei collettivi analizzati a de-terminare questo risultato. Si può segnalare però che un’indagine pro-mossa dai ricercatori della Terza Clinica ostetrico-ginecologica di Bolo-gna ed estesa a tutti i centri ospedalieri e case di cura italiani non hafatto registrare grosse frequenze di interventi effettuati in quelle sedi,anche se la frazione di non risposte è stata elevata (Guerresi et al., 1987).

Dalla tabella che stiamo analizzando si nota infine che l’uso di meto-di misti continua a essere elevato e i metodi naturali sono più impiegatiin Emilia-Romagna che in Puglia.

Un accresciuto interesse sul piano della ricerca hanno riscosso in questiultimi anni i metodi naturali di controllo delle nascite, come testimonia

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fra l’altro l’attenzione che vi è dedicata anche dalle riviste tradizional-mente orientate verso una pianificazione familiare basata su metodi «mo-derni». Un breve riscontro può essere la lettera di Hanna Klaus a FamilyPlanning Perspectives (1989). Evidentemente le preoccupazioni per gli effetticollaterali legati all’uso di contraccettivi ormonali - compresi quelli piùrecenti tipo il Norplant - agiscono da spinta in questa direzione, aparte ogni altra considerazione di tipo etico. Per l’Italia, di particolaresignificato è l’archivio di dati formato da Colombo con i dati raccoltida Marshall su un gruppo di donne londinesi. Queste ultime hanno an-notato giornalmente, per più cicli consecutivi, variabili importanti rela-tive al ciclo mestruale. Tali dati possono essere utilizzati, ad esempio,per valutare l’applicabilità e l’affidabilità delle varie regole che defini-scono i metodi di pianificazione (Masarotto, 1989). E prima ancora sipossono definire aspetti biometrici del ciclo, anche ai fini di una loroprevedibilità (Colombo, 1989; Masarotto, 1988). Su queste linee si sonoarticolate le prime ricerche, ancora in corso, coordinate da Colombo.

L’indagine nazionale sulla fecondità del 1979 ha riguardato le soledonne coniugate e non furono intervistate né le divorziate né le nubili.Per queste ultime le informazioni di cui disponiamo sono frammenta-rie, ottenute dalle varie indagini su popolazioni circoscritte. Così, adesempio, nell’inchiesta effettuata in Emilia-Romagna da Lenove si ve-de che tra le non coniugate di età tra í 21 e i 40 anni la pillola è usatapiù frequentemente che tra le coniugate, ma non la spirale e il preserva-tivo. Frequente anche tra queste è il ricorso a metodi misti. Le altreindagini riportate nel prospetto, pur riferite a tutte le donne - non soloa quelle coniugate - non specificano i risultati rispetto allo stato civiledelle intervistate.

L’interesse è particolarmente vivo sul comportamento delle adole-scenti, le quali in certi paesi fanno registrare una frequenza annua ele-vata di gravidanze, fino a una ogni dieci donne (tra i 15 e i 19 anni dietà), come negli Stati Uniti e in Ungheria. In Olanda e in Giappone -ove si hanno i valori minimi - si ha un tasso di dieci volte inferiore(United Nations, 1988).

Negli anni settanta in molti paesi si osserva una diminuzione dei tassidi gravidanza tra le adolescenti, nonostante l’accresciuta percentuale dichi tra esse riferisce di aver avuto rapporti sessuali completi. È peròprobabile che questi rapporti abbiano in genere un carattere di sporadi-cità e non siano molto frequenti - anche perché la coabitazione non ècerto una condizione prevalente tra queste donne - così come è pensa-bile che siano aumentate la contraccezione e l’uso di metodi più efficaci

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(United Nations, 1988). In ogni modo la percentuale di primi rapportisessuali completi non protetti pare elevata.

Per l’Italia, nella tabella 2 sono riportate le percentuali di giovanidonne con rapporti sessuali completi, calcolate in alcune indagini piùsignificative. Non è agevole combinare tra loro questi risultati, sia perle diverse classi di età di riferimento considerate nei vari casi, siaper la diversa natura dei collettivi analizzati. Le indicazioni sarebbero co-

Tabella 2. Percentuali di adolescenti intervistati(e) che hanno riferito di avere avuto rapporti sessualicompleti

(*) Tra parentesi è il valore centrale della classe di età.(**) Stime ricavate sulla base delle distribuzioni percentuali per età e per sesso.

(***) Stime riferite alle nubili.

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munque per una discreta variabilità territoriale e sembra anche di co-gliere un aumento temporale di tali frequenze. Inoltre, la maggioranzadelle donne che hanno avuto rapporti li ha iniziati prevalentemente primadei 18 anni. Sono comunque tutte considerazioni fragili, come ben sicomprende dal tipo di materiale presentato, tanto più che le due indaginia carattere nazionale riportate nel prospetto - quella dell’Aied (1986) equella dell’Asper (Caf aro, 1988) - danno risultati troppo differenti peressere affidabili.

4. Abortività

Si è detto in precedenza che una contraccezione qual è quella prati-cata in Italia - cioè basata essenzialmente sul coito interrotto - lasce-rebbe supporre che gli attuali bassi livelli della fecondità non avrebberopotuto essere raggiunti senza un ricorso all’aborto provocato, fenomenoche già prima del 1978 (quando ancora non era consentito dalla legislazione)doveva essere di dimensioni considerevoli. Negli anni che hanno precedutol’entrata in vigore della nuova normativa c’è stato un vivace dibattito sulnumero degli aborti clandestini: furono avanzate stime che oscillavano daqualche milione a qualche centinaio di migliaia di aborti clandestiniall’anno (Figà Talamanca, 1976; Livi Bacci, 1975).

Un’analisi critica delle varie valutazioni e della documentazione alloraesistente è contenuta in un saggio, ormai classico, sulla diffusione degliaborti illegali in Italia prima della liberalizzazione dell’aborto (Colombo,1976). In questo lavoro veniva mostrata la fragilità dei fondamenti dimolte delle stime che circolavano e si sottolineava l’esistenza in Italia disituazioni territorialmente e settorialmente così diverse da rendereazzardata l’estensione all’intero paese di visuali ristrette. Il saggio siconcludeva non tanto con una stima della diffusione degli aborti illegaliquanto con l’espressione di uno scetticismo maggiore verso cifre superioriai centomila aborti all’anno, piuttosto che verso cifre inferiori.

Oltre a questa, ci sono altre occasioni significative - anche per il ri-ferimento territoriale più ampio - che possono aiutare a caratterizzaregli aspetti salienti dell’abortività negli anni precedenti la liberalizzazionedell’aborto. La documentazione ufficiale sui casi di denuncia di aborto(ovunque avvenuto e accompagnato o meno da ricovero) prodotta daI-l’Istat e quella sulle prestazioni ostetriche domiciliari e ospedaliere, rea-lizzata dall’Inam fino al 1975, costituiscono una fonte che, pur con lelacune derivanti dall’omissione dei casi non denunciati e dalla qualificadi spontaneo attribuita agli aborti in realtà comunque avvenuti, con-

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sente di seguire l’evoluzione temporale del fenomeno dal 1955 fino aridosso del 1978. Tali statistiche sono state scarsamente utilizzate per-ché ritenute inattendibili. Analisi sono state effettuate, ad esempio, daAngerame e Barbieri (1979), Beggiato (1977-78) e Bonarini (1991). Daquesta documentazione si ricava una generale stabilità della frequenzadell’aborto nel corso del tempo (con alcune eccezioni) e inoltre una presenza piùelevata di aborti nelle regioni meridionali. La zona nord- orientaleregistra i valori minimi di abortività (in particolare il Veneto e ilTrentino-Alto Adige); i massimi valori si hanno in Puglia, in Umbria ein Sicilia.

Gli stessi risultati delle INF/1 ribadiscono come la frequenza di abortifosse più elevata nel Mezzogiorno e come in tale area siano state piùnumerose anche le donne che hanno avuto una o più esperienze abortive.I valori più bassi sono invece ancora nella zona nord-orientale. In media,si ha quasi un aborto ogni due donne nel corso dell’intera loro vitariproduttiva. Questo risultato è molto vicino a quello che si ottiene con idati di un’indagine multicentrica effettuata nei reparti ostetrico-ginecologici di otto tra città e centri minori dell’Italia centro-settentrionalee di uno del sud (Bari). Si tratta di una rilevazione di ricoveri avvenutiin questi reparti in periodi compresi tra il 1973 e il 1980 (Bonarini, 1984be contributi di vari autori in IRP, 1985).

I quattro momenti sopra richiamati — il saggio e le tre indagini — co-stituiscono i riferimenti principali per un’analisi dell’epidemiologia del-l’aborto in Italia prima della normativa sull’interruzione volontaria dellagravidanza (IVG). Sostanzialmente si trae un quadro coerente di unfenomeno abbastanza stabile nel tempo, di dimensioni non notevoli, conaccentuati caratteri di differenziazione territoriale.

Con la liberalizzazione dell’aborto, avvenuta nel 1978, prende avvioun sistema informativo che trae origine dagli obblighi fissati nella stessalegge e si articola su due canali distinti che fanno capo, rispettivamente,all’Istat e all’Istituto superiore di Sanità. Quest’ultimo produce un’infor-mazione tempestiva sulle principali caratteristiche dell’abortività legale.Le elaborazioni dell’Istat, invece, più analitiche e ottenute dallo spogliodei modelli individuali, sono aggiornate con tempi più lunghi. Inoltre,molte regioni hanno curato con più attenzione la rilevazione e hannoelaborato i dati di propria competenza. Si può studiare una rassegna di taliiniziative nel volume curato da Sanna (1989).

L’analisi di questo materiale, ampiamente sviluppata, ha consentitodi mettere a fuoco questioni importanti, a cominciare dalla dimensionedel fenomeno. Il numero annuo di IVG è stato nell’ordine delle duecen-tomila; dapprima è aumentato fino al 1982, quando ha superato quota

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230.000, successivamente è diminuito fino alle attuali 160.000 circa.Con tale ultimo numero di IVG si ottiene un livello di abortività che,tra i paesi occidentali, è tra i più alti, inferiore solo a quelli di Svezia,Norvegia e Stati Uniti. Si è comunque lontano dall’ordine di grandezzadelle precedenti stime sull’abortività clandestina. Di fronte a questi ri-sultati si sono delineate due posizioni. Da una parte è stato osservatoche la dimensione dell’abortività legale registrata dopo la liberalizzazio-ne dell’aborto non può essere assunta come espressione dell’abortivitàclandestina realizzata prima del mutamento legislativo, poiché nel frat-tempo è cambiato il contesto entro cui le coppie possono agire (ad esempioColombo, 1983). La disponibilità di un ‘rimedio facilmente accessibileper i concepimenti non desiderati modifica le circostanze che influisco-no sulla frequenza dei rapporti sessuali non protetti e costituisce unasollecitazione verso una sostituzione dei metodi contraccettivi attual-mente usati. Ciò sarebbe vero ancor più per l’Italia, ove la contracce-zione è basata soprattutto sul coito interrotto. Dunque, le circa duecen-tomila IVG annue non possono dimensionare l’abortività clandestinadegli anni anteriori al 1978, ma ne sarebbero una sovrastima. Da un’al-tra parte si osserva, invece, che il contenuto ricorso all’aborto da partedella popolazione più giovane e l’esistenza di zone con bassi livelli diabortività (concentrate soprattutto nel Meridione) insieme con altre zo-ne a livelli elevati (Italia centrale e Puglia) sarebbero chiari indici dellapermanenza di un’abortività clandestina residua. La legge del 1978 avreb-be rimosso solo una parte dell’abortività illegale precedentemente rea-lizzata. Si è cercato anche di dare una valutazione del numero di abortiancora praticati nell’illegalità (Figà Talamanca e Spinelli, 1986), ma lecifre diffuse — anche nelle Relazioni annuali del Ministero della Sanità— sono ottenute con procedimenti basati su presupposti fragili e arbitra-ri. In realtà, se pur le differenze territoriali mal si spiegano compiuta-mente senza supporre un certo ricorso alla clandestinità — e le stesse de-nunce all’autorità giudiziaria del resto testimoniano dell’esistenza di ta-le fenomeno —, queste differenze non si possono cancellare riconducen-do a omogeneità i comportamenti in materia di aborto nelle varie regio-ni. Differenze regionali marcate esistono anche rispetto ad altri feno-meni demografici, come la fecondità e la nuzialità (Santini, 1986a).

Indici di abortività clandestina potrebbero essere cercati tra i rico-veri ospedalieri ove potrebbero confluire i casi seguiti da complicazioni— o tra i decessi per aborto. Forse anche a causa dei ritardi accumulatinella disponibilità dei dati non si è avuta un’adeguata esplorazione inquesta direzione. Quel poco che è stato fatto non ha dato comunqueindicazioni di un’abortività clandestina consistente. D’altra parte que-

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sta pista può rivelarsi infruttuosa se gli aborti illegali sono ormai prati-cati in condizioni di massima sicurezza (Bielli, 1987). Però le scarne in-formazioni che abbiamo (ad esempio Aied, 1988) lascerebbero pensare,pur con cautela, che, almeno in alcune zone, questi aborti sarebbero an-cora praticati in condizioni di fortuna e da personale non qualificato.

Non mi risulta che in Italia si siano tentati approcci di stima degliaborti clandestini basati su tecniche di intervista che assicurino la nonindividuazione delle risposte, tecniche del tipo «risposte randomizzate».

Un altro aspetto che è emerso dall’analisi dell’abortività legale — esul quale si è rivolta l’attenzione dei ricercatori — è la presenza di un’e-levata quota di casi di recidiva. Questa raggiunge quasi il 30% delleIVG annue. Ha sorpreso anche la rapidità della crescita di tale percen-tuale — in tre anni, tra il 1981 e il 1984, è raddoppiata — e il fatto chei valori massimi si trovano nel Meridione, cioè nelle zone ove è registra-to il livello di abortività più basso. Una crescita temporale della quotadi recidive è nelle attese, poiché più tempo passa dall’entrata in vigoredella legge, più cresce la popolazione a rischio di una gravidanza ripetu-ta. Numerose sono state le applicazioni di modelli matematici — quellodi Tietze e jain (1978) o quelli più generali di Tietze e Bongaarts (1982)e Blangiardo (1983) — per giustificare la sorprendente evoluzione dellasituazione italiana: ad esempio, si vedano i Rapporti Istisan. Questi mo-delli possono fornirci un notevole aiuto per comprendere le caratteristi-che del fenomeno delle recidive, poiché ci mostrano che sia la loro altapercentuale, sia la loro rapida crescita temporale si spiegano plausibil-mente solo nell’ipotesi di una elevata variabilità della propensione diricorrere all’aborto nelle varie categorie di donne. Alcune avrebbero unaprobabilità alta di abortire e lo farebbero con una certa sistematicità (Blan-giardo, 1993; Bonarini, 1993). Uno studio specifico sull’aborto ripe-tuto, effettuato analizzando le IVG di donne residenti in Emilia-Roma-gna, confermerebbe tale risultato anche in questa regione ove, peraltro,si ha una quota di recidive un po’ più bassa della media nazionale (Pa-squini, 1990). L’indagine è stata condotta con un linkage sulle IVG pra-ticate in Emilia-Romagna nel periodo 1979-85 e consente anche di rica-vare una misura della distanza temporale tra aborti successivi di una stessadonna. Viene così recuperata un’informazione che manca nella schedaIstat. In media l’intervallo tra IVG è di 22 mesi — tra le donne con dueIVG nel periodo considerato — o anche più breve tra le altre donne conun numero di aborti superiore. Oltre il 14 % delle IVG sono ripetutea meno di sei mesi dalla precedente.

Di fronte a una tale spiccata ripetitività dell’aborto non sono man-cati interrogativi sul motivo e sulle categorie di donne che ne fanno uso.

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Valga ad esempio il convegno di studi organizzato dalla Regione Emilia-Romagna nel 1986 i cui atti sono poi stati curati da Quintavalla e Rai-mondi (1989). Ancora con sorpresa — ma in linea con quanto verificatoanche in altri paesi occidentali — si è visto che l’aborto è diffuso anchetra quelle donne che per condizione sociale o per grado di istruzionesi ritenevano sufficientemente capaci di prevenire i concepimenti nonvoluti con una contraccezione adeguata. Inoltre, proprio nelle regioniove più diffusi sono i metodi contraccettivi più efficaci, l’aborto è statopiù frequente. Una connessione netta tra indicatori di benessere socio-economico e livello di abortività è emersa da un’analisi di tipo ecologicoeffettuata da Blangiardo sul complesso delle province italiane (Movimentoper la vita italiano, 1987). Alla luce di questi risultati, salta lo schemainterpretativo che vede l’aborto come rimedio ai fallimenti di una con-traccezione poco efficace — come quella basata sul coito interrotto — cheè praticata soprattutto dalle donne in condizioni socio-economiche piùdisagiate. In primo luogo si è così cercato di conoscere le motivazioniche hanno spinto le donne ad abortire. Anche questa informazione nonè contenuta nel modello Istat, ma numerose sono le indagini effettuatenelle singole unità ospedaliere che hanno esplorato questo campo condomande dirette alle donne che hanno abortito. Si tratta di lavori chehanno una rappresentatività territoriale ristretta e di solito riguardanoqualche centinaio di casi. Un’ampia rassegna di questi si può vedere inBlangiardo (1993), ma due indagini hanno una dimensione più ampiae maggior ricchezza di risultati, pur mantenendo una rappresentativitàterritoriale circoscritta. Una è relativa all’area fiorentina (Marchiarmiet al., 1988) e un’altra è stata effettuata in alcuni ospedali della cittàdi Napoli (Pane, 1988). Da questi due lavori e dagli altri si vede chele motivazioni più spesso indicate per l’aborto sono di tipo socio-econo-mico, affiancate da quelle legate a problemi familiari e di coppia. Scarsesono le motivazioni che si riallacciano alla tutela della salute fisica o psi-chica della donna.

Si è cercato anche di capire quale tipo di contraccezione è stato usatodalle donne che abortiscono e in particolare al momento del concepi-mento. Coloro che non conoscono la contraccezione o non hanno maiusato alcun metodo sono una percentuale modesta. Molte donne hannousato i metodi tradizionali (in armonia con quanto si è già visto dalleindagini sulla contraccezione), ma numerose sono coloro che in passatohanno comunque fatto uso di metodi efficaci. Né mancano esperienzeche riferiscono di abbandoni di una contraccezione più efficace per unameno efficace nel periodo immediatamente precedente l’aborto. Insommaappare ben evidente che il problema dell’aborto non è riconducibile sem-

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plicemente a una questione di conoscenza della contraccezione e di sceltadi un metodo più efficace, ma investe l’uso della contraccezione in unarealtà personale complessa. Le gravidanze non volute sono legate ancheall’uso di una contraccezione non efficace, ma derivano anche daabbandoni della contraccezione e da situazioni di risk-taking. Difficil-mente le analisi descrittive e anche l’investigazione delle cause dell’IVG,come negli studi sopra ricordati, consentono di far luce sulle cause del-l’aborto e in particolare dell’aborto ripetuto. Si può escludere, in gene-rale, che l’IVG venga richiesta per motivi legati alla salute della madree del nascituro, ma le cause riferite — tutto sommato poco differenziatee ripetitive nelle varie situazioni — esplorano solo le conseguenze di unasituazione causale precedente che ha portato alla gravidanza. È su questesituazioni che occorre indagare se si vuole comprendere il perché dell’aborto.Questi punti sono stati ben evidenziati da Carini e Finzi (1987) in unostudio effettuato sui consultori milanesi.

Da quanto precede segue esplicitamente che la relazione tra contrac-cezione e aborto difficilmente si può porre in termini di un automaticolegame inverso tra diffusione dei mezzi contraccettivi moderni e dimi-nuzione del numero di aborti. A tal riguardo si può aggiungere che l’au-mento dell’efficacia della contraccezione si accompagna a una diminu-zione del numero delle gravidanze non desiderate ma di solito anche aun aumento del grado di determinazione ad abortire una eventuale gra-vidanza ciò nonostante sopravvenuta. Per l’Italia, una documentazionedi questa diversità delle propensioni all’aborto, condizionate al metodocontraccettico impiegato, si trova anche nei dati della INF/1 del 1979(Rossi, 1982). Con tale meccanismo (più uso della contraccezione, me-no gravidanze accidentali, ma più ricorso all’aborto se queste soprav-vengono) si può giungere al paradosso di un aumento di aborti a seguitodi un aumento della diffusione dei metodi contraccettivi più efficaci.

Un altro filone di studio più abbozzato che avanzato riguarda le ri-percussioni della liberalizzazione dell’aborto sui vari fenomeni demogra-fici del nostro paese. Ci possiamo chiedere se si registrano, in Italia, va-riazioni sulla dinamica temporale di questi fenomeni concomitanti con ilmutamento legislativo in tema di aborto, in modo da poter pensare auna possibile conseguenza diretta di quest’ultima. In realtà non si vedegranché, almeno dalle poche analisi che sono state effettuate su questoargomento (Cazzola, 1985-86; Bonarini, 1993). La fecondità ha conti-nuato la sua dinamica discendente già avviata in precedenza, senza mo-strare accelerazioni dopo il 1978. La stessa frequenza dei concepimentiprenuziali è correlata con la dinamica della nuzialità ma non sembra scal-fita dalla disponibilità dell’aborto. Qualche effetto si registra tra le na-

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scite avvenute a distanza molto breve da una precedente, le quali dimi-nuirebbero in modo più accentuato, e tra le nascite fuori dal matrimo-nio nelle età più giovani, che subirebbero un arresto. Si tratta comunquedi effetti di entità modesta. L’unica variazione sensibile si osserva nelnumero di aborti spontanei rilevati, che nell’attuale indagine effettuatadall’Istat si riducono a meno della metà rispetto a quanto risultava nellaprecedente rilevazione delle denunce di aborto. Una differenza che inparte è però legata alle diverse caratteristiche delle due rilevazioni. Intema di aborto spontaneo conviene fare due segnalazioni. L’Istitutosuperiore di Sanità ha iniziato dal 1985 la raccolta sistematica dei datisugli aborti spontanei direttamente dalle regioni — in analogia a quanto giàoperava per le IVG — nell’ambito di un annunciato sistema di sorveglianzanazionale (Istisan, 1989). Inoltre una ricca documentazione sulleconseguenze dell’inquinamento da piombo nell’abortività spontanea èstata raccolta e analizzata dalla Pahrinieri (1993) relativamente alcomprensorio delle ceramiche nelle province di Modena e Reggio Emilia.Non risultano altri studi significativi sull’argomento.

5. Opinioni, preferenze, atteggiamenti

L’indagine sulla fecondità del 1979 fu orientata soprattutto a cono-scere i comportamenti delle donne coniugate e solo marginalmente fu-rono incluse nel questionario alcune domande di opinione (sull’educa-zione dei figli, sulle condizioni e situazioni favorevoli o meno all’averfigli e sull’aborto provocato). Fu anche chiesto a ciascuna donna inter-vistata di indicare il numero ideale, desiderato e atteso di figli. Succes-sivamente, tra la fine del 1983 e l’inizio del 1984, fu effettuata dall’IRPuna prima indagine nazionale sull’opinione degli italiani in merito allavita di coppia e ai figli (Palomba, 1987), seguita da una seconda — sem-pre a cura dell’IRP — realizzata sullo stesso argomento quattro anni dopo,fra la fine del 1987 e l’inizio del 1988 (Palomba et al., 1989; Palomba,1990). Un altro sondaggio a carattere nazionale fu realizzato dalla Doxanel 1986 nell’ambito dell’inchiesta Omnibus — per conto del Movimentoper la vita italiano (1987) — sull’opinione degli italiani in meritoall’aborto provocato. Anche quest’ultimo faceva seguito a due precedentisondaggi analoghi, effettuati dalla Doxa nel 1975 e nel 1980.

La percezione dei principali mutamenti demografici avvenuti negliultimi decenni sembra abbastanza diffusa tra la popolazione italiana. Nel-l’indagine IRP del 1984 le percentuali di risposte corrette a quesiti sulladinamica temporale delle nascite e dei matrimoni — nel nostro paese —

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sono state più elevate di quelle riportate, ad esempio, dai francesi inindagini analoghe. Tale informazione non è generica — come è stato sot-tolineato (Piperno, 1987) — ma articolata (ad esempio, si sa che il calodei matrimoni riguarda quelli religiosi piuttosto che quelli civili) e si di-rebbe che si tratti di un’informazione legata all’esperienza personale edell’ambiente vicino, o comunque che le risposte fornite riflettano lecircostanze che le attuali tendenze demografiche rispondono alle più co-muni aspettative del cittadino medio. E in effetti i meno informati sonoproprio i più giovani, i quali non hanno un’esperienza diretta di ma-trimonio e di procreazione; inoltre, generalmente, l’informazione si fameno precisa su aspetti che vanno al di là della percezione personaleimmediata.

Sempre nell’indagine IRP del 1984, la valutazione del calo delle na-scite era stata positiva nella maggioranza delle risposte, mentre quellasul calo dei matrimoni era prevalentemente negativa. Nella successivaindagine quest’ultimo giudizio risultava rafforzato, in quanto si dimez-zava la percentuale dei consensi e aumentava quella degli indifferentima, sorprendentemente, veniva ribaltata la valutazione positiva sul calodelle nascite. Il 50% delle risposte adesso dava un giudizio negativo e il49% si dichiarava d’accordo per un intervento di politica demograficache incoraggiasse un aumento delle nascite. I motivi più frequentementeaddotti a sostegno di tale posizione riguardavano problemi di in-vecchiamento della popolazione e di mancanza del ricambio generazio-nale, cioè due temi sui quali c’è stata una certa attenzione da parte deimass media.

Quanto abbia inciso quest’ultima circostanza nel modificare l’opi-nione sull’attuale tendenza della natalità e quanto possano aver pesatoaltre circostanze, come un possibile ringiovanimento della popolazioneitaliana attraverso l’immigrazione dal Terzo Mondo, è una questione aper-ta. Anche in materia di aborto sono diminuite nel tempo le percentualidi assenso sui motivi che ne legittirnano il ricorso. Pur restando maggio-ritari, sono comunque calati i consensi all’aborto anche per pericolo divita della donna, per violenza e per malformazione del feto. Si sono di-mezzati, scendendo al 31%, i consensi che si richiamano ai motivi eco-nomici, mentre sono rimasti invariati (25%) quelli legati alla pura deci-sisone della donna. È forse nella ridotta conflittualità sociale sull’argo-mento, dopo la legge di liberalizzazione, il motivo di tale diminuzionedi consensi. Infine, il giudizio sulle convivenze — peraltro non molto dif-fuse in Italia, come si è visto in precedenza — è positivo solo per un quartodegli intervistati; per un terzo c’è una posizione di indifferenza e per il40% il giudizio è negativo.

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Le indagini dell’IRP consentono anche di conoscere le aspirazionifuture e le preferenze degli italiani rispetto ai vari modelli riproduttivi.Quello di famiglia con figli nel quale la coppia è legata da un vincolomatrimoniale resta dominante. Tra la concezione tradizionale di una unio-ne indissolubile e quella basata su un rapporto di tipo puramente con-sensualistico, la maggioranza si situa su una posizione intermedia chesubordina lo scioglimento del matrimonio al verificarsi di situazioni gravi.Nei rapporti di coppia poi prevale una visione di tipo simmetrico carat-terizzata dall’assunzione di ruoli professionali e familiari da pare di en-trambi i coniugi.

I figli sono ritenuti molto importanti, tant’è che più di un terzo degliintervistati ritiene che quello senza figli non è un vero matrimonio. Neifigli viene apprezzata soprattutto la visione affettiva continuativa (illegame più stretto che si può avere è quello con i figli), mentre menoapprezzato è il loro valore sociale, rispetto al quale si ha il più bassolivello di accordo delle risposte. L’esperienza di diventare genitori è va-lutata positivamente, soprattutto da parte dei giovani e degli anziani.Un po’ meno lo è da parte degli intervistati nelle classi d’età centrali.La decisione di avere un secondo figlio viene legata soprattutto all’im-portanza attribuita all’indipendenza della coppia; quella di avere un terzofiglio è associata soprattutto alle condizioni economiche della famiglia.

La dimensione ideale della famiglia, quella desiderata e quella reali-sticamente attesa, sono concetti comunemente utilizzati nelle indaginiper conoscere le aspettative di fecondità. Si hanno differenti articola-zioni di questi concetti. Il numero ideale di figli può essere riferito allagenerica famiglia italiana o a quella che si trovi nelle stesse condizionisocio-economiche del rispondente; il numero ideale di figli può essereriferito al momento attuale o al momento del matrimonio. Né sono man-cate critiche (Ryder, 1984) rispetto alla capacità di questi concetti diesprimere i reali desideri delle coppie — in che misura le risposte sonoinfluenzate dalla dimensione già acquisita della prole? — o comunque dianticipare le difficoltà che si sovrappongono al raggiungimento della proleeffettiva. Tuttavia sia l’indagine sulla fecondità del 1979 sia le indaginisuccessive dell’IRP danno una dimensione ideale della famiglia che co-stantemente si pone su valori di poco superiori ai due figli (2,1). Le dif-ferenze tra i valori medi relativi ai vari concetti (numero ideale, deside-rato e atteso), così come tra le varie articolazioni di questi, sono mode-ste, come si vede con i dati della INF/1 del 1979. Quindi, non solo ifigli continuano a essere un valore per gli italiani, ma le preferenze sonodecisamente orientate per una famiglia composta da due figli.

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Capitolo decimo

Strutture di popolazione

Viviana Egidi

1. Dagli individui alla popolazione: eterogeneità e strutture

Una delle più rilevanti proprietà di una popolazione è la sua eteroge-neità. Gli individui che la compongono sono uomini o donne, hannoetà diversa, diversi gradi di istruzione, svolgono lavori diversi, vivonoin diversi contesti familiari, sociali e ambientali e così via. E questi mo-di e condizioni in cui l’individuo vive, così come le modalità biologicheche lo contraddistinguono, esercitano un’influenza importante sul suocomportamento demografico (fecondità, mortalità, migrazioni), socialeed economico (rete di relazioni interpersonali e di parentela, lavoro, con-sumi, risparmio e così via).

Delineare le caratteristiche strutturali di una popolazione è in primoluogo ricercare un ordine all’interno di questa eterogeneità, suddividendogli individui in gruppi omogenei rispetto alle modalità di uno o più ca-ratteri utilizzati come ordinatori: un’operazione che consente di studia-re i rapporti numerici tra i gruppi o il loro peso rispetto al complessodella popolazione, di analizzare i meccanismi demografici che determi-nano e modificano la struttura nel corso del tempo e di disporre di ele-menti per valutare l’impatto delle sue caratteristiche e delle sue trasfor-mazioni sui comportamenti di natura demografica, economica e sociale.

Il processo che porta a disegnare e a studiare le strutture di popola-zione può, quindi, essere identificato come il primo passo degli studidemografici, quello che consente di trasformare l’insieme delle infor-mazioni disponibili sui singoli individui in caratteristiche della popola-zione di cui fanno parte, attraverso un processo di aggregazione che con-senta di giungere a identificare gruppi omogenei le cui differenze offra-no un’immagine quanto più corretta possibile dell’originaria eterogeneità;gruppi suscettibili di essere trattati come una sorta di «unità collettive»alle quali attribuire attitudini e comportamenti e che possono essere uti-lizzate per descrivere la composizione interna della popolazione o comeelementi di base per gli studi di demografia differenziale.

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È evidente che il raggiungimento della perfetta omogeneità interna deigruppi è un obiettivo del tutto teorico in quanto, se si volesse controllarel’infinito numero di caratteri (di ordine biologico, sociale, culturale, econo-mico, ambientale e così via) che rendono ciascun individuo diverso dall’al-tro, si giungerebbe a identificare gruppi numericamente troppo esigui peressere trattati con metodi statistici. Quando poi la stratificazione della po-polazione rappresenti il primo passo per la predisposizione di materiale i-doneo ad analisi di tipo esplicativo, soprattutto nell’approccio metodologi-co più attuale, la procedura di identificazione dei gruppi omogenei si com-plica ulteriormente. A questo fine, infatti, non solo la presenza di un certoattributo (o di una combinazione di attributi) in un particolare momentoriveste importanza per il comportamento individuale, ma anche la fase del-la storia di vita in cui si è acquisito, il percorso seguito dall’individuo primae dopo la sua acquisizione, nonché i periodi di tempo in cui l’individuo èstato caratterizzato da una certa combinazione di modalità dei diversi ca-ratteri (Bertaux, 1980; Tuma e Hannan, 1984; Courgeau e Lelièvre, 1984;1989; Caselli et al., 1989; 1990; Davies e Crouchley, 1985). In altri termini,perché i gruppi possano considerarsi realmente omogenei al loro interno eadeguati alle analisi di tipo esplicativo, dovrebbe riscontrarsi una similitudi-ne tra le biografie degli individui che ne fanno parte e questo accresceenormemente i problemi del trattamento statistico dei dati.

I vincoli teorici e operativi che si incontrano nel processo di stratifica-zione della popolazione sono, quindi, numerosi e di non facile superamen-to. Molto spesso essi rimangono sullo sfondo delle analisi demografiche enon vengono trattati esplicitamente. Ciononostante, è utile iscrivere l’am-pio corpo degli studi e delle ricerche sulle caratteristiche strutturali dellapopolazione all’interno di questo quadro concettuale e di questa generalenecessità di ordinamento. Varia, in relazione alle finalità della ricerca ealle informazioni statistiche disponibili, il grado di omogeneità internarichiesta ai gruppi o l’accento maggiore o minore dato ai diversi aspetti,ma l’elemento caratterizzante, anche se non necessariamente l’obiettivoprincipale, delle analisi strutturali che vengono condotte in demografia èespresso da questa esigenza di sintetizzare, senza distorsione, l’eteroge-neità interna della popolazione.

2. Analisi strutturali: finalità delle ricerche

Sono almeno due le finalità con le quali si può intraprendere lo stu-dio delle caratteristiche strutturali di una popolazione, sebbene la di-stinzione risponda molto più a un’esigenza di chiarezza espositiva che

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a una reale dicotomia: una finalità descrittiva e una investigativa o inter-pretativa.

Nel primo caso, l’analisi dà conto della dimensione demografica (insenso assoluto e/o relativo) dei gruppi di individui accomunati, in undato momento, dalla stessa modalità (o combinazione di modalità) diuna variabile (o di più variabili), qualitativa o quantitativa, assunta comevariabile di stratificazione. Il confronto con situazioni precedenti ocon altre popolazioni reali o teoriche viene utilizzato per formulare giudi-zi comparativi sulla maggiore o minore presenza dei diversi gruppi omoge-nei, eventualmente valutandone le cause e le possibili conseguenze.

La differenza tra questi studi e quelli che vengono condotti con fina-lità interpretative è spesso molto sfumata. La distinzione può farsi — ecomunque sempre in modo molto approssimativo — solo a posteriori, ba-sandosi sul peso relativo della parte descrittiva e di quella interpretativa,sulla maggiore o minore importanza che lo studioso tende a dare ai dueaspetti, sull’esplicitazione di un quadro concettuale che consenta di inter-pretare i risultati, sulla congruenza tra tale quadro concettuale e i datistatistici di base.

C’è inoltre un altro aspetto che conviene tener presente per meglioorizzontarsi nell’ampio insieme degli studi che trattano, in modo direttoo indiretto, delle strutture di popolazione. Queste, infatti, sono oggettodi analisi in almeno due modi diversi: da un lato, esse vengono assuntecome «variabili dipendenti», cioè in quanto caratteristiche da spiegaresulla base della dinamica demografica passata (Preston e Code, 1982;Caselli e Vallin, 1989; Wunsch, 1988; Horiuchi, 1988; Horiuchi ePreston, 1988; solo per fare alcuni esempi relativi all’analisi della strutturaper età della popolazione alla quale viene dedicato, comunque, unparagrafo specifico); dall’altro, vengono assunte come importanti pre-supposti della dinamica futura della popolazione. E infatti la combina-zione delle differenze di comportamento dei diversi gruppi e del loropeso differenziale a produrre la dinamica complessiva della popolazionee, molto spesso, una piccola differenza applicata a gruppi di consistenzademografica diversa, e variabile nel tempo, produce effetti consistentisul comportamento medio della popolazione. Così, ad esempio, il rischiomedio della popolazione di subire un determinato evento (pensiamo, adesempio, alla morte) può diminuire a seguito di due fenomeni: la ridu-zione del maggior rischio specifico che colpisce particolari gruppi di po-polazione e/o la riduzione della dimensione demografica del gruppo odei gruppi esposti al maggior rischio. Entrambi questi fattori hanno avutouna rilevanza notevole nel determinare l’evoluzione positiva della mor-talità che si è verificata in tutti i paesi sviluppati nel corso del tempo;

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un’attenta valutazione del ruolo specifico giocato da ognuno di essi for-nisce elementi sia per costruire un quadro teorico di riferimento più ade-guato all’interpretazione, sia per finalizzare meglio gli interventi di po-litica sociale (ad esempio, per il ruolo giocato sulla dinamica della mor-talità infantile dalle variazioni della struttura delle nascite: Pinnelli, 1983;1984; Dinh, 1990; sulla supermortalità maschile dalla struttura per cau-sa della mortalità nei due sessi: Vallin, 1983; Egidi, 1984).

Gli studi che si basano sulla conoscenza e utilizzazione delle struttu-re demografiche come elemento di valutazione della dinamica sono moltonumerosi. Una categoria importante è rappresentata da quelli che si fon-dano su un’ottica di scissione degli effetti della componente dinamicae della componente strutturale secondo una logica di standardizzazione(per indicazioni sui metodi di scissione si vedano Kitagawa, 1955; DasGupta, 1978; Zannella, 1984; Hoem, 1987; Coppi e Raccioppi, 1989).

Un altro filone si basa, per contro, su un concetto più ampio e menodefinito di eterogeneità tra gli individui, che non prevede necessaria-mente la conoscenza della composizione della popolazione rispetto al ca-rattere che si ritiene determini le differenziazioni. In realtà, si trattadel proseguimento, che negli ultimi anni ha trovato un nuovo slancio,di un filone di studi che ha da sempre caratterizzato la demografia: l’a-nalisi degli effetti dei processi di selezione e contro-selezione che modi-ficano nel tempo il grado di eterogeneità della popolazione, o di un suogruppo costituente (soprattutto una generazione di individui nati nellostesso anno di calendario), condizionandone la dinamica (Mortara, 1912;Gini, 1914; Livi Bacci, 1962; Keyfitz, 1968; Heckman e Singer, 1982;Caselli, 1988). Nell’analisi della mortalità, l’introduzione dell’eteroge-neità tra individui, indotta da una « fragilità differenziale» che condi-zionerebbe il rischio di morte individuale (ma anche di insorgenza diuna malattia e così via), ha consentito di evidenziare alcuni interessantirisultati e ha fornito una chiave di lettura di alcuni andamenti e di alcu-ni differenziali che apparirebbero altrimenti paradossali: come può lasperanza di vita di una popolazione diminuire a seguito dell’eliminazio-ne di una causa di morte? Com’è possibile che una popolazione accusiun livello di mortalità maggiore di un’altra sebbene i suoi rischi indivi-duali di morte siano minori? (Vaupel et al., 1979; Manton et al., 1981;Vaupel e Yashin, 1985; Yashin et al., 1985; Caselli e Capocaccia, 1989;Wilmuth e Caselli, 1987).

Sempre in presenza di un’eterogeneità non direttamente misurabilee, quindi, di una stratificazione non nota della popolazione rispetto auno o più caratteri che si ritengono rilevanti (e per i quali si disponesoltanto di variabili-indicatore), merita una particolare attenzione una

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proposta metodologica nuova, grazie alle possibili applicazioni allo studiodei comportamenti demografici. Si tratta dei modelli strutturali con varia-bili latenti (ad esempio, Lisrel-Linear Structural Relationships), che vanta giàconcrete e incoraggianti applicazioni soprattutto nelle scienze economiche(per un’introduzione a questi modelli si veda Trivellato, 1990).

Senza addentrarsi nella complessità degli aspetti analitici, è forse op-portuno richiamare l’attenzione su alcune idee portanti e su alcune pos-sibilità di applicazione di questi modelli. Nati nell’ambito delle proble-matiche del trattamento degli errori che affettano le variabili sottopostea rilevazione (errori nelle variabili, variabili latenti, variabili di aspettativa),i modelli strutturali con variabili latenti riconoscono esplicitamente lanecessità di superare l’ottica deterministica che fino a pochi anni fa hamonopolizzato la ricerca empirica, integrando al loro interno dellecomponenti stocastiche. Essi possono distinguersi in due grandi classi,ciascuna delle quali passibile di avere interessanti potenzialità diutilizzazione nel campo demografico.

Una prima classe prevede modelli che al loro interno combinano un«modello di comportamento», che pone in relazione un insieme di va-riabili latenti (generalmente con sistemi di equazioni simultanee, o co-munque di tipo regressivo), con un «modello di osservazione», che espri-me le stesse variabili latenti in relazione a un insieme di variabili osser-vate che si riconoscono affette da errore (variabili-indicatore). Gran partedei modelli che sono stati proposti e utilizzati (per un’ampia rassegnacritica si veda ancora Trivellato, 1990) presenta un indubbio interesseper le analisi demografiche: si pensi, ad esempio, all’«analisi fattorialeconfermativa» per la valutazione della qualità e della pertinenza dellemisure tratte da indagini; o al modello Mimic (Multiple Indicators andMultiple Causes), utilizzato per studiare le relazioni tra comportamentisociali e «status socio-economico» dell’individuo e che potrebbe costi-tuire uno strumento metodologico utile all’interpretazione del compor-tamento riproduttivo in relazione alla condizione socio-economica delladonna (per fare un esempio tra i più intuitivi); o al «sistema ricorsivocon variabili latenti e molteplici indicatori» che vanta interessanti ap-plicazioni nell’ambito del trattamento dei dati longitudinali.

Anche la seconda classe di modelli strutturali stocastici, quella cuiappartengono i modelli che si basano sull’utilizzazione di serie tempo-rali multivariate e si caratterizzano per la loro struttura dinamica, rive-ste un potenziale interesse per la demografia in quanto consente di con-trollare i problemi derivanti dalla dipendenza temporale del processogeneratore dei dati. Alcuni modelli (ad esempio il «sistema di equazioni

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simultanee dinamiche con errori nei dati provvisori») possono essere util-mente applicati in ambito previsivo e consentono con diversi metodi di«filtraggio» (ad esempio il filtro di Kalman) di stimare con sufficienteprecisione i valori futuri delle serie.

Molto si sta lavorando in questi anni per migliorare tali modelli erenderli sempre più adatti all’analisi sociale. Importanti sviluppi si pos-sono prevedere con la rimozione di quella che rappresenta una delle lo-ro limitazioni maggiori: la necessità che, almeno approssimativamente,le variabili considerate nel modello siano continue e le relazioni lineari.Significativi progressi si stanno compiendo sia nella direzione di elabo-rare modelli a scelte discrete (e sono discrete scelte quali il matrimonio,la nascita di un figlio, il cambio di residenza), sia in quella di considerarescelte discrete e tempi continui (e sono di questo tipo le funzioni dirischio utilizzate per analizzare i dati di durata, utili soprattutto per glistudi della sopravvivenza).

Ma ritorniamo all’impatto delle strutture di popolazione (suppostenote) sulla dinamica demografica. C’è un ultimo aspetto sul quale è benesoffermarsi ancora un momento: il fatto che tali strutture possonoesercitare, oltre a quella diretta, anche un’influenza di natura indirettasul comportamento demografico. Le caratteristiche strutturali della po-polazione, costituendo uno degli elementi del contesto nel quale l’indi-viduo vive e prende le sue decisioni, possono infatti rappresentare unelemento condizionante delle scelte individuali — anche demografiche— nient’affatto trascurabile. E questo un approccio allo studio dell’in-fluenza della struttura sulla dinamica demografica (ma anche sociale edeconomica) che ha dato luogo a interessanti ipotesi di lavoro. Un esem-pio tra i più rilevanti è costituito dalla teoria avanzata da Easterlin perinterpretare la dinamica della fecondità e il baby-boom degli anni ses-santa (Easterlin, 1969; Bielli, 1983). Più recentemente, questi aspettistanno imponendosi all’attenzione nell’ambito degli studi sulle conse-guenze dirette e indirette dell’invecchiamento della popolazione (Mu-scetta, 1988; Hoffman-Nowotny, 1982; Manton, 1982).

Le due finalità, quella che spiega le caratteristiche strutturali come ri-sultanti della dinamica e quella che le assume tra le determinanti di que-sta, vengono spesso ricomposte all’interno di modelli di interrelazioneche, avvalendosi degli strumenti messi a disposizione dal calcolo auto-matico, simulano (in modo determistico o stocastico, micro o macro) ilcomportamento demografico di una popolazione e le modificazionistrutturali che questa subisce nel corso del tempo (Land e Rogers, 1982;Keilman et aL, 1988; Bertino et al., 1988; Egidi e Tomassetti,1988).

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3. Quali strutture per le analisi di popolazione

Essendo l’uomo e il suo comportamento una sintesi di elementibiologici e sociali, negli studi demografici entra in gioco una gammavastissima di caratteri di stratificazione: caratteri biologici (quali l’età),genetici (quali il sesso o il gruppo sanguigno), antropometrici (qualil’altezza, il peso e il loro rapporto), sociali (quali il livello di istruzione,la condizione familiare e abitativa), economici (quali la professione ela condizione economica), sanitari (quali la condizione di salute e lapresenza di particolari handicap); solo per menzionarne alcuni tra i piùricorrenti.

Per avere un’idea del tipo di variabili che vengono più spesso utiliz-zate, si può fare riferimento ai censimenti, che costituiscono la fonteclassica delle informazioni sulle caratteristiche degli individui in un datomomento. Ormai lungamente selezionate dall’esperienza, le informazioniche si richiedono sono relative a sesso, età, stato civile, luogo di nascita,residenza, istruzione, condizione lavorativa, condizione abitativa,relazione di parentela con gli altri componenti dell’unità familiare e cosìvia. Tutte informazioni che l’individuo può fornire autonomamente,rispondendo a un questionario relativamente semplice, senza che la suasensibilità ne venga urtata. Tra i vantaggi più importanti dell’utilizza-zione di queste variabili per la stratificazione della popolazione — e chespesso bilanciano i notevoli inconvenienti rappresentati dalla genericitàdelle informazioni richieste — è da considerare che gli eventi demograficisono spesso specificati proprio in relazione a tali variabili. Questo rendepossibile la costruzione di misure relative e, eventualmente, il collega-mento tra i dati delle statistiche di stato e quelle di flusso (linkage; Pin-nelli, 1984; Cariani, 1989; Cislaghi, 1990). Inoltre, molte di queste va-riabili (soprattutto il sesso, l’età, lo stato civile, il livello di istruzione)sono sistematicamente rilevate anche nelle indagini campionarie che, concadenza diversa e più ravvicinata rispetto ai censimenti, vengono con-dotte su vari fenomeni rilevanti (ad esempio, l’indagine trimestrale sulleforze di lavoro). Un più deciso sforzo di integrazione delle diverse, eormai molto numerose, indagini condotte in Italia consentirebbe (Kish eVerma, 1986; Colombo, 1987) di disporre anche per il nostro paese diun più razionale ed efficiente sistema di monitoraggio delle principalicaratteristiche della popolazione. In questa direzione si è mosso l’Istat,che ha predisposto per il censimento del 1991 un insieme di proceduree modelli di integrazione (Masselli e Venturi, 1990).

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L’indagine multiscopo sulle famiglie che, a partire dal 1987, ha rac-colto diverse indagini campionarie settoriali condotte precedentemente(letture, vacanze, salute, strutture e comportamenti familiari), costitui-sce un esempio delle potenzialità offerte da una rilevazione che, pur mi-rata a raccogliere informazioni approfondite su temi particolari, riescea collocarle in un quadro di riferimento generale che ne arricchisce no-tevolmente il significato. La complessa procedura di rilevazione, che siarticola su sei cicli — ciascuno dedicato a uno specifico argomento e conuna durata di rilevazione di sei mesi (un particolare ciclo viene quindiriproposto ogni tre anni; Roveri, 1990) —, prevede un gruppo di quesiticomuni di notevolissima importanza per gli studi demografici: sesso, età,stato civile, istruzione, condizione professionale, struttura familiare (se-condo la più attuale definizione di «famiglia di fatto»), condizione abi-tativa, condizione di salute, eventuale presenza di condizioni di incapa-cità fisica. Un insieme di caratteri che consentono di ricostruire le ca-ratteristiche demografiche salienti della popolazione e seguirne le modi-ficazioni in modo tempestivo. Alcuni cicli specifici, inoltre, e in parti-colare quello dedicato alle condizioni di salute della popolazione e al ri-corso ai servizi sanitari (quarto ciclo) e alle strutture familiari (secondociclo), offrono informazioni e delineano strutture non altrimenti dispo-nibili. Ad esempio, la composizione della popolazione secondo Io statodi salute percepito, la diffusione di malattie croniche e degenerative odi particolari handicap (Istat, 1986; Egidi, 1988); la condizione deglianziani (stato di salute, condizione familiare e reti di solidarietà); strut-tura delle famiglie di fatto (Istat, 1985; Roveri, 1986); struttura delledonne secondo il numero di figli e così via.

Un’altra necessità che si imporrà con crescente forza negli anni a ve-nire sarà quella di un coordinamento teso a rendere comparabili e inte-grabili le informazioni demografiche relative ai diversi paesi europei esoprattutto a quelli appartenenti alla Comunità europea. Un esempioche dovrebbe essere seguito con determinazione è rappresentato dall’in-dagine armonizzata sulle forze di lavoro coordinata annualmente dal-l’Ufficio statistico delle Comunità europee. Altre caratteristiche dellapopolazione, e particolarmente quelle relative alle strutture familiari eallo stato di salute, meriterebbero un analogo impegno. Un importantelavoro di omogeneizzazione delle definizioni e dei metodi di rilevazionesarebbe senz’altro necessario per rendere comparabili le indagini che ven-gono attualmente condotte su questi temi in molti paesi; l’arricchimen-to conoscitivo che se ne avrebbe sarebbe di tale spessore da ripagareampiamente gli sforzi.

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4. La struttura per sesso

L’insieme dei caratteri che, separatamente o congiuntamente, ven-gono assunti come «ordinatori» o «stratificatoci» della popolazione ne-gli studi demografici è, come si è visto, molto ampio ed estremamentediversificato. Almeno due caratteri ricorrono però in qualsiasi tratta-zione. Si tratta del sesso e dell’età (si vedano ad esempio Shryock et al.,1976; Federici, 1979; Livi Bacci, 1990; IRP, 1988).

Il sesso è uno degli elementi fondamentali di differenziazione del com-portamento umano; si tratti di comportamenti che affondano le loro ra-dici nella biologia, per i quali il sesso svolge un ruolo determinante (pen-siamo al processo riproduttivo), o che si tratti di comportamenti sociali(per i quali esso diviene indicatore di un diverso retaggio culturale ededucativo e di un diverso stile di vita), l’essere uomo o donna rappre-senta un «marcatore» che informa di sé gran parte dell’esperienza e delcomportamento individuale.

L’equilibrio strutturale tra le due componenti del genere umano èil necessario presupposto dello sviluppo demografico e la sua mancanzapuò essere tanto negativa da pregiudicare la stessa esistenza del gruppo;un presupposto tanto importante che la stessa biologia sembra scenderein campo per cercare di garantirlo. È noto lo squilibrio dei sessi alla na-scita, che porta a un rapporto di circa 106/100 tra le nascite di sessomaschile e quelle di sesso femminile e che consente di bilanciare, alme-no nella prima fase della vita e fino alle età riproduttive, la maggioremortalità del primo rispetto al secondo. In condizioni normali (in assen-za, cioè, di eventi straordinari quali potrebbero essere guerre, imponentiflussi migratori fortemente selezionati per sesso e così via), la strutturaper sesso si presenta abbastanza equilibrata e relativamente poco variabile.Sono queste probabilmente le ragioni che hanno fatto trascurare,almeno come oggetto autonomo di studio, questa struttura, sebbenel’informazione sul sesso costituisca un elemento di differenziazione sem-pre presente negli studi demografici.

Un’eccezione importante è rappresentata dagli studi sulla nuzialità,che assumono gli eventuali squilibri tra la componente maschile e fem-minile della popolazione tra le cause rilevanti, non solo dell’intensitàdella nuzialità (Henry, 1969a; de Saboulin, 1985) ma anche, e soprat-tutto, delle sue caratteristiche per età (Henry, 1969b; Schoen, 1983)e che ne valutano gli effetti nell’ambito della costruzione di modelli dinuzialità a due sessi (Pollard, 1977; Keilman, 1985).

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Più distanziati nel tempo, essendo soprattutto collocati nel periodoin cui l’Italia era attraversata da intensi movimenti di popolazione, glistudi che centrano il loro interesse sulle conseguenze strutturali (la com-posizione per sesso è sempre trattata in congiunzione con la struttura peretà) delle migrazioni (Golini, 1964; Ciucci, 1971; Santini, 1974; Caselli,1975); un tema sul quale si tornerà senz’altro a discutere a seguito dellarecente inversione di tendenza delle correnti migratorie che vede il no-stro paese meta di un notevole afflusso di popolazione proveniente daipaesi meno sviluppati. Le notizie riguardanti gli immigrati sono però neiprimi anni novanta troppo scarse per consentire approfondite analisi.

Un elemento di novità negli ultimi anni é rappresentato invece dalleconseguenze, proprio sulla struttura per sesso, del fenomeno dell’invecchia-mento demografico delle popolazioni sviluppate. La crescente presenza dianziani e il persistente svantaggio maschile nei confronti della mortalitàhanno infatti determinato un processo di «femminilizzazione» della po-polazione che non manca, e non mancherà nel futuro, di condizionare no-tevolmente lo stile di vita (si pensi agli effetti sulle strutture familiari) e icomportamenti, così come imporrà specifici interventi di politica socialeed economica. Un insieme di problemi che hanno ridato vigore agli studisulla struttura per sesso della popolazione, spesso arricchita con altri ele-menti relativi, ad esempio, alla condizione familiare e/o abitativa, alla re-te di relazioni di parentela, alla condizione di salute e così via (Pinnelli,1986; Wolf e Pinnelli, 1989; Egidi, 1990; Oberg, 1990).

5. La struttura per età

L’età costituisce una variabile-cardine degli studi demografici. Essainfluenza infatti tutti quei comportamenti che hanno un fondamentobiologico (il processo riproduttivo, l’invecchiamento, la malattia, la morte)e, in modo più mediato ma sempre rilevante, i comportamenti sociali(tra quelli più rilevanti per la demografia: nuzialità, divorzialità, migra-torietà) ed economici (appartenenza alle forze di lavoro, consumi,, rispar-mio e così via). E quindi ovvio che essa rappresenti, accanto al sesso,la principale variabile di stratificazione della popolazione.

A seconda della finalità della ricerca e della disponibilità dei dati sta-tistici, viene specificato un dettaglio delle età adeguato; si costruisconotabelle che riportano la dimensione demografica (assoluta o percentuale)dei gruppi di individui accomunati dalla stessa età; si disegnano graficiadatti a evidenziare dimensioni e profili (ad esempio la piramide delle

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età) e si elaborano indici in grado di sintetizzare le caratteristiche sa-lienti della composizione per età della popolazione (composizione percen-tuale, indice di vecchiaia, indice di dipendenza strutturale e così via); even-tualmente, si studiano i comportamenti differenziali per età rispetto adalcuni fenomeni demografici (mortalità per età, fecondità per età, nuzialitàper età e così via). Sono quasi sempre questi i primi passi della conoscenzadi una popolazione e gli elementi che entrano in gioco per caratterizzarnegli aspetti statici e dinamici rispetto ad altre popolazioni.

Senza soffermarsi sulle procedure standard seguite nello studio dellastruttura per età, ampiamente illustrate in ogni manuale di demografia (Fe-derici, 1979; Blangiardo, 1987; Livi Bacci, 1990; Di Comite e Chiassino,1990; Santini, 1990; per citarne alcuni recenti), sembra utile piuttosto con-centrare l’attenzione su un corpo di ricerche che si stanno sviluppando,soprattutto negli ultimi anni, sull’onda delle importanti implicazioni sociali,economiche e demografiche dell’invecchiamento delle popolazioni dellesocietà sviluppate, e attirare l’attenzione su alcuni problemi di definizionedella variabile età che spesso non vengono posti sufficientemente in luce eche, al contrario, condizionano pesantemente i risultati e le valutazioni.

5.1. L’invecchiamento della popolazione

È senz’altro l’invecchiamento demografico il fenomeno strutturalepiù importante verificatosi, in Italia come negli altri paesi sviluppati,in quest’ultimo scorcio di millennio. Una trasformazione che non si èesitato a definire con incisive e fantasiose espressioni: «rivoluzione gri-gia», si è detto, a significare il rapido aumento, carico di conseguenzeeconomiche, sociali e culturali (oltre che demografiche), della quota dipopolazione anziana (di età superiore ai 60, 65 o 75 anni, a seconda de-gli studi). Non c’è dubbio che questa sia stata una trasformazione trale più annunciate. I suoi presupposti erano già da lunghi anni inscrittinella dinamica demografica e tutte le previsioni di popolazione effet-tuate nel dopoguerra, con toni sempre più preoccupati con il passare deltempo e il radicalizzarsi di alcune tendenze (il crollo senza precedentidella fecondità, soprattutto), ne preannunciavano l’avvento, mentre gliorganismi internazionali promuovevano studi, formulavano raccoman-dazioni e incoraggiavano la predisposizione di misure adeguate a fron-teggiare i nuovi problemi (Nazioni Unite, 1956; 1985; 1988; Consigliod’Europa, 1982; World Health Organization, 1984). I demografi hannodedicato alla descrizione delle dimensioni quantitative e qualitativedell’invecchiamento, all’individuazione delle sue determinanti demogra-

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fiche e alla valutazione del suo impatto, un gran numero di studi (inItalia Livi Bacci, 1980a; 1980b; Somogyi, 1980; 1985; per segnalarnealcuni tra i primi) i cui risultati avrebbero potuto costituire un puntodi partenza prezioso per predisporre per tempo strutture (socio-sanitarie,abitative e così via) e interventi di politica sociale e previdenziale cheavrebbero permesso di assorbire meno traumaticamente le trasformazioni.

Nel 1986 l’Istituto di ricerche sulla popolazione (IRP), del CNR, orga-nizzò a Roma la prima giornata di studio sui problemi dell’invecchiamen-to, che consentì un’utile riflessione comune sulle tendenze in atto, sulleloro prospettive future e sul loro impatto sociale ed economico (IRP, 1987).Solo pochi mesi prima, in occasione della Chaire Quételet 1986, un ana-logo confronto di problematiche e metodi di analisi aveva raccolto i de-mografi provenienti da vari paesi europei e aveva toccato tutti gli a-spetti più importanti del problema (da quelli demografici a quelli biologicie sanitari, da quelli sociali a quelli economici, culturali e politici, conun’importante sessione dedicata ai problemi metodologici). Ciononostante,poco o nulla di questo contributo si è trasferito dall’ambito scientifico aisettori decisionali della società e l’immagine attuale, non solo in Italiadel resto, è quella di una rincorsa alla soluzione di problemi che rischia-no ormai di divenire ingovernabili: si pensi alle strutture sanitarie, al siste-ma di solidarietà sociale rappresentato dalle pensioni di vecchiaia, aiproblemi dell’assistenza agli anziani e così via.

Un filone molto promettente di studi, ispirato soprattutto dai crescentiproblemi che il fenomeno pone in termini di costi e di possibilità di so-pravvivenza del welfare-state, si concentra sulla valutazione dell’impattoeconomico dell’invecchiamento demografico. Esso viene sviluppato siadai demografi (Blanchet, 1986; 1988; van Poppel e van des Wijst, 1987;Tapinos, 1988; Blanchet e Kessler, 1990; in Italia: Livi Bacci, 1980b;Golini e Ascolani, 1982; Vitali, 1982; 1987a; 1988; Petrioli, 1988; Righi,1989; 1990; de Sarno Prignano e Natale, 1990) sia dagli economisti(International Monetary Found, 1986; Clark, 1987; von Weízsacker,1988; Ermish, 1989; in Italia: Bruni, 1984; Fuà, 1986; Cigno, 1989; Alvaroet al., 1989; e per gli aspetti di economia sanitaria, Hanau et al., 1987), espesso in proficua collaborazione. Alcuni aspetti, soprattutto inerenti alleconseguenze dell’invecchiamento sul sistema pensionistico e sul sistemadella sicurezza sociale, vedono anche un notevole e molto positivoimpegno degli attuari (Coppini, 1978; 1988; Inps, 1987; 1989). Sonoquesti i campi di ricerca che necessitano senz’altro di ulteriori ap-profondimenti e di una più stretta collaborazione tra gli studiosi dellediverse aree implicate. Non di rado, infatti, la mancata integrazione traesperienze e competenze diverse porta a risultati scarsamente utili sul

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piano operativo: i demografi e gli economisti tendono, ad esempio, asottovalutare il ruolo di mediazione giocato dal sistema normativo suicosti previdenziali, giungendo a valutazioni che portano a esaltare l’im-portanza della componente demografica (Gonnot, 1990); gli attuaci ten-dono, per contro, ad assumere la componente demografica, soprattuttoper la parte riguardante i contribuenti dei fondi pensione, indipendentedalla dinamica demografica ed economica prevista per i prossimi annie, quindi, a svalutarne il ruolo. È certo comunque che in Italia la sensi-bilità rispetto a questi problemi è enormemente cresciuta negli ultimianni, tanto da riconoscere la provocatorietà di alcune proposte che sonostate avanzate per tentare di risolvere il deficit del sistema della sicu-rezza sociale ristabilendo un legame diretto tra diritto alla pensione ecomportamento riproduttivo. Un’ipotesi che, prevedendo la penalizza-zione, fino alla privazione del diritto alla pensione degli individui chenon avessero assolto in gioventù al debito sociale di aver fatto un nume-ro adeguato di figli, consentirebbe, almeno nella mente dei proponenti,di alleggerire nel breve periodo i costi previdenziali e di incentivare, nelmedio e lungo periodo, la fecondità (Demeny, 1987).

5.2. Gli effetti delle componenti della dinamica demografica sull’invecchiamentodella popolazione

«Per molti anni i demografi si sono sforzati di spiegare che la respon-sabilità principale dell’invecchiamento demografico era da attribuire al-l’abbassamento della fecondità. Ci sono riusciti così bene che oggi i di-scorsi sulle conseguenze della ripresa della diminuzione della natalità ten-dono a nascondere il ruolo, ormai molto reale e crescente, dell’evoluzio-ne della mortalità». Queste parole, tratte da uno studio di Caselli e Val-lin (1989), riassumono in modo molto incisivo il senso dei più recentirisultati sulla dipendenza della struttura per età della popolazione, e quindidell’invecchiamento demografico, dalla dinamica pregressa. La riduzio-ne della mortalità, che negli ultimi anni è stata forte soprattutto nelleetà adulte e senili, e i livelli ormai molto contenuti della mortalità nelleetà infantili e giovanili (che, come si sa, agiva nelle prime fasi della tran-sizione demografica come fattore di ringiovanimento della popolazio-ne), stanno facendo emergere il ruolo centrale dell’allungamento dellasopravvivenza come fattore esplicativo dell’invecchiamento della popo-lazione (l’invecchiamento dall’alto della piramide delle età, come vienechiamato; Brouard, 1986). Un ruolo che, sulla base delle previsioni ef-fettuate, tenderà a divenire sempre più esclusivo nel futuro, qualunque

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sia l’evoluzione della fecondità e anche adottando ipotesi molto pru-denti sull’evoluzione futura della mortalità.

Gli scenari demografici che si possono disegnare per il futuro concor-dano quindi nel denunciare la sostanziale irreversibilità dell’invecchia-mento demografico. Nessuna panacea potrà invertire le tendenze che sisono affermate: né una ripresa della fecondità, quanto mai improbabile allostato attuale, almeno nelle dimensioni che sarebbero necessarie (Keyfitz,1986), né — e questo è un aspetto che farà molto discutere nei prossimianni e al quale sarà necessario dedicare più accurate ricerche — l’apportodi flussi migratori provenienti da altri paesi che consentirebbero, anchequalora assumessero proporzioni ben più rilevanti di quelle attuali, di al-leggerire solo per qualche lustro la pressione demografica esercitata dallaquota crescente di anziani sulla sempre più esigua popolazione in etàlavorativa (Holm, 1988).

5.3. Età: intuitività e motivi di riflessione

Le valutazioni che correntemente vengono effettuate sul fenomenodell’invecchiamento poggiano su un concetto di età che, se ha il grandevantaggio dell’estrema semplicità e intuitività, rischia ormai di non rispon-dere più all’esigenza di una corretta valutazione delle caratteristiche strut-turali della popolazione e delle implicazioni delle modificazioni in corso. Aprima vista, è estremamente semplice dare una definizione univoca di età;in effetti, almeno nelle società sviluppate, abituate ormai da tempo a man-tenere memoria delle date salienti che punteggiano le storie di vita indivi-duale, la data di nascita costituisce, oltre al sesso, un altro importante «mar-catore» individuale. Diviene quindi automatico — assumendo l’evento na-scita come «evento origine» della linea di vita — determinare l’età dell’in-dividuo eguagliandola alla lunghezza dell’intervallo di tempo che separa ilmomento della nascita da quello della rilevazione. Fatti salvi eventuali er-rori di rilevazione, che su questo fenomeno divengono tuttavia sempremeno importanti, sembrerebbe questa una variabile certa e tale da non da-re luogo ad alcuna complicazione. Ed è sicuramente così quando l’età ven-ga definita e assunta nel suo significato strettamente cronologico.

I problemi sorgono quando si utilizza l’età per segmentare le storiedi vita individuali, fatto che avviene normalmente negli studi sull’invec-chiamento e sulle sue conseguenze sociali ed economiche. Si attribuiscein questi casi all’età, anche se spesso implicitamente e, quel che èpeggio, inconsciamente, un significato di indicatore indiretto di unaserie di condizioni (problematiche, nel caso degli anziani) che dovreb-

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bero accomunare tutti gli individui della stessa fascia di età: precariecondizioni di salute fino alla mancanza di autonomia, precarie condi-zioni economiche, frequente isolamento sociale, sono le caratteristicheche vengono automaticamente evocate dal termine «anziano».

È evidente che, affinché l’età cronologica possa essere correttamenteassunta a rappresentare queste potenziali situazioni, dovrebbe essere accettabilel’ipotesi su cui implicitamente si basa: che il trascorrere del tempo abbialo stesso significato e comporti le stesse conseguenze sulle storie di vita —in senso di sviluppo e, eventualmente, regresso delle potenzialità bio-fisio-logiche e mentali degli individui — in qualsiasi epoca, in ogni contesto eper tutti gli individui. In altri termini, che l’invecchiamento individualesegua modalità e cadenze universali e costanti nel tempo. Un’ipotesi estre-mamente rigida che si dimostra del tutto inadeguata soprattutto in pe-riodi storici segnati da profondi cambiamenti e da una notevolissimavarietà di contesti e condizioni individuali come quelli che caratterizzanole moderne società sviluppate (Livi Bacci, 1982; 1987; Egidi, 1987).

Dalla seconda metà degli anni ottanta sono stati dedicati numerosistudi allo sviluppo della relatività del concetto di età in conseguenza delladiverse velocità e modalità dell’invecchiamento individuale. Ponendoin ciascun ambito disciplinare l’accento su aspetti specifici, si stanno in-fatti svolgendo approfondite ricerche tese a spiegare i meccanismi del-l’invecchiamento e i loro possibili legami con l’età cronologica. Così, ibiologi sono alla ricerca dei processi fisici che determinano l’invecchia-mento dell’organismo e perfezionano il concetto di «età bio-fisiologica»;gli psicologi esplorano il modo in cui le capacità individuali variano nelcorso della vita e tra generazioni successive, studiando le relazioni — bi-direzionali — tra le modificazioni di tali capacità e le reazioni psicologi-che ad esse, sviluppando il concetto di «età psico-emotiva»; i sociologistudiano i meccanismi e i processi che modificano il modo in cui ciascunindividuo è percepito dalla società in cui vive (come un giovane, un adulto,un anziano) e come questi diversi modi di essere riconosciuti, che deter-minano l’evoluzione dell’« età sociale» dell’individuo, producano effettisulla sua integrazione sociale e sul suo modo di percepirsi e rapportarsiagli altri. I demografi si stanno interessando alla possibilità di identificaredegli indicatori dinamici di invecchiamento che tengano conto delle mutatecondizioni di sopravvivenza delle popolazioni (il «potenziale» di vita) ingrado di sostituire adeguatamente le soglie fisse attualmente utilizzate perclassificare la popolazione secondo l’età (Ryder, 1975; Manton, 1982,Bourgeois-Pichat, 1985; Livi Bacci, 1987; Egidi, 1987; 1990; Laslett, 1987;Maisano, 1989).

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In tutti, e certamente non solo in ambito scientifico, è ormai benchiara la necessità del superamento della visione statica suggerita dall’etàcronologica. Il bilancio delle conoscenze sul processo di invecchiamentoè però ancora insoddisfacente e mancano indicazioni operative che tra-scendano i limiti degli specifici approcci settoriali; manca cioè un’indica-zione chiara e universalmente accettata di come compendiare in un u-nico indicatore le diverse «età» che caratterizzano l’individuo (biologica,psico-emotica, sociale e così via). Un indicatore che, in più, possa agevol-mente essere sottoposto a una rilevazione statistica ed essere utilizzatoper stratificare la popolazione.

Solo su un aspetto, comunque, sembrano al momento tutti concor-dare e si potrebbe partire da questo per limitare gli inconvenienti di unavisione statica dell’invecchiamento: qualsiasi sia il meccanismo biologi-co (o genetico) alla radice del processo, le condizioni esterne in cui è in-serito, le sue esperienze di vita e il modo in cui queste vengono da lui e-laborate, non sono indifferenti per le modalità e i ritmi del suo invec-chiamento. Seppure nel rispetto della traiettoria che prevede l’universa-lità dell’esperienza, l’invecchiamento non segue quindi tempi e ritmi as-soluti, ma relativi e variabili in funzione della situazione sociale, econo-mica, culturale e sanitaria in cui l’individuo ha trascorso la sua vita e infunzione del modo in cui si è rapportato a questa. Una corretta valu-tazione dell’intensità dell’invecchiamento demografico, soprattuttoquando se ne voglia quantificare l’impatto sociale ed economico, non do-vrebbe quindi prescindere dalla considerazione delle profonde trasforma-zioni che si sono determinate in questi anni e che hanno completamen-te modificato i modi e i contenuti dell’essere «anziano» oggi.

In più, la crescente complessità sociale ha fatto perdere significatoall’indicatore età-cronologica anche come elemento di classificazione dellapopolazione. Le indagini mirate ad approfondire gli aspetti qualitatividenunciano, infatti, la crescente impossibilità di considerare simili degliindividui solo per il fatto di essere coetanei, data l’estrema varietà disituazioni che possono caratterizzarli. E proprio nella valutazione diqueste diversità e delle loro implicazioni che la ricerca dovrebbe spin-gersi maggiormente nel prossimo futuro. Negli studi sugli anziani e sul-l’invecchiamento un tale indirizzo consentirebbe anche, oltre all’indub-bio progresso conoscitivo, di mettere a disposizione gli strumenti ne-cessari per finalizzare meglio gli interventi di politica sociale, economi-ca e sanitaria alle reali necessità individuali. Sarebbe questo un preziosocontributo in vista dei crescenti vincoli finanziari che incontra la nostrasocietà che invecchia.

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6. Alcune altre strutture rilevanti per la demografia

6.1. La struttura per stato civile

La composizione della popolazione secondo lo stato civile costitui-sce un’informazione importante per le analisi del comportamento de-mografico in quanto numerosi fenomeni presentano sensibili differen-ziali in relazione al fatto che l’individuo sia celibe (o nubile), coniugato,vedovo, separato o divorziato. Si pensi all’impatto che questa strutturaesercita sulla fecondità, sulla mortalità, sulla migratorietà e, ancor piùdirettamente, su altre strutture di popolazione come, ad esempio, l’ag-gregazione degli individui in famiglie della quale la struttura per statocivile viene spesso assunta come indicatore indiretto.

Inoltre, vedendo la struttura per stato civile non come una causa macome un effetto, essa dipende strettamente da altre modificazioni strut-turali, in particolare dall’invecchiamento della popolazione e, di conse-guenza, sta subendo in questi anni modificazioni che meritano un’atten-ta considerazione.

Un ostacolo che si è tradizionalmente opposto alla piena utilizzazionenegli studi demografici di questa variabile strutturale è costituito dalla di-sponibilità dell’informazione analitica sullo stato civile della popolazionesolo in coincidenza dei censimenti; un ostacolo che si è tentato di superaremediante diversi tentativi di stima e seguendo due approcci diversi. Da unlato, utilizzando metodologie analoghe a quelle seguite nella periodica rico-struzione della popolazione per sesso ed età, si è proceduto a valutazionidella struttura per stato civile partendo dai dati censuari e aggiornandolicon i dati correnti relativi alle nascite, alle morti, ai matrimoni e a stime deisaldi migratori (Rossi, 1984; Castiglioni, 1989; Giorgi, 1990). Dall’altro, ela-borando modelli (deterministici o stocastici, micro o macro) in grado di ri-costruire la struttura per stato civile sulla base di probabilità di transizionetra stati diversi (Espenshade e Braun, 1982; Espenshade, 1985; Keilman,1985). Quest’ultimo approccio in particolare, pur essendo stato adattatoanche a trattare finalità di tipo operativo (ricostruzione, previsione), si pre-sta molto bene a finalità di tipo analitico, quali quella di evidenziare le strut-ture implicite a particolari regimi di nuzialità, mortalità e divorzialità attra-verso la simulazione della «storia di vita matrimoniale» di una generazionefittizia di donne (e/o di uomini) sottoposte a prefissate probabilità di subi-re gli eventi e ricostruendo la struttura per stato civile della corrispondentepopolazione stazionaria (che sarà di conseguenza caratterizzata non so-

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lo dalla costanza della struttura per età, ma anche di quella per stato ci-vile).

6.2. Famiglie e strutture familiari

La famiglia rappresenta il luogo privilegiato in cui l’individuo assumele sue decisioni, siano queste di natura demografica (la nascita di unfiglio, ad esempio), economica (entrare o meno nel mercato del lavoro,stabilire uno standard di consumi, risparmiare ed, eventualmente,investire e così via) o sociale (mantenere o cambiare la propria residen-za, ampliare o restringere la rete di relazioni interpersonali, impiegareil tempo libero in un modo piuttosto che in un altro, indirizzare i figliverso particolari iter formativi e così via). Sempre più si riconosce almicro-ambiente «famiglia» un ruolo centrale nel condizionare stili di vita,condizioni e comportamenti. In più, la famiglia costituisce da sempreun ambiente che garantisce la mediazione tra l’individuo e la società euna sorta di camera di compensazione delle più fondamentali esigenze,soggettive e oggettive, degli individui e, soprattutto, di quelli più deboli.Un ulteriore aspetto, non certo il meno importante, è rappresentato dalfatto che il tipo di struttura familiare in cui l’individuo è inseritorappresenta esso stesso il risultato di una scelta («forzata», si ironizzaa volte, facendo riferimento soprattutto alla crescente incidenza di per-sone anziane che vivono sole) e può quindi essere assunto come indica-tore degli atteggiamenti culturali prevalenti e delle loro modificazioni.

Sono quindi molteplici le ragioni che spingono verso una sempre piùapprofondita conoscenza dei meccanismi di aggregazione degli individuiin famiglie e delle modificazioni che questa «unità associativa elementare»subisce nel corso del tempo.

L’interesse che la demografia dedica al tema delle famiglie vanta unalunga tradizione (per un’ampia rassegna si veda Federici, 1984). Granparte dei comportamenti demografici trae infatti la sua origine, e spessola sua giustificazione, da questo contesto e ben difficilmente si possonointerpretare tali comportamenti se non facendovi espresso riferimento. Sipensi, a questo proposito, alle più recenti teorie interpretative dellafecondità come, ad esempio, la new home economics e quella del «contrattointergenerazionale» di Ryder (1984).

Problemi di definizione. Numerosissimi e complessi sono i problemi, diordine sia concettuale sia operativo, che si debbono affrontare nellostudio delle famiglie e delle loro caratteristiche strutturali; ciascuno diquesti è stato oggetto in Italia di numerosi contributi. In primo luogo

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c’è il problema di definire che cosa debba intendersi per «famiglia». Lepossibilità sono molteplici e variano in funzione dei criteri che vengonoadottati per definire il «contorno» (spaziale e/o funzionale) della fami-glia e le relazioni interne tra i membri (De Sandre, 1986).

Le due fondamentali rilevazioni dalle quali sono tratte le informazioniriguardanti le famiglie in Italia, il censimento e l’indagine Istat sulle strut-ture e i comportamenti familiari (condotta per la prima volta nel settem-bre 1983 e poi confluita nell’indagine multiscopo di cui si è detto prece-dentemente), adottano definizioni formalmente molto simili ma che por-tano a disegnare immagini della realtà significativamente diverse (per unapuntuale illustrazione delle definizioni di famiglia adottate nell’ambito deisuccessivi censimenti condotti dal 1861 al 1981 si veda Cortese, 1986; re-lativamente alla definizione e alla procedura di rilevazione adottati dall’in-dagine Istat, si veda Roveri, 1986). Molto sinteticamente, le differenze didefinizione possono essere ricondotte alla preminenza che nell’indagineviene attribuita al criterio della «coabitazione», e quindi all’identificazionedella famiglia come «unità residenziale», prescindendo dall’altro criterio a-dottato dal censimento di «unicità della funzione di consumo». Tali diffe-renze, comunque, non sarebbero in grado di giustificare da sole la diversavalutazione che le due fonti danno dell’«universo-famiglie». Per questo, sideve piuttosto fare riferimento alla particolare procedura di rilevazione a-dottata dall’indagine che prevede la mediazione e l’accertamento dei re-quisiti, da parte di un rilevatore che conduce attivamente l’intervista — fi-gura del tutto assente nel censimento — e che valuta la situazione «di fat-to» piuttosto che quella risultante in anagrafe (la famiglia «di carta») allaquale il censimento continua a mantenersi più legato.

Una volta adottata una definizione di famiglia, si procede alla consi-derazione delle relazioni tra i membri e all’identificazione di una tipo-logia strutturale che le descriva il più compiutamente possibile. Le rac-comandazioni che vengono formulate attualmente si orientano verso lanecessità di pervenire all’individuazione delle «unità familiari minime»— famiglie composte da una sola persona, coppie senza figli, nuclei fa-miliari o biologici, nuclei monogenitore — che possano, con la loro suc-cessiva aggregazione, dare conto, eventualmente, di tipologie più com-plesse. Un’indicazione che consente anche di rendere più agevole l’indi-viduazione di unità familiari omogeneamente definite in ambito inter-nazionale e, quindi, comparabili.

C’è poi un ultimo aspetto che, seppure limitatamente ad alcuni tipiparticolari di ricerca che seguono un approccio longitudinale, rivesteun’importanza non trascurabile. Si tratta dell’introduzione dell’elemento

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dinamico del ciclo familiare (Bongaarts, 1983; De Sandre, 1985) che con-sente di ricostruire la storia di vita dell’unità familiare attraverso le fasidella sua costituzione, del suo sviluppo, della sua recessione fino alla suatrasformazione o alla sua estinzione. L’individuazione di una definizio-ne dinamica di famiglia pone problemi ancor più complessi di quelli vi-sti per la definizione statica (sulla quale si basa), dovendo individuareanche gli eventi che possono rappresentare i momenti di passaggio dauna fase all’altra e le regole di continuità che consentono di seguire unafamiglia nonostante le trasformazioni che essa subisce nel corso del tempo(Rossi, 1983).

Superati i problemi di definizione, e prima ancora di procedere allastratificazione della popolazione secondo i diversi tipi di famiglia, c’èancora da stabilire in che modo la famiglia e la sua struttura rientrinonell’analisi: se in qualità di contesto nel quale viene a collocarsi l’indivi-duo, che rimane comunque l’unità di riferimento dello studio, o se inqualità di unità di riferimento e di analisi essa stessa. I due approccisi presentano nettamente diversi, relativamente sia ai risultati che nederivano sia alle metodologie utilizzabili, ed essendo il secondo moltopiù complesso del primo, da un punto di vista tanto concettuale quantooperativo, appena si esca da un’ottica puramente descrittiva gli studiche mantengono la centralità dell’individuo sono molto più numerosi.

Gli studi demografici sulle famiglie. È naturale che le profonde tra-sformazioni culturali che si sono determinate in questi anni abbiano sti-molato un interesse conoscitivo sulle caratteristiche delle famiglie e sul-le modificazioni dei loro profili demografici. Un interesse che si è mani-festato in un gran numero di studi a carattere prevalentemente descrit-tivo in ambito sia nazionale (Cortese, 1978; 1986; de Sarno Prignano,1978; De Sandre, 1980; Cisp, 1982; Blangiardo, 1984a; Palomba e Men-niti, 1986; Golini, 1986; 1987; Roveri, 1986; 1988), sia internazionale(Roussel e Festy, 1979; Roussel, 1983; 1986; Glick, 1984; Festy, 1985;Prioux, 1987; Keilman, 1988a; Hopflinger, 1990).

Per l’Italia, questo sforzo conoscitivo ha trovato un valido supportonell’impegno dedicato dall’Istat all’acquisizione di informazioni semprepiù adeguate a cogliere gli aspetti rilevanti del fenomeno e sempre piùtempestive (Roveri e Russo, 1984; Istat, 1985). Questo impegno ha per-messo di delineare le modalità delle profonde trasformazioni che si so-no prodotte e, al tempo stesso, di confutare alcuni stereotipi pessimisti-ci sulla sopravvivenza della famiglia che erano andati diffondendosi nel-l’opinione pubblica sull’onda di comportamenti affermatisi in altri pae-si sviluppati. Indubbiamente il crollo della fecondità, l’allungamento della

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durata media della vita, l’invecchiamento demografico, hanno modellatola tipologia familiare esaltando il peso dei «tipi» di dimensione più ridotta.Al tempo stesso, il modo di vita urbano ha prodotto una nettissimacontrazione del numero e dell’importanza relativa delle famiglie estese epolinucleari, contribuendo anch’esso alla riduzione della dimensione mediadelle famiglie (Golini, 1986). Ma la situazione è ancora ben lontana dalmostrare gli elementi di quella crisi generalizzata che viene denunciata inaltri paesi europei (De Sandre, 1981; Hoffman-Nowotny, 1987; Roussel,1989; Hopflinger, 1990). La tipologia familiare più diffusa resta, oggicome ieri, la famiglia nucleare (composta da entrambi i genitori e daifigli), seguono, con pesi pressoché analoghi, le persone sole e le coppiesenza figli, mentre le famiglie monoparentali, che costituiscono unapreoccupazione maggiore in paesi dove il divorzio ha una notevoleincidenza (in Italia si valuta che sciolga circa il 5 % dei matrimoni, controproporzioni del 35-45 % nei paesi dell’Europa settentrionale e negli StatiUniti), sono ancora un’esigua minoranza (Roveri, 1988) e comunquecaratterizzate da un’età media dei componenti piuttosto elevata(tipicamente si tratta di vedovi o vedove conviventi con figli già grandi).

Un interesse del tutto particolare, non scevro da elementi di preoccu-pazione, ha suscitato il rapido affermarsi del tipo familiare «persone so-le», confermato anche se lievemente ridimensionato, dall’indagine Istatche coglie, come si diceva, le famiglie di fatto. La preoccupazione è fon-data sulla considerazione che più della metà delle persone che vivono so-le è rappresentata da anziani (Roveri, 1987), un fenomeno che evoca im-magini di solitudine ed emarginazione. Se si aggiunge la tipologia «coppiasenza figli», anch’essa in aumento e formata per la grande maggioranzadi anziani (la fase del ciclo familiare che gli anglosassoni chiamano del«nido vuoto», susseguente all’uscita dei figli dalla famiglia di origine), ilquadro diviene ancora più preoccupante. Abituati culturalmente a dele-gare alla famiglia gran parte dei problemi di assistenza e solidarietà, l’e-mergere della figura dell’anziano solo, o in coppia, crea indubbiamentedisagio. E possibile comunque che questa sensazione sia, almeno in par-te, ingiustificata e gli studi, sempre più approfonditi, che si vanno condu-cendo sulle condizioni di vita degli anziani incoraggiano a una visionepiù ottimistica (Pinnelli, 1986; Roveri, 1987). Esiste una notevolissimavariabilità di contesti, situazioni e motivazioni che possono portarel’anziano a vivere da solo: se per alcuni la scelta è forzata e vissuta inmodo negativo, soprattutto quando si accompagna a precarie con-dizioni economiche o di salute, per altri essa è una scelta di autonomiae indipendenza alla quale ben difficilmente saprebbero rinuncia-

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re. Non di rado, ad esempio, l’autonomia residenziale — resa possibilenelle società moderne dalle migliorate condizioni economiche dell’an-ziano — rafforza piuttosto che indebolire i legami di solidarietà interge-nerazionale (Roussel e Bourguignon, 1976; Laslett, 1985).

auspicabile che gli sviluppi futuri della ricerca demografica nel cam-po dell’analisi conoscitiva delle famiglie tengano maggiormente contodi questi aspetti differenziali e dei profili «qualitativi» accanto a quelli«quantitativi». A questo fine sarebbe quanto mai auspicabile una stret-ta collaborazione tra i demografi e i sociologi, per i quali il tema dellafamiglia costituisce da Durkheim in poi un campo privilegiato di ana-lisi (Sgritta, 1984; 1986).

Sempre in tema di studi che prendono come oggetto le famiglie, c’è poida segnalare l’importante capitolo rappresentato da quelli che mirano a in-dividuare i meccanismi demografici di formazione, sviluppo ed estinzionedelle unità familiari. E questo un campo in cui la metodologia demograficatrova la più ampia possibilità di applicazione e sviluppo e, al contempo, lemaggiori difficoltà. Rappresentare analiticamente la formazione di una fa-miglia e seguirne l’evoluzione nel tempo costituisce infatti una delle mag-giori sfide metodologiche: tutti i più importanti fenomeni demografici (nu-zialità, fecondità, mortalità, migrazioni, divorzialità) intervengono a model-lare l’unità-famiglia e ogni fenomeno necessita di essere riferito a ciascunodei componenti del gruppo familiare. In più, esiste il problema di doverconsiderare simultaneamente le componenti maschile e femminile dellapopolazione, fatto che comporta, come si è detto parlando di strutture perstato civile, notevoli problemi di compatibilità e congruenza.

Gli approcci che vengono seguiti sono dei più vari: ci sono esempi dimodelli deterministici e stocastici, di modelli statici e dinamici (per un’am-pia rassegna si vedano Bongaarts, 1983; Holmberg, 1987; Keilman, 1988b).Nella versione statica, essi consentono una valutazione dell’impatto sullefamiglie (sul loro numero e sulla loro composizione interna) dei com-portamenti demografici, in un’ottica di simulazione di storie di vitafamiliare così come queste verrebbero conformandosi qualora gliindividui fossero sottoposti a prefissati rischi di subire i diversi eventi(Rossi, 1975; Bertino et al., 1988; Egidi e Tomassetti, 1988). Nellaversione dinamica, essi costituiscono uno strumento potenzialmentemolto efficace di previsione del futuro andamento del numero di fami-glie e della loro composizione interna (Blangiardo, 1984b; Keilman,1988b; Richards et al., 1985). Uno strumento che consentirebbe di supe-rare il discusso metodo dei « tassi di capifamiliarità» seguendo il quale leprevisioni delle famiglie (e solo del loro numero) vengono ottenute come

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proiezione derivata di quella della popolazione, sulla base di ipoteticiandamenti delle proporzioni di capi-famiglia in ciascuna classe di età (Istat,1990; Sorvillo, 1990a; 1990b).

E certamente proprio la «demografia formale della famiglia» (Bon-gaarts, 1983) il campo di ricerca che merita di concentrare l’attenzionedei demografi nei prossimi anni. La potenzialità analitica e operativache la modellistica può mettere a disposizione dello studio delle fami-glie è notevolissima. Si pensi, ad esempio, alla possibilità di separare all’in-terno del complesso meccanismo di formazione e sopravvivenza dellafamiglia quanto derivi dal comportamento demografico e quanto dal com-portamento sociale ed economico. Non è un caso che gli economisti piùsensibili ai problemi della popolazione stiano riflettendo sulla possibilità dirappresentare il processo di aggregazione in famiglie come un processo adue stadi: il primo, regolato prevalentemente dal comportamento demo-grafico, che porta alla formazione delle «unità familiari minime», in cuidominano i legami biologici o di coppia; il secondo, dovuto all’aggrega-zione delle unità minime in famiglie in funzione di motivazioni di ordineeconomico, sociale e culturale (Ermisch, 1988). Ma si pensi anche al-l’utilizzazione che di questi modelli si può fare per affrontare problemispecifici come, ad esempio, quello rappresentato dalla valutazione didell’impatto sulle pensioni di reversibilità di particolari regimi demogra-fici (Tomassetti, 1979) o quello della stima del fabbisogno abitativo in fun-zione non solo del numero, ma anche della dimensione e della strutturadelle famiglie (Ricci, 1984; Chelli et al., 1987; Vitali, 1987b).

7. Quali prospettive per la ricerca?

Tra le indicazioni che più frequentemente si sono viste emergere,quella relativa all’accresciuta eterogeneità tra gli individui che appar-tengono alla stessa popolazione è senz’altro una delle più ricorrenti. Daun lato, questo è sicuramente un fenomeno reale indotto dalla maggiorecomplessità delle società moderne rispetto a quelle tradizionali; dall’altro,può essere un artefatto statistico prodotto dalla maggiore disponibilità diinformazioni e dai più potenti strumenti metodologici e di calcolo checonsentono analisi sempre più approfondite.

Questa nuova ricchezza di informazioni e di strumenti merita di es-sere sfruttata meglio. Così, ad esempio, da un punto di vista descritti-vo, la considerazione congiunta di più caratteri e l’utilizzazione di op-portuni metodi di classificazione potrebbe consentire di aggregare gliindividui in gruppi che minimizzino l’eterogeneità interna. Lo studio

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delle caratteristiche strutturali si avvantaggerebbe da un simile approc-cio dal fatto di poter operare sulla popolazione senza eccessiva perditadi informazione e senza penalizzare troppo la variabilità dei caratteririlevanti. In questa direzione, anche l’Istat si sta orientando già nellafase di presentazione dei risultati delle sue indagini in modo da offrireagli utilizzatori la possibilità di lavorare su popolazioni con una ricchez-za informativa non minore di quella che avrebbero se lavorassero su in-dividui (Di C iaccio e Sabbadini, 1990). Del resto, la necessità di conta-re su classificazioni della popolazione per gruppi «omogenei» non è li-mitata ai soli studi di struttura. Anzi, gli inconvenienti maggiori dell’e-terogeneità interna dei gruppi utilizzati come base delle analisi si mani-festano soprattutto negli studi di demografia differenziale e, in partico-lare, in quelli finalizzati all’interpretazione del comportamento demo-grafico attraverso l’analisi delle differenze tra gruppi.

Un altro aspetto sul quale è forse utile attirare l’attenzione fa riferi-mento a un meccanismo ben noto ai demografi ma che spesso rimanetalmente sullo sfondo delle analisi da sfuggire alla percezione del lettoremeno attento. Si tratta del processo che porta alla modificazione dellestrutture di popolazione attraverso il susseguirsi e il sostituirsi delle di-verse generazioni che ne fanno parte. Una lettura delle modificazionistrutturali in quest’ottica è illuminante, ad esempio, quando si tratti diproblemi relativi all’invecchiamento della popolazione e alla valutazio-ne delle sue conseguenze. Essa consente di valorizzare, infatti, tutta unaserie di informazioni di cui già disponiamo sulla popolazione che saràanziana domani, la cui «storia di vita» è per la gran parte già disegnata,e di avere una percezione, anche intuitiva, delle modificazioni qualita-tive che ci si possono attendere per il futuro.

Un’ultima indicazione, che emerge da tutti gli studi e sulla quale sigiocherà molto della possibilità di sviluppo futuro della conoscenza, èrappresentata dalla necessità di una maggiore integrazione disciplinare.Tutti i fenomeni che riguardano il comportamento demografico, e chimodellano le strutture di popolazione, rappresentano una sintesi di ca-ratteri e atteggiamenti che hanno le loro radici nelle diverse dimensioniumane (biologica, psicologica, sociale, culturale, economica). Solo unacorrispondente sintesi di competenze potrà offrire gli strumenti concet-tuali e metodologici per progredire ulteriormente (Federici, 1987).

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Capitolo undicesimo

Mobilità e insediamenti

Gustavo De Santis

1. La difficile definizione delle migrazioni

La mobilità territoriale costituisce, insieme con la fecondità e la mor-talità, uno dei processi fondamentali di mutamento numerico e struttu-rale delle popolazioni umane. D’altra parte si discosta dagli altri due pro-cessi per tre aspetti fondamentali:

1) l’introduzione di una variabile aggiuntiva (lo spazio) di difficiletrattazione;

2) la mancanza di basi biologiche e, quindi,3) la necessità di adottare una definizione convenzionale del fenomeno.

Unitamente alla tradizionale mancanza di dati adeguati, un limite oggiparzialmente superato, queste tre circostanze hanno comportato due motividi rallentamento nei progressi epistemologici. In primo luogo, i tentativi diapprofondimento si sono indirizzati principalmente verso le cause dellemigrazioni e, in un secondo momento, verso i loro effetti; ma solosuccessivamente, in tempi relativamente recenti, si è giunti a riflettere sullecaratteristiche «intrinseche» del fenomeno. In secondo luogo, è emersa ladifficoltà di trovare una definizione universalmente valida di che cosasiano le migrazioni, in che cosa si distinguano dalla mobilità di altro tipoe quali dei loro aspetti meritino di essere approfonditi. Si tratta quindi,a ben riflettere, di difficoltà che derivano dal problema più generale di as-senza di un quadro teorico consolidato per lo studio dei fenomeni demo-grafici (si veda il capitolo di Livi Bacci, «La demografia», in questa Gui-da), al cui interno inserire anche i movimenti migratori.

Una migrazione è lo spostamento della residenza abituale di un indi-viduo tra due punti del territorio, significativamente diversi tra loro.Questa definizione «classica» è stata attaccata sotto molti profili. In primoluogo, immaginare concentrato in un solo punto il baricentro della vitadi una persona costituisce una semplificazione eccessiva. Da qui la pro-posta di sostituire il concetto di dimora abituale con quello, molto più

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ampio, di «spazio di vita», cioè l’insieme dei luoghi in cui l’individuosvolge le proprie attività (Courgeau, 1988); oppure con quello di «spa-zio vissuto», l’insieme dei luoghi che una persona percepisce come pro-pri (Micheli, 1990). In entrambi i casi, il concetto potrebbe essere ope-razionalizzato chiedendo direttamente a un campione di intervistati se,sotto uno o l’altro dei due profili, c’è stata o meno una «rottura », cioèuna discontinuità, rispetto alla situazione precedente, condizione neces-saria per l’individuazione di una migrazione (Rosental, 1990).

In secondo luogo, e nella stessa logica, si fa osservare che il proble-ma non è solo spaziale, ma anche temporale: per quanto tempo deve pro-trarsi una fuoriuscita da un dato territorio per essere considerata un’e-migrazione e non, ad esempio, un’assenza temporanea o un fenomenodi pendolarismo (Micheli, 1990)?

Infine, vi è la difficoltà di stabilire che cosa sia significativo e checosa non lo sia nel cambiamento di residenza; il problema non ha solu-zione se non si stabilisce rispetto a che cosa misurare la significatività.Se si privilegia un punto di vista «micro», in cui la mobilità è posta inrelazione con le altre tappe del ciclo individuale e familiare (si veda ilpar. 7), sarà probabilmente opportuno considerare tra le migrazioni qual-siasi cambio di alloggio, anche il passaggio nella casa di fronte; se invecesi opera a un livello di aggregazione maggiore, in cui interessano gli ef-fetti di ridistribuzione territoriale della popolazione, la maglia territo-riale dovrà essere più larga ma, e questo è uno dei problemi nello studiodelle migrazioni, né la scelta in se stessa, né i suoi criteri appaiono oggivalutabili rispetto a qualche parametro oggettivo. Tale scelta, inoltre,salvo poche eccezioni (si veda il par. 5), ha un’influenza rilevante suirisultati dell’analisi.

Quello delle migrazioni è dunque un terreno in cui non c’è perfettoaccordo neppure sui caratteri fondamentali dell’analisi, quali lo spazio,il tempo e lo stesso oggetto di studio. Ma la distinzione oggi forse piùimportante è tra chi guarda al fenomeno dal punto di vista aggregatoe tenendo presente le sue relazioni con altre macrovariabili (l’approccio«tradizionale») e chi tende piuttosto ad analizzarlo in una prospettivaindividuale (l’approccio «moderno »): anche se in linea di principio i dueapprocci, macro e micro, sono complementari e non antagonisti (LiviBacci, 1990), la loro riconciliazione appare ancora difficile.

Questa considerazione, valida in generale, assume particolare rile-vanza nel caso delle migrazioni perché, come si è accennato e come siripeterà, il fenomeno sembra assumere caratteristiche anche profonda-mente diverse a seconda del livello al quale si conduce l’analisi.

Nel frattempo, Federici (1991) ha riproposto con forza una visione

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«classica» dello studio delle migrazioni che, pur avvalendosi dei progressiottenuti anche a livello micro, non cede però alla tentazione di cercaredi comprendere un po’ tutto sotto l’etichetta di mobilità (quella geogra-fica, sociale, di spazio vissuto e così via) con il rischio, concreto, di nonriuscire a approfondire nulla.

2. La descrizione del fenomeno

Soprattutto in un paese di tradizionale emigrazione come l’Italia, igrandi flussi migratori internazionali, spesso addirittura intercontinen-tali, accompagnati, poco più tardi, da altrettanto imponenti flussi ridi-stributivi interni (da sud a nord, dalle montagne e dalle colline alle pia-nure, dalle campagne alle città e così via), sono stati i processi che piùhanno attirato l’attenzione dei demografi e degli studiosi di numerosealtre discipline (economia, sociologia e così via).

La prima esigenza è stata quella di descrivere e quantificare il feno-meno: ne sono derivati numerosi studi, centrati su epoche storiche e areegeografiche diverse, che sarebbe troppo lungo elencare in questa sede1.Parallelamente, in Italia si è sviluppato un dibattito sulle fonti, che hacomportato l’introduzione, a partire dal censimento del 1971, di unadomanda retrospettiva sulla residenza cinque anni prima2. Con questaoperazione, seguendo l’esperienza di altri paesi industrializzati3, l’Italiaha fatto del censimento una fonte utilizzabile anche per lo studio dellamobilità, interna e dall’estero, con qualche limite ma con il vantaggio,peculiare a questa fonte, di avere, associata all’informazione sulla mobilità,una rilevante massa di indicazioni sulle altre caratteristiche demografiche esocio-economiche correnti (e, in alcuni casi, passate), sia dei migranti siadei non migranti. Questo filone di studi, nonostante una recenteaccelerazione della produzione da parte dei demografi italiani (Clerici,1988; 1990; Rossi e Clerici, 1988; Rossi, 1990), sembra avere ancoramolte prospettive di approfondimento, a livello sia macro sia micro (siveda il par. 7).

1 Va però ricordato il lavoro di ricostruzione di un secolo di esperienza migratoriaitaliana curato da Rosoli (1978). Si veda anche la rivista Studi emigrazionelEtudes migrations,in particolare nei suoi numeri 100 (1990), che contiene una bibliografia completa eguidata di tutti i contributi dei primi 99 numeri, e 96 (1989), dal titolo Rassegna bibliograficasull’emigrazione e sulle comunità italiane all’estero, dal 1975 ad oggi.

2 Nel 1971 anche su dieci anni prima, ma il quesito è stato poi abbandonato neicensimenti successivi.

3 Alcuni dei quali chiedono però di indicare la residenza un solo anno prima, o, piùraramente, altre cose ancora (Courgeau, 1980; 1988; Clerici, 1988).

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L’Italia, però, insieme con pochi altri paesi al mondo, dispone an-che, fin dal 1929, dei dati sulle iscrizioni e cancellazioni anagrafiche pertrasferimento di residenza: una fonte di studio preziosa, che tuttaviaè stata a lungo sottoutilizzata, in parte perché ritenuta di scarsa affida-bilità, soprattutto per ciò che riguarda le migrazioni all’estero (si vedaad esempio Courgeau, 1980). Questa sfiducia nella fonte, che non ap-pare ingiustificata — come hanno evidenziato anche alcuni risultati delcensimento 1991 — è sembrata però eccessiva a chi riteneva che, conopportuni accorgimenti, la ricchezza delle informazioni ne compensassei limiti Questa «rivalutazione» della fonte anagrafica si deve a un gruppodi studiosi facente capo all’Università di Pisa (Bonaguidi, 1985; Ter-mote, 1988); essa si è concretizzata in particolare in due metodologiedi studio:

1) i modelli di migratorietà per età;2) i modelli di popolazione stabile multiregionale.

Occorre qui aprire una parentesi su questi modelli. Cominciamo daisecondi, che derivano da un’estensione del modello stabile a-spaziale diLotka (1939), in particolare nella sua forma discreta, matriciale (Leslie,1945). L’intento originario era lo studio su una popolazione degli effettistrutturali generati dal mantenimento (quindi dalla costanza nel tempoe per età) di certe leggi di fecondità e di mortalità.

A queste due condizioni se ne può aggiungere una terza: la costanza(nel tempo e per età) della propensione a spostarsi da una regione i a unaregione j, all’interno di un dato territorio. Si dimostra che, in questo caso,lo stato stabile finale (cioè la costanza di struttura per età e di tasso dicrescita) è raggiunto non solo sul territorio nel suo complesso, ma ancheall’interno di ogni singola regione: tutte finiscono con il crescere allo stessotasso, ma ognuna raggiunge e mantiene costante una sua peculiare strut-tura per età. Entrambe queste caratteristiche risultano indipendenti dallecondizioni di partenza (numerosità e struttura per età della popolazione)e si dimostrano essere determinate esclusivamente dai flussi demografici(Rogers, 1968; 1975; Rogers e Willekens, 1986). D’altra parte, l’ipotesidell’applicabilità delle catene di Markov (costanza nel tempo e per etàdei tassi di migratorietà da i a j) si dimostra empiricamente poco adeguata,giacché i flussi migratori sono invece soggetti a mutamenti anche radicali erepentini che si riflettono nello stato stabile finale cui porta il modello.Proprio per questa loro caratteristica instabilità, tali modelli sono utilizzatinon a fini previsivi (e neanche di semplice estrapolazione), ma solo perdescrivere il presente con una strumentazione diversa da quella consueta,cioè in termini di stock e non di flussi.

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L’applicazione di questo metodo alle regioni italiane, con propensionimigratorie calcolate sulla base dei dati anagrafici, porta quindi a valutaregli effetti del mantenimento di certe «leggi» in termini, ad esempio, di «pe-so» finale raggiunto dalle varie regioni sul totale della popolazione italiana,quota di vita passata nelle varie regioni in funzione della regione di nasci-ta, contributo regionale al tasso di crescita nazionale, struttura per etàregionale limite e così via (Termote, 1985; Termote e Bonaguidi, 1990).

L’altro sviluppo teorico di cui si diceva — i modelli di migratorietàper età — è nato ancor più recentemente (Rogers e Castro, 1981). Loscopo è in questo caso approssimare la curva empirica dei tassi di migra-torietà specifici per età con una curva modello, parametrizzata, concet-tualmente analoga a quelle proposte per altri fenomeni demografici, qualila fecondità naturale, la mortalità, la nuzialità e così via (United Na-tions, 1983). In questo caso, però, l’operazione si presenta più comples-sa, a causa della forma bi- e talvolta trimodale della curva dei tassi mi-gratori per età4, la cui sintesi può richiedere fino a 11 parametri.

L’applicazione di queste curve al caso italiano (Bonaguidi, 1985; 1987)consente di evidenziare la persistenza di alcuni squilibri migratori traregioni che fanno riemergere, ancora agli inizi degli anni ottanta, quindiin un contesto totalmente diverso, aspetti del vecchio modello migratoriointerno degli anni sessanta (si veda il par. 3).

Si può aprire qui una parentesi per segnalare che la compresenza, inItalia e in altri paesi industrializzati, di due fonti diverse per lo studiodelle migrazioni (anagrafe e censimento) ha anche portato a interrogarsisulla loro comparabilità. Il problema non è di facile soluzione, dato cheesse si concentrano su «oggetti» diversi (le migrazioni in un caso, i mi-granti sopravviventi nell’altro), le relazioni tra i quali possono variare infunzione di numerose circostanze (mortalità, migrazioni ripetute, migra-zioni di ritorno e così via; Courgeau, 1973; Maffenini, 1986; 1988). Tut-tavia il problema può in parte essere aggirato confrontando le due fontinon sul volume delle migrazioni, ma solo sulle tendenze della mobilitàche esse esprimono: le differenze, in questo caso, pur non scomparendodel tutto, risultano considerevolmente attenuate (De Santis, 1987).

4 Con massimi relativi nelle età della prima infanzia (figli che si muovono con i genito-ri), adulta (con un punto di massimo assoluto intorno ai 20-30 anni) e, talvolta, anziana,in corrispondenza dell’età al pensionamento e della migrazione che talvolta ne consegue. Vaqui segnalato, tuttavia, che il valore dei parametri e degli indicatori sintetici che da essi sipossono derivare muta anche sensibilmente al variare della scala dell’analisi (ad esempio, inItalia, nel passaggio da livello comunale a provinciale a regionale e così via), come si era ac-cennato nel paragrafo 1.

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La vita di una coorte di individui può essere schematicamente descrittain termini di permanenza, per periodi di tempo variabili, in una serie di sta-di (essere celibe, sposato, o non più sposato; aver migrato 0, 1,…, x voltee così via), il passaggio tra i quali è determinato da eventi (matrimonio esuo scioglimento; migrazione di ordine n e così via; Willekens, 1990). Inquesto caso, si può sintetizzare un insieme di corsi di vita, o biografie, at-traverso una tavola multistato su cui è possibile seguire le varie carriere (nu-ziale, migratoria e così via), che possono essere tra loro indipendenti, com-plementari (ad esempio, dopo il matrimonio la fecondità aumenta) o con-correnti (ad esempio, la fecondità limita la carriera lavorativa della donna).

In fase interpretativa, il riferimento a biografie avvicina questo tipodi analisi alla prospettiva individuale (si veda il par. 7), ma i dati utiliz-zati sono normalmente aggregati e di tipo trasversale e come tali risen-tono sia della congiuntura del momento, sia della difficoltà di indagaree trattare analiticamente tutti i fenomeni di interazione tra carriere, chesolo con un approccio individuale, di ricostruzione biografica, possonoessere adeguatamente approfonditi.

A dati longitudinali, nell’interpretazione e nella costruzione, si rife-risce invece il tentativo di stima dei saldi migratori con l’estero per ge-nerazioni di appartenenza (Ventisette, 1990a; 1990b). L’idea è qui dinatura quasi contabile: per le generazioni già estinte, il saldo migratoriopuò essere stimato come differenza tra i nati e i morti in Italia di quellaparticolare generazione; per le generazioni non ancora estinte, questocalcolo va integrato considerando anche il numero di membri di quellagenerazione ancora in vita all’ultima data certa disponibile (il censimento).Vi sono qui difficoltà di ordine sia tecnico (occorre stimare i decessi pergenerazione di appartenenza, valutare criticamente la qualità dei dati ecosì via) sia concettuale, perché il saldo migratorio stimato dopo che lagenerazione si è estinta può celare forti flussi di emigrazione in etàlavorativa annullati (parzialmente) da rientri in età anziana. D’altra parte,il saldo non risulta comparabile tra le generazioni non ancora estinte,quindi censite in età diverse, a causa del diverso periodo di esposizioneal rischio di emigrare e immigrare cui ognuna è stata sottoposta.

Tutt’altro che scontata è poi l’opportunità di usare il saldo migratoriocome variabile di analisi, una scelta che alcuni autori osteggiano aperta-mente (Rogers, 1990), che appare priva di senso nel contesto degli studicentrati sull’esperienza individuale (il migrante netto non esiste) e chenon rientra neppure nell’ambito dei tre modelli «macro» di cui si è detto(popolazione stabile multiregionale, modelli migratori per età e tavolemultistato), i quali descrivono i flussi (cosiddetti lordi) di popolazio-

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ne tra un luogo di origine i e un luogo di destinazione ј5. Eppure, l’usodel saldo migratorio, soprattutto come variabile dipendente nei modellidi regressione, può essere giustificato e trova ancora oggi frequenteapplicazione (si veda il par. 3).

Una parola va spesa infine per ricordare la proposta di stima indirettadei flussi di emigrazione, anche in assenza di dati affidabili, interrogandoun campione di persone sul numero di parenti stretti (figli, fratelli esorelle) che si trovano all’estero in un dato momento e riconvertendoopportunamente tale informazione in termini di tassi riferiti al complessodella popolazione (Zaba, 1986). Si tratta, come si può capire, di unmetodo indiretto che, in parallelo con tecniche analoghe nate per lastima di altri fenomeni demografici Mal documentati (ad esempio fecondità,mortalità e così via; United Nations, 1983), è specificamente rivolto allostudio di contesti poco sviluppati6.

3. La ricerca delle cause

La prima interpretazione che viene alla mente riflettendo sulle causedei movimenti migratori è che il migrante ottenga (o pensi di ottenere)un miglioramento nella propria condizione a seguito dello spostamento.La scelta di migrare rientrerebbe dunque in una logica di ottimizzazio-ne della condizione individuale, sotto certi vincoli (di tempo, informa-zione, bilancio e così via), tipica della teoria rnicroeconomica del consu-matore. A questo livello, lo strumento di analisi, non sempre esplicita-to, è allora la piace utility matrix (matrice di utilità delle località), in cuiogni elemento u v, fornisce una misura dell’utilità della variabile v allalocalità i. Questa matrice, che contiene informazioni di tipo oggettivo,moltiplicata per un vettore di pesi, che varia da soggetto a soggetto eche misura l’importanza di quella variabile nell’ambito della valutazio-ne individuale di scelta della destinazione, fornisce una nuova matrice,questa volta soggettiva, in cui la somma degli elementiLsulla colonna rap-presenta sinteticamente il valore che ogni individuo attribuisce a cia-scuna località, com-presa quella in cui si trova. E questa, in linea peròpuramente teorica, la base sulla quale vengono poi prese le decisioni dimigrare (Bonaguidi, 1984).

5 Nelle tavole multistato si può anche abbandonare la dimensione spaziale: lo stadio incui si trova un individuo è allora determinato non da dove è o dove è andato, ma semplice-mente dal numero di migrazioni effettuate (Willekens, 1990; Santini, 1992).

6 Per la stima, invece, di immigrazioni dai paesi in via di sviluppo e presenza stranierain paesi sviluppati, in particolare in Italia, si vedano i paragrafi 4 e 8.

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A livello aggregato, a questo approccio, detto comportamentale (behavio-ral), corrisponde la stima dei flussi migratori tra l’area i e l’area j comevariabile dipendente influenzata dalla differenza tra i e j in termini di uncomplesso di variabili, di attrazione (pull) o di repulsione (push)7, nonchédalla distanza tra i e j, misurata, non alternativamente, in chilometri, inlire e/o sulla base dei precedenti flussi migratori, una proxy della distan-za affettiva e culturale. Tipicamente, in questa fase, si ipotizzano modellidi relazione lineari (o log-lineari) e si ricorre a tecniche di regressionemultipla (Harris e Todaro, 1970; Barsotti, 1984; Bonaguidi, 1984).

Manca qui Io spazio per presentare tutti i modelli riconducibili a questotipo di approccio sinora proposti, in Italia e all’estero, da demografi,economisti, geografi e così via8.

Tre aspetti meritano tuttavia di essere sottolineati. 1-1 primo è che,per qualsiasi area geografica, la capacità esplicativa dei modelli (cioè lapercentuale «spiegata» della varianza dei flussi migratori) è generalmentebassa e comunque peggiora nel corso del tempo. In particolare, dimi-nuisce, fino a diventare spesso statisticamente irrilevante, il contributodelle variabili più strettamente economiche (reddito, tassi di disoccupa-zione e così via). Questa circostanza viene generalmente interpretata comerilevatrice della fine dell’epoca dei grandi squilibri e dei conseguenti granditravasi di popolazione, prima verso l’estero e poi dalla montagna allapianura, dalla campagna alla città e, in particolare in Italia, da sud a nord.Secondo questa interpretazione, con gli anni settanta sarebbe finita l’e-poca delle migrazioni « strutturali» e ad essa sarebbe seguita la fase at-tuale di migrazioni ridotte per numero e per distanza percorsa, territo-rialmente più equilibrate e determinate non più dai fattori «economici»del vecchio modello, bensì da variabili di tipo soft, tra le quali, in parti-colare, quelle legate al ciclo di vita familiare e alla carriera professionale(si veda il par. 7). Una visione dunque sostanzialmente ottimistica, chenon è però condivisa da tutti perché ignora la possibilità che l’attualescarsa mobilità territoriale costituisca un ulteriore elemento di rigiditàdel sistema (Livi Bacci, 1980) e che sia artificiosamente sostenuta e resapossibile dalla politica dei trasferimenti assistenziali (Agei, 1983; Fuà,1991).

7 Esempi possono essere il reddito pro-capite, il tasso di disoccupazione, la densità, l’al-titudine su livello del mare e così via.

8 Si vedano però Barsotti (1985) e alcuni lavori condotti nell’ambito del progetto fina-lizzato CNR Struttura ed evoluzione dell’economia italiana, tra cui De Santis (1986); Ghilardi (1986);Saraceno (1987); Termote, Golini e Cantarmi (1987); CNR (1989); Musu (1989); Fuà (1991).

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Il terzo aspetto è che, alla base di questi modelli, vi è l’idea, spessosolo implicita, che ciò che attrae nella località i (bassa disoccupazione,reddito elevato, buona qualità della vita e così via) non si trova in j equindi che, se è forte il flusso migratorio da i a j, dovrebbe essere deboleil flusso contrario, da j a i. Si verifica invece esattamente l’opposto, perdue motivi:

1) chi ha già effettuato una prima migrazione è selezionato e ha unaprobabilità relativamente elevata di effettuarne altre, tra cui spesso an-che migrazioni «di ritorno» (motivo comportamentale);

2) le aree geografiche più piccole, di forma allungata9, sono anchequelle per le quali è più probabile che uno spostamento anche di breveraggio finisca per attraversare i confini, sia in ingresso sia in uscita (mo-tivo statistico-definitorio).

Statisticamente, questo fa sì che vi sia una correlazione positiva tra in-gressi e uscite di una determinata area geografica e che le variabili espli-cative che «funzionano» per gli ingressi risultino valide anche per le uscite.Questa circostanza aiuta a comprendere alcuni dei motivi di insuccesso deimodelli di regressione di cui si è detto e giustifica il ricorso alle due varia-bili derivate, saldo e flusso migratorio (rispettivamente differenza e sommadi ingressi e uscite), come variabili dipendenti: nel primo caso i motiviche inducono un livello generale elevato di mobilità tra le località i e jtenderanno ad annullarsi, lasciando in evidenza l’effetto delle sole variabilidi attrazione e repulsione; nel secondo, viceversa, saranno gli aspettidifferenziali a essere messi in sordina, per lasciare spazio ai motivi cheinducono una mobilità generale più o meno elevata (De Santis, 1985).

La nuova fase di mobilità territoriale ridotta e complessivamente equi-librata, in cui sono entrati, prima dell’Italia, tutti i paesi industrializza-ti, ha rafforzato l’interpretazione che la vedeva legata alle grandi tra-sformazioni demografiche della fase della transizione. Le aree soggettea una forte crescita di popolazione (per la riduzione della mortalità, inun periodo di natalità ancora elevata) si «liberano» degli eccedenti dipopolazione mandandoli oltre confine, verso terre più «vuote», allo scopodi riequilibrare il rapporto tra popolazione e risorse (Chesnais, 1986;Livi Bacci, 1989).

Ci si domanda però se questo schema, proposto per la storia demogra-fica e migratoria dei paesi ora sviluppati, possa valere anche per i paesiin via di sviluppo (Pvs). La conclusione apparentemente più ovvia (e poli-

9 Per meglio dire, quelle per cui è più elevato il rapporto tra lunghezza dei confini esuperficie territoriale.

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ticamente più temuta) è che la storia si ripeterà e che i paesi sviluppatidi oggi saranno presto invasi da immigrati provenienti da quelle aree cheoggi attraversano una turbolenta fase di transizione demografica, con tassidi crescita naturale molto elevati (3% e oltre) e con economie deboli,incapaci di assorbire la prossima dirompente offerta di forza lavoro.

Eppure, vi sono anche elementi per ritenere che la storia seguirà inquesto caso un corso diverso. I paesi industrializzati hanno posto restri-zioni nell’accesso alle loro frontiere e, più in generale, hanno influenza-to la fase della transizione demografica nei Pvs: la storia recente dellemigrazioni internazionali, anche nelle aree più «calde», come il confinetra Messico e Stati Uniti (Massey, 1988) o il bacino mediterraneo (Ret-taroli, 1990), indica che tali flussi sono stati sinora molto inferiori a quelliche ci si sarebbero dovuti attendere sulla base di una semplice ripetizio-ne del passato (Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991). Tali flussi,d’altro canto, in parte interessano e in parte preoccupano i paesi indu-strializzati, che ancora non sanno valutare il bilancio dei pro e dei con-tro delle migrazioni dall’estero (si veda il par. 4). Nel dubbio, come siè detto, è prevalsa l’opinione di cercare di rallentare il flusso degli arrivinon solo con controlli di polizia ai confini, ma anche promuovendo unapolitica di sviluppo economico nei paesi di origine. Tuttavia, esperienzaempirica e riflessioni teoriche hanno mostrato che promuovere lo svi-luppo nei Pvs porta, nel breve e nel medio periodo, all’effetto opposto,di crescita dei flussi migratori internazionali (United Nations, 1990).

La spiegazione di questo apparente paradosso fa leva, in sintesi, suldifferente tasso di crescita delle aspettative rispetto alle condizioni divita correnti e ragionevolmente prevedibili per il prossimo futuro: nonsarebbe quindi il livello di vita in assoluto a contare, per quanto miseroesso possa essere, ma quello relativo a ciò che si ritiene di poter raggiun-gere, eventualmente anche con la migrazione (Massey, 1988; 1990).

Questo processo si svilupperebbe però in più tappe: in un primo mo-mento si ha la rottura dei tradizionali equilibri economici e demograficidella società contadina, con creazione di disuguaglianze sociali e terri-toriali e con circolazione di informazioni riguardo a tali disuguaglianze.Si determina così l’inizio del fenomeno migratorio che, una volta nato,tende ad autoalimentarsi, perché il processo decisionale ha luogo a livel-lo familiare e non solo individuale: la presenza di qualche membro dellafamiglia già all’estero diminuisce il costo di ulteriori emigrazioni (datoche si hanno informazioni e punti di appoggio nel luogo di destinazio-ne) e d’altra parte, grazie alle rimesse, contribuisce significativamenteal benessere della famiglia, che viene cose a costituire, per chi era rima-sto, un esempio da imitare.

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Tale processo può proseguire anche per un certo periodo di tempodopo che le differenze di opportunità (di reddito, di lavoro e così via)tra i luoghi di origine e di destinazione si sono ormai attenuate: sia per-ché la catena migratoria, come si è detto, si autoalimenta, sia perchéla strategia familiare, soprattutto in contesti di tenore di vita basso, vi-cino alla sussistenza, può portare a preferire, anche a parità di retribu-zione, una differenziazione delle fonti di reddito familiare (quindi an-che un allontanamento dei luoghi di lavoro dei suoi membri, dislocatiin aree non soggette agli stessi cicli economici) come forma di assicura-zione contro i periodi di crisi.

Si noti quindi il cambio (anche se non il rovesciamento) di prospetti-va rispetto all’impostazione precedente, che ricorda molto da vicino ana-loghi sviluppi osservati nella teoria microeconomica (Zamagni, 1984;Phelps, 1985). Vi è però ancora una scelta razionale tra una serie di al-ternative:

1) il soggetto che prende le decisioni non è più un singolo individuo,ma un’unità più complessa, la famiglia (o l’impresa);

2) l’obiettivo non è più solo quello di massimizzare il reddito (o ilprofitto): prioritario diventa ora garantire la sopravvivenza dell’unitànel più lungo periodo, in un contesto di incertezza e di imperfetta cono-scenza del presente e, soprattutto, del futuro;

3) l’informazione non è un bene «libero», cioè disponibile sul mer-cato a costo nullo10, ma deve essere ottenuta con un processo che ri-chiede tempo e investimenti;

4) la migrazione non risponde solo e necessariamente a un processoassimilabile a quello economico di allocazione ottima dei fattori produt-tivi: ha una vita in parte autonoma (perché si autoalimenta), può esserecausata anche da ragioni diverse (il desiderio di diversificazione delleentrate familiari) e varia in funzione della disponibilità di informazioni.

4. Gli effetti delle migrazioni e le migrazioni internazionali verso l’Italia

In parallelo con l’evoluzione del modo di intendere le cause del mo-vimento migratorio, si è mossa anche l’interpretazione degli effetti (Cap-pellin, 1983; Barsotti, 1984). Come si è detto, in un primo tempo sipensava, con logica neoclassica, che lo spostamento dei migranti/lavora-

10 In economia, si fa riferimento a questo concetto con l’espressione banditóre walrasia-no, per designare l’esistenza di un processo gratuito e immediato di diffusione dell’infor-mazione, che consente di ottimizzare sia l’allocazione dei fattori di produzione sia:le scel-te di consumo.

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tori fosse assimilabile al processo di allocazione ottima dei fattori nelprocesso produttivo, che la loro retribuzione (salari e stipendi) fosse di-rettamente proporzionale alla loro produttività e, in breve, che la «ma-no invisibile» smithiana avrebbe agito per il benessere di tutti e di cia-scuno, a patto che non fosse intralciata da interventi esterni alla logicadi mercato, in primo luogo interventi governativi.

A questa visione «ottimistica» si contrappone quella pessimistica dellosviluppo polarizzato o cumulativo (Myrdal, 1957): la fuoriuscita di mi-granti da un’area non riduce solo l’offerta di lavoro, ma anche l’attivitàeconomica nel suo complesso e quindi la domanda di lavoro. Perciò nonè necessariamente vero che l’emigrazione contribuisce ad «alleggerirela pressione» e migliorare le condizioni di chi resta: anzi, potrebbe esse-re vero l’opposto, come suggeriscono numerosi studi a carattere locale.

Infine, si è sviluppata una linea di pensiero che tende a privilegiaregli aspetti positivi della mobilità a breve raggio, caratterizzata da circo-larità e non da polarizzazione (Fuà e Zacchia, 1983; Fuà, 1991); questofatto contribuisce alla formazione di una vera e propria regione in sensofunzionale (Tinacci Mossello, 1984). Si ha inoltre una miglior informa-zione dei migranti sulle reali condizioni nelle aree di arrivo (si veda ilpar. 3) e una maggior vicinanza culturale tra queste e le zone di parten-za (Buzzetti, 1978).

Quest’ultimo punto di vista si inserisce nel dibattito, cui manca peròancora un punto di approdo, sull’interpretazione da dare alle nuovetendenze migratorie, ovvero sugli effetti che queste producono. Il pro-blema può essere scisso in due parti, collegate tra loro. Da un lato viè la forte diminuzione della mobilità interna nel nostro paese, passatada più di un milione e mezzo di trasferimenti annui di residenza neglianni sessanta a poco più di un milione all’inizio degli anni novanta. Aquesto si accompagna inoltre la diminuzione della cosiddetta «efficacia»delle migrazioni, che misura, in sostanza, quanto muta la distribuzioneterritoriale della popolazione in seguito alle migrazioni avvenute in uncerto periodo in rapporto all’« energia spesa», ovvero al volume degliscambi migratori (Golini, 1987; Bonifazi e Cantalini, 1988).

Come accennato nel paragrafo 3, ciò documenta l’ormai avvenutoriequilibrio tra la distribuzione territoriale delle risorse, da una parte,e quella della popolazione, dall’altra, con conseguente esaurimento dellanecessità dei grandi travasi migratori (Golini, 1977; 1978; 1979a;1979b), benché interpretazioni meno benevole vi vedano anche un nuovoelemento di rigidità del sistema (Livi Bacci, 1980).

Su questo argomento si potrebbe dire qualcosa di più se si dispones-se di qualche strumento per valutare la congruità tra la distribuzione

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e la mobilità territoriale della popolazione da una parte e le caratteristichedel sistema socio-economico dall’altra. Si tratta però di un’operazione e-stremamente difficile, a causa anche dei diversi tempi che caratterizzano lasfera economica, con variabili molto reattive agli stimoli esterni, e la sferademografica, le cui grandezze di solito si modificano invece solo lenta-mente. Emblematico, a questo proposito, è il caso dei flussi migratori inter-nazionali. L’Italia si è trovata a dover affrontare, nell’ordine, tre proble-mi diversi:

1) l’emigrazione all’estero dei propri residenti fino ai primi anni set-tanta (Rosoli, 1978);

2) il reinserimento degli ex-emigrati rientrati in Italia ancora in età la-vorativa, soprattutto dopo la prima crisi petrolifera;

3) a partire dagli anni ottanta, l’accoglimento degli immigrati extraco-munitari.

Queste problematiche, con il connesso e radicale cambio di prospettivache hanno comportato, sono ben riflesse anche nella produzione di lavoridi taglio demografico.

La fase 1 appartiene a un’epoca storica che sembra ormai conclusa11 ela fase 2 ha avuto complessivamente breve durata12. Ci troviamo quin-di nella fase 3 che, sulla scorta dell’esperienza degli altri paesi industrializ-zati, si può prevedere destinata a durare ancora a lungo.

Si è discusso, e si discute tuttora, della possibilità che l’immigrazionedai Pvs possa costituire, per i paesi sviluppati, afflitti da una forte dena-talità, un efficace rimedio contro l’invecchiamento demografico e il ri-dimensionamento numerico (Lestaeghe, 1988; Oecd, 1991). La rispostaè senz’altro negativa nel lungo periodo, perché i due processi possonoessere contrastati efficacemente solo da un livello sufficientemente ele-vato della fecondità. Gli immigrati invece assimilano presto i compor-tamenti demografici (in particolare quelli nuziali e riproduttivi) dellepopolazioni ospitanti, per cui il loro inserimento, per essere efficacesotto i due profili sopra detti, dovrebbe essere continuo e tendenzial-mente crescente13. Nel breve periodo, invece, tale politica potrebbe

11 Per la produzione scientifica su questo tema, che è stata ed è tuttora molto conside-revole, si veda la nota 1.

12 Tra i non molti lavori di questo periodo, che risentono tutti delle preoccupazioni con-giunturali del riassorbimento senza traumi dei rientri, in una fase economicamente difficileanche Rer in nostro paese, si vedano Valussi (1978) e Gentileschi e Simoncelli (1983).

13 E stato anche osservato (Oecd, 1991) che il conseguimento di obiettivi rigidi di breve pe-riodo (ad esempio il mantenimento di un certo tasso di crescita costante in tutti gli anni), richie-derebbe l’uso dell’immigrazione come una sorta di valvola di riserva, da aprire e chiudere infunzione dei comportamenti e della struttura demografica (distorta) delle popolazioni ospitanti.

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avere effetto, ma a condizione che il flusso di immigrazione sia molto con-sistente, fatto che appare politicamente poco perseguibile.

La questione, vecchia ma mai risolta, degli effetti delle migrazioni, vie-ne ora affrontata dall’Italia dal punto di vista, per essa nuovo, dei paesi diafflusso. La maggior parte degli studiosi concorda sulla prevalenza deglieffetti positivi (anche) per le aree di immigrazione, sulla base sia dell’espe-rienza storica sia di riflessioni teoriche. La posizione più estrema, sottoquesto profilo14, è quella di Sirnon (1989; 1991), che propugna un totaleabbattimento della barriere all’entrata e segnala come l’opinione pubblicasia sempre stata contraria all’immigrazione, in tutti i paesi e in tutte le epo-che, nonostante le evidenti prove storiche dei vantaggi da essa derivanti ea dispetto delle stesse origini di molte popolazioni, nate e a lungo alimen-tate da flussi di immigrazione.

Altri, invece, sono su posizioni più «moderate» e suggeriscono un’aper-tura solo parziale delle frontiere, ma sempre evidenziando che tale pruden-za è più suggerita da considerazioni di opportunità politica che basata susolidi fondamenti scientifici riguardo al numero massimo «compatibile» distranieri in un dato paese (Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990).

In Italia, il dibattito su questo punto è reso più difficile oltre che dallatradizione di flussi migratori nella direzione opposta, anche dalla mancan-za di cifre attendibili su numerosità e caratteristiche della presenza stranie-ra, un problema che in paesi di più lunga tradizione migratoria è stato inparte superato (per la Francia, ad esempio, si veda Tribalat, 1991). Anchein Italia, tuttavia, qualcosa ha cominciato a muoversi su questo fronte. Perquanto riguarda la valutazione quantitativa della presenza, gli strumenticonoscitivi sono essenzialmente tre:

1) le stime indirette, basate sul metodo dei tassi (o degli eventi): se siriuscisse a determinare con quale frequenza gli stranieri presenti in Italiadanno vita a certi eventi (una nascita, un matrimonio, un arresto, un’iscri-zione all’Inps e così via), dal numero (noto) di questi eventi si potrebbe ri-salire alla popolazione che li ha generati, cioè, appunto, alla stima del nu-mero degli stranieri in Italia (Aidelf, 1988);

2) indagini ad hoc, come quelle effettuate dal Censis (1991) e dall’Istat(1991), che hanno portato a stimare in un milione gli stranieri presenti inItalia nel 1990;

3) i censimenti demografici, che tuttavia hanno sempre prodotto risul-tati15 ritenuti largamente inferiori alla realtà.

14 Si tratta peraltro di una posizione coerente con la sua interpretazione favorevole anchedella crescita demografica in generale.

15 Gli stranieri residenti sono risultati 211.000 nel 1981 e 231.000 nel 1991; quelli presenti,110.000 nel 1981 e 271.000 nel 1991 (i dati del 1991 sono provvisori).

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La presenza straniera in Italia solleva, oltre ai problemi di stima quantitati-va, anche interrogativi sulle caratteristiche qualitative degli immigrati: chisono, da dove vengono, che cosa fanno, quali rapporti hanno con gliitaliani e con le famiglie di origine e così via. Su questo fronte si è im-pegnato particolarmente il Cisp (Comitato italiano per lo studio dei pro-blemi di popolazione), che ha promosso una vasta indagine curata da nu-merose università in diverse regioni italiane (AA. VV., 1988; 1990 ; Bar-sotti, 1989; Brunelli et al., 1989; Dell’Atti e Di Comite, 1990; Moretti eCortese, 1990; Reginato, 1990). Con una tecnica di indagine concordatatra i vari gruppi di ricerca16, si sono studiate la numerosità ma soprattut-to le caratteristiche degli stranieri presenti in varie regioni d’Italia. I risul-tati hanno evidenziato, tra l’altro, una fortissima variabilità di gradi diistruzione, di attività economica, di conoscenza della lingua italiana, di in-tegrazione e di progetti per il futuro a seconda del paese di origine, delsesso e della durata della permanenza in Italia. Una grande eterogeneità disituazioni, dunque, che, come si può comprendere, rende più difficile per-venire a una valutazione sintetica delle conseguenze sociali ed economi-che della presenza straniera in Italia.

5. Distribuzione territoriale della popolazione e urbanizzazione

Le migrazioni modificano, tra le altre cose, la distribuzione territo-riale della popolazione, in particolare attraverso il processo di inurbamen-to, cioè il trasferimento di un considerevole numero di persone dallacampagna alla città. Più che sull’inurbamento, tuttavia, il dibattito si èconcentrato sul grado di urbanizzazione (percentuale di popolazioneche vive in ambiente urbano) e sulle sue variazioni, che possono essereindotte, oltre che dai movimenti migratori, anche da un diverso tassonaturale di crescita delle città rispetto alle campagne e dalla trasformazio-ne in senso urbano di zone in precedenza classificate come rurali. Questedistinzioni non sono sempre evidenti nei dibattiti, ma hanno una loro ri-levanza: in particolare l’ultimo caso, di diffusione dell’area urbana, è quali-tativamente diverso dai precedenti, perché non comporta necessariamenteun aumento del grado di concentrazione della popolazione sul territorio.

Gli Stati Uniti sono il paese nel quale si sono avvertiti prima i pro-blemi legati al processo di urbanizzazione: qui, negli anni sessanta, do-

16 A «valanga» o «palla di neve», dall’inglese mowball: si parte da pochi extracomunitarie, dopo averli intervistati, si chiedono loro nomi e indirizzi di altri extracomunitari di loroconoscenza, fino al raggiungimento di un campione di sufficiente ampiezza.

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po decenni di crescita urbana, ha cominciato a manifestarsi ciò che in Eu-ropa sarebbe emerso con forza solo nel decennio successivo, cioè la ridu-zione dell’attrazione dei centri «forti», tradizionalmente meta di migrazioni,a vantaggio prima delle immediate periferie ma, in seguito, anche di areelontane e qualitativamente diverse. Si è discusso a lungo se questo processofosse meglio descritto dai termini controurbanizzazione (rifiuto dell’ambienteurbano e ritorno alla campagna) o riurbanizzazione (diffusione del fenome-no urbano anche a aree nuove, prive però delle diseconomie di scala tipichedelle vecchie città, quali congestione, inquinamento, microdelinquenza ecosì. via). Il tutto è stato poi ulteriormente complicato dal fatto che in annirecenti le tendenze sembrano essersi nuovamente invertite, con una ripresadella concentrazione nelle aree forti (Dini, 1986; Long e De Are, 1988;Champion, 1989).

Né questi fenomeni (che non erano stati previsti), né, tantomeno, leloro cause sono stati ben compresi dagli studiosi, che, comunque, nonsono neanche d’accordo sulla loro rilevanza17. Ciò dipende anche, in misuranon marginale, dalla difficoltà di reperire dati dettagliati, di buona qualità e,soprattutto, confrontabili internazionalmente.

Questo della comparabilità è uno dei più grandi problemi delle organiz-zazioni internazionali, in particolare delle Nazioni Unite che periodicamen-te aggiornano, insieme alle stime e previsioni della popolazione mondiale,anche i dati riguardanti la popolazione urbana e quella degli agglomerati ur-bani (con oltre un milione di abitanti) e delle megalopoli (con oltre otto mi-lioni di abitanti). Nell’appendice della relativa pubblicazione delle NazioniUnite (United Nations, 1991b), si legge che il Diesa (Department of Inter-national Economie and Social Affairs), che cura questa e le altre pubblica-zioni demografiche dell’ONU, si limita a recepire le definizioni nazionali.In conseguenza di ciò, ad esempio, per l’Italia viene considerata urbanaun’unità amministrativa (un comune) con almeno diecimila abitanti, ma perla Nigeria ce ne vogliono ventimila e per la Norvegia solo duecento!

In queste condizioni è evidente che i confronti vadano condotti con e-strema cautela, anche se è probabile che i diversi criteri definitori, purchémantenuti costanti, non impediscano confronti corretti sulle linee di ten-denza, che appaiono essere verso un’ulteriore crescita della quota di popo-lazione residente in città, sia nei paesi sviluppati, sia, soprattutto, in quelli invia di sviluppo.

In Italia, il dibattito sulla distribuzione territoriale della popolazio-ne ha riguardato, oltre al problema dell’urbanizzazione e della crescita

17 Si veda, a titolo di esempio, il dibattito tra Cochrane e Vining (1988), Berry (1988),Champion (1988), Frey (1988) e Mera (1988).

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delle città (Bonaguidi, 1988), anche, più in generale, l’individuazionedi aree «forti», contrapposte a zone periferiche e/o marginali (Demat-teis, 1983; Golini, 1987). Nel corso del tempo sono state proposte nu-merose tipologie comunali, non agevolmente confrontabili tra loro, chepossono forse sinteticamente classificarsi in due gruppi, in funzione delcriterio adottato. Questo può essere basato su: 1) le sole prestazioni de-mografiche, o 2) un complesso di variabili economiche e demografiche.

Nel caso 1) le classi sono costruite sulla base dei tassi di crescita dellapopolazione (sono quindi influenzate, oltre che dal saldo migratorio,anche dal saldo naturale). All’origine di questa tipologia si trova un la-voro dell’Agei (1983), che prevedeva sei classi di comuni, a seconda che,nel passaggio dal primo al secondo sottoperiodo a confronto, i tassi diincremento fossero passati da positivi a negativi, da negativi a positivi,fossero rimasti negativi (con valori assoluti crescenti o decrescenti) o,infine, fossero rimasti positivi (anche in questo caso, con valori assoluticrescenti o decrescenti). Questa metodologia è stata poi ulteriormentearticolata per consentirne l’applicazione anche con periodizzazioni piùlunghe (Barsotti e Bonaguidi, 1981a; 1981b; Bottai e Costa, 1981).

Nel caso 2), invece, prima si classificano i comuni sulla base di uncomplesso di variabili economiche e demografiche, poi se ne analizzal’evoluzione demografica (Bottai, Costa e Formentini, 1978), cercandonel contempo di stabilire un legame di causa-effetto tra questa e la clas-se di appartenenza del comune all’interno della tipologia creata.

Rientrano in questo tipo di applicazione anche i lavori di Vitali (1983;1989; 1990) e Del Colle (1987), che si distinguono dagli altri di analogaispirazione per:

a) la logica con cui sono creati i quattro gruppi di comuni, caratteriz-zati da diverso grado di urbanità (urbani, semiurbani, semirurali e rurali);

b) la sistematicità dell’applicazione su serie lunghe storiche (dal 1951)e su tutto il territorio nazionale;

c) l’approfondimento dell’analisi, con distinzione delle componentidella crescita (naturale e migratoria), delle aree geografiche studiate (percircoscrizione, per zona altimetrica, per distanza dalla costa e così via),della «traiettoria urbana» percorsa nel tempo dai vari comuni18 e altre.

Di questi lavori, la conclusione forse più importante è che i tassi dicrescita demografica più significativi hanno caratterizzato quei comuni

18 Un comune classificato come rurale nel 1951 può essersi trasformato fino ad assumerequalche caratteristica urbana, fatto che porta a riclassificarlo, in date successive, in uno deirestanti tre gruppi. Il passaggio da una tipologia all’altra costituisce la traiettoria urbana se-guita da quel comune nel corso del tempo.

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che hanno saputo evolversi in senso urbano19. Resta però il dubbio sulladirezione della relazione causale: sono le caratteristiche urbane che hannoattirato la popolazione, come Vitali suggerisce, o è stato l’imponente tassodi crescita, determinato da altri fattori, a portare poi a una trasforma-zione di quelle aree in senso urbano? E se anche è vera la prima ipotesi,qual è il punto fino al quale si dimostra valida e oltre il quale, invece,i vantaggi della città cedono il passo a diseconomie di scala? Per la ri-sposta a questi interrogativi, che escono peraltro dallo stretto ambito de-mografico, la strada da percorrere sembra ancora lunga.

Una logica diversa ha seguito invece Bachi (1963; 1976; 1984), cheha proposto metodi di analisi territoriale, quali l’individuazione del ba-ricentro territoriale di una distribuzione e dei due assi principali delladispersione20, (quasi) indipendenti dalla «maglia» territoriale prescelta.Nello stesso senso va la proposta di costruire un reticolo esagonale chericopra completamente il territorio sotto studio, in modo da conciliarei vantaggi dell’esaustività dell’analisi e dell’omogeneità delle aree a con-fronto, in senso sia sincronico sia diacronico21. Questi e altri suggeri-menti, adottati anche dall’Istat (1988) per un atlante, si prestano alla de-scrizione non solo dei dati di stock (relativi alla distribuzione), ma an-che di quelli di flusso: con riferimento alle migrazioni interne di un da-to anno, ad esempio, si può confrontare il baricentro dei luoghi di origi-ne con il baricentro dei luoghi di destinazione e vedere di quanto questispostamenti hanno contribuito a modificare il baricentro delle residenze.

6. Previsioni

Privo di basi biologiche e legato, ma in maniera complessa, al conte-sto socio-economico, il movimento migratorio risulta estremamente dif-ficile da prevedere. Tale difficoltà è particolarmente pronunciata per le

19 Anche se occorrequi stare attenti al rischio di circolarità del ragionamento, perchéla numerosità della popolazione è uno dei criteri che concorrono a determinare il grado diurbanità di un comune.

20 Nel caso di un territorio di forma allungata come quello italiano, tuttavia, il primoasse di dispersione coincide quasi sempre con l’asse di allungamento del territorio stesso e risultaquindi di limitata utilità. In effetti, questa rappresentazione raggiunge il massimo dell’efficacianel caso di territori di forma perfettamente circolare.

21 Gli esagoni che ricadono completamente dentro a un territorio comune (se il comuneè l’unità territoriale per cui si dispone dei dati originali) prendono il valore medio delcomune, nell’ipotesi che il fenomeno sia equidistribuito al suo interno. Per gli esagoniche si trovano invece «a cavallo» tra due o più comuni, i valori si calcolano come medieponderate (alle quote di superficie interessate) dei valori comunali originali, sempre nell’ipotesidi equidistribuzione territoriale all’interno di ogni comune.

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piccole aree, non isolate dal territorio circostante e soggette quindi adafflussi e deflussi di popolazione importanti e repentini (De Sirnoni, 1984;Termote, 1984a).

Ma il problema riguarda anche aree più ampie. A livello regionale,ad esempio, l’IRP (l’Istituto di ricerche sulla popolazione) ha semprepreferito non abbandonare l’ipotesi di migrazioni nulle nelle sue previ-sioni e lo stesso ha fatto l’Istat, tranne che in un’occasione — peraltrorecente (1989) — in cui per la prima volta ha prodotto previsioni demo-grafiche regionali con considerazioni anche dei movimenti migratori22.

Neppure a livello internazionale si abbandona volentieri l’ipotesi dimigrazioni nulle: le previsioni demografiche dell’ONU (United Nations,1991a) e quelle della Banca mondiale (World Bank, 1988), per limitarsiai due esempi più noti, non sono quindi, in senso stretto, che delle proie-zioni. La giustificazione è, in questo caso, che i diversi tassi di incre-mento naturale, tenuto implicitamente conto dei diversi ritmi di svilup-po economico, determineranno una certa pressione migratoria dalle areea più forte crescita verso quelle meno dinamiche. Si esprime quindi, perquesta via, una sorta di potenziale migratorio che potrà, in circostanzeperaltro non precisate, tradursi in flussi migratori effettivi (Golini e Bo-nifazi, 1987).

Proiezioni sono anche (come si è detto nel par. 2) i risultati dei mo-delli di popolazione multiregionali, che comunque — proprio per l’inve-rosimiglianza delle ipotesi e in particolare di quella di costanza dei tassimigratori per età e per area di origine e di destinazione — non vengononeppure presentate come tali, ma solo come un diverso modo di misura-re (in termini di stock e non di flussi) le tendenze correnti.

Questi limiti possono essere superati in vario modo. Tra i più sem-plici vi è quello di immaginare una progressiva riduzione, sino eventual-mente alla scomparsa, dei flussi migratori. Questa ipotesi ha il vantag-gio di garantire una certa continuità con la situazione corrente, che co-stituisce il punto di partenza, ma sconta anch’essa, come quella prece-dente (migrazioni costanti), il limite di un ridotto grado di verosimiglianza.

Un tentativo di miglior aderenza alla realtà passa attraverso l’intro-duzione di ipotesi di adattabilità dei flussi migratori alle condizioni de-mografiche e/o socio-economiche prevalenti. Nel primo caso (dipenden-za dei flussi dalle condizioni demografiche) rientra la proposta di tenereconto delle interazioni tra le popolazioni delle due aree, rispettivamentedi origine e di destinazione delle migrazioni (Courgeau, 1991). Si su-

22 In una versione delle previsioni, i movimenti migratoti interregionali sono ipotizza-ti costanti sui livelli osservati verso la metà degli anni ottanta.

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pera così il limite di considerare solo una delle due popolazioni (tipica-mente quella di origine), ma si introducono ipotesi sul tipo di legamefunzionale tra migrazioni e consistenza demografica delle due popola-zioni che andrebbero meglio verificate. Un ulteriore svantaggio di questoapproccio è che il modello che ne risulta è estremamente complesso.

Nel secondo caso (dipendenza delle migrazioni dalle condizioni socio-economiche), oltre alle difficoltà di determinare correttamente la formadella relazione e il valore dei parametri, oltre al limite di dover conside-rare costanti nel tempo l’una e gli altri, ci si scontra anche con l’ostacolo,che appare insormontabile, di dover prevedere quali valori assumerannoin futuro le variabili esplicative (Termote, 1984a).

In conclusione, anche se a livello nazionale le previsioni demografi-che sono tradizionalmente state smentite più nelle ipotesi di feconditàe di mortalità che in quelle migratorie e anche se, nella fase attuale deipaesi sviluppati, i flussi migratori interni sono molto ridotti mentre quellidall’estero vengono rallentati da controlli alle frontiere, dal punto di vi-sta teorico, in fase di previsione, l’anello più debole della catena sembraoggi costituito proprio dalla variabile migratoria.

7. L’approccio microdemografico

Radicalmente diverso dal tipo di prospettiva di cui si è parlato sin qui, macon diversi punti di contatto con essa, è lo studio delle migrazioni dalpunto di vista microdemografico, cioè con prospettiva individuale. Sitratta di uno sviluppo recente, che ha interessato quasi con-temporaneamente tutti i campi della demografia (si veda il capitolo diSantini, «I metodi», in questa Guida) e che anche nello studio delle mi-grazioni ha fornito contribuiti conoscitivi molto rilevanti.

La base teorica generale è costituita dallo studio delle biografie e siinforma al principio di non considerare più un solo fenomeno per volta,o «allo stato puro», com’era tipico della tradizione classica dell’analisidemografica, ma, al contrario, di tenere esplicitamente conto di comeil passato di un individuo (la sua biografia, appunto) modifica la sua probabilitàdi subire un certo evento e anch’esso, insieme con tutto il resto,influenzerà poi il suo futuro (Courgeau e Lelièvre, 1989).

In questo modo, potenzialmente, ogni singola modificazione di sta-tus, associata a un qualsiasi evento subito (matrimonio, migrazione diordine k, nascita di un figlio di ordine n e così via), trova almeno partedella sua spiegazione nel passato dell’individuo (altri eventi subiti in pre-

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cedenza, per ognuno dei quali conta il tempo trascorso, l’ordine di succes-sione e così via).

In campo migratorio, ma non solo, l’applicazione empirica sinora piùimportante di questa nuova impostazione è rappresentata dall’indaginefrancese « tripla biografia» (familiare, professionale e migratoria), con-dotta nel 1981 (Riandey, 1983; Courgeau, 1984; 1987; Bonlavet e Le-lièvre, 1989; 1991). A un campione di circa quattromila individui è statochiesto di ricostruire le tappe fondamentali delle loro carriere con par-ticolare riferimento alle tre sfere sopra indicate, ponendo molta atten-zione alle date e, forse più ancora, alla successione degli avvenimenti(Courgeau, 1990). In seguito, tra il 1985 e il 1987, un’inchiesta simileè stata condotta anche in Italia23 (Bottai, 1990).

I risultati delle due inchieste hanno permesso di evidenziare sia aspettipoco noti, sia altri, intuitivamente evidenti, ma mai verificati e misura-ti empiricamente in maniera corretta. In particolare è emerso lo strettolegame esistente tra le tre sfere analizzate: ad esempio, alla costituzionedella famiglia e al suo progressivo allargamento per nascita dei figli siaccompagna una probabilità di migrazione comparativamente elevata (an-che subordinatamente al titolo di godimento dell’alloggio e alla sua ade-guatezza rispetto alle dimensioni familiari); la fecondità aumenta dopouna migrazione dalla città verso la campagna, mentre quasi non si ridu-ce (perché era già bassa in precedenza) dopo una migrazione nella dire-zione opposta; le migrazioni sono più rare tra le famiglie in cui entram-bi i genitori lavorano; e così via.

In questi studi va tuttavia considerato che, data la contenuta dimen-sione del campione e la relativa rarità delle migrazioni a lungo raggio,i migranti su grandi distanze risultano poco numerosi e le loro caratteri-stiche restano un po’ nell’ombra. Si tratta di un aspetto importante, per-ché quelle a lungo raggio sono spesso, anche se non sempre, le migrazio-ni più legate alla vecchia immagine di deflussi causati da squilibri e po-vertà. Del resto, anche se le caratteristiche individuali di questi migran-ti fossero sufficientemente ben documentate, resterebbero ancora fuoridal quadro le circostanze esterne e le costrizioni ambientali che pure,soprattutto nel vecchio modello migratorio, possono giocare un ruoloimportante. Ciò suggerisce che, almeno in questa forma, questo tipo diindagini è più adatto a descrivere e interpretare le migrazioni come partedi un quadro generale di equilibrio che non come segnale (e forse, asua volta, causa) di disequilibri territoriali e sociali.

23 Il campione era però più piccolo, geograficamente non rappresentativo e formato sullabase di famiglie (circa duemila) anziché di individui.

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È possibile che questa immagine appartenga ormai al passato e cheil contesto sia ormai sufficientemente favorevole — e territorialmenteindifferenziato — da giustificare la scelta di concentrare l’attenzione sullemotivazioni a livello familiare e individuale. Questa però non è che un’i-potesi, che sarebbe opportuno sottoporre a verifica. Concettualmenteciò significa formulare una teoria sufficientemente ampia da compren-dere contemporaneamente più livelli di spiegazione, organicamente le-gati tra loro. Tecnicamente, poi, la soluzione dovrebbe passare attra-verso la costruzione di un macromodello, che comprenda al suo interno,come casi particolari, sia situazioni in cui agiscono quasi esdusivamentevariabili generali, di contesto (il vecchio modello di migrazioni come sin-tomo di squilibri territoriali), sia situazioni in cui agiscono invece quasiesclusivamente variabili individuali (i piccoli spostamenti determinatinon dalle avverse condizioni esterne, ma solo dalle fasi del ciclo di vita).L’estensiva applicazione del modello ad aree geografiche e periodi di-versi potrebbe chiarire se i due sottolivelli interpretativi, macro e micro,adottati sin qui separatamente, si sono solo susseguiti (il secondo haormai preso il posto del primo), o se invece coesistono, o hanno coesistitoper qualche tempo. Si potrebbe inoltre, dopo aver stabilito opportunivalori-soglia di importanza relativa dell’uno e dell’altro, dar corpo e tempialla teoria della transizione migratoria come parte del processo ditransizione demografica (si veda il par. 3).

Obiettivi ambiziosi che non sono ancora a portata di mano: tuttavia,grazie ai progressi conseguiti con la prospettiva microdemografica e lostudio delle biografie, una risposta ad alcuni degli interrogativi sollevatiappare oggi più vicina.

8. Le prospettive degli studi sulla mobilità

È forse opportuno concludere queste riflessioni circa lo stato deglistudi sulla mobilità con qualche accenno alle prospettive e ai filoni diricerca che oggi si possono individuare.

I due filoni probabilmente più importanti sono Io studio delle mi-grazioni dai Pvs e l’approccio micro-demografico, con i connessi problemi dicollegamento tra le due prospettive, macro e micro, di cui si è già detto.

Vi sono poi gli approcci «eterodossi» al problema delle migrazioni,un insieme molto eterogeneo e con proposte che attendono ancora diessere corroborate da convincenti prove empiriche della loro validità.In questo gruppo si potrebbe classificare, ad esempio, la proposta di far

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riferimento al concetto di «migrabilità» (migrability; Rajulton, 1991):la propensione a migrare vista come una sorta di malattia infettiva, chesi propaga tra la popolazione con velocità diversa in funzione sia dellecaratteristiche della popolazione stessa sia degli stimoli esterni, e chenon sembra incompatibile con l’interpretazione familiare cumulativa diMassey (1988; 1990) di cui si è detto sopra.

Eterodosso è anche l’indice di intensità migratoria (Courgeau, 1991) che— come si è ricordato nel paragrafo 6 — si sforza di far intervenire nei cal-coli non soltanto una delle due popolazioni interessate da un flusso (quelladi origine o quella di destinazione), ma entrambe: un radicale cambio di pun-to di riferimento, suggerito dall’osservazione empirica, ma causa di formi-dabili difficoltà di trattamento statistico-matematico dei relativi modelli.

In considerazione della difficoltà di concettualizzare in maniera uni-taria e soddisfacente le migrazioni nel loro complesso, un’altra via per-corsa in tempi recenti è stata quella di concentrarsi sulla mobilità di seg-menti particolari della popolazione. Del resto, gli stessi modelli migra-tori per età proposti da Rogers e Castro (1981) — di cui si è detto nelparagrafo 2 — altro non sono che la sovrapposizione di due o tre curvemigratorie diverse per le diverse classi di età. Poiché la prima curva siriferisce a migrazioni di bambini, di tipo dipendente e caratterizzate daassenza di autonomia decisionale24, e la seconda alle migrazioni degliadulti in età da lavoro, di cui in pratica si è sempre trattato a propositodella mobilità, l’attenzione si è concentrata sulla terza curva, quella re-lativa alle migrazioni della popolazione anziana (Bartiaux, 1988; 1990;Rogers, Watkins e Woodward, 1990; Serow e Sly, 1991).

Nonostante il frequente ricorso a fonti ufficiali (primo fra tutti il cen-simento), l’approccio è qui piuttosto simile a quello degli studi riferitial livello individuale: ci si interroga sullo stato di salute degli anzianiche migrano, sul loro stato civile (coniugati, vedovi e così via), sulle de-stinazioni e sul motivo della migrazione (verso luoghi più «ameni», onelle famiglie dei figli che hanno bisogno di aiuto per la custodia di bam-bini piccoli, o ancora verso i figli, ma per ricevere assistenza) e viadicendo. La migrazione, del resto, è quasi sempre a breve raggio e tal-volta interna alla stessa città, così che solo una maglia territoriale estre-mamente fine25 è in grado di coglierla. Anche in questo caso gli appro-

24 È stato anche proposto, a questo riguardo, di cominciare lo studio delle migrazionia partire da un’età convenzionale (ad esempio 15 anni), oltre la quale si possa pensare allamigrazione come a una scelta cosciente, assimilabile a quella di sposarsi, fare figli e cosìvia (Santini, 1992).

25 O l’esistenza di quesiti censuari di mobilità centrati sull’abitazione, e non sul comunedi residenza a una prefissata data antecedente (come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti).

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fondimenti risultano di grande interesse, ma soffrono del limite di non es-sere ben inquadrati in un contesto teorico più ampio, analogamente a quan-to si è osservato nel paragrafo precedente a proposito dell’approccio micro.

Vi è infine un modo completamente diverso di affrontare il proble-ma, che ha tratto notevoli spunti dalla ricerca degli ultimi anni. Si è dettoche le migrazioni possono provocare sulle popolazioni sia di origine siadi destinazione effetti anche profondi in termini di struttura demogra-fica, crescita economica e così via. Ma questi effetti possono essere an-che di altra natura e in particolare riguardare la distribuzione di carat-teri geneticamente determinati (ad esempio il gruppo sanguigno), o adessi assimilabili (ad esempio il cognome, che segue la linea di discenden-za maschile). Da qui l’idea di ribaltare la prospettiva: osservare la di-stribuzione di frequenza di questi «marcatori genetici» per inferirne qual-cosa sui movimenti migratori che li hanno determinati (Menozzi, Piaz-za e Cavalli-Sforza, 1978; Arnmerman e Cavalli-Sforza, 1984; Termo-te, 1984b; Martuzzi Veronesi e Gueresi, 1990; Piazza, 1990).

Si tratta però di uno strumento che consente di cogliere, peraltroimperfettamente, solo effetti macroscopici, realizzatisi a seguito di flus-si migratori forti e prolungati. Esempi possono essere il popolamentodell’Europa durante la rivoluzione agricola dell’8000 a. C., o la diffu-sione delle colonie greche in Italia intorno al secolo VI a. C., o, in tempipiù recenti, ma già con minor grado di precisione, le grandi correnti mi-gratorie interne in Italia del secondo dopoguerra, prima dal nord-estverso il nord-ovest, e poi dal sud verso il Lazio e verso il nord.

Uno strumento, quindi, che porta a focalizzare l’attenzione sulle mi-grazioni come fenomeno di massa e che riapre, per altra via, il problemadi come collegare in maniera funzionale e organica, dal punto di vistasia dell’interpretazione sia della strumentazione di ricerca, un passatodi grandi travasi migratori con un presente di mobilità interna ridotta,compensata forse in parte dagli arrivi dall’estero. La speranza è quelladi riuscire un giorno non solo a fornire giustificazioni a posteriori suquello che è già avvenuto, ma anche a anticipare e prevedere il futuro.

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Capitolo dodicesimo

Tendenze, conoscenze e governo

Gian Carlo Blangiardo

1. Sensibilità e sensibilizzazione

«Può un Paese ignorare le dimensioni e le implicazioni delle varia-zioni demografiche? Possono politici, programmatori, responsabili dellacosa pubblica in genere, continuare a considerare la popolazione comevariabile naturale, di cui è bene tenere conto, ma sulla quale è impossibileintervenire? E gli individui, le coppie, le famiglie, che con il loropersonale comportamento determinano la dinamica demografica del Paese,debbono forse rimanere all’oscuro delle conseguenze che le loro scelte —moltiplicate per milioni di volte — hanno sulla collettività nazionale? ».

Con queste parole si apriva il Rapporto sulla popolazione italiana (CNP,1980), documento ufficiale di un organismo, il Comitato nazionale peri problemi della popolazione, istituito nel 1976 presso la Presidenza delConsiglio dei ministri al fine di «studiare il problema della popolazionenei suoi molteplici aspetti e di coordinare le iniziative, anche allo scopodi consentire una migliore partecipazione italiana alle riunioni promossedalle organizzazioni internazionali» (art. 1 D. M. 10-12-1976).

Tale rapporto, articolato in due parti, l’una dedicata «alla valutazionedelle tendenze in termini di conseguenze sociali ed economiche e diimplicazioni per l’azione pubblica», l’altra «alla documentazione e allariflessione sull’intensità e i tempi delle trasformazioni in atto» (CNP,1980, p. 11), si può dire abbia avuto l’effetto di un vero e proprio sassolanciato nello stagno, in quanto denso di messaggi e di avvertimenti in-dirizzati ai responsabili della gestione pubblica e alle forze sociali di unpaese che per tradizione, e con la sola eccezione di una fase storica bencircoscritta, ha sempre dimostrato un atteggiamento agnostico nei con-fronti delle problematiche demografiche.

Si è trattato dunque di un evento importante e innovativo. Non soloper il valore scientifico e l’impatto divulgativo del contenuto del Rap-porto ma, soprattutto, in quanto primo vero segnale, nell’Italia repub-

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blicana, della disponibilità da parte della classe politica (o almeno di unasua parte) ad attribuire alle conoscenze in tema di popolazione un ruolodi orientamento nelle scelte che concorrono a determinare la gestionedel paese.

Riflettendo oggi sugli avvenimenti succedutisi dalla metà degli annisettanta, si può affermare che, pur senza provvedimenti espliciti di po-litica demografica, l’istituzione del Comitato, prima, e la diffusione delRapporto, poi, hanno contraddistinto — un po’ per scelta e un po’ per-ché i tempi erano maturi — l’avvio di una fase di promozione e valoriz-zazione delle conoscenze demografiche da parte delle autorità di gover-no. Un nuovo corso, tuttora in atto, la cui conferma si è già avuta nel1981 con la costituzione dell’Istituto di ricerche sulla popolazione (IRP),un organo del CNR delegato a «svolgere ricerche in campo demograficosu problemi di particolare rilevanza politica, economica e sociale» e cheha curato, nel quadro di una vasta attività di approfondimento e divul-gazione di temi demografici, i successivi aggiornamenti del primo Rap-porto sulla popolazione in Italia (IRP-CNR, 1985; 1988).

D’altra parte, se da un lato è innegabile che le importanti «aperture»alla demografia di questi ultimi anni siano indizio di crescente sensibilitàda parte di una classe politica interessata a «saperne di più», va anchesottolineato come tale processo, inizialmente inteso a fornire elementiper sostenere il dibattito nelle sedi internazionali — e questo è stato,per l’appunto, uno dei principali motivi all’origine della creazione delCNP — abbia trovato, proprio in presenza delle recenti rapide trasfor-mazioni ricollegabili a tematiche di indubbia rilevanza per l’organizzazio-ne economica e sociale del paese, forti spinte per un’ulteriore sensibilizza-zione, sia dei politici e degli amministratori sia dell’opinione pubblica.

In tale contesto, il costante apporto della comunità scientifica, arric-chito dai numerosi contributi dell’IRP, nonché da una maggiore dispo-nibilità di statistiche a livello nazionale e internazionale, non ha manca-to di sviluppare, accanto al quadro delle tendenze e all’identificazionedelle relative problematiche, un’ampia gamma di suggerimenti e di pro-poste anche nell’ottica di un possibile intervento pubblico.

Ma fino a che punto scenari, problemi e ipotetiche soluzioni sonostati recepiti, se non proprio richiesti, dalla classe politica nella predi-sposizione delle linee di governo e dalla pubblica amministrazione nel-l’attuazione degli atti esecutivi?

È una domanda cui è possibile rispondere solo attraverso indizi e pre-sunzioni. E forse, prima ancora di lasciarsi andare a valutazioni circal’esistenza o meno dell’auspicato salto di qualità tra «conoscenza» e con-

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seguente «azione», conviene interrogarsi su quale sia stato, a partire dalsecondo dopoguerra, il tradizionale ruolo dell’informazione demografi-ca nell’attività di governo e verificare quali siano, oggi, i meccanismi concui essa viene concretamente richiesta e resa disponibile per tali finalità.

2. Consumo e incentivo alla produzione di conoscenze demografiche da partedell’operatore pubblico

Al fine di comprendere in che misura esista una domanda esplicitadi informazioni demografiche da parte dell’operatore pubblico e quan-to sia legittimo azzardare che la stessa offerta di dati e di analisi demo-grafiche risenta di esigenze e interessi provenienti da tali ipotetici uti-lizzatori, è opportuno distinguere i diversi livelli funzionali con cui sipone il rapporto tra la demografia, da un lato, e l’attività politica e digoverno, dall’altro.

In proposito, è utile anzitutto distinguere un uso delle conoscenzedemografiche per finalità che potremmo dire di tipo «strategico» nellagestione del paese. Ciò accade, ad esempio, quando si tratta di identifi-care, attraverso l’approfondimento dei fenomeni e delle tendenze, l’in-sorgere o l’evolversi dei problemi che nascono tanto dalla gestione dellerisorse (l’apparato produttivo, l’ambiente e così via), quanto dalla pre-disposizione dei servizi (la sanità, la scuola, i trasporti e così via) e, nonultimo, dalla necessità di adeguare il quadro normativo e l’organizza-zione sociale alle istanze che provengono da nuovi orientamenti ideolo-gici e culturali: si pensi ai temi del divorzio, dell’aborto, al fenomenodelle «unioni di fatto», sino alle più attuali esigenze di regolamentazionedelle immigrazioni extracomunitarie e dei rapporti con popolazioni edetnie tanto diverse ed eterogenee.

In tale ambito si ha a che fare, come è facile rendersi conto, con temidi particolare importanza; si tratta di aspetti della vita sociale chevengono generalmente affrontati con un’impostazione prevalentemente,se non esclusivamente, di natura politica e in cui l’apporto demografico,anche se generalmente limitato alla definizione del quadro di riferimento,non è certamente trascurabile.

Una seconda modalità di impiego delle conoscenze demografiche nel-l’attività di governo è assai più circoscritta e strumentale. Essa riguardala richiesta di informazioni «mirate» al varo di provvedimenti specificiche per loro natura, per la presenza di vincoli istituzionali, ovvero peril tipo di effetti che sono destinati a produrre, contengono, spesso in

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termini di veri e propri parametri operativi, riferimenti diretti alla con-sistenza della popolazione o ad alcune sue caratteristiche strutturali: sesso,età, istruzione, attività professionale, area di residenza e così via.

In questo senso la legislazione e gli atti della pubblica amministra-zione offrono numerosi esempi di impiego strumentale delle conoscen-ze demografiche: si va dai richiami alla popolazione legale (censuaria) con-tenuti nella stessa Costituzione in tema di rappresentanza politica (art.57), alla definizione di ambiti e competenze territoriali di enti e nuoveistituzioni – si veda, ad esempio, l’art. 14 della legge n. 833 del 23-12-1978 che ha dato vita al Servizio sanitario nazionale –, all’ema-nazione di norme finanziarie – si veda il richiamo alla consistenza dellapopolazione e al tasso di emigrazione nelle norme sulla ripartizione delfondo comune a favore delle regioni a statuto speciale (art. 8 legge n.281 del 16-5-1970) –, alle innumerevoli disposizioni, spesso nell’area dellecompetenze degli enti locali, in materia di sanità, assistenza, istruzionee formazione professionale, viabilità e trasporti, uso dei suoli e così via.

Sembra che anche i canali di acquisizione delle conoscenze demogra-fiche possano ricondursi ai due precedenti livelli funzionali.

Mentre la pubblica amministrazione in senso stretto si avvale dellefonti istituzionali ed è largamente ancorata alle cosiddette statisticheufficiali - l’Istat in primo luogo, ma anche quelle prodotte da organie servizi interni all’apparato pubblico -, l’ingerenza della demografianelle valutazioni e nelle scelte che dettano gli orientamenti strategici av-viene generalmente attraverso mediazioni e interventi che provengonodall’esterno.

E se è vero che raramente ‘è il politico che commissiona di sua inizia-tiva uno studio a carattere demografico1 è anche vero che, oggi piùche in passato, egli cerca lumi o conforto nell’esistente, in una produ-zione che, tuttavia, nasce spesso in ambito accademico e sviluppa soloin parte, anche se via via con maggior frequenza, interessi riconducibilia impieghi operativi.

Ciò premesso, si può comunque affermare che un collegamento traattività di governo e ricerca demografica esista, anche se di fatto esso

1 Golini ricorda l’iniziativa del Ministero del Bilancio che aveva incaricato nel 1983 una Commis-sione di esperti di varie discipline di predisporre uno studio su «Italia 2000», ma la Commissio-ne, che pure aveva iniziato i suoi lavori scientifici, non è mai stata insediata formalmente e l’iniziativaè quindi malamente abortita (Golini, in AA.VV, 1987). D’altra parte, già nel 1980, lo stesso Mini-stero aveva preso un’iniziativa analoga incaricando un Comitato di esperti (tra cui Livi Bacci) di studia-re le conseguenze economiche dell’evoluzione demografica, ma anche quella esperienza, benché laCommissione fosse giunta alla stesura di un rapporto, non sembra abbia prodotto apprezzabili rica-dute in termini di azione politica.

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sembra identificabile solo in via indiretta: il mondo scientifico alimentail dibattito sui temi della popolazione e il governo reagisce, compatibil-mente con gli orientamenti politici e i vincoli tecnici e istituzionali, alleesigenze sollevate dalla società.

Una prassi normale consiste nella sequenza sensibilizzazione-commissione di studio-provvedimento legislativo; una procedura, troppospesso interrotta proprio nella fase operativa, ove il legame tra demografiae attività di governo risulta generalmente mediato dalla consulenza dellacomunità scientifica e supportato dalla letteratura in materia.

La realtà dei fatti è dunque quella di una classe politica e di una pub-blica amministrazione che, per quanto sensibili, raramente stimolano unaconoscenza diretta dei fatti demografici ma, nel migliore dei casi, favo-riscono e si avvalgono di un competente esame dell’esistente.

Sembra dunque particolarmente opportuno riflettere sulla produzionedemografica di questi ultimi anni, nel tentativo di coglierne gli orienta-menti operativi e di valutare se, e in quale misura, essa si sia adeguataalle necessità di una gestione consapevole dei problemi che hanno viavia accompagnato la vita del paese nel processo di transizione dal secon-do dopoguerra alle soglie del secolo XXI.

3. Le fonti istituzionali

La produzione di conoscenze demografiche riconducibili all’area diinteresse dell’operatore pubblico può classificarsi, a grandi linee, in duegruppi.

Nel primo rientrano i cosiddetti dati di base, relativi sia alla consi-stenza e alla struttura della popolazione sia ai principali fenomeni de-mografici, opportunamente specificati rispetto alle caratteristiche dei sog-getti che ne sono coinvolti o del contesto in cui si manifestano. Al se-condo afferiscono tutti quegli studi che, con l’ausilio di appropriate me-todologie, mirano a evidenziare le tendenze in atto, a spiegarne le cau-se, a identificarne gli effetti e a segnalare, ove necessario, eventuali cor-rettivi e modalità di intervento.

Per quanto riguarda i dati di base, si può senz’altro affermare chel’operatore pubblico abbia potuto disporre di un complesso di informa-zioni largamente soddisfacente. Certo non sono mancate carenze, speciein termini di specificazione per aree regionali e sub-regionali, ma nelcomplesso vi è da ritenere che a partire dagli anni sessanta l’offerta distatistiche di base per la popolazione italiana sia stata al passo con quantodisponibile nell’ambito dei paesi più avanzati.

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Limitando l’attenzione al secondo dopoguerra, si è potuto contaresu cinque rilevazioni censuarie assai dettagliate (l’ultima è del 1991) esu un’ampia serie di statistiche correnti relative ai più importanti feno-meni demografici, con un’articolazione territoriale che è andata via viarecependo, anche se con qualche ritardo, le trasformazioni del sistemadelle autonomie locali. A tale proposito I’Istat principale, se non esclu-sivo, fornitore di dati demografici fino agli anni settanta — ha messo adisposizione un abbondante materiale che, tuttavia, è valso forse più ainformare gli addetti ai lavori sulle trasformazioni in atto e a stimolare laricerca accademica, che ad agire direttamente da input nelle scelte digoverno (si veda la tabella 1).

Tabella 1. Istat: principali statistiche della popolazione dal secondo dopoguerra al 1990

I) Censimenti

a) Censimento generale della popolazione:1951, 1961, 1971, 1981 e 1991.— Consistenza della popolazioneresidente e presente, caratteristichestrutturali: sesso, età, stato civile, luogodi nascita, professione, istruzione.— Famiglie e convivenze: numerosi-tà, composizione, caratteristiche delcapo famiglia e dei singoli membri.— Abitazioni, struttura.— Alcuni aspetti particolari (1971 e1981): pendolarismo, mobilità professio-nale, presenza straniera (1991).

b) Censimento della popolazione italiana estraniera della Somalia, 1953.

II) Dati di base e indicatori elementari

a) Popolazione residente a livello comunale al 31dicembre dal 1952 al 1989. Frequenzaannua di nascite, morti, iscrizioni ecancellazioni anagrafiche (movimentointerno e con l’estero): 1958-89.[Cfr. Popolazione e circoscrizioni ammi-nistrative dei comuni, fino al 1963; Po-polazione e movimento anagrafico deicomuni, 1964-80 e 1988-89; Supple-mento Bollettino mensile di statistica, 17,1982 (1981) e 9, 1983 (1982); Annua-rio di statistiche demografiche, 1983-87].

b) Movimento naturale e sociale. Nati, morti ematrimoni secondo gli atti dello statocivile: frequenza annua e caratteristi-che strutturali 1951-85. Dati nazionalie territoriali (regione e provincia).(Cfr. Annuario di statistiche demografi-che).

c) Movimento migratorio. Espatri e rimpatri,trasferimenti di residenza per movi-mento interno: frequenza annua, ori-gine/destinazione dei flussi, alcune ca-ratteristiche strutturali dei migranti.[Cfr.: Annuario statistico dell’emigrazio-ne, 1955 (fino al 1953); Annuario stati-stico italiano (1954-57); Annuario di sta-tistiche del lavoro e Annuario di statisti-c h e d e l lavoro e d e l l ’ emig raz ione(1958.69); Annuario di statistiche demo-grafiche (1969.86); Popolazione e movi-mento anagrafico dei comuni (fino al1979); Statistica degli espatriati e rim-patriati 1980, 1981, 1982, Supple-mento Bollettino mensile di statistica, 6,1982; 15, 1982; 14, 1983; Movimentomigratorio interno dal 1962 al 1969,Notiziario Istat, f. 36, n. 6, 1970].

d) Altri aspetti o fenomeni di rilevanza de-mografica nell’area sociale e sanitaria.— Statistiche sanitarie e cause di morte.(Cfr.: Annuario di statistiche demografi-che, 1951-54; Annuario di statistiche sa-

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nitarie, 1955-81; Statistiche sanitarie,1982-84; Cause di morte, 1949-50,1985-87; Mortalità per causa e unità sa-nitaria locale - anni 1980-82).

— Abortività spontanea e interruzionivolontarie della gravidanza.

(Cfr.: Annuario di statistiche sanitarie;Annuario statistico italiano; Rilevazionestatistica sulle interruzioni volontariedella gravidanza - anni 1979-82, Supple-mento Bollettino mensile di statistica, 29,1983; Statistiche della Sanità, 1985-87).

— Separazioni e divorzi.

(Cfr.: Annuario di statistiche giudiziarie,Supplemento Bollettino mensile di stati-stica, 23, 1982; Annuario di statistiche de-mografiche, 1984-85).

III) Elaborazioni per approfondimentiparticolari e sviluppi di alcune areedi ricerca

a) Mortalità.

– Tavole di mortalità a livello na-zionale: 1950.53, 1954-57, 1960-62, 1964-67, 1970-72, 1977-79,1980,1981, 1982, 1983, 1984, 1985.

(Cfr.: Tavole di mortalità della popo-lazione italiana, 1950-53 e 1954-57,Annali, serie VIII, X, 1959; Tavole dimortalità della popolazione residenteitaliana, 1960-62, Notiziario Istat, f.35, n. 1, 1965; Tavole di mortalitàper stato civile, 1960-62, Note e rela-zioni, 37, 1968; Tavole di mortalitàdella popolazione italiana, 1964-67,Supplemento Bollettino mensile di sta-tistica, 8, 1970 e Annali, serie VIII,XXV, 1971; Tavole di mortalità dellapopolazione italiana, 1970-72, Sup-plemento Bollettino mensile di statistica,7, 1975; Tavole di mortalità della po-polazione italiana secondo la causadi morte, 1975-79, Bollettino mensile distatistica, 10, 1985; Bollettino mensile distatistica per 1980 e 1981, 2, febbraio1987; 11, novembre 1989).

– Tavole di mortalità con dettaglio alivello regionale: 1960-62, 1970-72, 1977-79, 1979-83.

(CE.: Tavole di mortalità per regioni ecause di morte della popolazione ita-liana, 1960-62, Annali, serie VIII,XIX, 1966; Tavole di mortalità della po-polazione italiana per regione, 1970.72,Supplemento Bollettino mensile di sta-tistica, 6, 1976; Tavole di mortalitàdella popolazione italiana per regione,1977-79, Supplemento Bollettino men-sile di statistica, 16, 1983; Tavole di mor-talità della popolazione italiana perregione, 1979-83, Note e relazioni,1, 1987).

b) Nuzialità: Tavole di nuzialità: 1960-62.Cfr.: Tavole di nuzialità della popola-zione italiana, 1960.62, SupplementoBollettino mensile di statistica, 2, 1971 eAnnali, serie VIII, XXV, 1971).

c) Fecondità.Serie storica dei tassi specifici di fecon-dità.(Cfr.: Misure della fecondità italiananegli ultimi trenta anni, Collana diinformazioni, 5, 1982).

d) Struttura per sesso ed età della popolazio-ne: Ricostruzione e aggiornamento didati intercensuari.(Cfr.: Popolazione residente per sesso etàe regione, 1972-75, Supplemento Bolletti-no mensile di statistica, 10, 1976; Popolazio-ne residente per sesso e provincia al 1°gennaio, 1952-78, Supplemento Bollettinomensile di statistica, 4, 1978; Popolazione re-sidente per sesso età e regione, 1979-81,Supplemento Bollettino mensile di statistica,11, 1981; Ricostruzione della popolazio-ne residente per sesso età e regione: anni1952-72, Istat-Università degli studi diRoma La Sapienza, Dipartimento diScienze demografiche, 1983; Popolazioneresidente per sesso e comune, 1981-83,Supplemento Bollettino mensile di statistica, 3,1985; Popolazione e bilancio demogra-fico per sesso età e regione. Ricostruzio-

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ne 1972-81, Supplemento Bollettino men-sile di statistica, 14, 1985; Popolazione re-sidente per sesso età e regione, 1982-85,Supplemento Bollettino mensile di statistica,21, 1985; Popolazione residente persesso età e regione, in: Popolazione emovimento anagrafico dei comuni eAnnuario di statistiche demografiche, 1989,Sommario storico di statistiche dellapopolazione anni 1951-87, 1990).

e) Prospettive demografiche.

— Popolazione.

(Cfr.: Tendenze evolutive della popola-zione delle regioni italiane fino al 1981,Note e relazioni, 41, 1969; Proiezionidella popolazione residente italiana al1981, 1986 e 1991, Supplemento Bol-lettino mensile di Statistica, 12, 1978;Previsioni della popolazione residentedal 1986 al 2001 per sesso, età e regione,Annali, serie X, II, 1982; Previsioni dellapopolazione residente per sesso età eregione - Base 1-1-1988, Note e relazioni, 4,1989).

— Famiglie.(Cfr.: Previsione del numero di famiglieitaliane dai 1995 al 2020, NotiziarioIstat, f. 41, n. 19, 1989).

IV) Indagini speciali, studi e ricerchea) Mortalità e salute.

(Cfr.: Cause di morte 1877-1955,1958; Indagine statistica sulle conca-use di morte, 1951-54, 1958; Indaginespeciale su alcuni aspetti delle con-dizioni igieniche e sanitarie della po-polazione, Note e relazioni, 10, 1960;Tendenze evolutive della mortalità in-fantile in Italia, Annali, serie VIII,XXIX, 1975; Indagine sulla mortalitàinfantile nell’anno 1974, Supplemen-to Bollettino mensile di statistica, 15,1976; Recenti livelli e caratteristichedella mortalità infantile in Italia, Colla-na di informazioni, 4, 1983; Indaginestatistica sulla condizione di salute esul ricorso ai servizi sanitari, novem-bre 1980, Supplemento Bollettino

mensile di statistica, 12, 1982; Indaginestatistica sulla condizione di salute e sulricorso ai servizi sanitari, novembre1983, Note e relazioni, 1, 1986; Indaginestatistica sulla condizione di salute e sulricorso ai servizi sanitari, novembre1986-aprile 1987, Notiziario Istat, f. 41,n. 17, 1987; La mortalità differenzialesecondo alcuni fattori socioeconomici.Anni 1981-82, Note e relazioni, 2, 1990).

b) Fecondità e nuzialità.(Cfr.: Indagine speciale sulla con san-guineità dei matrimoni, Note e relazioni,11, 1960; Indagine sulla fecondità del-la donna, Note e relazioni, 50, 1974).

c) Popolazione.(Cfr.: Indagine speciale su alcuniaspetti delle condizioni di vita dellapopolazione, Note e relazioni, 2, 1958;Indagine speciale su alcune caratteri-stiche genetiche della popolazione i-taliana, Note e relazioni, 17, 1962; Svi-luppo della popolazione italiana dal1861 al 1961, Annali, serie VIII,XVII, 1965; Immagini della società i-taliana, 1988; Statistiche sui mino-renni 1984-86, Note e relazioni, 5,1989; Sintesi della vita sociale italia-na, 1990).

d) Famiglie.(Cfr.: Indagine sui nuclei familiari,Collana di informazioni, 6, 1982; Inda-gini sulla struttura e i comportamentifamiliari, 1985; Atti del convegno«La famiglia in Italia», Annali, serieX, VI, 1985; Indagine multiscoposulle famiglie. Primi risultati, Notizia-rio Istat, f. 41, n. 1, 1989; Caratteristi-che strutturali delle famiglie nel 1983e nel 1988, Notiziario Istat, f. 41, n.13, 1989).

e) Immigrazione straniera.(Cfr.: Analisi delle fonti statistiche perla misura dell’immigrazione stranierain Italia: esame e proposte, Note e rela-zioni, 6, 1989. Gli immigrati presentiin Italia: una stima per l’anno 1989,Roma, 1990).

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Solo in questi ultimi anni l’orientamento della produzione Istat ri-sente di un indirizzo più operativo-divulgativo. Significativi in tal sen-so sono i primi contributi, via via aggiornati negli anni successivi, intema di ricostruzione della struttura della popolazione negli intervalliintercensuali (Istat, 1983; 1985b; 1985c), quelli relativi alle previsionidemografiche — svolte anche a livello regionale (Istat, 1982; 1989a) —e, più di recente, l’attività di approfondimento delle nuove tendenze,sia attraverso la valorizzazione e l’integrazione dei dati correnti, sia me-diante l’avvio di indagini ad hoc (Istat, 1985a; 1988; 1989c; 1990a)2.

4. L’apporto del mondo accademico

La produzione più stimolante e forse anche più utilizzata a fini ope-rativi proviene soprattutto dal mondo accademico: una produzione in-dirizzata tanto a integrare e ampliare la portata dei dati di base, quantoad approfondire la conoscenza di singoli fenomeni secondo piani di ri-cerca che, benché svincolati da specifici interessi di governo, hanno con-tribuito a delineare gli scenari in cui si sono inserite le scelte e l’attivitàdi una classe politica che, almeno sino agli anni settanta, si è limitataa prendere atto della realtà demografica e delle sue prospettive.

D’altra parte, l’atteggiamento di osservatore passivo dei fatti demo-grafici da parte del governo nel primi due decenni del secondo dopo-guerra appare coerente con una realtà, quella degli anni cinquanta e ses-santa, in cui, in assenza di chiari obiettivi e senza la necessaria matura-zione su opportunità e modalità di intervento, la dinamica dei tre fon-damentali fenomeni che regolano l’evoluzione demografica meritava at-tenta considerazione, più che orientamenti specifici.

Se, da un lato, la fecondità, dopo l’immediata ripresa post-bellica,aveva subito una nuova impennata negli anni sessanta e non ispirava

2 I nuovi orientamenti avvertiti in ambito Istat nel corso degli anni ottanta sembrano co-munque destinati a persistere. In particolare, nel 1991’e stata effettuata una rilevazione speri-mentale della popolazione residente al 31-12-1990 (per anno di nascita, sesso e stato civile) neicomuni con anagrafe automatizzata che - stando alle previsioni - è divenuta corrente a partitedal 1991. Va inoltre ricordata la ricostruzione della fecondità per generazioni nelle regioni ita-liane - condotta in collaborazione con il Dipartimento statistico dell’Università di Firenze - icui risultati sono stati diffusi nel corso del 1992. Va infine segnalato il crescente impegno del-l’Istat nell’attività di scambio e di cooperazione sulle tematiche demografiche con istituzioni ecentri di ricerca nazionali e internazionali: la partecipazione alle iniziative Eurostat, i contributia pubblicazioni ufficiali delle Nazioni Unite e la collaborazione bilaterale con il Bureau of theCensus degli Stati Uniti, lo studio sulle migrazioni interne in cooperazione con il Dipartimentostatistico dell’Università di Pisa e il Population Program dell’Università del Colorado.

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certo propositi di intervento, dall’altro l’allungamento della sopravvi-venza, puntualmente documentato dalle fonti ufficiali, esprimeva il cre-scente miglioramento delle condizioni di vita in un paese che, ancoraincapace di darsi un sistema sanitario generalizzato, non poteva realisti-camente concepire gli osservatori epidemiologici o le fini analisi che sa-rebbero venute nel corso degli anni successivi; il tutto, mentre il persi-stere dell’esodo migratorio verso l’estero e l’esplosione della mobilitàinterna lungo le direttrici sud-nord e est-ovest, anch’essi oggetto di ampistudi e documentazioni (Livi Bacci, 1972; Golini, 1974; AA. VV.,1977a; Birindelli e Nobile, 1987; Bacchetta e Cagiano de Azevedo, 1990),richiedevano un approccio al problema del Mezzogiorno che andava benoltre il raggio d’azione della demografia e dei suoi pur utili strumenti.

Di fatto, è solo verso la fine degli anni sessanta, con il mito dellaprogrammazione, che maturava l’esigenza di integrare le conoscenze de-mografiche sulle tendenze in atto con gli scenari ipotizzati per il futurosul piano dello sviluppo economico e nell’area dell’organizzazione sociale.Ed è, per l’appunto, nel corso di quegli anni che la domanda di cono-scenze da parte degli organi di governo attivava iniziative demografi-che direttamente finalizzate.

L’istituzione del Cipe (legge n. 48 del 27-2-1967) e dell’Ispe (D. P. R.n. 505 del 30-6-1972) creavano, infatti, le premesse per valorizzare, nel-l’ambito dell’attività di governo, un prodotto tanto affascinanate quan-to discusso: le previsioni demografiche (Federici, 1967; De Rita e Ru-berto, 1968; De Meo, 1969; Golini, 1969; Micheli, 1979a).

Un precursore di questi nuovi orientamenti si può ritenere sia stato,già nella prima metà degli anni sessanta, il lavoro richiesto dalla Com-missione di studio degli schemi regionali di sviluppo nell’ambito delMinistero dell’Industria e commercio a un sottocomitato formato daDe Meo, Molinari e Tagliacarne e affidato alla Svimez. Ciò ha datovita a un contributo innovativo in tema di previsioni demografiche alivello regionale, curato da Livi Bacci (1964), che ha poi avuto seguitoin altri due studi dello stesso autore (Livi Bacci e Pilloton, 1968; 1970)su popolazione e forza di lavoro a livello regionale, svolti nel quadrodella collaborazione Svimez-Ministero del. Bilancio e della program-mazione.

L’importanza di questi apporti è stata duplice: essi non solo hannofornito un’adeguata risposta alle esigenze di conoscenza che proveniva-no dalle autorità di governo, ma hanno anche offerto la dimostrazionepratica di come una domanda a fini operativi potesse agire da veicoloper lo sviluppo e la divulgazione di metodologie demografiche.

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Il primo dei suddetti contributi rappresenta, infatti, una delle piùconosciute e apprezzate opere di diffusione delle tecniche di proiezionianalitiche in ambiti sub-nazionali ed è stato per lungo tempo il fonda-mentale punto di riferimento per tutti quei lavori previsivi che hannoarricchito la produzione demografica dall’inizio degli anni settanta, sti-molati da una crescente domanda — spesso a livello locale — di informa-zioni concernenti la struttura per sesso ed età della popolazione e favo-riti dalla disponibilità di strumenti di calcolo via via più potenti.

D’altra parte, nell’ultimo ventennio, è proprio il settore delle previ-sioni quello in cui sembra più visibile un ruolo della demografia al servi-zio dell’attività di governo. Il desiderio, talvolta la necessità, di antici-pare le conoscenze e — almeno nelle intenzioni — di controllare gli equi-libri nel sistema economico nell’area dei servizi sociali hanno, infatti,largamente favorito sia lo sviluppo delle previsioni derivate, sia l’appro-fondimento degli scenari che ad esse andavano via via collegandosi.

L’ambito previsivo più ricorrente, soprattutto nel decennio centratosulla fine degli anni settanta, è stato indubbiamente quello del mercatodel lavoro, analizzato tanto a livello nazionale o di grandi ripartizioni(Bonaguidi, 1975; Golini, Ciucci e Caselli, 1978; Golini e Ciucci, 1979;Natale, 1979; Micheli, 1979b; AA. VV., 1982b; Del Boca, Ortona eSantagata, 1983; Bruni e Franciosi, 1984; Giannini, 1985; Franciosi eBruni, 1985; Franciosi, in Fuà, 1986; Bruni, 1988), quanto sul pianoregionale o sub-regionale (si vedano, in proposito, i successivi paragrafi6 e 7). Non sono tuttavia mancati interessanti sviluppi anche in altredue aree, quella dell’istruzione (Annali Pubblica istruzione, 1982; AA.VV., 1977b; 1982a; Zuliani e Trivellato, 1981; Rossi e Bernardi, in IRP-CNR, 1988) e dell’assistenza (Somogyi, 1967; Faustini, 1981; Spallac-ci, 1981; Giacomello, 1984; Banca d’Italia, IMI e INA, 1985; Vitali,1982b; 1987a; Alvaro, Pedullà e Ricci, 1987; Ministero del Tesoro, 1988,1991; Inps, 1989), certo non meno importanti in un’ottica di program-mazione della spesa e di pianificazione dei servizi. Ma in quale misurasi può affermare che una produzione varia e abbondante, come è quellache si è susseguita dagli anni settanta, abbia efficacemente anticipatogli scenari e i problemi così da meritare, o da recriminare, un’adeguatavalorizzazione nelle scelte e negli indirizzi di governo?

Il tema della qualità delle previsioni demografiche, intesa come ca-pacità di «vedere il futuro», è stata ed è tuttora fonte di critiche e diincomprensioni, tanto più ricorrenti quanto più ci si allontana dalla co-munità degli «addetti ai lavori».

E se già negli anni cinquanta un autorevole studioso come Boldrini(1956) affermava che «non si finirebbe a elencare gli scritti critici che

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non attaccano il fondamento logico ma gli insuccessi pratici delle previ-sioni demografiche», a distanza di tre decenni — pur caratterizzati daimportanti affinamenti metodologici — Livi Bacci (1982) non esitava adefinirle uno «strumento arrugginito».

In realtà, l’errore sta in chi «si arroga di trasformare la scienza inprofezia» (Boldrini, 1956) aspettandosi indicazioni puntuali là dove nonsi possono che fornire tendenze e valutazioni strettamente correlate alleipotesi che fanno da supporto ai calcoli previsivi. Né, d’altra parte,controlli e verifiche a posteriori offrono elementi risolutivi per guidicarela bontà degli scenari previsivi (Natale e Righi, 1988). Bisogna infattitener presente che, se è pur vero che l’inerzia spesso caratterizza l’e-voluzione temporale dei fenomeni demografici ma agisce su di essi inmisura diversa, è anche vero che una convincente prospettiva di risultatinon desiderabili può indurre interventi e comportamenti capaci di generarecambiamenti di rotta e tali da falsare, paradossalmente, proprio leprevisioni più corrette. Così, ad esempio, se — come ci si augura — iproblemi previdenziali conseguenti al fenomeno dell’invecchiamentodemografico non si manifesteranno con la drammaticità con cui vengo-no da tempo prospettati (Castellíno, 1976; 1985; 1990; Coppini, 1978;Vitali, 1982a; 1985; 1986; 1987b; Golini, 1988; De Leo e Gronchi,1990), ciò non sarà certo per un errore di previsione, ma per effetto diquegli interventi — oggi auspicati — che vanno via via maturando al-l’interno del dibattito, tuttora in corso, sugli scenari futuri.

Come si vede, il valore del lavoro dei demografi in questo camponon si misura dall’effettivo realizzarsi di quanto essi anticipano, ma siconcretizza nel fatto stesso di averlo anticipato. Il merito — là dove esisteun corretto uso dei dati e delle metodologie — sta, per l’appunto, nellacapacità di fornire alle forze sociali e alle autorità di governo un quadrodi riferimento, generalmente a medio-lungo termine, ottenuto con ilsupporto di un approppriato insieme di conoscenze e di ipotesi; tutto ciòcon la piena consapevolezza che, in una visione politica spesso di breveperiodo, tale quadro potrà anche venir contraddetto da scelte cheriflettono istanze o pressioni dettate da situazioni congiunturali. Pertanto, iprovvedimenti che incrementano il personale insegnante anche quando èchiaramente documentabile un tendenziale calo della popolazionescolastica, o le misure di prepensionamento varate mentre imperversa ildibattito sull’invecchiamento e le relative problematiche previdenziali, nonindeboliscono affatto il contributo della demografia; semmai esse offronoun ulteriore esempio delle ben note difficoltà e incomprensioni tra ilmondo dei tecnici e quello dei politici.

In effetti, anche se la comunità dei demografi risulta oggi più che

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in passato sensibile ai problemi e alle esigenze di governo — come testi-moniano i temi delle riunioni scientifiche e i materiali che esse produco-no (Sieds, 1968; 1976; 1978; 1987; 1989; SIS, 1981; 1982; 1987) — lademografia offre pur sempre solo un contributo tecnico e resta al serviziodi un concetto ampio di fare politica: alimenta il dibattito — fornendoalle diverse componenti della società punti di riferimento e argomentazionidocumentate — e si limita a indicare, per quanto di sua competenza elasciando a chi di dovere il compito di decidere, le specifiche azioni diintervento nel guidare, senza traumi, il processo di cambiamentosociale ed economico.

5. Due significative esperienze e alcune riflessioni

Un eloquente esempio dell’importante ruolo delle conoscenze demo-grafiche — ma anche un segnale del loro scarso livello di diffusione (etalvolta del loro spegiudicato utilizzo) nell’ambito della classe politicanel corso della prima metà degli anni settanta — si è avuto in occasionedel lungo dibattito che ha portato all’approvazione della legge 194 sul-l’interruzione volontaria della gravidanza.

Le vicende di quegli anni sono ben note: in un contesto di vivacediscussione sorretta da forti motivazioni ideologiche si è diffusa la ri-cerca di argomentazioni e dati statistici a sostegno di due tesi contrap-poste: chi vedeva nella legalizzazione dell’interruzione di gravidanza unmezzo per arginare un fenomeno, quello dell’abortività clandestina, tantodrammatico quanto dilagante e chi, viceversa, contestava le affermazio-ni sul ricorso generalizzato alla pratica abortiva e, ridimensionandonela frequenza, sottraeva argomentazioni ai fautori della legalizzazione come«doverosa scelta del male minore in risposta alle istanze e ai bisogni digran parte della popolazione».

Nel continuo susseguirsi dei progetti di legge si consolidavano, e rim-balzavano nell’opinione pubblica, stime sulla consistenza degli aborti clan-destini del tutto infondate e fuorvianti (da ottocentomila a tre milionidi casi annui), corredate da valutazioni sulla mortalità materna (conse-guente a pratiche abortive) ancor più insensate (venti-venticinquemiladecessi annui).

In tale contesto, un contributo di chiarezza, ma anche una denunciadelle frequenti situazioni di disinformazione e di malafede, è stato of-ferto dal lavoro di Colombo (1976) che, dopo un paziente esame criticodelle fonti e dei dati disponibili, ridimensionava drasticamente — conil vaglio di un approccio scientifico — la stima dell’abortività clandesti-

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na a cento-duecentomila casi annui. Un ridimensionamento che, d’altraparte, era già presente in altre autorevoli stime svolte in quegli stessianni (Livi Bacci, 1975) e che avrebbe poi trovato legittimazione anchealla luce delle successive valutazioni in regime di abortività legale (Isti-san, 1985; Figà Talamanca e Spinelli, 1986; Blangiardo e Bonarini, inIRP-CNR, 1988; Ministero della Sanità, 1979-90).

Non si sa quanto il confuso quadro delle conoscenze demograficheabbia favorito o ostacolato l’iter di una legge che era ormai troppo spintadal clima del tempo per venire ulteriormente ritardata (Berlinguer,1978), certo è che l’esperienza di un acceso dibattito con dati dubbi ediscutibili può aver contribuito, tra l’altro, alla decisione di inserire neltesto legislativo (art. 16 legge n. 194 del 22-5-1978) un’attività di mo-nitoraggio del fenomeno a opera del Ministero della Sanità. Una deci-sione, quest’ultima, che ha avuto un seguito — non senza una travagliatafase di avvio — nella presentazione delle Relazioni annuali al Parlamentosull’attuazione della legge 194 (Ministero della Sanità, 1979-90) e neinumerosi contributi dell’Istituto superiore di Sanità, sia in termini didocumentazione e analisi delle tendenze (Istisan, 1982; 1983a; 1983b;1985; 1987; 1989; 1991), sia nell’approfondimento di alcuni importantiaspetti connessi all’interruzione di gravidanza e al controllo della fecondità(De Blasio, 1988; Grandolf o e Spinelli, 1988; Spinelli e Grandolfo, 1988;Carnevale, 1989).

A distanza di circa un decennio dalle accese discussioni in tema diaborto, una situazione analoga si è ripetuta in corrispondenza di unarealtà di natura ben diversa, ma caratterizzata da un quadro di cono-scenze altrettanto confuso e strumentalizzato. Ci si riferisce all’immi-grazione straniera: la grande novità degli anni ottanta, un fenomeno che,almeno nelle problematiche, sembra destinato ad assumere un ruolo sem-pre più importante negli scenari evolutivi di questa fine secolo.

L’ampio dibattito sulla presenza straniera di origine extracomunita-ria sul territorio italiano, già segnalata e quantificata — anche se con ri-sultati parziali e ben poco convincenti — in studi e ricerche che risalgo-no a più di dieci-quindici anni fa (Censis, 1979; Sala, 1980; Monguzzi,1981; Caldo, 1981; Merella, 1981; Neri, 1982; De Rita, 1983), ha con-tribuito, tra l’altro, a mettere in evidenza due importanti verità. Ha ri-badito come una corretta conoscenza dei fenomeni demografici sia, làdove richiesta, una premessa irrinunciabile per svolgere un’efficace e con-sapevole azione di governo. E ha mostrato che, nonostante il migliora-mento del sistema delle statistiche ufficiali, esso deve ritenersi ancorainsufficiente per cogliere con chiarezza e tempestività le manifestazionidi fenomeni e aspetti della realtà soggetti a rapido cambiamento.

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Ancora una volta, ne è uscito rafforzato il ruolo della comunità scien-tifica. Infatti, in assenza di fonti interne all’apparato della pubblica am-ministrazione che fossero in grado di fornire adeguati riferimenti, gliorientamenti politici e le decisioni sul fenomeno della presenza straniera— così come le argomentazioni nel dibattito che ha interessato il paese— sono maturate, pressoché esclusivamente, attorno ai risultati di studiprovenienti dall’area della ricerca universitaria o da enti e organismi pri-vati (AA. VV., 1983; 1986; 1988; 1989a; 1990b; 1990c; Melotti, Aimie Zigli, 1985; Barsotti, 1989; Brunelli et al., 1989; Dell’Atti e Di Co-mite, 1990; Moretti, 1990; Moretti e Cortese, 1990; Reginato, 1990;Natale, 1990).

Con un tale bagaglio di conoscenze è stata varato un primo impor-tante provvedimento legislativo — «Norme in materia di collocamentoe di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro leimmigrazioni dandestine» (legge n. 943 del 30-12-1986 e successive pro-roghe) — al fine di «sanare» le situazioni di illegalità e, con propositidi regolamentazione dei flussi, di istituire un blocco all’ingresso indi-scriminato di stranieri in Italia.

In realtà tale iniziativa, se da un lato ha espresso per la prima voltala volontà politica di contenere il fenomeno entro limiti accettabili peril mantenimento degli equilibri economici e sociali del paese, dall’altronon ha dimostrato l’efficacia che ci si attendeva: le circa centomila re-golarizzazioni emerse dall’applicazione del suddetto provvedimento nonhanno certo chiarito i termini quantitativi e Io status giuridico di unapresenza che, al termine della sanatoria, era ancora oggetto di stime in-certe e discordanti (Natale, in IRP-CNR, 1988; Cagiano de Azevedo,in AA. VV., 1988; Melotti, in AA. VV., 1988; Blangiardo e Terzera, inAA. VV., 1989; Blangiardo, 1990b).

Qualche progresso sul piano delle conoscenze del fenomeno — e unsignificativo sforzo di attivare in tal senso le strutture statistiche istitu-zionali — è stato compiuto quasi contemporaneamente al dibattito cheha accompagnato l’emanazione di un secondo provvedimento legislati-

vo: il D. L. n. 416 del 30-12-1989 poi convertito — dopo ampiadiscussione in sede parlamentare — nella legge n. 39 del 28-2-1990.

In tale circostanza è stato compiuto da parte dell’Istat (1990) un ten-tativo di stima della presenza straniera sul territorio italiano; uno stu-dio i cui risultati hanno avuto diffusione in occasione della Conferenzanazionale dell’immigrazione organizzata a Roma nel giugno 1990 dallaPresidenza del Consiglio dei Ministri (Tassello, 1990).

Il coinvolgimento dell’Istat, già sensibile ai problemi di rilevazionedel fenomeno (Natale, in Istat, 1989b) — per altro contemplata anche nel-

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l’ambito del censimento demografico del 1991 —, e un parziale riassettodella struttura informativa del Ministero dell’Interno (per quanto riguarda idati sui permessi di soggiorno) e del Ministero del Lavoro (per le iscrizionial collocamento e gli avviamenti al lavoro di cittadini extracomunitari),sembra facciano sperare anche per la presenza straniera, come è giàaccaduto a proposito dell’aborto, l’avvio di un’attività di monito- raggio.Un’iniziativa che, se da un lato si impone come premessa per dareefficace esecuzione alla programmazione dei flussi, prevista dalle piùrecenti disposizioni di legge (art. 2 legge n. 39 del 28-2-1990), dall’altrooffre un’ulteriore significativa conferma dell’utilità del consolidamento dellegame tra conoscenze demografiche e attività di governo.

Come si è visto, due temi tanto diversi — aborto e immigrazione stra-niera — hanno in comune la prerogativa di aver offerto alla classe politicae alle forze sociali l’occasione per toccare con mano l’importante ruolo diuna corretta informazione demografica nei processi decisionali. Si èdunque trattato di due esperienze importanti che dovrebbero indurre unariflessione più ampia e articolata anche su altri temi e che possono additarsicome casi esemplari allorché ci si auspica di spingere il rapporto trademografia e governo al di là della pura sensibilizzazione.

In effetti, i problemi posti dalla dinamica demografica sul piano deifuturi equilibri economici e sociali del paese sono ormai numerosi e lar-gamente messi in risalto dai continui apporti dell’IRP (AA. VV., 1987;Golini, De Simoni e Heins, 1989; Righi, 1989; 1990; Golini, 1989; Pa-lomba, 1990a; 1990b; Golini e Bonifazi, 1990), dai frequenti seminari econvegni (Sieds, 1987; 1989; IRP, 1991), dai contributi che hannoarricchito la letteratura e la saggistica demografica in questi ultimi anni(Fuà, 1986; Todisco, 1987; Sonnino, 1989; AA. VV., 1984; 1990a; Blan-giardo, 1990a; Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990; Natale, 1990).

E se il calo della fecondità, l’invecchiamento della popolazione, latrasformazione dei modelli familiari, l’immigrazione straniera, per citarei fenomeni più rilevanti, impongono un maggiore e più diretto con-volgimento della classe politica, i segnali che provengono da quest’ulti-ma, pur testimoniando che qualcosa sta muovendosi, sono tuttora debolie discontinui.

A tale proposito, risultano interessanti, anche se ancora allo statoembrionale, le iniziative sul fronte delle famiglie, un aspetto già affron-tato nel decennio passato (Ministero del Lavoro, 1983) e che sembrarivitalizzato dal crescente dibattito sulla fecondità; si vedano i contributial seminario Demografia e politiche sociali della famiglia (Firenze 8-10novembre 1990) e alcune importanti iniziative legislative, ad esempio

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la legge n. 208/89 della Regione Emilia-Romagna, la proposta di legge n.2867 avanzata alla Camera dei deputati per «l’attribuzione di un assegnoa favore dei figli a carico e l’istituzione di un fondo per la famiglia» (Ca-mera dei deputati, 1988), sino ai progetti in discussione presso la RegioneLombardia — «Norme per la promozione e il sostegno sociale della fami-glia» (Sindacato delle famiglie, 1990) — e presso la Regione Trentino-AltoAdige (1990) — «Interventi in materia di previdenza integrativa».

Può essere questo lo spunto per favorire l’avvio di quella «politicadella popolazione» sempre più spesso indicata come possibile e oppor-tuna (Colombo, 1988)?

Una risposta è oggi prematura. Ma, se fosse affermativa, essa legitti-merebbe l’assegnazione alla demografia di quel ruolo di consulenza, incorrispondenza di alcune importanti scelte di governo, che oggi le vieneaccordato, ma solo occasionalmente, più per la sensibilità di singoli espo-nenti della classe politica e della pubblica amministrazione e, forse, an-che per la tenacia e l’autorevolezza di alcune voci che si levano dallacomunità scientifica, che per un auspicabile e doveroso patto di colla-borazione tra «conoscenza» e «governo» del paese.

6. Le conoscenze demografiche a livello regionale per l’approfondimento dellerealtà locali e come strumento di governo nel decentramento delle competenze

È innegabile che la domanda di informazioni demografiche per fina-lità di governo abbia avuto impulso con la legge n. 1084 del 23-12-1970,relativa alla costituzione e al funzionamento degli organi delle regionia statuto ordinario, e con il D. P. R. n. 616 del 24-7-1977, in tema ditrasferimenti e deleghe delle funzioni amministrative dello stato.

L’ente Regione, più di ogni altro organismo pubblico a carattere lo-cale, si è subito prospettato come potenziale utilizzatore di conoscenzedemografiche; un’utenza che si è largamente concretizzata soprattuttodopo l’acquisizione di compiti specifici — previsti dall’art. 3 del D. P. R.n. 616 — nell’area dei servizi sociali (assistenza sanitaria e ospedaliera,istruzione artigiana e professionale, polizia locale urbana e rurale, bene-ficienza pubblica, assistenza scolastica), dello sviluppo economico (an-che se con attribuzioni più circoscritte e limitate), dell’assetto e utiliz-zazione del territorio (urbanistica, viabilità, acquedotti, lavori pubblici,edilizia residenziale pubblica).

La vasta portata di un insieme di competenze che impone interventidirettamente finalizzati e misurabili negli effetti, unitamente all’esigenza

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di rispettare gli impegni della programmazione regionale — cui viene al-tresì riconosciuto un contributo alla determinazione degli obiettivi delprogramma economico nazionale (art. 11 D. P. R. n. 616) — hanno sti-molato la ricerca di documentazione e di analisi statistiche da parte diuna classe politica generalmente sensibile nell’identificare l’interessamentoai problemi degli amministrati come un efficace mezzo per mantenereil consenso. E anche se ciò non ha dato vita, almeno nella fase iniziale,a grandi contributi sul piano dell’approfondimento delle realtà locali edell’impiego delle conoscenze demografiche nei processi decisionali e neimeccanismi di controllo (Curatolo, 1981; Bianchi, in SIS, 1981), si puòritenere che progressivamente — anche se con tempi e intensità non uni-formi in tutto il paese — ci si sia mossi nella giusta direzione.

In sintesi, l’evoluzione del rapporto tra demografia e governo regio-nale a partire dai primi anni settanta può essere ricondotto a una visio-ne articolata in tre fasi.

La prima, sviluppatasi all’incirca negli anni settanta, è caratterizzatadalla costituzione e dall’organizzazione delle strutture per la raccolta el’elaborazione dei dati statistici, nel cui ambito gli aspetti demograficioccupano una posizione di grande rilievo.

Nascono in questo periodo gli Istituti regionali di ricerca, a volte comeorganismi dotati di autonomia finanziaria e amministrativa — in alcunicasi per trasformazione di enti preesistenti —, altre volte come veri epropri servizi interni alla struttura regionale (Baglioni, 1981; 1984).Inizialmente, la loro attività si concentra sulla raccolta e l’adattamentodelle statistiche di base, curando, in particolare:

1) la realizzazione di archivi anche informatizzati contenenti la strutturae la dinamica della popolazione;

2) la disaggregazione territoriale di dati ufficiali usualmente disponi-bili solo a livello nazionale o regionale;

3) la costruzione di indicatori per confronti spaziali e temporali dellastruttura e dei principali fenomeni di movimento della popolazione.

Tale,attività, che ha dato luogo in molti casi a contributi autonomi(IReR, 1976; 1977; 1981; Blangiardo e Carvelli, 1981; Gario, 1981;Carvelli e Zajczyk, 1984), resta comunque in gran parte finalizzata allapredisposizione di materiale di supporto per gli adempimenti istituzio-nali derivanti dalla programmazione: il cosiddetto «Piano» o «Programmaregionale di sviluppo» (Panem, 1969; Regione Lombardia, 1978; Nata-le, 1980; IReR, 1981-89; Ires-Piemonte, 1981-90; Irspel, 1985-90).

Nel corso di una seconda fase, generalmente sviluppatasi attorno al-la metà degli anni ottanta, l’interesse dei politici e degli amministratori

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locali tende a polarizzarsi attorno ai problemi del mercato del lavoro,prima, e della sanità, poi. Si progettano, e in molte regioni si realizza-no, sistemi di monitoraggio e analisi delle tendenze occupazionali — icosiddetti «Osservatori del mercato del lavoro» — nel cui ambito l’ap-porto demografico appare determinante tanto nella fase di costruzione,quanto nella successiva attività di gestione (Migliorini e Bernardi, 1978;IReR, 1982-90).

In tale contesto trovano larga diffusione le previsioni della popola-zione residente classificata per sesso ed età; un prodotto che spesso fungeda premessa per la stima dell’offerta potenziale di lavoro (RegioneMarche, 1987; Moretti, 1989). Tutto ciò si realizza passando ad ambititerritoriali via via più dettagliati: dalle prime esperienze di elaborazioniprevisive a livello regionale ci si spinge a quelle relative a unità ammini-strative più circoscritte — province, comuni — e ad altre aree subregio-nali che rappresentano un autonomo riferimento per la programmazioneo che identificano nuovi centri di interesse (De Bartolo e Lombardo,1981; Migliorini, 1982; 1986; Blangiardo e Carvelli, 1982; Pane, 1983;Rabino, 1984; Provincia autonoma di Bolzano, 1986b; Blangiardo et al.,1986c; 1990b; Chiari, 1988; Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia,1989).

È quanto accade, ad esempio, per le Unità sanitarie locali, rispetto allequali si osserva frequentemente il tentativo di combinare aspettidemografico-sanitari, anche in funzione dell’avvio — e della gestione — dialtre importanti istituzioni destinate a compiti di analisi e di monitoraggio:gli osservatori epidemiologici (Regione Lazio, 1982; Regione Lombardia,1985; 1988b; Regione Lombardia-Servizio Statistica, 1989; Dalla Zuanna,1986; 1988; Provincia autonoma di Bolzano, 1986a; Vian e Bolzan, 1987;Regione Toscana, 1988; Regione Veneto, 1988; Micheli, 1991).

Con la seconda metà degli anni ottanta la visione dei rapporti tra de-mografia e governo locale sembra essere entrata in una terza fase, nelcorso della quale, pur persistendo gli interessi nell’area occupazionale –con una crescente attenzione agli aspetti professionali (Martini, 1988) –e sanitaria, trovano sviluppo due tematiche ancora oggi di grande attua-lità: l’ambiente e le risorse, da un lato, e i problemi dell’assistenza, dal-l’altro, con specifico riguardo alle modalità con cui affrontare – spessoin condizioni di emergenza – il nuovo fenomeno dell’immigrazionestraniera.

E se, relativamente al primo tema, il ruolo della demografia è ancorain gran parte quello di predisporre gli scenari e le analisi a livello locale,generalmente col ricorso a previsioni demografiche — anche a completa-mento di iniziative già avviate in epoche precedenti (Regione Lombar-

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dia, 1977; Regione Emilia-Romagna, 1978; Blangiardo et al., 1984; IReRe Enel, 1986; 1987) —, sul secondo aspetto l’attività di ricerca prove-niente dalle regioni offre risultati che vanno anche al di là di finalizza-zioni specifiche e assumono valore al di fuori dei confini amministrativicui fanno riferimento.

Si può infatti affermare che molte iniziative di ricerca originariamentepensate per interessi di gestione locale del fenomeno della presenza stra-niera (predisposizione dei servizi, inserimento nel mercato del lavoro,condizioni abitative, integrazione e così via) abbiano di fatto contribui-to, data la scarsa e frammentaria disponibilità di informazioni, ad arric-chire con preziosi dettagli quel quadro di conoscenze che è andato for-mandosi a livello nazionale più per somma di singole realtà locali checome effetto di dati e rilevazioni estese a tutto il territorio italiano (Ecap,Cgil, Emim, 1981; Regione Toscana, 1985; Tassinari, 1985; Montanari,1987; Blangiardo e Campus, 1988; Blangiardo et al., 1991; Ilres, 1992).

7. Alcuni contributi significativi

Le linee evolutive descritte nelle pagine precedenti offrono una vi-sione globale del rapporto tra demografia e attività di governo localeche, come già ricordato, non può certamente ritenersi valida per la ge-neralità delle regioni italiane.

È indubbio che detto rapporto si sia sviluppato con modalità e inte-ressi a volte diversi da regione a regione, così come diversi sono risultatii tempi di maturazione nel passaggio alle successive fasi.

In genere, la aree del centro-nord — in primo luogo Lombardia, Pie-monte, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana — hanno mostrato una mag-giore vivacità e un più ampio interesse nello sviluppare, ai diversi livelli,la raccolta e l’elaborazione di informazioni demografiche.

Alcune regioni hanno poi privilegiato ambiti di ricerca che sconfinano,aggiungendosi o sostituendosi, dai temi classici delle previsioni de-mografiche, degli studi di mortalità e, più di recente, dell’immigrazionestraniera. Si tratta di contributi che sono in parte riconducibili a inte-ressi e problematiche specifiche, a una diversa sensibilità su alcuni ar-gomenti e, non ultimo, al sistema delle relazioni che si instaurano tracentri regionali di ricerca ed esponenti di enti e istituzioni (università,istituti pubblici e privati) o ricercatori che operano in ambito locale.

Così è accaduto per i lavori di documentazione e approfondimentosui temi dell’abortività legale (Regione Lombardia, 1981; 1988; Re-

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gione Veneto 1979-89; Regione Toscana, 1983-86; Di Cillo, 1984; 1985;Grandolfo, 1990; Regione Emilia-Romagna, 1991b; Dalla Zuanna e Gio-rio, 1991), del pendolarismo (Irpet, 1978; Gallino, 1985; De Angelini eDoro, 1987; Caperdoni e Lauro, 1988), delle dinamiche familiari (Pesso,1982; Provincia autonoma di Bolzano, 1987; Blangiardo et al., 1988) e del-la domanda di abitazioni (Predetti e Peccati, 1979; Regione Lombardia-Provincia di Brescia, 1985; Emanuele et al., 1983; Provincia autonoma diTrento, 1988) della popolazione scolastica (Masiero, 1987; Bolognini,1989), degli anziani e dei relativi bisogni (Bellandi e Pozza, 1986; Micheli,1987); ciò per limitarci agli argomenti più importanti o più ricorrenti.

Non resta a questo punto che qualche breve riflessione conclusiva.La prima osservazione è che una produzione così abbondante, anche

se fortemente concentrata in alcune aree del paese, non può non averavuto origine, almeno in parte, da adeguate motivazioni nel quadro dellescelte di politica regionale. Se ne ha conferma dai significativi esempi deglistudi preparatori per interventi legislativi, così come dai lavori concepitinel quadro di una documentata attività di controllo e di correzione delledinamiche regionali in alcuni settori (si pensi agli osservatori delmercato del lavoro).

Tutto questo senza dimenticare l’apporto di quelle analisi e ricerchedemografiche a livello locale finalizzate alla diffusione, anche nell’opi-nione pubblica, di un clima di sensibilità ai problemi della popolazionedestinato ad anticipare e a favorire le successive azioni di intervento.

Tuttavia, ciò che emerge con chiarezza, anche in questo campo, è laricorrente immagine di un’Italia a più velocità: come spiegare, ad esempio,l’enorme divario tra la consistente offerta di conoscenze demograficheper gli amministratori lombardi o piemontesi e quella, ben più ridotta,resa disponibile ai loro colleghi liguri o campani?

La risposta non è certo legata all’idea che la validità e l’importanzadelle conoscenze demografiche possa venire circoscritta ad alcuni ambititerritoriali; è evidente che i fattori che determinano l’eterogeneità quan-titativa e qualitativa dei contributi sono di tipo strutturale, di ambientee di «cultura dell’informazione»: il già ricordato diverso grado di atten-zione ai problemi, la presenza di realtà sociali ed economiche più o menocomplesse, una distribuzione di risorse — finanziarie e umane — nonuniforme, la disponibilità in loco di adeguati centri di ricerca.

È indubbio che sia possibile fare politica e amministrare la popola-zione anche senza la demografia, ma «non sarebbe auspicabile una for-ma di coordinamento tendente a riequilibrare le disparità nella produ-zione regionale di studi demografici e a favorire — attraverso l’integra-

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zione e lo scambio di esperienze — un più ampio e corretto impiego didati e metodologie che aiutino ad amministrare meglio?».

Per la verità qualche tentativo in tal senso esiste già (ci si riferisceal Gruppo interregionale per le statistiche demografiche, avviato nel 1983,cui formalmente aderiscono esponenti di tutte le regioni: Irsev, 1983-90),ma è questa un’esperienza ancora poco valorizzata e affidata all’inizia-tiva personale dei membri e dei coordinatori.

In ultima analisi, ciò di cui oggi si sente la mancanza è una presenzaefficiente e generalizzata proprio di quei sistemi informativi regionaliche sono stati tanto esaltati in fase di teorizzazione all’inizio degli anniottanta (Colle, 1981), quanto poi dimenticati o comunque realizzati fuorida ogni forma di coordinamento e integrazione negli, anni successivi, scon-tando — come spesso accade in queste cose — le difficoltà del passaggiodalla teoria alla pratica.

8. Osservazioni conclusive

Volendo ora tradurre il contenuto delle pagine precedenti in un bi-lancio sintetico circa il ruolo delle conoscenze demografiche nel quadrodelle attività di governo, un punto che resta problematico — nonostanteil progressivo affermarsi di un clima di crescente interesse e di sensibi-lizzazione attorno ai temi della popolazione — sembra essere proprio ilpersistente squilibrio tra una produzione di dati e di ricerche general-mente qualificata e abbondante (talvolta persino sovrabbondante in cor-rispondenza di alcune tematiche e/o di alcuni ambiti locali) e il suo con-creto utilizzo da parte di politici e amministratori spesso più dispostia commissionare studi demografici che a «consumarne» i contenuti av-valendosene in occasione delle scelte di governo.

Così, se è innegabile che l’attività di ricerca si sta rivelando, oggipiù che in passato, attenta e aggiornata alle problematiche emergentinella realtà sociale ed economica del paese (l’esempio dell’immigrazionestraniera offre una valida conferma in tal senso), non si può dire cheessa riceva adeguate gratificazioni negli ambiti della pubblica ammini-strazione, al cui interno — anche per motivi di formazione professionale eculturale — non sempre si riscontrano le necessarie competenze per di-stinguere la qualità dei contributi e per interpretare in chiave operativale indicazioni che da essi provengono.

D’altra parte, neppure gli stessi demografi sono del tutto esenti daresponsabilità nel quadro dei rapporti di incomprensione che portanoai fenomeni di sottoutilizzo delle conoscenze demografiche nell’attività

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di governo; un indubbio limite deriva da un loro frequente atteggiamentoculturale di «distacco» nei riguardi della ricerca «su commissione», unatteggiamento che si concretizza nel mantenere chiaramente distinta,da un lato, l’attività ispirata da interessi scientifici personali (il «sacro»)e dall’altro gli approfondimenti di specifiche problematiche indotti dallarichiesta di contributi da parte di istituzioni esterne al mondo accademico(il «profano»).

Ma si tratta solo di una temporanea incomprensione o ci si trova inpresenza di una vera e propria incomunicabilità strutturale tra le partiin causa? Le riflessioni contenute nelle pagine precedenti indurrebberoa propendere per la prima alternativa.

In tal senso, benché persista la convinzione che la maturazione e l’ac-culturamento demografico dei responsabili di governo e degli ammini-stratori siano ancora largamente inadeguati, non vanno ignorati alcunirecenti segnali di cambiamento che, per quanto non uniformi sotto ilprofilo territoriale, risentono degli effetti del ricambio generazionale nellapubblica amministrazione e del progressivo affermarsi, al suo interno, diuna maggior consapevolezza del ruolo che dovrebbe competere alleconoscenze demografiche nell’orientare alcuni settori dell’azione digoverno.

Al tempo stesso, anche la reazione degli studiosi tende a offrire minoriresistenze nel rispondere a specifiche richieste di collaborazione sia nelcampo della ricerca, sia nella stessa formazione di quei quadri della pubblicaamministrazione che dovrebbero poi avvalersene a fini operativi.

In ultima analisi, l’impressione è che se oggi vi sono ulteriori sforzida compiere per consolidare i legami tra conoscenze demografiche e at-tività di governo, essi non vanno certo spesi nel ribadire l’importanzadi un tale obiettivo (ormai largamente condivisa), bensì nel definire lemodalità per renderlo concretamente realizzabile e nel chiarire il ruolodei soggetti che ne sono coinvolti.

L’idea di fondo è che si debba arrivare alla situazione in cui a unvasto insieme di tecnici e politici ben formati sui contenuti della disci-plina possa affiancarsi un ampio gruppo di demografi che, pur senza ri-nunciare al rigore scientifico, siano disposti ad affrontare l’analisi e ladescrizione degli scenari e delle relative problematiche con metodi e lin-guaggi adatti anche a interlocutori esterni al mondo accademico. Indub-biamente utile a tale scopo potrà risultare l’appoggio di un organismo odi un’istituzione che svolga compiti di mediazione, favorendo l’incontro-confronto tra le due parti e la loro convergenza sui temi di ricerca.

A tale proposito, se è vero che l’IRP si prospetta oggi come il refe-rente più naturale per un’iniziativa di questo tipo, non è tuttavia esclu-

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so che tale compito potrebbe trovare un’altrettanto valida e qualificataaccoglienza anche entro nuove e diverse forme organizzative. Non ulti-ma, quello stesso Gruppo di coordinamento per la demografia, costitui-tosi nell’ambito della SIS (Società italiana di statistica) alla fine deglianni ottanta, tra le cui finalità («armonizzare gli interessi e le esigenzedi tutti coloro che si interessano a vario titolo ai problemi della popola-zione ») rientrerebbero a pieno diritto sia le necessità di chi richiede ade-guate conoscenze per governare con consapevolezza, sia l’attività di chiè pronto a rispondere a tale richiesta offrendo disponibilità e compe-tenze scientifiche.

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Zuliani A. e Trivellato U. (a cura di), Informazione statistica gestione della scuolae programmazione scolastica, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1981.

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Capitolo tredicesimo

Demografia, politica ed etica

Paolo De Sandre

1. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politichedi popolazione: a) coordinate per una lettura critica

La dinamica della popolazione, nei paesi economicamente sviluppatie in via di sviluppo, in epoca remota e contemporanea, continua a porrela ricerca demografica di fronte a problemi e sollecitazioni riguardantile tendenze da favorire o da scoraggiare e i modi di intervento più effi-caci e accettabili. Naturalmente la spinta a porsi problemi di questo ti-po è tanto più pressante quanto più critica è la dinamica considerata:l’invecchiamento e il declino tendenziale delle popolazioni occidentalie una crescita ancora straordinariamente veloce di molti paesi in via disviluppo (Pvs) rappresentano grandi temi attualissimi di fondata preoc-cupazione.

Prima di soffermarmi sui modi in cui i demografi hanno affrontatoin Italia questioni di tale natura, ritengo conveniente schematizzare laposizione della demografia rispetto alle politiche intese a modificarequantitativamente la popolazione e alle loro implicazioni, dal versanteetico a quello operativo: si tratta di qualche cenno epistemologico che lafigura 1 dovrebbe contribuire a chiarire.

Anzitutto è ormai acquisito che il termine «popolazione», oggettodella disciplina demografica, va inteso in senso molto ampio e articola-to. Lo studio delle caratteristiche strutturali di una popolazione e delleregole del suo ricambio quantitativo nel tempo e nello spazio — impe-gno peculiare della demografia — rinvia necessariamente all’approfon-dimento di variabili esplicative (dirette e indirette) di tale processo di ri-cambio e dei suoi esiti. In questo senso le variazioni nel numero di indi-vidui e di famiglie vanno collegate con le loro rispettive caratteristiche,con il ciclo vitale che ne specifica le regole di crescita, estinzione, sosti-tuzione. Tali regole di evoluzione e di trasferimento (di vita e di beni) siconsolidano o mutano attraverso l’interazione, entro le biografie indi-

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viduali, con le pressioni legate al contesto biologico-sanitario, sociale, e-conomico, culturale, normativo (si veda la fig. 1, quadro S).

In altre parole, l’interesse ai cambiamenti quantitativi della popolazio-ne non può essere separato dai fattori anche qualitativi che possono gene-rarlo e che ne possono conseguire. L’ampiezza dell’area studiata dalla demo-grafia e le sovrapposizioni tra discipline contigue risultano da una divisio-ne accademica del lavoro scientifico, che può anche essere discutibile, edalla capacità di ricerca degli studiosi, che può conoscere epoche più omeno feconde: ciò che non deve essere perso di vista sono comunquel’obiettivo conoscitivo generale e la subordinazione ad esso del proces-so di ricerca.

Le politiche di popolazione si attuano attraverso interventi pubblici a-dottati deliberatamente (può trattarsi anche di voluta assenza di interven-ti) per ottenere, in via diretta o indiretta, effetti di mantenimento o dimodifica quantitativa della struttura e della dinamica della popolazioneconsiderata.

Si parla restrittivamente di politiche demografiche quando si pongonotali modifiche quantitative come obiettivi primari degli interventi, pre-disponendo per lo più vie dirette per raggiungerli (ad esempio: diffu-sione di anticoncezionali, incentivazione alla sterilizzazione e all’aborto

Figura 1. Ricerca demografica e politiche di popolazione.

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indotto per ridurre il numero delle nascite; chiusura delle frontiere perbloccare i flussi di immigrazioni) e considerando come subordinati o se-parati altri possibili obiettivi.

Con una terminologia più comprensiva e diffusa si parla di politicadi popolazione (si veda la fig. 1, quadro P) — che si richiama di norma afinalità più generali e complesse — quando essa si ispira a obiettivi primaridi natura socio-economica, cui si ritengono associati effetti demograficiquantitativamente rilevanti. Il primato assegnato a mete di «benecomune» può così, di fatto, far convivere, nello stesso contesto e con-temporaneamente, interventi di effetto demografico contraddittorio: adesempio sostegno al «diritto» al controllo dei concepimenti e delle na-scite (con effetto potenzialmente depressivo sulle nascite) e sostegno,in denaro e servizi, ai costi marginali crescenti delle nascite di figli (ef-fetto potenziale di rialzo). Una politica demografica in senso restrittivoè invece più attenta agli obiettivi quantitativi e, conseguentemente, allacoerenza degli strumenti attivati per raggiungerli.

Un essenziale punto in comune di entrambi gli approcci è rappresen-tato dal presunto o desiderato effetto quantitativo delle politiche sullastruttura e sulla dinamica della popolazione.

La necessaria finalizzazione di ogni politica volta a incidere sul «si-stema popolazione» risente, in modo più o meno forte, di una duplice«lettura» delle vicende sociali, precedente il disegno politico: una valu-tazione su basi empiriche della situazione e degli sviluppi della dinami-ca di popolazione (si veda la fig. 1, quadro R); una valutazione su basiideologiche ed etiche del migliore assetto della società e dei diritti-doverisu cui meriti fondare i rapporti sociali (si veda la fig. 1, quadro Q).

Circa il primo tipo di lettura, la ricerca demografica può fornire unsuo contributo all’elaborazione e al controllo delle politiche di popola-zione rimanendo rigorosamente all’interno dei suoi obiettivi e del suometodo scientifico (si veda la fig. 1, quadro R): in tale direzione si col-locano descrizioni e interpretazioni delle dinamiche di popolazione; studiodelle condizioni per effettuare interventi, con relative simulazioni; va-lutazione tecnica di efficienza ed efficacia degli interventi.

In taluni casi i ricercatori-demografi contribuiscono alla riflessioneo all’attuazione di politiche demografiche anche intervenendo nel me-rito dei principi di riferimento ideologici ed etici, oppure degli orienta-menti politici generali: importante, in tali casi, è la consapevolezza dellaextra-scientificità dei contributi e la vigilanza affinché non si abbiaun’intrusione surrettizia di principi di preferenza ideologico-politica nel-l’ambito scientifico o, viceversa, non si dia valenza scientifica indebita

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ai principi di preferenza. Commistioni scorrette in campo demograficotra ideologie, ricerca e politiche hanno lasciato segni profondi, dolorosie inquietanti (Teitelbaum e Winter, 1985, trad. it. 1987).

Il secondo tipo di lettura, fondamentale per fondare la filosofia del-l’intervento politico in termini di «benessere» sociale, fa ricorso ai quadridi riferimento ideologico e antropologico e agli orientamenti per l’azione(etica individuale e sociale): punto strategico di connessione traantropologia ed etica è costituito dalla sfera dei diritti (e connessi dove-ri) umani, individuali e sociali (fig. 1, quadro Q).

2. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politichedi popolazione: b) sull’aspetto politico

Conviene dedicare ancora qualche osservazione introduttiva sia altema delle politiche di popolazione, sia allo sviluppo delle riflessioni dinatura ideologica ed etica, con qualche riguardo al contesto italiano. Intal modo verranno ulteriormente esplicitati alcuni concetti contenuti nellafigura 1.

2.1 Orientamenti di «welfare»

Le politiche di popolazione, come qualunque altro tipo di interven-to atto a interferire intenzionalmente con la realtà, suppongono degliorientamenti di valore finalistici.

Nel passato o in altri contesti sociali possono risultare invocate fina-lità prevalentemente economiche (che considerano gli uomini come bracciache producono o bocche da sfamare), di potenza (gli uomini come spadeo moschetti), eugenetiche (gli uomini come diversamente portatori dicaratteristiche biologiche, mentali, sanitarie, da favorire o da contra-stare), più raramente religiose (gli uomini come anime).

Negli odierni paesi sviluppati tali orientamenti sono complessi e al-l’insegna del cosiddetto «bene comune» o «sociale», che include unacrescente accentuazione degli aspetti sociali nelle politiche di «welfare»(Paci, 1989), poggiando sostanzialmente su due cardini:

1) salvaguardia e sviluppo dei diritti umani individuali, nel rispettodella collettività e, secondo una più recente sensibilità, nel rispetto an-che dell’ambiente naturale;

2) miglioramento dell’equità distributiva delle risorse: questo orien-tamento trova particolari sviluppi nell’attenzione sia alla creazione di

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condizioni favorevoli per lo sviluppo delle risorse individuali, sia all’ef-ficienza con cui vengono gestite le risorse pubbliche.

Per quanto riguarda il nostro paese, nella tradizione fino ad anni re-centi, la salvaguardia dei diritti individuali appare usualmente subordi-nata a quella dei diritti relativi alle istituzioni gerarchízzate (con riferi-mento, ad esempio, al diritto di famiglia si vedano Ungari, 1974; VincenziAmato, 1988).

Alle radici remote delle politiche per il benessere della popolazioneprevale, nel nostro paese, un orientamento definibile, in termini chiara-mente allusivi, «particolaristico e meritocratico», con varianti assistenzialima anche clientelari, in contrapposizione a un orientamento «uni-versalistico ed egualitario», esemplificato dalle politiche sociali svedesie inglesi degli anni trenta e quaranta (Paci, 1989). I più recenti impegniin questa seconda direzione sembrano innestarsi con difficoltà e vistoseincoerenze nel tradizionale indirizzo (la riforma sanitaria del 1978 ne èun chiaro esempio); essi inoltre non sembrano abbastanza capaci diincidere a vantaggio dei gruppi più deboli (Ranci Ortigosa, 1989) e dilasciare correttamente spazio a risorse volontaristiche private, mobili-tandole (Rossi e Donati, 1982; nel 1991 vengono tuttavia predispostistrumenti legislativi a favore del volontariato). La discussione sulle ra-gioni delle contraddizioni in atto è assai articolata: sul fronte familiare,ad esempio, si contesta l’insufficiente considerazione della famiglia co-me soggetto sociale e l’invadenza del settore pubblico nella vita privata(Donati, 1981; 1991) o, viceversa, l’inefficienza di tale presenza con ef-fetti di sovraccarico sullo stesso tessuto familiare (Saraceno, 1988).

2.2. Obiettivi di intervento con implicazioni demografiche e tipidi intervento

Con riferimento esplicito o implicito a definiti orientamenti di be-nessere sociale ed economico possono porsi specifici obiettivi di inter-vento «demografico» (riduzione o aumento della fecondità; riduzionedella mortalità infantile o per gruppi a maggiore rischio di morte; varia-zione del tasso di aumento complessivo della popolazione; aumento omeno degli spostamenti migratori interni o esterni rispetto al paese; de-centramento o accentramento delle collettività urbane e così via). Il si-stema pubblico può proporsi di intervenire in modo diretto, ossia attra-verso l’adozione di provvedimenti che si ritiene siano «causalmente»collegati con la modifica desiderata degli obiettivi stessi (ad esempio pre-miando in denaro e sostenendo con assegni chi mette al mondo figli si

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persegue un obiettivo di aumento della fecondità, supponendo che il costodei figli sia causa di rinuncia alla prolificazione; incentivando la steriliz-zazione si pensa di ridurre le nascite; contingentando gli ingressi migra-tori si persegue un obiettivo di controllo della migratorietà); oppure puòintervenire per vie indirette, considerando gli obiettivi demografici comedipendenti da altri «finali» di benessere socio-economico (ad esempiointroducendo meccanismi di flessibilità nella politica dei rapporti di lavorosi può facilitare, indirettamente, per madri e padri, la riproduzione conconnessa cura dei figli piccoli a casa; imponendo la preesistenza di uncontratto di lavoro per gli immigrati con l’obiettivo dichiarato di favorireuna loro «integrazione», si tende a ridurne anche il numero). Alriguardo si possono sottolineare tre annotazioni:

1) non sembra più conveniente distinguere obiettivi demografici «fi-nali» e «intermedi», non potendosi immaginare obiettivi « demografi-ci», ossia di modifica quantitativa della popolazione e della sua dinamica,che non siano subordinati a obiettivi finali di benessere sociale; ancheper questo, come si è già detto, si preferisce ormai parlare di «politiche dipopolazione» piuttosto che di «politiche demografiche», apparendo laprima dizione più comprensiva e tale da sottolineare il fatto che lepolitiche demografiche spingono verso modifiche quantitative in vista diobiettivi qualitativi;

2) pertanto anche gli interventi diretti a ottenere effetti demograficidebbono contemporaneamente essere giustificati dal punto di vista dellasalvaguardia dei diritti umani e della riduzione degli squilibri socio-economici (Colombo, 1978; De Sandre, 1978): in tal senso non esistonointerventi unidimensionali;

3) la natura multidimensionale di qualunque intervento e l’incertezza,usualmente riconosciuta, circa legami causa-effetto dei processi politici, ètale da rendere spesso congetturale l’effetto «diretto »: più facilmentemostrano un loro effetto diretto, benché spesso di breve periodo, interventi didivieto, soprattutto se attuati coercitivamente (ad esempio blocco dellemigrazioni; revoca dell’autorizzazione legale ad abortire).

Resta da ricordare ancora che il perseguimento di obiettivi politico-demografici, nel quadro di obiettivi di benessere della popolazione,può essere effettuato in modo passivo o attivo, ossia senza o con inter-venti specifici. Se si effettuano interventi, questi possono essere svi-luppati sul piano normativo (legislazione, regolamentazione, costumi ecultura), su quello strumentale (creazione di servizi, predisposizione diincentivi e disincentivi) o su entrambi i piani.

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2.3. Valutazione tecnico-scientifica e valutazione politica degli interventi

Buona norma vorrebbe, sotto un profilo sia scientifico sia politico,che il perseguimento operativo di obiettivi politici venisse sottopostoa valutazione specifica, per verificarne l’efficienza (coerenza e adegua-tezza di norme e strumenti al loro interno e tra loro, rispetto agli obiet-tivi) e l’efficacia (capacità di raggiungimento degli obiettivi), con l’in-tento di migliorare successivamente l’azione. Purtroppo si tratta di ope-razioni non semplici dal punto di vista scientifico: problemi di metodo(legati per lo più alla violazione dei criteri dell’analisi sperimentale o quasi-sperimentale) e frequente indisponibilità dei dati osservazionali neces-sari, anche per la natura e gli intrecci delle variabili normalmente in gio-co, possono costringere ad approssimazioni anche pesanti. E possibilecostruire valutazioni plausibili circa un dato intervento; quasi impossi-bile verificarne incontrovertibilmente la validità (De Sandre, in Conseilde l’Europe, 1978, trad. it. 1982). E tuttavia tali operazioni sono doveroseanche perché un’ulteriore, necessaria valutazione politica complessiva nonpuò prescindere da riscontri fattuali. Tuttavia, gli studi valutativi sonoraramente desiderati dai (nostri) politici, che preferiscono di fatto altrimetri di giudizio, limitandosi nel migliore dei casi a un rendicontoamministrativo o finanziario dell’intervento stesso.

Altrove, per esemplificare, è ricca l’esperienza di valutazione di po-litiche di family planning, benché spesso adottata in un quadro limitativodi tipo clinico; come pure è tradizionale per altre amministrazionioccidentali il rendiconto critico sull’attuazione di politiche, avendo ri-guardo al momento sia normativo sia strumentale dell’intervento.

2.4. Legami tra politiche e ricerca

Le politiche di popolazione possono beneficiare correttamente del-l’apporto della ricerca empirica sia per i suggerimenti che provengonodai suoi risultati conoscitivi (e predittivi) perseguiti con finalità non le-gate a interessi politici; sia per risultati parziali ottenuti assumendo co-me ipotesi la possibilità di interventi (simulazione di percorsi e identifi-cazione di condizioni per interventi efficaci ed efficienti) ovvero l’at-tuazione di interventi (ricerche valutative su attuazioni politiche).

Vedremo come in Italia si sia manifestata qualche timida domandada parte del sistema politico di contributi del primo tipo e come si stia-no sviluppando, da parte dei demografi, proposte, per lo più da esso nonrichieste, sullo stesso versante.

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2.5. Politiche di popolazione e riferimenti di valore

Certamente un legame più forte, almeno in Italia, si registra tra politichedi popolazione e riferimenti di valore e per l’azione (etici). Dall’inizio degli anni ses-santa si sono sviluppate con clamorosi risultati fratture nelle tradizionalisub-culture ideologico-etiche e ricomposizioni intorno a vecchie e nuo-ve filosofie teoriche e pratiche; basterà ricordare, come espressioni parzia-li ma cruciali, alcune importanti innovazioni legislative a partire daglianni settanta, che in parte hanno avuto anche la verifica di referendumpopolari: nel 1971 viene abrogato l’art. 553 del codice penale che vieta-va la propaganda anticoncezionale (nel frattempo si diffonde l’uso del-la pillola ormonale e della spirale intrauterina); nel 1970 viene disciplina-to lo scioglimento dei matrimoni e nel 1974 un referendum popolare re-spinge l’abrogazione del divorzio; nel 1975 la maggiore età viene abbas-sata a 18 anni, viene riformato il diritto di famiglia (che anche nei suoisviluppi oscilla fra il tradizionale orientamento naturalistico-istituzionale euna rinnovata attenzione sociologico-privatistica; Vincenzi Amato, 1988;Fumagalli Carulli, in Donati, 1989b) e vengono istituiti i consultori fami-liari; nel 1977 viene disciplinata l’uguaglianza di trattamento lavorativotra uomo e donna; nel 1978 viene istituito il Servizio sanitario nazionale(su basi ugualitarie, globali, territoriali); nello stesso anno, con la leggesulla tutela sociale della maternità, viene consentita l’interruzione vo-lontaria della gravidanza e nel 1981 un referendum popolare respingel’abrogazione di tale legge. Nel 1983 viene riformata la materia dell’ado-zione dei minori, con attenzione ai loro diritti.

Viceversa, le tematiche sul riconoscimento dei diritti degli immigra-ti si sviluppano soprattutto negli anni ottanta, in un contesto di politi-che restrittive all’accesso rispetto a nuove pressioni migratorie (Statutoeuropeo dei lavoratori migranti del Consiglio d’Europa, 1984; Orienta-menti per una politica comunitaria delle migrazioni, 1985; Cagiano deAzevedo, in AA. VV., 1986; legge italiana 943/1986: Adinolfi, in AA.VV., 1990c).

In realtà ogni intervento legislativo che in questi anni intenda nor-mare materie riguardanti comportamenti e strutture coniugali, riprodut-tive, familiari, sanitarie, migratorie, e che risultano pertanto profonda-mente legate a stili di vita, diritti individuali, esigenze di equità, neces-sita di ampio consenso sociale e implica di norma una composizione traorientamenti di valore ed etici diversi (più frequentemente che una pre-valenza di un orientamento sugli altri). In particolare, se questi orienta-menti normativi possono lasciare in secondo piano organiche espressio-

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ni ideologiche, rappresentano almeno alcune esplicite opzioni etiche specifiche (atitolo di esempio: sono convenuti sul divorzio — opzione etico- politica —anche i comunisti, in occasione del referendum del 1974, cercando didifferenziare di fronte all’opinione pubblica la propria ispirazionelibertaria — riferimento ideologico-antropologico — rispetto a unaconcezione borghese della famiglia: Castellina, 1974).

3. Riferimenti di valore ed etici, ricerca demografica, politiche dipopolazione: c) sull’aspetto ideologico-etico

Ritornando specificamente sul versante ideologico ed etico, convie-ne brevemente ricordare la profonda trasformazione delle ideologie eantropologie in questi ultimi decenni: da metà degli anni sessanta emer-ge nei paesi occidentali la svolta della «seconda transizione demografi-ca» (Van de Kaa, 1988), verso equilibri demografici incerti, sull’ondadi un’intensa modernizzazione post-industriale, di una silent revolutionculturale (democrazia, egualitarismo e rispetto di diversità di «genere»,libertà individuale, pluralismo di valori, universalismo, individualismo,secolarizzazione, ecologismo), di un’ulteriore rivoluzione tecnologica atutti i livelli (dalla bio-medicina della riproduzione e della salute al si-stema dei mezzi di comunicazione). Anche nel nostro paese il tessutoculturale si trasforma, sia pure con esiti per molti versi più attenuati,almeno fino ad oggi, rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali:le generazioni si succedono con corredi di istruzione, di esperienza la-vorativa, di stili di vita, di aspettative marcatamente diversi (Rusconi,1969; Milanesi, 1973; Calvi, 1977 e in Donati, 1989b; Fabris e Mortara,1986; De Sandre, in Donati, 1991), tanto da rimettere in discussione le«regole di trasferimento» della vita, di beni e cultura tra genitori e figli(sulla scorta di C aldwell e Demeny: De Sandre, 1990). In particolarediventa critico un effetto, trascurato, dell’importanza crescente dellaregolazione pubblica delle vicende private: per molti aspetti essenzialidella vita individuale (istruzione, lavoro, salute, previdenza e assisten-za) l’interlocutore di ciascuno, a mano a mano che si svolgono le vicen-de individuali, è il sistema istituzionale che opera mediante norme dirilevanza pubblica; la prevalenza di tale rapporto, che si è sostituito invaria misura alle reti di relazioni di sostegno interpersonali, è tale dapoter oscurare, nella percezione soggettiva, il vantaggio che tali reti dipersone possono meritare in varie fasi del ciclo di vita, specie quandosono costituite da persone appartenenti a generazioni successive. Così,l’apparente garanzia di sostenere la vecchiaia, data dal sistema, può avere

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un effetto indiretto di tipo antinatalista, contribuendo a far ritenere laprole (di per sé sempre più costosa in termini diretti e di opportunità)non più utile al medesimo scopo. In ogni caso la riduzione volontariadel numero dei propri figli, qualunque sia la motivazione seguita, puòsignificare che i potenziali genitori non percepiscono o negano il van-taggio (netto) di averli come parte importante delle proprie reti di soli-darietà.

Per converso, la riduzione del numero di nati, riducendo il numerodi nuovi membri produttivi della società, modifica l’equilibrio dei rap-porti non solo interpersonali ma anche con il sistema istituzionale: perquesto la riduzione delle nascite, nei termini in cui la conosciamo oggi,può mettere circolarmente in crisi la capacità del sistema istituzionalestesso di fronteggiare l’onerosa domanda di sostegno da parte degli indi-vidui (salvo acquisire nuove unità produttive dall’esterno). Così un orien-tamento ideologico-politico teso a privilegiare il momento pubblico diregolazione delle mete di benessere può scontrarsi con gli effetti indeside-rati di un emergente orientamento a isolare da esso la sfera del privato.

E chiaro che le «regole di trasferimento» della vita, della cultura,dei beni tra le generazioni, filo conduttore dello sviluppo del sistemapopolazione, nel loro più o meno mutevole configurarsi si richiamanoa universi di valori (ideologie), sono esse stesse orientamenti per l’azio-ne (etiche) e si concretizzano in norme di legge o, meno formalmente,in usi e costumi.

Con riferimento, più in generale, alle questioni etiche, va sottolineatoun profondo recupero di interesse al riguardo: gli anni settanta vedonomoltiplicarsi i soggetti di diritti e i diritti reclamati (Viano, 1990), anchecome frutto di malessere morale di minoranze e gruppi che aspirano amigliori rapporti sociali. I diritti (primariamente alla libertà e al benessere)appaiono come condizioni necessarie per l’agire, per la moralità stessa(Fagiani, in Viano, 1990). Emergono tensioni tra le ragioni del benesse-re, dei diritti individuali (e dei connessi doveri), dell’equità, che merita-no impegno per una loro composizione progressiva (Veca, 1989); si di-scute su quali siano i diritti fondamentali da proteggere e i conseguentidoveri (Colombo, 1978); si chiariscono approcci radicalmente diversi (nonsempre negli esiti): in particolare tra una fondazione della morale inter-na alle stesse relazioni interpersonali e con la realtà (con ampie possibi-lità di espressioni pluralistiche) e una esterna ad esse, ancorata preva-lentemente a istanze e dettami religiosi (ad esempio, nell’ambito dell’e-tica cattolica la «sacralità della vita e della sua trasmissione» funge daimperativo condizionante nel campo bioetico: si veda la relazione Schotte

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della Santa Sede alla Conferenza delle Nazioni Unite sulla popolazionedel 1984, cit. da Mattai, in De Marchi, 1987; Viafora, 1990; si vedaanche, su posizioni diverse, Mori, in Viano, 1990).

Le controversie circa la fondazione, la definizione concreta, l’ambitoe le forme di tutela dei diritti come condizioni per una vita più pienamenteumana, sembrano momenti interni e fisiologici rispetto a una via maestraoramai decisamente imboccata e irrinunciabile da percorrere politicamente:essa ha già dato frutti importantissimi e altri può e deve dare, comepunto di incontro di ideologie diverse. Naturalmente l’incontroideologico non equivale a verifica storica: come insegna il fatto che leenunciazioni sono spesso più avanzate delle applicazioni nella realtà.

4. Contributo della demografia in alcuni momenti istituzionali al dibattitosulle politiche di popolazione

Nello sviluppo della demografia italiana di questi ultimi decenni viè stata una fortissima cura nell’evitare intromissioni indebite del mo-mento ideologico nella ricerca e una grande parsimonia nell’occupare ter-reni politici. Certamente non si è voluto dare il minimo adito a sospettidi confusione di campo, come avvenne in taluni casi durante il periodofascista (Teitelbaum e Winter, 1985, trad. it. 1987, cap. 3). Inoltre ildibattito scientifico è stato appena sfiorato, negli anni cinquanta, daldrammatico squilibrio tra sviluppo economico ed esplosione demografi-ca dei paesi del Terzo Mondo: altrove, negli Stati Uniti, esso ha avutola forza di generare radicali revisioni teoriche. I proponenti la «teoriadella transizione demografica» (fondata sull’idea che la modernizzazio-ne economica avvii il declino sia della mortalità sia della fecondità), stu-diando la dinamica dei paesi in via di sviluppo con una preoccupazionemarcatamente politica, si convinsero che l’andamento della feconditàpotesse essere indipendente dal processo di modernizzazione e, pertan-to, che ne potesse essere incentivata la riduzione con interventi diretti(le discontinuità del pensiero di F. Notestein e K. Davis sono lucida-mente illustrate da Hodgson, 1983).

E proprio dagli anni settanta che diventa percepibile nell’area de-mografica un progressivo più visibile impegno per tematiche attinentialle politiche della popolazione (Cagiano de Azevedo, in IRP-CNR, 1988),con una connessa più articolata riflessione secondo le coordinate richia-mate più sopra. Da un’attenzione centrata sull’analisi demografica deirisultati dei comportamenti (con particolare accento sugli aspetti bio-demografici) si sviluppano contributi che ne approfondiscono aspetti dif-

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ferenziali, di contesto, esplicativi (anche su dati individualizzati e nonsolo aggregati); allo studio dei fattori determinanti i comportamenti siassocia l’analisi delle conseguenze ipotetiche dei comportamenti studiati(non solo in termini di proiezioni); contemporaneamente si favorisconodiscussioni, anche a più voci, sugli insegnamenti dell’analisi a fini diprospettive e di politiche di popolazione.

Alcuni punti di riferimento possono essere cronologicamente indi-viduati: anzitutto il seminario del 1973 della Federazione delle associa-zioni scientifiche e tecniche, in vista dell’anno mondiale della popola-zione e della Conferenza prevista dalle Nazioni Unite a Bucarest per il1974. A un rapporto curato dall’Istituto di demografia di Roma, segui-vano interventi di intonazione anche contrapposta (Federici, 1976).Nel rapporto prevale un’impronta descrittiva della dinamica interna-zionale e nazionale recente e delle ipotesi teoriche di analisi della de-mografica; di fronte all’esplosione demografica dei paesi del TerzoMondo si contesta l’interpretazione della variabile demografica comevariabile indipendente generatrice del sottosviluppo (anticipando lecontestazioni che sarebbero sorte a Bucarest) e sí rivendica la prioritàdi interventi economici e di emancipazione della donna per accelerarela transizione, ravvisando legami solidali tra aspetti demografici e so-cio-economici dei comportamenti (la politica demografica deve risulta-re interna alla politica di popolazione e mirare al suo sviluppo); perl’Italia si ipotizza la convenienza di un sostegno concreto della fecon-dità (con obiettivo 2,3-2,5 figli per donna, per garantire una conve-niente struttura per età, non troppo vecchia), pur in presenza di un’au-spicata maggiore informazione demografica, di una liberalizzazioneanche per quanto riguarda l’aborto, da accompagnare con facilitazioniall’accesso ai contraccettivi, preferibili all’aborto indotto; si sostiene lanecessità di rimuovere le cause dell’esodo della popolazione meridio-nale verso il nord e di arginare lo spopolamento di molti comuni. Uncriterio guida utilizzato appare quello di garantire il massimo possibiledi libertà di scelta delle persone, specie nelle vicende riproduttive efamiliari, da rendere compatibile con le mete collettive. Voci dissen-zienti sottolineano l’importanza di ridurre dinamica e densità dellapopolazione anche in Italia, richiamando l’attualità di Malthus esostenendo la necessità di un’educazione demografica liberatrice (DeMarchi, in Federici, 1976): a loro volta tali posizioni vengono accusatedi biologismo ecologico. I modelli globali di sviluppo, pure nella lorosuperficiale approssimazione, ricevono controversa valutazione. Nelrapporto presentato nella citata occasione compare, sia pure inmodo schematico, una linea di pensiero che, con varie accentuazioni

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anche in relazione al mutare degli eventi e alle diversità di orientamentiindividuali, verrà sviluppata negli anni seguenti.

La Conferenza di Bucarest delle Nazioni Unite (1974), con il suo Pianod’azione mondiale della popolazione, ampiamente rimaneggiato dall’as-semblea per fare posto alla rivendicata priorità dello sviluppo economico-sociale sulle politiche di pianificazione delle nascite (contro le posizionidi paesi «capitalisti»; Colombo, 1975), ha lasciato qualche segno impor-tante anche nel nostro paese.

In particolare, a seguito della Conferenza, nasce finalmente nel 1976il Comitato nazionale per i problemi della popolazione presso la Presi-denza del Consiglio dei Ministri (Martini, in Comitato nazionale peri problemi della popolazione, 1980), sia pure vincolato a un impegnodi studio e a un’azione di coordinamento nella partecipazione a conve-gni internazionali. Il rapporto con il mondo politico resta in realtà in-consistente e precario, dato che i primi tentativi di avviare un discorso,ad esempio su «evoluzione demografica e sistema scolastico» (Annali Pub-blica istruzione, 1982), in presenza di un calo sperimentato e ulterior-mente prevedibile della popolazione nella scuola dell’obbligo, si scon-trano con politiche di reclutamento degli insegnanti sostanzialmente sordealla dinamica della popolazione e fondate su altre preoccupazioni e pres-sioni.

Inoltre prende l’avvio la pubblicazione di un Rapporto sulla popolazionein Italia che, uscito sotto l’egida del Comitato nel 1980, troverà un’idealecontinuazione nel primo e soprattutto nel secondo Rapporto sulla situazio-ne demografica italiana, pubblicati a cura dell’Istituto di ricerche sulla po-polazione (IRP) del CNR nel 1985 e nel 1988 (IRP-CNR, 1985; 1988):tale Istituto, sorto nel 1981, con poche forze e lento avvio, si è irrobu-stito e sta trovando una sua collocazione precisa anche come punto diriferimento per politici sensibili alle interazioni politico- demografiche(per orientamenti significativi si vedano Golini, in IRPCNR, 1988;Golini e Bonifazi, 1990; Palomba, 1990b; Golini, Righi e Bonifazi,1991). Dal punto di vista istituzionale il Comitato nazionale per i pro-blemi della popolazione entra in letargo dopo la Conferenza sulla po-polazione delle Nazioni Unite (Città del Messico, 1984): in quella sede siconcorda ormai su un duplice e integrato orientamento d’azione percontenere la dinamica demografica dei paesi in via di sviluppo e perfavorire la crescita socio-economica (Livi Bacci, 1987); ciò, nonostantel’iniziale posizione degli Stati Uniti, capovolta rispetto al 1974 e ora pro-pensa a dare un primato alle iniziative per lo sviluppo economico, sup-ponendo la dinamica demografica di per sé neutrale (Teitelbaum e Win-

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ter, 1985, trad. it. 1987; per le reazioni prevalentemente negative inambiente demografico si veda Menken, 1986). L’IRP invece si consoli-da e cerca di sviluppare linee di ricerca e di rilanciare un ponte tra ricer-catati e politici.

E interessante sottolineare il taglio con cui è redatto il Rapporto sullapopolazione in Italia del 1980 (curato operativamente da demografi qualiLivi Bacci e Colombo e coordinato, per le elaborazioni dell’Istat, daNatale): sono evidenziati i principali dati demografici e le problematicheemergenti dall’interdipendenza tra sviluppo demografico e società italiana;il Rapporto «non esprime giudizi, né fa proposte sui modi di affrontare iproblemi che la situazione pone ». In particolare non ne approfondiscerisvolti di natura culturale e morale, né esplicita (cosa che ci si sarebbepotuto attendere) possibili orientamenti espliciti per l’azione pubblica oprivata.

Può sembrare un atteggiamento eccessivamente prudenziale, prove-nendo da un organo consultivo del governo, e forse in parte lo è; quasisi fosse voluto limitare a dichiarazioni per le quali c’è consenso unani-me. Ma tale atteggiamento è sostenuto da ragioni fondate:

1) l’accrescimento demografico, visto come «fonte di molti mali» o, alcontrario, come «insostituibile sostegno allo sviluppo», risente di va-lutazioni extra-scientifiche e questo rapporto le vuole evitare;

2) nel dibattito scientifico in atto e da un’esplicita opinione pubblicanon emergono chiari indirizzi sulle tendenze demografiche «desiderabili»;

3) «orientamenti e scelte in ogni caso dovrebbero basarsi sul chiari-mento di implicazioni e conseguenze (sempre assai complesse) di ipotesialternative di aumento o diminuzione della popolazione».

La lista delle problematiche di potenziale interesse sia etico sia politicoè invece accurata e sostanziosa:

1) invecchiamento della popolazione legato alla caduta della natalità(senza approfondire i differenziali in età senile);

2) squilibri nella formazione e rottura delle coppie coniugali;3) conseguenze del declino delle nascite, aspetti della loro regolazione,

prime valutazioni sull’impatto della legge sull’aborto;4) cambiamenti dimensionali e di tipo economico delle famiglie;5) problemi dell’adolescenza;6) rallentamento del declino della mortalità e suoi aspetti differenziali;7) necessità di conoscenza dello stato di salute della popolazione;8) interferenze demografiche nell’evoluzione del mercato del lavoro9) modifiche nelle migrazioni interne e tensioni potenziali Sud-Nord,

rientri di emigrati dall’estero, consistenza dei fenomeni immigratori.

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In sintesi il rapporto descrive e interpreta la dinamica della popola-zione (fermandosi al livello di ipotesi più neutrale indicato nella figura1 e commentato all’inizio del capitolo) e rinvia una discussione sistema-tica su implicazioni e conseguenze di ipotesi di aumento o diminuzionedella popolazione (che risulta ripresa in seguito solo per approcci parzia-li), anche se mostra di propendere per un orientamento a lungo terminedi stazionarietà o invarianza della popolazione.

L’approccio muta abbastanza sostanzialmente con il secondo Rapportodell’IRP (IRP-CNR, 1988) sulla situazione demografica italiana (il pri-mo, del 1985, è marginale dal nostro punto di vista trattando essenzial-mente di profili demografici regionali). Si tratta di un’articolata puntualiz-zazione delle problematiche demografiche con tutte le loro connessioni di tipoterritoriale, economico, sociale, sanitario nonché di promozione e diffusio-ne della ricerca (vi collabora una quarantina di autori, con responsabilitàautonoma). Ampio spazio viene dato alle implicazioni politiche nella pon-derosa visione d’assieme (Golini) e in un capitolo finale su politica demo-grafica e politica sociale (Colombo). Soprattutto nel primo intervento ven-gono discusse con sistematicità le principali tematiche che hanno diretteimplicazioni politiche (fin qui niente di metodologicamente nuovo), por-tando spesso decisamente le argomentazioni anche su un terreno di auspi-cate opzioni politiche, di obiettivi di intervento, di indicazione di stru-menti normativi. Nel secondo intervento si analizzano alcune implicazio-ni, anche sul piano etico e culturale, dei movimenti immigratori e di poli-tiche di sostegno della fecondità. In altre parole le «prudenze» del Rappor-to collettivo del 1980 vengono abbandonate, integrando una descrizione-interpretazione problematica di natura scientifica (costituita prevalente-mente da schede su specifici aspetti della realtà) con valutazioni e propo-ste di politica della popolazione, sia pure avanzate a titolo personale (proba-bilmente è proprio questa attribuzione di paternità delle opinioni, sul filo diargomentazioni scientifiche, che tranquillizza circa la loro esternazione anchein una sede istituzionale quale quella di un rapporto sulla situazione de-mografica del paese a cura dell’IRP).

Le principali tematiche demografiche segnalate con implicazioni po-litiche possono essere schematizzate nel modo seguente.

1) Enorme divario nell’incremento delle popolazioni del nord del mondo(stagnante o declinante) e del sud (ancora a ritmi positivi eccezional-mente elevati) e, in particolare, squilibri demografici del medesimo tipotra le aree nord e sud del Mediterraneo: per fissare un riferimento nu-merico eloquente si può ricordare che, secondo le previsioni, la popola-zione italiana in età lavorativa (15-64 anni) passerà, tra il 1988 e il 2018,

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da 39,3 a 35,2 milioni, contro un raddoppio, da 108,4 a 214,7 milioni,della corrispondente popolazione dei paesi della riva sud del Mediter-raneo nel medesimo arco temporale di una generazione. La soluzionedei problemi dei paesi del sud non potrà ovviamente scaricarsi mera-mente in un deflusso migratorio; d’altra parte tale pressione a emigraredipenderà essenzialmente dallo sviluppo economico-sociale locale e po-trà essere frenata, ma non bloccata, da necessarie regolamentazioni deipaesi ospitanti: si impongono enormi esigenze di cooperazione allo svi-luppo; di regolamentazione delle immigrazioni concertata internazional-mente; di soluzione dei problemi sociali legati alle immigrazioni (appro-fondimenti sugli squilibri internazionali si possono trovare soprattuttoin Golini, 1987; Livi Bacci, 1989; Livi Bacci e Martuzzi Veronesi, 1990).

2) Modifica della struttura per età e invecchiamento della popolazioneoriginato dalla riduzione delle nascite: un obiettivo di fecondità di 1,7-1,8 figli per donna (misurata trasversalmente) sembra da perseguire perrallentare l’invecchiamento demografico, mentre appare poco realistica ecertamente ancora più costosa da promuovere una meta di 2,1 figli perdonna, necessaria per una tendenza alla stazionarietà della popolazione(sui costi si veda anche Blangiardo, in AA. VV., 1989b).

Una via percorribile potrebbe essere quella, equitativa, di favorirela realizzazione delle condizioni che consentano, alle coppie che deside-rano un numero superiore di figli rispetto a quelli effettivamente attesi,di colmare tale divario (un divario di questo genere, per sottogruppi dipopolazione, sembra desumersi da indagini di opinione: Ciucci, in IRP-CNR, 1988; si veda Colombo, in IRP-CNR, 1988). Più in generale siipotizzano interventi, coerenti e globali per quanto possibile: per ren-dere compatibile lavoro-maternità-carriera, incidendo sulla struttura la-vorativa sia per l’uomo sia per la donna; per eliminare le forti penalizza-zioni economiche per le coppie che hanno figli rispetto a quelle che nonne hanno, incidendo sulla struttura dei salari e sull’imposizione fiscale;per contribuire a sottolineare il valore sociale della prolificazione.

3) Vecchiaia, sicurezza sociale e occupazione: la difficoltà di prelevaredalla popolazione attualmente occupata le risorse per la sicurezza socia-le di contingenti crescenti di anziani induce a proporre un elevamentodell’età pensionabile (con modalità flessibili sia di lavoro sia di età alpensionamento) così da allargare la base produttiva, contrastando peraltra via i fenomeni di disoccupazione specie giovanile (non viene esa-minata specificamente la possibilità di allargamento del lavoro extra-domestico della donna, che in altri paesi, con opportuno contesto, nonsembra patire necessariamente una correlazione inversa con la fecondi-tà); induce altresì a suggerire, sotto il profilo economico-finanziario,

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l’ideazione di soluzioni tecniche di prelievo dei contributi diverse dallaripartizione pura, introducendo meccanismi parziali di capitalizzazione,per evitare trasferimenti non equi tra generazioni successive.

4) Differenziali di salute: la crescita in termini relativi e assoluti so-prattutto delle persone in età molto anziana (dopo i 75-80 anni) creanuove esigenze di luoghi di lungodegenza (con adeguati standard ospe-dalieri), di servizi di cura prolungata non istituzionalizzata, di un ade-guato mix pubblico-privato (ivi incluse le famiglie) da sostenere finan-ziariamente per attività di cura, di formazione del personale medico eparamedico. Questi nuovi aspetti differenziali legati alla salute, da fron-teggiare, si aggiungono ai vecchi: ineguaglianze secondo il sesso, secondole condizioni socio-professionali, secondo il territorio di appartenenza e lecondizioni ambientali (Pinna, in Sonnino, 1989; Caselli ed Egidi, inSonnino, 1989; Geddes, 1990; Golini, in Micheli e Tulumello, 1990).

5) Riequilibri interni al paese: le famiglie coresidenti continueranno adiminuire di dimensione media e ad aumentare di numero (specialmentele famiglie costituite da una sola persona, in particolare donne anziane)anche in questa fase di relativa costanza della popolazione complessiva; ladomanda di beni e servizi (alloggi inclusi) cui far fronte continuerà aessere segnata da questa dinamica.

I processi di accentramento urbano del dopoguerra si sono invece in-vertiti a partire dagli anni settanta (si veda anche Vitali, in Barsotti e Bo-naguidi, 1985). La regionalizzazione del tessuto urbano, articolato sul ter-ritorio (già operante di fatto specie dall’area padana a quella medio-adriatica), manca di strumenti di governo che consentano di gestirne lenuove pressanti esigenze e opportunità. Grandi divari di dinamica demo-grafica tra il Mezzogiorno e il resto del paese, pure in un quadro di valorimedi di ricambio naturale sotto il livello di sostituzione, continuano, perla loro parte, a mantenere irrisolta la questione meridionale: sembranoprioritarie, senza menzionare profonde esigenze di risanamento sociale,modifiche della politica dell’occupazione (flessibilità del mercato dellavoro, ripartizione del lavoro disponibile con orari ridotti su una base piùampia di lavoratori), così da poter consentire solo migrazioni fisiologichecompatibili con la più elevata domanda relativa del centro-nord.

6) Lo spostamento del baricentro dell’età in una popolazione invec-chiata tende a spostare in modo correlato anche il baricentro della spesasociale. I problemi di equilibrio, con criteri di globalità, coerenza, con-tinuità (tutt’altro che facilmente individuabili e perseguibili), in presenzadi risorse limitate, meriterebbero una maggiore attenzione del Cnel eforse la costituzione di un Comitato interministeriale per la politica so-ciale (in analogia con quanto viene fatto per la politica economica).

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Questa breve rivisitazione di alcuni momenti recenti in cui, in sedivariamente «istituzionali», i demografi hanno avviato un’attenzioneravvicinata alle implicazioni politiche delle dinamiche demografiche,non è stata certamente esaustiva né rispetto alle occasioni di discussio-ne né ai contenuti. Uno degli intenti era quello di mostrare come ilcampo del dibattito si focalizzi ma anche si allarghi: poste le proble-matiche, intrinsecamente pluridimensionali e rilevanti sotto profili di-versi, e per di più con ottica di intervento politico, sono esse a «detta-re» progressivamente la natura delle conoscenze previe utili (mai mo-nodisciplinari in senso accademico). L’approfondimento delle temati-che evocate, che si sta sviluppando anche all’interno di discipline con-tigue, meriterebbe una lettura proprio in relazione ai contributi empiri-ci convergenti che stanno provenendo da varie parti: non è questo illuogo, ma è doverosa la citazione dell’interesse della questione, in par-ticolare per le ricerche sociali che studiano premesse e implicazionidelle politiche familiari (ad esempio: AA. VV., 1983; Saraceno, 1988;Donati, 1981; 1989b; 1991) e delle politiche sanitarie (ad esempio An-tonini e Maciocco, 1983; AA. VV., 1987a; 1987b; Geddes, 1990). Inquesta sede sembra invece utile esplicitare ulteriormente alcuni nodiproblematici, alcuni punti nevralgici, cui la precedente rassegna rinviatalora solo implicitamente, mettendone in evidenza distintamente (acosto di semplificazione) gli aspetti ideologico-etici e quelli politici, co-sì come emergono dalla riflessione demografica.

5. Problematiche cruciali di tipo etico nelle politiche di popolazione

5.1. Salvaguardia e promozione della libertà della persona e dei dirittifondamentali

Si tratta di un cardine di riferimento di ogni proposta politico-demografica. Per convenzione di lavoro possiamo distinguere gli aspettiideologico-etici (o antropologico-etici) riguardanti:

1) la vita e la morte personali, nonché la trasmissione della vita (siusa ora comunemente il termine di bioetica per individuare quest’areadi applicazione);

2) lo sviluppo della persona in tutte le direzioni possibili, di espressione,di relazione, di scambio.

Le discussioni e le divergenze maggiori riguardano le diverse opzionibioetiche, in particolare quelle attinenti al processo riproduttivo (AA.VV., 1975a; 1975b; 1989a; Aied, 1989).

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Il dibattito internazionale è ancora vivissimo sulle implicazioni eti-che delle politiche di sostegno alla regolazione delle nascite (family plan-ning), con particolare riguardo alle leggi che consentono l’aborto indot-to, avendo perduto solo in parte le asprezze degli anni settanta. Riferi-menti diversi, specie di natura religiosa, variamente diffusi entro i paesi,condizionano le scelte e l’efficacia delle politiche (sulla situazione nei pae-si del Terzo Mondo: Caldwell e Larson, 1989; Mauldin, 1989; su posi-zioni religiosamente orientate: De Marchi, 1987; AA. VV., 1990a; Sache-dima, 1990). E tuttavia anche in se stessa la problematica rivela nodi dinon agevole soluzione, soprattutto per quanto riguarda un’auspicabile ge-rarchizzazione dei diritti umani in ipotesi di concorrenza o conflitto tra diloro, e il grado ammissibile di pressione (più o meno propositiva o coerciti-va) sugli individui da parte del sistema pubblico che adotti una politicafinalizzata di controllo dei concepimenti e delle nascite (Unesco, 1977;Bankowski, Barzelatto e Capron, 1989); senza dimenticare che esiste an-che un problema etico legato alla pressione tra stati con riguardo alle poli-tiche demografiche adottabili o adottate. Soprattutto Colombo (1975;1978) ha dato contributi, anche in sede internazionale, su questo ver-sante, sottolineando tra l’altro la necessità di definire dei diritti fonda-mentali «negativi» assolutamente inalienabili; gli effetti perversi che in-centivi e disincentivi rispetto alla prolificazione possono produrre, sulpiano dei diritti individuali; l’importanza di collegare diritti e doveri se-condo un’etica della responsabilità che sola potrebbe fronteggiare gigan-teschi problemi demografico-sociali del nostro tempo.

Le controversie su questi temi, che in Italia si sono evidenziate so-prattutto in occasione della legge costitutiva dei consultori familiari (1975e relativa attuazione) e della legge che ha consentito l’interruzione vo-lontaria della gravidanza (1978, con successiva proposta referendaria diabrogazione), non hanno peraltro registrato echi di rilievo in ambito scien-tifico demografico. Sembra prevalere, al di là dei riferimenti ideologicipersonali a un’etica fondata internamente o esternamente alle relazioniinterpersonali, un’accettazione delle regole della democrazia politica cheammette, di fatto, la cittadinanza di una pluralità di etiche tra loro an-che in radicale conflitto. Entro questo quadro, e con le contraddizioniche esso sopporta, va anche interpretata la convergenza tra ricercatorinel ritenere un obiettivo da perseguire il rispetto della libertà di sceltaindividuale nel campo della riproduzione; mentre non è chiaro quale gradodi pressione si sarebbe disposti ad accettare sui cittadini da parte delsistema pubblico per sostenere, ad esempio, una maggiore fecondità (ancheperché l’effettiva ipotesi di intervento in tale senso è solo evocata).

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5.2. Tutela della famiglia coniugale, valore sociale della prole, paritàuomo-donna

La vivace discussione tuttora in corso tra sociologi, tra giuristi, traoperatori, sul tipo di famiglia che una politica sociale dovrebbe privile-giare, ammesso che ne debba privilegiare qualcuno, sembra ugualmentenon facilmente componibile a livello teorico; da un punto di vista ope-rativo possono conseguentemente realizzarsi solo compromessi, che im-pediscono politiche coerenti e unitarie. Infatti le controversie riguarda-no aspetti fondamentali quali il diverso riconoscimento istituzionale dellafamiglia coniugale (legittima o anche consensuale?) e delle sue funzioni;il diverso spazio riconosciuto alla famiglia come luogo di servizi prima-ri, estendendo più o meno l’intervento del sistema pubblico; il privile-gio da accordare ai comportamenti solidaristici (che il collettivo familia-re può esprimere) o a quelli individualistici (Saraceno, 1988; Donati,1989b). Questa problematica, pure rilevante per il futuro delle fami-glie, non sembra tocchi sostanzialmente i demografi.

Viceversa essi sono molto sensibili al progressivo scadimento del va-lore sociale della prolificazione, implicito nella contrazione delle nasci-te, proprio mentre emergono inquietudini sulle conseguenze sociali edeconomiche di tale dinamica, e reso esplicito nelle indagini di opinione(Palomba, 1990a). I diritti e le virtualità attribuibili alle nuove genera-zioni sembra vengano poste dalla gente in subordine rispetto a dirittie opportunità delle presenti generazioni. Non è tanto in questione laconvenienza (individuale, di coppia, sociale) di avere in media pochi fi-gli per coppia; occorre al riguardo ricordare che la «consapevolezza do-mestica» della opportunità di ridurre le nascite, investendo contempo-raneamente di più sulla «qualità» dei figli, ha prevenuto e contrastatola «cultura politica» pro-natalista ufficiale durante la lunga transizioneconclusasi negli anni sessanta (De Sandre, 1982). Si ha piuttosto l’im-pressione che la percezione del crescente costo marginale attuale dei fi-gli (tanto da preferirne per sé anche uno solo o nessuno, dato il saldorapidamente negativo dei trasferimenti genitore-figli), maturi in presenzadi una difficile ricomposizione di ruoli in corso all’interno della triadeconiugi-genitori-figli; in tale laboriosa ricomposizione, in cui gli interes-si e le opportunità di scelta individuali vengono in primo piano, il figlioè sentito attualmente importante emozionalmente per il genitore, men-tre ne appare oscurato il vantaggio intergenerazionale obiettivo nel lun-go periodo, ad esempio in termini di mutuo aiuto (si veda una confermaal riguardo nei risultati dell’indagine IRP su intervistati di 18-49 anni

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nel 1987-88, in Palomba, 1990a; i più anziani, di 60 anni e oltre, nel1986, manifestano viceversa un’alta aspettativa di cura dai familiari,in particolare le madri dalle figlie: De Sandre, in Micheli e Tulumello,1990). Inoltre il coinvolgimento in scelte vincolanti di lungo periodo,rispetto alla maggiore flessibilità (e virtuale molteplicità) di scelte di breverespiro, può essere accettato con riluttanza (Birg, 1991; Micheli, 1991,parla di « decisione di non decidere»).

La crisi della riproduzione nei nostri paesi risente certamente anchedel processo di emancipazione della donna, di cui i crescenti livelli diistruzione e un maggiore e prolungato accesso al mercato del lavoro rap-presentano caratteri strutturali (De Sandre, in Donati, 1991). Mentre,da un lato, si vuole progressivamente sottrarre la donna da discrimina-zioni sessuali e di ruolo, viene alimentata da un altro lato una connessacrisi di identità maschile. Il consenso sull’esigenza di superare le discri-minazioni secondo il sesso non manca (con differenze antropologico-eticheche non appaiono così rilevanti come in campo bioetico), ma il proble-ma sta principalmente nella ricerca delle vie culturali e politiche perrendere effettiva la parità uomo-donna, nel rispetto delle differenze di«genere»; e per consentire che nuovi equilibri non incrinino in profon-dità fondamentali funzioni come quella riproduttiva.

L’attenzione per le condizioni sociali e politiche di paesi europei anoi vicini, caratterizzati da una più elevata fecondità, e delle forme daloro adottate di regolazione specifica delle interazioni tra ruoli familiari,lavorativi, di tempo libero, appare importante per congetturare sumodifiche di politica sociale anche in casa nostra (AA. VV., 1990b; Li-vi Bacci, in AA. VV., 1990b): l’impressione netta è che gli interventidiretti a sostegno delle nascite possano avere un senso (soprattutto sein denaro e di rilevante ammontare); che i servizi per la maternità e l’in-fanzia possano essere importanti (soprattutto se si integrano bene coni tempi di vita quotidiana dei genitori); ma che occorra principalmenteuno stile di vita diffuso in cui il figlio non sia più di competenza esclusivadella madre, ma sia gestito anche dal padre e interessi alla società; eancora un visibile interesse e riconoscimento della società per la fun-zione riproduttiva della coppia.

5.3. Controllo sociale e politico della dinamica demografica come valore

Nonostante le difficoltà teoriche e pratiche di orientare e di attuare leesigenze di «controllo» (sostanzialmente restrittivo, sia pure con im-portanti qualificazioni) da parte dell’uomo sulla fecondità, sulla morta-

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lità, sulla mobilità, sembra che sempre più diffusamente tale opzionecostituisca un valore in sé di fronte a un ambiente finito, anche se ulte-riormente dilatabile (Livi Bacci, 1989). Naturalmente se tale controllo,orientativamente e mediamente restrittivo per quanto riguarda le na-scite, impedisce una variabilità di comportamenti che includano ancheuna fecondità elevata per chi lo desidera, diventa un disvalore; analo-gamente, se il controllo sulla mortalità giunge all’«accanimento terape-utico» per garantire la sopravvivenza, ciò può attentare alla dignità del-la persona. E tuttavia sembra che queste incongruenze siano interne aun percorso sul quale, in linea di principio, si può convenire.

I problemi e le incertezze più pesanti riguardano la logica del con-trollo della mobilità territoriale, soprattutto tra paesi sviluppati e in via disviluppo. Mentre le migrazioni (in attuazione al diritto di spostamentodella dimora) hanno rappresentato una positiva valvola di regolazionedella crescita transizionale dei paesi sviluppati, in presenza di specifi-che opportunità (territori aperti di accoglienza), oggi sembrano intrin-secamente inceppate, in preda a contraddizioni insolubili; si fronteg-giano su sponde opposte, e con buone ragioni, i paesi ricchi a sviluppodemografico debole, che intendono chiudersi, completamente o quasi,all’immigrazione per proseguire il loro sviluppo nonché per poter «in-tegrare» meglio gli stranieri presenti, e paesi poveri a incremento de-mografico forte, con esuberanza certa di popolazione rispetto allosviluppo interno.

Non sfugge anche la connessione che sta assumendo, dal punto divista del significato etico di un controllo complessivo della dinamicademografica, la contrazione delle nascite con conseguente forte invec-chiamento delle popolazioni dei paesi sviluppati, contrapposta allastraordinaria pressione migratoria potenziale delle popolazioni in velo-ce espansione demografica (perché le mancate nascite non possonotrasformarsi nell’accoglienza di immigrati « sostitutivi»?).

Le due tendenze, che potrebbero per alcuni versi risultare comple-mentari, non lo sono certo dal punto di vista sociale, come innumere-voli esperienze di cattiva integrazione confermano. Né l’emigrazionepotrà essere certo, per ragioni strutturali e conti alla mano, uno stru-mento risolutivo per l’evoluzione di questi paesi eccedentari. Ma unachiusura assoluta all’immigrazione da parte dei paesi dagli elevati livellidi vita può difficilmente giustificarsi eticamente in un quadro di bilan-ciamento di interessi nazionali e internazionali; anche se il maggioreimpegno morale resta quello della cooperazione per lo sviluppo localedei paesi del Terzo Mondo.

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6. Alcune opzioni di politica della popolazione da approfondire

Un obiettivo importante e prioritario, specie in un contesto politicocome il nostro, poco attento ai risvolti demografici, può essere rappre-sentato proprio dal fare emergere le implicazioni demografiche delle po-litiche fiscali, del lavoro, sociali per tenerne conto.

Un obiettivo più ambizioso può essere indicato nella disponibilitàad adottare tali politiche per modificare la dinamica demografica.

In entrambe le ipotesi significa convenire che, a priori, politiche che in-cidano direttamente o meno sui comportamenti umani non possono con-siderarsi neutrali rispetto alla dinamica demografica (e viceversa). Inoltre,se si accetta di tenere in conto le variabili demografiche, si è disposti ad ac-cordare un’attenzione a processi e interazioni di lungo periodo, cui spessoí politici sono poco sensibili, avendo come unità di misura il mandato elet-torale (per esemplificare: la caduta delle nascite degli anni settanta e ottantacomincerà a rendere gravi i problemi di gestione delle pensioni e della sa-lute in età anziana, fra qualche decina d’anni, quando ne diventeranno frui-trici le abbondanti generazioni nate intorno al 1960; e tuttavia anche le so-luzioni vanno preparate con riferimenti temporali di questo tipo).

Proporsi di adottare politiche della popolazione che ne modifichinola struttura e la dinamica (demografiche) è un passo possibile, logico, sucui va cercato il necessario largo consenso dei cittadini, quando si ritengaragionevolmente che ci possa evitare conseguenze anche a lungo termineindesiderabili e prepari un presente più responsabile e un futuro migliore(quanto alle opinioni delle persone in età compresa tra 18 e 49 anni, sisa che politiche specifiche di sostegno delle nascite sarebberoattualmente approvate da poco meno della metà degli italiani secondol’indagine dell’IRP, 1987-88: Palomba, 1990b).

In entrambe le direzioni evocate siamo alle battute preliminari. Siha l’impressione che in questi anni gli interventi pubblici in materia dipopolazione abbiano risentito più delle spinte a riconoscere spazi di au-tonomia individuale o a cercare condizioni di maggiore equità oppureabbiano risposto a situazioni di emergenza (in terga di immigrazioni clan-destine e, più recentemente, di carico pensionistico per il bilancio stata-le); e che, viceversa, si sia ancora lontani dall’immaginare, specie nelcampo della riproduzione, di poter intervenire anche con obiettivi de-mografici. Se ciò è vero, l’opera di sensibilizzazione avviata in questianni soprattutto per far cogliere implicazioni e conseguenze dei problemidemografici, è solo iniziale. Uno sviluppo della ricerca per la politica

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di popolazione in questo contesto sembra necessario, venendo incontroall’interesse politico che matura lentamente (un esempio pionieristicoal riguardo appare costituito dalla legge della Regione Emilia-Romagna208/89 che prevede «politiche di sostegno alle scelte di procreazione eagli impegni di cura verso i figli» e prevede altresì che vengano convo-cate conferenze periodiche — la prima, svoltasi nel 1990, su famiglie epolitiche sociali — con il coinvolgimento di ricercatori e operatori).

6.1. Sulla possibilità di porre obiettivi generali definiti di crescitademografica

Dopo l’approfondita discussione avvenuta negli Stati Uniti negli annisessanta sull’ipotesi di popolazione stazionaria, e più sommariamente inun apposito seminario del Consiglio d’Europa (1976), continuano a essereplausibili sia le ragioni per un incremento tendente allo zero dellapopolazione (con una fecondità di poco più di 2 figli per donna), perchépiù facilmente sostenibile dal punto di vista della gestione politica, siale ragioni di un pur laborioso adattamento politico anche a un modestodeclino demografico, se questo, nonostante adeguata informazione susignificato e conseguenze dei comportamenti, risponde alla scelta dei cit-tadini. Poiché le tendenze in corso sono verso un certo declino tenden-ziale della popolazione, sembra che, al fine di rendere consapevoli la po-polazione e gli operatori pubblici delle implicazioni delle proprie scelte,dovrebbero essere approfondite le conseguenze, ipotetiche e su vari fronti,non solo della recente dinamica demografica naturale, ma anche di mixdi fecondità (che permanga molto sotto il livello di rimpiazzo delle ge-nerazioni o si muova verso il livello di equilibrio) e di immigratorietà,discutendole e informandone i cittadini (annoto come punto elementaredi riferimento che, all’inizio del 1991, poco meno di 782.000 stranieririsultavano soggiornare regolarmente in Italia: 149.000 cittadini Cee,633.000 extracomunitari, clandestini esclusi; questo dato appare indifetto rispetto alla stima Istat, 1990).

6.2. Politica di sostegno delle nascite alleviandone i costi correnti per igenitori e rinnovando regole di trasferimento eque tra generazioni

Gli interventi più significativi a sostegno delle nascite cercano di in-centivare il matrimonio, di alleviare la fase della gestazione e di ridurreil costo dei figli e della loro cura (assegni, sgravi fiscali, servizi) suppo-nendo che queste siano le cause principali della disaffezione a riprodur-re. Ma, riprendendo osservazioni precedenti, il disinteresse a ripro-

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durre potrebbe dipendere anche da un calcolo in perdita tra costi e be-nefici effettuato dai potenziali genitori rispetto all’impatto della prolelungo tutto il loro arco futuro di vita (nelle reti di parentela tradizionalicon numerosa prole ci sono regole di trasferimento di beni e servizi avantaggio netto dei membri in età avanzata: i giovani piuttosto ne go-dranno l’eredità; queste regole sembra stiano svanendo nelle società oc-cidentali più avanzate, essendo per di più affidata al sistema sociale laresponsabilità per gli anziani che non possano provvedere autonomamen-te). Nella misura in cui la percezione di questi trasferimenti intergene-razionali negativi sia di qualche importanza e se si volesse rimuovernela causa, occorrerebbe esaminare attentamente le proposte di Demeny(Unece, 1987), che mirano a ridare consistenza ai vantaggi relativi inetà avanzata per coloro che hanno figli in età produttiva (e che sonopertanto fonte di sostegno dei trasferimenti sociali complessivi) rispet-to a quelli che non ne hanno: si tratterebbe di destinare, attraverso ilsistema di sicurezza sociale, «una specifica frazione dei contributi pre-videnziali pagati dai lavoratori, direttamente ai genitori» (Colombo, inIRP, 1988, suggerisce invece un contributo previdenziale minore perchi ha figli: la proposta mira a evitare differenziali di prestazioni in tar-da età indipendentemente dalla condizione di bisogno, però occorrericonoscere che il significato psicologico del trasferimento cambia). An-che l’assemblea del Consiglio d’Europa (1988) suggerisce di studiare lapossibilità di «sommare i periodi dedicati all’educazione dei figli (o allecure a familiari a carico) ai periodi contributivi» al fine di acquisire ildiritto alla pensione e per il calcolo del suo importo. Si tratta di ipotesisolo in parte provocatorie, che potrebbero realizzarsi come elemento se-gnaletico di un recupero culturale e sociale del significato della prolifi-cazione, restaurando peraltro un’equità distributiva tra chi riproduce,anche per la società, e chi non riproduce.

6.3. Politiche immigratorie e crescita economica dei paesi del Terzo Mondo

Una politica immigratoria che consenta l’accoglienza di culture edetnie profondamente diverse, sia pure con flussi controllati, non può com-pensare meccanicamente gli effetti delle mancate nascite interne senzaprevedere l’adozione di importanti trasformazioni istituzionali e cultu-rali. L’esperienza mostra una sostanziale irriducibilità delle differenzeetniche e una difficile convivenza sia quando si tenda a un’assimilazio-ne passiva nel contesto ricevente sia quando si mantenga lo status distraniero per l’immigrato.

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Si deve pensare, di fronte all’evenienza certa di flussi immigratori,sia dal sud sia dall’est (che occorre certamente cercare di controllare), aun aggiornamento delle tradizionali modalità di accoglienza regola-mentata, evitando sia tentativi di assimilazione sia l’isolamento di mi-noranze etniche e riconsiderando anche le presenze temporanee in vi-sta di un rientro, tanto più fruttuoso quanto più preparato e assistito(si vedano, come esempio di tali dibattiti, le proposte, riferite dallastampa, avanzate dai nove saggi al governo francese nel febbraio 1991,basate sull’accettazione da parte dell’immigrato di regole e di un minimodi valori comuni come condizione di presenza e «cittadinanza»; sullegravi contraddizioni da risolvere per una società multietnica si vedanoBalbo, in AA. VV., 1990c; Furcht, in Maccheroni e Mauri, 1989 e inCocchi, 1990; Mauri, in Maccheroni e Mauri, 1989). Importanti sarannoanche le intese (e auspicabilmente le revisioni di esse) nell’ambito dellaComunità europea (Nascimbene, in AA. VV., 1990c).

Il maggiore impegno politico resta tuttavia quello di promuovere efavorire forme nuove e massicce di intervento per rivitalizzare il pro-cesso, interno e autonomo, di crescita economica del Terzo Mondo edei paesi economicamente depressi dell’est europeo (United Nations,1990: è essenziale e benvenuto questo rinnovato impegno delle NazioniUnite che hanno organizzato, oltre alla Conferenza sui paesi meno svi-luppati, un summit sull’infanzia, due conferenze su commercio e svi-luppo, nel 1991, e su ambiente e sviluppo, nel 1992, e il convegno mon-diale sulla popolazione, nel 1994).

6.4. Invecchiamento demografico e risorse impiegate

Il baricentro delle risorse impiegate per il benessere della popolazio-ne, con l’invecchiamento demografico, si sposta verso le classi di età piùanziane nella misura in cui si spostano e mutano i bisogni ma anche ilpotere di gestione delle risorse (Preston, 1984): come garantire attiva-mente rispetto dei diritti, vecchi e nuovi, ed equità distributiva in uncontesto di risorse limitate e di aspettative crescenti?

Una visione d’assieme e forme di coordinamento dell’azione politicasono, a evidenza, necessarie per fronteggiare non settorialmente le nuoveemergenze, per prevenire o compensare possibili effetti indesiderati diinterventi, per scegliere oculatamente tra esigenze talora divergenti(maggiori finanziamenti per una migliore assistenza di lungodegenti vecchie incurabili o per miglioramento delle opportunità di istruzione giova-nile o di accesso al mercato del lavoro, sono esempi concreti di possibiliopzioni antitetiche al margine).

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Ma preliminarmente occorre valutare la questione di uno spostamen-to «demografico» del potere, che indurrebbe proporzionalmente sempreminore spazio alla rappresentanza degli interessi delle nuove generazio-ni: se la questione è fondata, vanno trovate soluzioni riequilibratrici (atitolo di esempio Demeny, in Davis et al., 1986, suggerisce di dare il di-ritto di voto per i figli minorenni ai genitori, in combinazione con altriinterventi che stabiliscano maggiore equità nei rapporti tra sessi e tra legenerazioni).

7. Conclusioni

L’itinerario seguito nel presente capitolo, rivisitando sommariamenteIo sviluppo della discussione sulle politiche demografiche in Italia negliultimi decenni, ha cercato di evidenziare punti di vista (antrolopogicoetico,descrittivo-interpretativo, politico) e problemi salienti.

La griglia di lettura concettuale (prima parte: paragrafi 1-3) ha cer-cato di distinguere alcune caratteristiche logiche e di merito (rispettoallo stato della situazione in Italia) in funzione dell’approccio che si vuoleprivilegiare studiando il tema delle politiche di popolazione.

Ha fatto seguito una ricognizione di alcuni momenti istituzionali re-centi in cui i demografi hanno mostrato una crescente attenzione «poli-tica» (seconda parte: par. 4).

Un richiamo schematico di problematiche etiche che riemergono nellediscussioni (terza parte: par. 5) e di opzioni politico-demografiche daapprofondire (quarta parte: par. 6) ha chiuso la riflessione.

Più che cercare esaustività nella rivisitazione, converrà valutarne l’u-tilità rispetto a un’agenda di lavoro che si presenta aperta e impegnativa.Con l’auspicio che crescano gli interlocutori sia sul versante conoscitivosia su quello operativo.

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Indice dei nomi

Accinelli G., 315Achenwall G., 30Adinolfi, 458Adorno T. W., 214Aemilius Macet, 28Agostini F., 170nAimi A., 425Akers D. S., 116, 119Alberti, 45Aleati G., 164Alfieri C., 41Alvaro G., 350, 421Amodeo, 288Amoroso L., 246Anatra B., 170nAnderson B. A., 156nAnderton D. L., 152Angerame P. F., 317Antonini F. M., 468Antonucci, 46-47Arbuthnot, 195Ariès P., 18Armenate A., 35Ascolani A., 350Assante F., 165

Bacchetta P., 420Bachi R., 45, 396Baglioni P., 428Bagni T., 35Balbo L., 227Balbo P., 32Balbo, 476Bandettini P., 164, 170nBankowski Z., 469Barbagli M., 284-86, 291Barbano F., 226-28Barberi B., 246Barbieri M., 317

Bardet J.-P., 153Barraclough G., 151Barsotti 0., 386 e n, 389, 393, 395, 425, 467Barten A. P., 252Bartiaux F., 401Barzelatto J., 469Battara P., 163Bean L. L., 152Beccaria C., 31Becker G. S., 17, 258-59, 267Beggiato R, 317Bellandi L., 431Bellettini A., 29, 164, 170n, 261, 303Beloch G., 146-47Beltrami ID., 164Bellini R., 36, 41n, 42, 44, 64, 161, 194-96, 198,

223-24Berent J., 293Berlinguer G., 424Bernardi L., 421, 429Bernassola A., 117Bernoulli D., 34Berry B. J. L., 394nBertaux D., 340Berti, 119Bertillon, 140Bertino S., 289, 344, 360Bianchi, 428Bielli C., 301, 306, 308, 319, 344Binswanger H. P., 19Biraben J.-N., 150Birg H., 471Birindelli A. M., 67, 420Blake J., 121, 294Blanchet D., 350BIangiardo G. C., 76, 289, 319-20, 349, 358, 360,

424-26, 428-31, 466Bloch M., 150Bodio L., 35, 37, 108n

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572 Indice dei nomi

Bodmer W. F., 206Boldrini M., 30, 35, 43, 47, 65, 90, 110n, 161 e n,

197-98, 199n, 283, 421-22Bollino C. A., 252Bolognini M., 431Bolzan M., 429Bonaguidi A., 382-83, 385-86, 395, 421, 467Bonarini F., 8, 288, 297, 304-5, 309, 317, 319, 321,

424Bonelli F., 164Bongaarts J., 8, 117, 125, 294, 319, 358,

360-61Bonifazi C., 390, 397, 426, 463Bonino J., 32Bonlavet C., 399Borlandi F., 163-64Bosco A., 63Boserup E., 19Bottai M., 395, 399Bouchard, 157Bourgeois-Pichat J., 5, 110-11, 117-18, 123, 201,

231, 353Bourguignon 0., 360Brass W., 119Braudel F., 142n, 232Braun R. E., 355Breschi, 290, 298, 305Brouard N., 351Brunelli L., 393, 425Brunetta G., 290, 300Bruni M., 350, 421Bruno V., 300Bulatao R. A., 293-94Butz W. P., 293Buzzetti L., 390

Cafaro D., 316Cagiano de Azevedo R., 90, 289, 420, 425, 458,

461Caldo C., 424Caldwell J. C., 293, 459, 469Calot G., 112 Calovi C., 304Calvi G., 459Calvino L, 171nCampus A., 430Cannan, 248Cantalini B., 386n, 390Cantelli F. P., 64, 111nCantillon 139Caperdoni E., 431Capocaccia R., 342

Cappellin R., 389Capron A. M., 469Carannante, 291Carano Donvito C., 32Cariani G., 345Carini R., 321Carnevale T., 424Carrasco E., 294Carvelli A., 428-29Casati, 40, 64Caselli G., 10, 36, 93, 117n, 125-27, 202n, 263,

340-42, 348, 351, 421, 467Castellano V., 224Castellina L., 459Castellino 0., 422Castiglioni M., 259, 292, 355Castrilli, 45-46Castro L., 383, 401Cattaneo C., 32Cavalli-Sforza L. L., 206Cazzola A., 321Champion A. G., 394 e nCharbonneau H., 19, 153, 157, 158 e nChelli F., 361Chesnais J.-C., 387Chiaretti G., 227Chiari G., 429Chiassino G., 76, 170n, 295, 305, 349Child J., 247Ciccotti E., 163Cigno A., 260, 350Cipolla C. M., 163-64Cislaghi C., 345Cittadini, 307Ciucci L., 117, 299, 348, 421, 466Clark R. L, 350Cleland J., 12Clerici R., 289, 304, 381 e nCoale A. J., 5-6, 9, 16, 19, 118 e n, 119, 125, 155,

156 e n, 253-54, 264, 287-88, 293-94,296, 300, 341

Cocchi, 476Cochrane S. G., 394nCohen M. N., 19Colajanni N., 41n, 63Coletti F., 44, 226Colle B., 432Colombo E., 81, 90, 117, 197, 199n, 202, 287,

298, 303, 314, 316, 318, 345, 423, 427,456, 460, 463-66, 469, 475

Comba R., 166Comte A., 205, 207, 216-18

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Indice dei nomi 573

Condorcet, 139Conring E., 30Contento A., 41nConti C., 32Coppi R., 124-25, 342Coppini M. A., 350, 422Correns, 194Correnti, 37Corridore F., 161, 163Corsini C. A., 27n, 161, 208, 291Cortese A., 357-58, 393, 425Costa M., 395Costanzo A., 33, 161nCourgeau D., 127.28, 130, 294, 340, 380, 381n,

382-83, 397-99, 401Cox, 302Croce P., 315Crosby W., 20Crouchley R., 340Curatolo R., 428Cusimano, 289

D’Addario, 46Dalla Zuanna G., 259, 304, 429, 431Darwin C., 15, 47, 139-40, 188, 202, 207,

218Das Gupta P., 342Davenant Ch., 30, 247Davies R. B., 340Davis K., 121, 294, 308, 315, 461, 477De Angelini A., 431De Are D., 394De Bartolo G., 79, 305, 429De Blasio R., 424De Candia, 289De Castro, 46Dechesne H., 158Del Buca D., 421Del Chiaro, 110Del Colle E., 395De Leo B., 422Delle G., 165Dell’Aringa C., 255Dell’Atti A., 393, 425Della Pergola S., 303Del Panta L., 165, 172, 295De Marchi F., 461-62, 469Demarco, 164Dematteis G., 395De’ Medici G. A., 30Demeny P., 6, 9, 119, 351, 459, 475, 477De Meo G., 163-64, 250, 420

De Moivre A., 31 e nDenison E. F., 250Deparcieux, 31Derham, 139De Rita G., 420, 424De Rose, 302De Saboulin M., 347Desama C., 157nDe Samuele Cagnazzi L., 32-34, 36, 40-42,

63De Sandre P., 79-80, 85, 98,117, 123n, 125,

238-39, 284-86, 288, 290, 292-94, 297,305, 308, 311, 357-59, 456-57, 459,470-71

De Santis G., 260, 298-99, 383, 386n, 387De Sarno Prignano A., 67, 297, 299, 304-5, 350,

358De Simoni A., 298, 305, 397, 426De Sismondi, 245De Unamuno M., 147De Vergottini M., 110, 112De Vries, 194De Witt, 34Di Ciaccio A., 362Di Cillo C., 431Di Comite L., 76, 286, 290, 295, 349, 393,

425Di Nicola, 286Dinh Q. C., 342Dini F., 394Dionigi di Alicarnasso, 27Di Staso, 286, 289Donati P. P., 455, 458-59, 468, 470-71Doro S., 431Drake M., 148Dupâquier J., 27n, 153, 158, 159nDupâquier M., 27nDurkheim E, 220, 360

Easterlin R. A., 18, 293, 301, 344Egidi V., 263, 342, 344, 346, 348, 353, 360,

467Emanuele L., 431Engel E., 252Ermisch J., 350, 361Espenshade T. J., 355Eulero, 5, 34Eversley D. E., 151

Fabris G., 308, 315, 459Fagiani, 460Fanfani A., 33

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574 Indice dei nomi

Faustini G., 255-57, 421Febvre, 150Federici N., 43, 47, 65, 75-76, 88, 96, 125, 165,

185, 186 e n, 187.88, 192 e n, 193n, 196n, 202,233-35, 283, 295, 301, 306, 347, 349, 356, 362,380, 420, 462

Felloni G., 164Ferrara, 32-33Festy P., 293, 358Figà Talamanca I., 316, 318, 424Finzi 1., 321Fisher A. A., 294Fisher R. A., 118, 198nFlaim P. 0., 256Fleury M., 112, 149-50, 152Fontana G., 31 e n, 32, 34, 58Formentini U., 395Fortunati P., 29, 44, 46, 72, 163-64Fourier J. B., 36Franciosi F. B., 421Freedman R., 293Frey W. H., 394nFuà G., 249, 254, 268, 270, 350, 386 e n, 390, 421,

426Fumagalli Carulli, 458Furcht, 476

Gabaglio A., 27nGaeta Roberto, 31 e n, 32, 34, 58Galiani, 245Galli Parenti G., 299Gallino T., 431Galvani L., 35-36, 111-12Ganiage J., 153Gario G., 428Garonna P., 266Gaslonde S., 294Gastaldi T., 45, 49Gautier E., 7, 150Geddes M., 467-68Geissler, 195Genovesi, 245Gentile G., 40, 64Gentileschi M. L., 391nGerhan D. R., 160n.

Ghilardi G., 386nGiacobazzi D., 312Giacomello P., 421Giannini C., 421Gni C., 7, 35-36, 45-46, 49, 64, 86, 90, 108n, 110-

12, 117, 160-64, 192 e n, 193 e n, 194 e n, 195e n, 196 e n, 197-98, 199 e n, 200n, 202, 223-24, 226, 300, 342

Gioi, 36Gioja M., 32, 63, 108nGiolitti G., 44Giorgi P., 355Giorio P., 431Giovannetti A., 79Giulio Cesare, 27Giunti G., 305Giustiniano, 28Glass D. V., 48, 151Glick P., 358Godwin W., 139Golini A., 93, 95, 97, 117n, 226, 286, 296, 348,

350, 358-59, 386n, 390, 395, 397, 414n, 420-22, 426, 463, 465-67

Gompertz, 306Gonnot J. P., 351Gorman W. M., 252Goubert P., 152.53, 164Graglia R., 32Grandolfo M. E., 424Granelli Benmi L., 79Graunt J., 5, 30-31, 34, 36, 139Greco M., 291Gronchi S., 422Gros Pietro G. M., 255Grussu S., 260Guatini R., 249-50, 268Guarna F., 97Guerresi E., 313Guillard A., 208

Hajnal J., 113, 114n, 284Haldane J. B. S., 198nHalley E., 5, 30, 34, 139Hanau C., 350Hannan M. T., 293, 340Hansen A. H., 160 e nHarbison S. F., 125Hardy-Weinberg, 205Harm E., 156nHarris J., 386Harsin P., 156-57Heckman J., 342Heins E., 426Hélin E., 156, 157 e nHenry L., 7, 19, 108, 112-13, 115-17, 120n, 121,

123n, 149-50, 152-53, 155-56, 158, 164, 208-9, 294, 347

Hobcraft J., 12, 116, 124, 293Hodgson D., 461Hoem J., 342

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Indice dei nomi 575

Hoffman-Nowotny H. J., 344, 359Hohn C., 352Hollingsworth T. H., 148Holmberg I., 360Hoover E. M., 19, 253-54, 264Hopflinger F., 358-59Hopkins K., 29nHoriuchi S., 341Horkheimer M., 214Houtahakker, 252Hudde, 34Huygens C., 36Huygens, fratelli, 34, 139Hyrenius H., 152

Imhof A. E., 148, 152Insolera, 46Isemburg T., 33

Jacob F., 218Jacquard A., 191, 201Jain A. K., 319

Katman, 344Kantrow L., 148Keely, 288Keilman N., 124, 344, 347, 355, 358, 360Kelley A. C., 19, 247, 253Kendall M., 123Kephart G., 307Keerseboom, 31, 139Kessler D., 350Keyfitz N., 5, 98, 119, 185-86, 209, 342, 352Keynes J. M., 16, 160 e n, 245King, 30-31Kish L., 345Kitagawa J., 342Klaus H., 314Knodel J. E., 152, 156nKublai Kan, 170-72Kula W., 147, 163Kuznets S., 19, 248, 258

Land K. C., 344Landucci Tosi S., 308Laplace, 207Larose A., 158nLarson A., 469Laslett P., 154 e n, 156, 353, 360Lastri M., 29, 32Laszlo E., 206Lauro S., 286, 303, 431

La Vergata A., 139Le Bras H., 118Ledermann S., 119Lee R. A., 293Légaré, 157Leibenstein H., 17, 254LeUvre E., 127, 130, 340, 398-99Lenti L., 112Lenzi R., 305Léridon H., 112, 117Le Ronda d’Alembert J., 34Leroy Ladurie E., 20Leslie P. H., 119n, 382Lesthaeghe R. J., 156n, 391Leti G., 45, 49, 170n, 196nLevi G., 30, 32Lévi-Strauss C., 213, 225Lewbel A., 252Lewis, 266Lewontin, 190Lexis, 35Livi Bacci M., 19-20, 33, 47, 76, 90, 97, 105,

114n, 117, 119, 156n, 161n, 165 e n, 166,186 e n, 199, 200-1, 226, 232, 235, 239,246, 248, 251, 260, 263, 284, 296, 299-300,305, 316, 342, 347, 349-50, 353, 379-80,386-87, 390, 392, 414n, 420, 422, 424, 426,463.64, 466, 471-72

Livi L., 45, 47, 64, 88, 90, 161n, 163-64, 196-98,199n, 223-25, 300

Livi R., 161n, 196, 199Lombardo. E., 32-33, 35-36, 96-97, 305, 307,

429Long L., 394Lopez A., 5, 118Losch A., 160 e nLotka A. J., 5, 6, 118, 140, 148n, 161, 209,

382Luzzatto Fegiz P., 45, 64, 194Lynch K. A., 148, 172

Maccheroni C., 476Maciocco G., 468Maddison A., 248Maestri P., 37Maffenini W., 303, 383Maffioli D., 92, 96, 301, 305Maggioni G., 291 Malsano S., 353Majorana Calatabiano G., 41nMalinowski B., 214Malinvaud E., 268

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576 Indice dei nomi

Malthus T. R., 15-16, 33, 139-40, 192, 205,217, 245-46, 462Manese G., 289, 303Mannheim K., 116nManton K. G., 342, 344, 353Marchesi F., 307Marchionni M., 320Marcilio M. L., 158Markov, 266, 382Marshall, 245, 314Martelli C., 116Martini M., 429, 463Martuzzi Veronesi F., 392, 426, 466Marx K., 33, 220-22Marzocchi, 289Masarotto G., 314Maset S., 312Masi A., 289Masiero C., 431Masselli M., 345Massey D. S., 388, 401Massironi G., 227Mattai, 461Mauldin W. P., 469Mauri A., 476Mayr G., 41n, 63, 208Mc Keown T., 20McNeill W. H., 20, 287McNicoll G., 252Meadows D. H., 248Meccariello L, 295Medolaghi P., 46Melotti 12., 425Menchiari A., 306Mendel, 194Menken j., 464Menniti A., 97, 358Mera K., 394nMerella P., 424Messedaglia A., 33, 37, 41n, 42, 63Micheli G. A., 139, 306, 380, 420-21, 429, 431,

467, 471Migliorini E., 429Milanesi G., 459Mineau G. P., 152Molinari, 420Mols R., 156Monari P., 205nMonguzzi F., 424Montanari A., 308, 430Moretti E., 393, 425, 429Mori, 461

Moroni A., 170nMorozzo, 32Mortara G., 35-36, 45-48, 63, 65, 90, 92, 111 e n,

112, 251, 342Mortara V., 459Muscetta S., 344Musu I., 386nMuttini Conti G., 164Myrdal G., 390

Nascimbene, 476Natale M., 79, 117, 268, 297, 304-5, 350, 421-22,

425-26, 428, 464Neri F., 424Niceforo A., 43, 64, 161, 197Nobile A., 41, 46, 48, 64-65, 420Notestein F., 155, 461

Oberg S., 348Ongaro F., 8, 302, 307Ortes G., 32-33, 248Ortona G., 421Orviati S., 92, 303Ottaviani M. G., 40, 65

Paci M., 454-55Page H., 293Paglin, 258Paglino F., 46Palloni A., 307Palmieri L., 308Palomba R., 97, 322, 358, 426, 463, 470-71,

473Paltrinieri R., 321Pane A., 320, 429Panero M., 428Papa 0., 305Parenti G., 163-64Pareto, 189, 245Pasquali P., 304-5Pasquini L., 319Pazzano M., 97Pearl, 161Peccati L., 431Pedull à G., 421Pennino A., 298Pennino C., 298Perozzo L., 36, 109nPerrenoud, 157Pertile G., 35Pesso S., 431Petrioli L., 9, 76, 119, 202, 305-6, 350

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Indice dei nomi 577

Petty W., 30, 139Phelps E., 389Piccinni G., 166Pietra G., 44, 46, 49Pilloton F., 255n, 420Pingali P., 19Pinnai A., 75, 79, 96, 124-25, 260, 295, 301-2, 307,

342, 345, 348, 359, 467Pinto G., 166Piperno A., 323Poli M. P., 32Polibio, 27Pollard J. H., 116, 118, 347Polo M., 170-72Potter R. G., 8Pozza D., 431Prais, 252Prampero A., 35Predetti A., 431Pressat R., 115-16Preston S. H., 6, 119, 125, 262, 341, 476Price, 30Prigogine I., 206Prioux F., 358Puggioni G., 170nPullurn T. W., 124

Quételet A., 38, 40, 140, 196, 205, 207Quintavalla E., 320

Rabino G. A., 429Raccioppi F., 342Raimondi E., 320Rajulton F., 401Rameri L., 35Ranci Ortigosa E., 455Reginato M., 393, 425Repetto R., 258Rettaroli R., 388Riandey B., 399Ricardo, 245Ricci L., 33, 421Ricci R., 361Richards T., 360Righi A., 350, 422, 426, 463Rindfuss R. R., 294, 307Riphagen F. E., 311Riva, 286, 303Robin, 154nRobinson W. C., 125Rodriguez G., 294Rogers A., 119n, 125, 344, 382-84, 401

Romagnosi, 32-33Rosental P. A., 380Rosoli G. F., 381n, 391Rossi F., 8, 286, 288-89, 297, 303-4, 321, 355, 358,

360, 381Rossi G., 455Rossi N., 252Rossi P., 220Rossi, 421Rotondi, 300Roussel L., 358.60Roveda, 170nRoveri L., 345, 357-59Ruberto A., 420Rusconi G. E., 459Russo A., 358Ryder N. B., 110, 113, 115, 116 e n, 293-94, 309,

324, 353, 356

Sabbadini L. L., 362Sachedima Z., 469Sahlins M., 221Sala A., 424Sala P., 170nSalvatore D., 267Salvini, 302, 305Salvioni G. B., 41n, 63, 161Samoggia A., 170nSanna, 317Santagata W., 421Santini A., 21, 79-80, 98, 114n, 115, 117,

125-26, 155, 160n, 164, 172, 261, 284-86, 288-89, 295, 297, 299, 305, 318,348-49, 385n, 398, 401n

Saraceno C., 141, 455, 468, 470Saraceno E., 386nSavorgnan F., 112, 162, 164Scardovi I., 22, 190n, 196n, 205nSchiaffino, 303Schoen R., 347Schofield R. S., 20, 154nSchultz T. P., 267Serow W. J., 401Servio Tullio, 27Sgritta G. B., 235, 239, 290Short, 31Shryock H. S., 347Simon J. L., 19, 392Simoncelli R., 391nSinger B., 342Skinner, 189Sly D., 401

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578 Indice dei nomi

Smith A., 245Smith D., 5Solow, 254Somogyi S., 45, 112, 421Sonnino E., 47, 75, 79, 96-97, 161, 426, 467Sori E., 48Sorvillo M. P., 361Spallucci R., 421Spencer H., 140, 190Spinelli A., 318, 424Steve S., 48Stuart Mill. J., 205Sussmilch, 139Sussmilch, 195Sylos Labini P., 262-63

Tagliacarne, 420Tammeo G., 63Tapinos G., 262, 269, 350, 425Tassello G., 425Tassinari F., 170n, 268, 430Tassinari G., 268Teitelbaum M. S., 156n, 454, 461, 463Termote M., 382-83, 386n, 397-98Terrisse M., 152nTerzera, 425Tietze, 319Tilly C., 230Tinacci Mossello M., 390Tito Livio, 27Tittarelli L., 170nToaldo, 32, 34Todaro M. P., 267 e n, 386Todisco E., 426Tomassetti A., 344, 360-61Tonini, 306Townsend, 139Treves A., 48Tribalat M., 392Trivellato U., 343, 421Trussel, 294Tufari P., 290Tulumello A., 467, 471Tuma N. B., 293, 340Turci M. C., 269Turgot A. R. J., 248

Uggè A., 33, 45, 47Ulpiano, 28Ungari P., 147Valenziani, 45

Vallin J., 202n, 341-42, 351Valmary P., 153

Valussi G., 391nVan Bath S., 157Van de Kaa D., 282, 309, 459Van de Walle E., 148, 156nVan Der Woude A., 157Van des Wijst T., 350Van Poppe! F., 350Vaupel J. W., 342Veca S., 460Ventisette M., 117, 289, 291, 298, 305, 384Venturi M., 345Verhulst, 209, 246Verma L., 345Vernazza di Freney G., 30Verri, 245Vesentini E., 48Viafora C., 461Vian F., 429Viano C. A., 460-61Vichi, 79Villani G., 29Vincenzi Amato D., 455, 458Vinci F., 64, 111Vining, 394nVirgilli F., 41Visco, 286Vitali 0., 350, 361, 395-96, 421-22, 467Viterbi M., 226, 228Volpi R., 97Volterra, 209Von Tschermack, 194Von Weuzsacker R. K., 350

Wall R., 154n Wallace, 140Walras, 245Ward M. P., 293Wargentin, 139Watkins J. F., 293, 296, 401Way A. A., 294Weber M., 220Wells R. V., 160nWestergaard, 140Westoff C., 309Whelpton P. K., 110, 113Wicksell K., 248, 253Willekens F. J., 125, 382, 384, 385nWilliamson J. G., 247, 253Willigan J. D., 148, 172Wilmuth J., 342Wilson E. 0., 197-98Winter J. M., 454, 461, 463-64Wolf D. A., 348

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Indice dei nomi 579

Woodward J. A., 401Wright S., 193, 198nWrigley E. A., 154nWrigley R. A., 20Wunsch G., 115, 341

Yashin A., 342

Zaba B., 385Zacchia G., 390

Zajczyk F., 428Zamagni S., 389Zanetti D., 165Zannella F., 342Zei, 289Zeviani E., 32, 34Zigli L., 425Zuccagni Orlandini A., 29, 36, I08nZuliani A., 421Zuradelli G., 63

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Nota sugli autori

Gian Carlo Blangiardo è professore straordinario di demografia della Fa-coltà di scienze politiche presso l’Università statale di Milano.

Franco Ponarini è professore ordinario di teoria della popolazione e modellidemografici della Facoltà di scienze statistiche presso l’Università di Padova.

Carlo A. Corsini è professore ordinario di demografia storica della Facoltàdi economia e commercio presso l’Università di Firenze.

Paolo De Sancire è professore ordinario di demografia della Facoltà di scienzestatistiche presso l’Università di Padova.

Gustavo De Santis è professore associato di demografia della Facoltà di sta-tistica presso l’Università di Messina.

Viviana Egidi è professore ordinario di demografia della Facoltà di economiae commercio presso l’Università di Trieste.

Renato Guarini è professore ordinario di statistica economica della Facoltàdi scienze statistiche, demografiche ed attuariali presso l’Università La Sapienzadi Roma.

Massimo Livi Baccí è professore ordinario di demografia della Facoltà discienze politiche presso l’Università di Firenze.

Enzo Lombardo è professore ordinario di demografia della Facoltà di eco-nomia e commercio presso l’Università La Sapienza di Roma.

Fausta Ongaro è professore associato di demografia della Facoltà di scienzestatistiche presso l’Università di Padova.

Dionisia Maffioli è professore straordinario di demografia della Facoltà discienze statistiche e demografiche presso l’Università La Sapienza di Roma.

Fiorenzo Rossi è professore ordinario di demografia della Facoltà di scienzestatistiche presso l’Università di Padova.

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582 Nota sugli autori

Antonio Santini è professore ordinario di demografia della Facoltà dieconomia presso l’Università di Firenze.

Italo Scardovi è professore ordinario di statistica della Facoltà di scienzestatistiche presso l’Università di Bologna. È inoltre docente di biometriapresso la stessa Università.

Giovanni B. Sgritta è professore ordinario di Sociologia della Facoltà discienze statistiche e demografiche presso l’Università La Sapienza di Roma.

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1994 95 96 97 98 99 O 1 2 3 4 5 6 7 8 9

Finito di stampare il 28 aprile 1994dalla Tipolito Subalpina s.r.l. in TorinoGrafica copertina Promoteam, Torino

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Guide agli studi di scienze sociali in Italia

Volumi già pubblicati:

Leonardo Morlino (a cura di), Scienza politica.

Luigi Bonanate (a cura di), Studi internazionali.

Pasquale Coppola, Berardo Cori, Giacomo Corna Pellegrini et al., Geografia.

Massimo Livi Bacci, Gian Carlo Blangiardo e Antonio Galli (a cura di), De-mografia.

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Studi e ricerche

Volumi già pubblicati:

Abitare il pianeta. Futuro demografico, migrazioni e tensioni etniche.Volume I, Marcello Pacini, Aristide R. Zolberg, Antonio Golini et al., Il

Mondo Arabo, l’Italia e l’Europa.Volume II, Thomas Espenshade, S. Philip Morgan, Gian Carlo

Blangiardo et al. , Usa, Urss e aree asiatica e australe.

Vincenzo Cesareo (a cura di), L’icona tecnologica. Immagini del progresso, strutturasociale e diffusione delle innovazioni in Italia.

Valori, scienza e trascendenza.Volume I, Achille Ardigò e Franco Garelli, Una ricerca empirica sulla di-

mensione etica e religiosa fra gli scienziati italiani.Volume II, Evandro Agazzi, Sebastiano Maffettone, Gerard Radnitzky et

al., Un dibattito sulla dimensione etica e religiosa nella comunità scientificainternazionale.

Fondazione Giovanni Agnelli, Il futuro degli italiani. Demografia, economia e societàverso il nuovo secolo.

Claus-Dieter Rath, Howard Davis, Fran9ois Gargon, Gianfranco Bettetini eAldo Grasso (a cura di), Le televisioni in Europa.Volume I, Storia e prospettive della televisione in Germania, Gran Bretagna,

Francia e Italia.Volume II, I programmi di quarant’anni di televisione in Germania, Gran Bre-

tagna, Francia e Italia.

Fondazione Giovanni Agnelli, Manuale per la difesa del mare e della costa.

Institute of Southeast Asian Studies (a cura di), Il Sud-est asiatico nell’anno delserpente. Rapporto 1989 sulla situazione sociale, politica ed economica dell’area.

Sergio Conti e Giorgio Spriano (a cura di), Effetto città. Sistemi urbani e inno-vazione: prospettive per l’Europa degli anni novanta.

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Albert Bastenier e Felice Dassetto, John Rex et al., Italia, Europa e nuove immi-grazioni.

Erminio Borlenghi (a cura di), Città e industria verso gli anni novanta. Sistemi urba-ni e impresa a Torino, Genova, Verona, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Catania,Milano e Roma.

Isaiah Berlin, Amartya Sen, Vittorio Mathieu, Gianni Vattimo e SalvatoreVeca, La dimensione etica nelle società contemporanee.

Vincenzo Cesareo (a cura di), La cultura dell’Italia contemporanea. Trasformazionedei modelli di comportamento e identità sociale.

Maria Luisa Bianco, Federico D’Agostino e Marco Lombardi, Il sapere tecno-logico. Diffusione delle nuove tecnologie e atteggiamenti verso l’innovazione a Torino,Napoli e Milano.

Giancarlo Rovati, Un ritratto dei dirigenti italiani.

Giuliano Urbani, Norberto Bobbio, Gian Maria Capuani e Giannino Piana etal., L’anziano attivo. Proposte e riflessioni per la terza e la quarta età.

Vklav Bélohradsky, Pierre Kende e Jacques Rupnick (a cura di), Democrazie dainventare. Cultura politica e stato in Ungheria e Cecoslovacchia.

Antonio Golini, Alain Monnier, Olivia Ekert-Jaffé et al., Famiglia, figli e societàin Europa. Crisi della natalità e politiche per la popolazione.

Giorgio Brosio e Walter Santagata, Rapporto sull’economia delle arti e dello spetta-colo in Italia.

Daniele Hervieu-Léger, Franco Garelli, Salvador Giner e SebastiAn Sarasa etal., La religione degli europei. Fede, cultura religiosa e modernità in Francia, Italia,Spagna, Gran Bretagna, Germania e Ungheria.

Pier Francesco Ghetti, Manuale per la difesa dei fiumi.

Maurizio Ferrera (a cura di), Stato sociale e mercato mondiale. Il welfare state soprav-viverà alla globalizzazione dell’economia?

Ole Riis, Marek Tarnowski, Alexander Tsipko et al., La religione dei europei II.Un dibattito su religione e modernità nell’Europa di fine secolo.

Gian Carlo Blangiardo e Antonio Golini, Paolo De Sandre, Rossella Palombaet al., Politiche per la popolazione in Italia.

Jacques Waardenburg, Sami A. Aldeeb Abu-Sahlieh, Mohammed Salhi et al.,I musulmani nella società europea.

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Cosmopolis

Volumi già pubblicati:

Masao Maruyama, Le radici dell’espansionismo. Ideologie del Giappone moderno. Pre-fazione di Shuichi Katō.

Ashis Nandy, Ravinder Kumar, Rajni Kothary et al., Cultura e società in India.

Shuichi Katō, Arte e società in Giappone.

Institute of Southeast Asian Studies (a cura di), Islam e _finanza. Religione mu-sulmana e sistema bancario nel Sud-est asiatico.

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Popolazioni e culture italiane nel mondo

Volumi già pubblicati:

Euroamericani.Volume I, Marcello Pacini, «Introduzione a “Euroamericani”»,

Betty Boyd Caroli, Piero Gastaldo, Francis A. J. Zanni et al., Lapopolazione di origine italiana negli Stati Uniti.

Volume II, Francis Korn, Isidoro J. Ruiz Moreno, Ezequiel Galloet al., La popolazione di origine italiana in Argentina.

Volume III, Luis A. De Boni e Rovflio Costa, Lucy Maffei Hutteret al., La popolazione di origine italiana in Brasile.

Graziano Battistella (a cura di), Gli italoamericani negli anni ottanta. Unprofilo sociodemografico.

Rovílio Costa e Luis A. De Boni (a cura di), La presenza italiana nellastoria e nella cultura del Brasile.

Jean-Jacques Marchand (a cura di), La letteratura dell’emigrazione. Gliscrittori di lingua italiana nel mondo.

Stephen Castles, Caroline Alcorso, Gaetano Rando ed Ellie Vasta (acura di), Italo-australiani. La popolazione di origine italiana in Australia.

Fernando J. Devoto, Maria Magdalena Camou e Adela Pellegrino et al.,L’emigrazione italiana e la formazione dell’Uruguay moderno.

Inoltre la Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli pubblica larivista semestrale ALTREITALIE. Rivista internazionale di studi sullepopolazioni di origine italiana nel mondo.

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Quaderni della Fondazione

Volumi già pubblicati:

Vicente Giancotti (a cura di), La bibliografia della letteratura italiana in AmericaLatina.

Alice Kelikian, Pierre Milza, Falk Pingel, L’immagine dell’Italia nei manuali distoria negli Stati Uniti, in Francia e in Germania.

Adelin Fiorato, Laura Lepschy, Hermann Neumeister et al., L’insegnamento del-la lingua italiana all’estero. Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Canada,Stati Uniti, Argentina, Brasile e Australia.

Francesco Silva, Marco Gambaro, Giovanni Cesare Bianco, Indagine sull’edi-toria. Il libro come bene economico e culturale.

Mariano D’Antonio (a cura di), Lavoro e disoccupazione nel Mezzogiorno.

Maria Pia Bertolucci e Ivo Colozzi (a cura di), Il volontariato per i beni culturaliin Italia.

Alberto Bramanti e Lanfranco Senn, Sergio Alessandrini et al., La Padania,una regione italiana in Europa.

Mahmoud Abdel-Fadil, Nazih Ayubi, Fathallah Oualalou, Abdelbaki Her-massi, Stato ed economia nel mondo arabo.

Marcello Pacini, Klaus R. Kunzmann, J. Neill Marshall et al., La capitale reti-colare. Il decentramento delle funzioni nazionali: un’esperienza europea e una propostaper l’Italia.

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