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numero 31 . luglio 2010 . 11 trecciano gioielli di diverse forme e colori, mentre gli uomini indossano dei turbanti blu, bianchi o rosso scuro, a indicare la loro origine tribale: peul, tuareg, songhay. . È a Gorom che inizio ad approfondire le radici della cultura islamica. . di Donata Columbro 10 . east . europe and asia strategies D iscutere di cimiteri davanti a un piatto ricolmo di aloco (una sorta di banana salata) fritta e profuma- ta non era proprio quello che mi aspettassi dalla mia prima cena in terra burkinabé. Eppure è così che co- mincia la mia quasi inchiesta sulle relazioni tra le comu- nità musulmane e cristiane del Burkina Faso. Sono a Ouagadougou, la capitale del Paese, e per ora cer- co conferme di quella che nel 2004, anno del mio primo viaggio in Africa, mi era sembrata un’eccezionale espe- rienza di integrazione e dialogo tra culture e religioni di- verse. In Burkina Faso vivono quindici milioni di perso- ne su una superficie quasi pari a quella dell’Italia e, di queste, più della metà (circa il 60%) è musulmana, men- tre il restante si divide tra cattolici (circa il 20%), prote- Cristiani e musulmani del Burkina Faso AFRICA . 2 stanti e aderenti alla religione tradizionale. La società burkinabé è quel che si definisce una società “plurale”, perché oltre a questa diversità di confessioni religiose, sul territorio le persone sono state classificate come appartenenti a oltre 60 etnie differenti. Dopo il mio primo viaggio in terra burkinabé ho cominciato a chie- dermi se tutto quello che veniva scritto sul continente africano, sulle sue guerre, la povertà di risorse, i cruenti conflitti, non potesse venir smentito dall’esempio di al- cuni Paesi virtuosi dove la realtà è fatta di dialogo e rela- zioni pacifiche e i conflitti rappresentano l’eccezione. In particolare, sono venuta per conoscere di persona le at- tività dell’Union Fraternelle des Croyants, ong multicon- fessionale nata durante la siccità degli anni Settanta ad opera di padre Lucien Bidaud, un missionario redento- rista francese (scomparso durante una traversata del de- serto nel 1987) che ha riunito le comunità musulmane e cristiane di Dori, capoluogo della regione del Sahel, nel- la gestione dell’aiuto umanitario per la popolazione col- pita dalla carestia. Da un gruppo informale di volontari, mandati nei villaggi dalla parrocchia e dalla grande mo- schea della città, è nata un’associazione che opera per lo sviluppo del territorio. Sono curiosa di capire come sia possibile avviare pratiche di dialogo in una situazione di scarsità di risorse e dove una delle due comunità avreb- be potuto escludere l’altra nella gestione degli aiuti. La mia ricerca però è ancora gli inizi. E così, la prima se- D Gorom Gorom è un grande agglomerato di circa 80 villaggi collegato alla provincia di Seno grazie a una strada di terra battuta, percorsa con ogni mezzo dai mercanti di tutta la regio- ne per raggiungere la piazza dove ogni giovedì mattina si tiene il mercato più grande della regione saheliana. . Il paesaggio che mi passa accanto mi ricorda che ci stiamo adden- trando sempre di più in Sahel. . Il verde e il rosso delle pianure centrali scompaiono e il colore dominante diventa il giallo. . Le donne portano grandi veli colorati e tra i capelli in- Una donna bobo con il viso decorato da tatuaggi tribali. Corbis / C. & J. Lenars

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Reportage dal Burkina Faso perEast . europe and asia strategies

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Page 1: Cristiani e musulmani  del Burkina Faso

numero 31 . luglio 2010 . 11

trecciano gioielli di diverse forme e colori,

mentre gli uomini indossano dei turbanti

blu, bianchi o rosso scuro, a indicare la loro

origine tribale: peul, tuareg, songhay. . È

a Gorom che inizio ad approfondire le radici

della cultura islamica. . di Donata Columbro

10 . east . europe and asia strategies

Discutere di cimiteri davanti a un piatto ricolmo dialoco (una sorta di banana salata) fritta e profuma-ta non era proprio quello che mi aspettassi dalla

mia prima cena in terra burkinabé. Eppure è così che co-mincia la mia quasi inchiesta sulle relazioni tra le comu-nità musulmane e cristiane del Burkina Faso.Sono a Ouagadougou, la capitale del Paese, e per ora cer-co conferme di quella che nel 2004, anno del mio primoviaggio in Africa, mi era sembrata un’eccezionale espe-rienza di integrazione e dialogo tra culture e religioni di-verse. In Burkina Faso vivono quindici milioni di perso-ne su una superficie quasi pari a quella dell’Italia e, diqueste, più della metà (circa il 60%) è musulmana, men-tre il restante si divide tra cattolici (circa il 20%), prote-

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stanti e aderenti alla religione tradizionale. La società burkinabé è quel che si definisce una società“plurale”, perché oltre a questa diversità di confessionireligiose, sul territorio le persone sono state classificatecome appartenenti a oltre 60 etnie differenti. Dopo il mioprimo viaggio in terra burkinabé ho cominciato a chie-dermi se tutto quello che veniva scritto sul continenteafricano, sulle sue guerre, la povertà di risorse, i cruenticonflitti, non potesse venir smentito dall’esempio di al-cuni Paesi virtuosi dove la realtà è fatta di dialogo e rela-zioni pacifiche e i conflitti rappresentano l’eccezione. Inparticolare, sono venuta per conoscere di persona le at-tività dell’Union Fraternelle des Croyants, ong multicon-fessionale nata durante la siccità degli anni Settanta adopera di padre Lucien Bidaud, un missionario redento-rista francese (scomparso durante una traversata del de-serto nel 1987) che ha riunito le comunità musulmane ecristiane di Dori, capoluogo della regione del Sahel, nel-la gestione dell’aiuto umanitario per la popolazione col-pita dalla carestia. Da un gruppo informale di volontari,mandati nei villaggi dalla parrocchia e dalla grande mo-schea della città, è nata un’associazione che opera per losviluppo del territorio. Sono curiosa di capire come siapossibile avviare pratiche di dialogo in una situazione discarsità di risorse e dove una delle due comunità avreb-be potuto escludere l’altra nella gestione degli aiuti.La mia ricerca però è ancora gli inizi. E così, la prima se-

D

Gorom Gorom è un grande agglomerato di circa 80 villaggi collegato alla provincia di Seno

grazie a una strada di terra battuta, percorsa con ogni mezzo dai mercanti di tutta la regio-

ne per raggiungere la piazza dove ogni giovedì mattina si tiene il mercato più grande della

regione saheliana. . Il paesaggio che mi passa accanto mi ricorda che ci stiamo adden-

trando sempre di più in Sahel. . Il verde e il rosso delle pianure centrali scompaiono e il

colore dominante diventa il giallo. . Le donne portano grandi veli colorati e tra i capelli in-

Una donna bobo con il viso decorato da tatuaggi tribali.

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cultura peul e seguace del saggio Tierno Bokar Tall, mae-stro sufi della confraternita Tijaniyya. Hampaté Bâ defi-nisce l’Islam in Africa come “un fiume limpido, che do-vunque passa prende il colore del terreno che attraversa”.Mi aspetto dunque di notare una differenza con l’Islamche ho conosciuto in altri Paesi e immagino che l’incon-tro tra i mistici sufi e la spiritualità delle religioni indige-ne africane abbia portato buoni frutti nella ricerca di unequilibrio nella vita religiosa, individuale e sociale.

Cosa è rimasto oggi di questa spiritualità? Vado a incon-trare il grande imam della Tijaniyya, che mi riceve congrande disponibilità all’interno della sua moschea. Pur-troppo non riesco a ricavare molte informazioni dalla no-stra intervista. Da Ouagadougou ho viaggiato verso Go-rom insieme a un gruppo di cooperanti italiani in mis-sione di monitoraggio e ormai la mia posizione è com-promessa. Sono venuta con un “portafoglio” inequivo-cabile, quello della cooperazione internazionale, e anchese l’accoglienza in moschea è sacrale e solenne, ogni mia

curiosità relativa al culto specifico della tradizione Tija-niyya viene elusa da una richiesta di fondi: per il rubi-netto del pozzo che si è bloccato, per i ventilatori dellamoschea che non funzionano. È una delle prime intervi-ste ufficiali che raccolgo per la mia ricerca, ma mi rendoconto che l’area di Gorom è persa. La lista della spesaprosegue, io faccio finta di annotare ogni richiesta e altermine del nostro incontro saluto cordialmente. Ogniaffiliato alla Tijaniyya cui domando di spiegarmi le dif-ferenze principali con l’altra grande confraternita dellacittà, la Qadiriyya, mi risponde allo stesso modo: noi del-la Tijaniyya preghiamo così, con le mani lungo i fianchi,gli altri con le mani incrociate sul petto. È davvero così semplice? Sì e no. Quello che un tempoera un legame identitario potentissimo, tanto da spaven-tare persino gli amministratori coloniali francesi, che te-mevano agitazioni politiche all’interno delle confraterni-te, oggi si è perso nella molteplicità dell’offerta da partedella comunità islamica globale e l’affiliazione rimane unfatto di tradizione e quasi esclusivo del Nord del Paese. Le antiche confraternite stanno lasciando il posto ai wa-hhabiti, seguaci del movimento saudita conservatorefondato da Muhammad Abd al-Wahhab, che in BurkinaFaso è noto sotto il nome di movimento “sunnita”, ter-mine usato per differenziarsi rispetto agli altri musulma-ni – seppur sempre sunniti – affiliati alle confraternite e

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e dal finestrino guardo un po’ ansiosa i passeggeri appe-si ai pulmini che procedono in direzione contraria ver-so Ouaga, consapevole che al mio ritorno il mio mezzodi trasporto non sarà così confortevole come quello incui sto viaggiando ora. Gorom Gorom è un grande agglomerato di circa ottantavillaggi collegato alla provincia di Seno grazie a una stra-da di terra battuta, percorsa con ogni mezzo dai mercan-ti di tutta la regione per raggiungere la piazza dove ognigiovedì mattina si tiene il mercato più grande della re-gione saheliana. Il paesaggio che mi passa accanto mi ri-corda che ci stiamo addentrando sempre di più in Sahel.Il verde e il rosso delle pianure centrali scompaiono e ilcolore dominante diventa il giallo. La vegetazione è piùrada e anche l’aspetto delle persone sembra diverso. Ledonne portano grandi veli colorati e tra i capelli intrec-ciano gioielli di diverse forme e colori, mentre gli uomi-ni indossano dei turbanti blu, bianchi o rosso scuro, a in-dicare la loro origine tribale: peul, tuareg, songhay. È a Gorom che inizio ad approfondire le radici della cul-tura islamica in Burkina, che passa inevitabilmente attra-verso la storia delle confraternite sufi, Tijaniyya e Qadi-riyya, le due principali del Paese. Mentre in città comin-ciano i preparativi per l’annuale Festichams, il festivaldel cammello, ho tempo per sfogliare i libri di AmadouHampaté Bâ, storico e scrittore maliano, testimone della

ra a Ouagadougou, mi ritrovo a parlare di cimiteri misticon un deputato del partito del presidente Compaoré, ilCongresso per la democrazia e il progresso (Cdp), che de-molisce tutte le mie convinzioni sulle usanze di sepoltu-ra dei morti delle due comunità: «I cimiteri sono misti:domani la porto a vedere le tombe: vedrà che ci sono cro-ci e mezzelune sparse un po’ dappertutto», mi assicuraAmadou Diemdioda Dicko. È proprio così, almeno aOuagadougou e a Bobo Dioulasso, la seconda città delPaese, dove in effetti nei cimiteri non si nota un vero eproprio raggruppamento di tombe della stessa confessio-ne e, se non per il simbolo che le contraddistingue, nonc’è alcuna differenza. Nel Sahel rurale, a Nord del Paese,dove mi sposto per le mie ricerche, le tradizioni religio-se sono molto più radicate nella società e la sepoltura av-viene in terreni separati: i cimiteri misti sono una realtàche riguarda soltanto i centri urbani.

Fofo, Sahel!ascio Ouagadougou dopo soltanto due giorni,per tornarci ancora alla fine del mio viaggio a in-contrare due professori dell’università che mi

aiuteranno a mettere ordine nel materiale raccolto du-rante il percorso. Dalla capitale proseguo verso GoromGorom, capoluogo della provincia dell’Oudalan, al-l’estremo Nord del Paese. Mi muovo con un fuoristrada

A SINISTRA Una famiglia di tuareg stanziatasi

nello stadio di Ouagadougou, negli spazi requisiti dal governo

per la Commissione nazionale dei rifugiati.

SOTTO Una scena di vita quotidiana al mercato ortofrutticolo

di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso.

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dunque non degni di riconoscersi come membri dellaumma. Nell’area di Bobo Dioulasso i quartieri wahhabi-ti ricordano più le strade di Riyadh che quelle di una cit-tà africana e i foulard colorati delle donne peul che in-contro a Gorom scompaiono sotto lunghi veli neri chenascondono integralmente il corpo, lasciando scopertasolo una porzione di viso. Rimango nella capitale del-l’Oudalan ancora per qualche giorno, giusto in tempo perl’inaugurazione del Festichams, che è anche un’occasio-ne per rinnovare il partenariato della cooperazione de-centrata tra l’Italia e questo grande agglomerato di villag-gi saheliani. L’arena è gremita di gente e il griot – il voca-list dell’intera manifestazione – invita a ballare e danza-re per dare il benvenuto alle autorità, tra le quali inter-viene anche Ezab Agalhour, il re dell’Oudalan. Agalhourè un distinto signore che porta un grande copricapo bian-co legato attorno al volto alla maniera tuareg e che, mispiegherà più tardi, ormai non ha alcun ruolo decisiona-

Una giovane donna alla ricerca dell’oro con il figlio sulle spalle.

A DESTRA Un vecchio all’ingresso della sua casa decorata.

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ri, ultima tappa del mio viaggio. Mi fermo a Bani perchéqui è ancora possibile ammirare la tradizionale architet-tura islamica saheliana: le moschee che si ergono sulle col-line attorno al piccolo villaggio sono state costruite inte-ramente con il fango e quando giungo sul posto trovo unadelle sette costruzioni in piena fase di ristrutturazione an-nuale. Insieme ai marabutti e agli uomini del paese sonoi piccoli talibé a formare la squadra di manodopera tutto-fare che porta sacchi di sabbia e acqua sul tetto della mo-schea più maestosa, l’unica rivolta verso la Mecca. Le al-tre sono state posizionate intorno con la facciata che guar-da verso la “grande moschea”, come a formare la silhouet-te di un corpo umano. Riparto verso Dori con un cappel-lo di paglia acquistato dalle ragazze peul che mi hanno in-seguito durante tutta la visita. Sotto l’accecante sole dimezzogiorno anch’io ho bisogno di coprirmi il capo.

Dori, il dialogo si fa onginalmente Dori. Nell’antica capitale del Liptakotrovo le conferme che cerco per la mia indaginesul dialogo interreligioso. Incontro Mariama Mai-

ga, una delle donne che ha lavorato con padre Lucien Bi-daud agli esordi dell’Union Fraternelle des Croyants. Ma-riama è intenta a pregare davanti allo schermo di una tvmuta nell’ora della preghiera del venerdì. Quando ha ter-minato si sistema su uno sgabello accanto a una cesta ri-colma di lavori ricamati a uncinetto, e comincia a raccon-tare. Mariama è una donna coraggiosa. Ha sfidato i pregiu-dizi che fino a quel momento caratterizzavano i rapportitra i musulmani e i cristiani di Dori, separati da un muroinvisibile di timori e tabù (non osavano nemmeno rivol-gersi parola) e ha imparato il francese, aprendo così unastrada di conoscenza tra le due comunità. Bidaud era unodei pochi a conoscere la lingua dei peul, il fulfulde, e inuna delle prime grammatiche di lingua francese appare ilsuo cognome tra gli autori. L’Ufc è nata anche grazie all’in-tervento dell’imam e dei marabutti illuminati dell’epoca,che hanno creduto nel giovane prete cattolico e hanno in-viato i loro uomini a costituire un gruppo di volontari perportare cibo e beni di prima necessità nei villaggi colpitidalla siccità. Il gruppo ha continuato a lavorare insieme fi-no a quando, nel 1969, si è costituito in forma di ong, pri-ma a Dori e poi a Gorom Gorom, come seconda sede. Oggi sono il vescovo, mons. Joachim Ouédraogo, e Fran-çois Ramdé, direttore dell’Ufc a Dori, a muovere il siste-ma “dialogo” dell’ong burkinabé. «Quando sono arriva-

to nel 2005 sentivo parlare solo di bouli (un sistema di ir-rigazione) e di corsi di alfabetizzazione», riferisce il ve-scovo. «Il punto di forza dell’Ufc, cioè il fatto che abbiacontribuito all’unione dei cristiani e dei musulmani del-la regione, era stato cancellato dagli obiettivi dell’asso-ciazione. Ho chiesto all’assemblea generale: cosa ne saràdell’Ufc quando tutta la regione sarà sviluppata e alfabe-tizzata? Sarà la fine del vostro lavoro?». Da quel momen-to è come se si fosse aperto un nuovo percorso: è statocreato un gruppo giovanile, la Jeunesse Lucien Bidaud,che quest’anno ha accolto il primo scambio internazio-nale di dialogo interreligioso con la partecipazione di dueragazzi del Niger e sei studentesse della provincia Unasera, a cena, François mi indica due uomini, Emile Boug-ma e Amidou Moussa Dicko, entrambi membri del con-siglio direttivo dell’ong. Emile, cristiano, sta sorseggian-do la sua Brakina ghiacciata, la birra prodotta a BoboDioulasso, mentre chiacchiera amichevolmente conAmidou. Venti anni fa un musulmano avrebbe interrottoi contatti con qualunque cristiano se sorpreso a bere al-colici. Oggi la diversità e il rispetto dell’altro sembranoingredienti mescolati talmente bene nelle relazioni uma-ne che qui in Sahel la consuetudine è dialogo e condivi-sione, anche durante le feste religiose, come il Natale cat-tolico e il Tabaski musulmano, vissute con entusiasmodai fedeli di entrambe le confessioni.

Lascio Dori dopo la partita di calcio “interreligiosa” trale squadre della Jeunesse Lucien Bidaud e per tornare aOuagadougou accetto il passaggio di padre Gabriele, unmissionario dei Padri Bianchi che sta tornando nella ca-pitale per un periodo di riposo. Niente pericolo di inci-denti con i bus barcollanti e stracolmi di persone e ba-gagli che ho visto percorrere incerti la strada nel mioviaggio di andata. E mentre osservo delle colline in lontananza, sotto cui sicelano le miniere aurifere di Essakane, mi viene da pen-sare che quarant’anni fa quel padre redentorista franceseaveva intuito che si trovava di fronte a una ricchezza piùgrande dell’oro. Osservata e sperimentata sulla sua pellela spiritualità delle confraternite islamiche di Dori, ha ca-pito che in un luogo dove niente accade senza che vengapronunciata la formula dieu merci e inshallah, la religio-ne poteva unire le persone invece di dividerle. E ha inve-stito in questo senso religioso per ricordare ai burkinabéche apparteniamo tutti alla stessa grande famiglia. .

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l’adiacente scuola coranica, dove una quindicina di pic-coli talibé (studenti) scrivono e recitano le parole del li-bro sacro dell’Islam in mezzo a nuvole di sabbia solleva-te dall’harmattan. Anche qui si ripete la storia della que-stua alla giovane bianca che viaggia con i cooperanti.L’imam cerca di far leva sulla mia coscienza parlandomidelle condizioni dei bambini che studiano alla sua scuo-la, lontani centinaia di chilometri dalle proprie famiglie,costretti a dormire in uno stanzino di tre metri quadri. Noncedo alle sue richieste, anche perché il marabutto che loaccompagna è uno dei più potenti mercanti della città eho visto con i miei occhi quegli stessi piccoli talibé lavo-rare nel suo minimarket, probabilmente ripagati soltantocon la promessa di un pasto al giorno e l’alloggio in quel-lo spazio che, effettivamente, è davvero angusto. Ben set-te sono invece le famose moschee di Bani, a 35 km da Do-

le nella sua regione, se non quello di consigliare il gover-natore in materia di costumi tradizionali e di essere giu-dice delle dispute familiari del suo clan. La presentazio-ne di ogni groupement di contadini dell’area comunaledi Gorom Gorom dura fino alle quattordici. Da quel mo-mento i bambini, che avevano osservato la scena sui ra-mi dei baobab spogli, si disperdono per andare a giocareo si uniscono al nostro gruppo di toubabou (i bianchi)sperando di ricavarci penne, magliette e monetine. L’abi-tudine di certi europei di trasformarsi in una sorta di ine-sauribile sacco di Babbo Natale durante le missioni dicooperazione ha creato un’aspettativa che si tramandada bambino a bambino. Una guida tuareg di Dori mi spie-gherà che questa pessima consuetudine ha portato i bam-bini a disertare la scuola per aspettare l’arrivo dei fuori-strada dei bianchi, da inseguire per mendicare qualchecadeau da rivendere ai mercati, con tutte le conseguen-ze negative che questa pratica comporta, a danno deglistessi progetti di alfabetizzazione avviati dalle ong.Prima di ripartire visito ancora la moschea sunnita e

Un bambino gioca con la collana della madre

al Gorom Gorom Hospital, in Burkina Faso.

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