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PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA FACOLTÀ DI TEOLOGIA Appunti del corso di Libri sapienziali

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PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA

FACOLTÀ DI TEOLOGIA

Appunti del corso diLibri sapienziali

Prof.ssa Bruna Costacurta Studente Piero Gallomatr. 156185

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Prof.ssa Bruna Costacurta - Pag. 2

A.A 2008 – 2009

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INTRODUZIONE

Se le parole profetiche rileggono la storia alla luce della Torah, i libri sapienziali riflettono sull’uomo in quanto tale, con un messaggio che si fa quindi più ampio ed universale; al tempo stesso però si restringe sul quotidiano, perché la loro riflessione è sull’uomo che vive la realtà di ogni giorno.

E’ una letteratura che travalica i confini di Israele, il cui discorso diventa quindi esplicitamente universale e quotidiano al tempo stesso, concernendo i piccoli e grandi problemi della vita e della morte. Oltre alla dimensione teologica nei libri sapienziali se ne trova una fortemente antropologica. E’ una letteratura “per adulti”, per gente disposta a porsi i problemi della vita e ad accettare un cammino difficoltoso. Il sapiente è non solo chi ha attraversato la vita, ma anche chi si è lasciato attraversare dai solchi della vita. I sapienti riflettono sui dati della realtà alla luce della Torah, dei profeti e della tradizione di Israele. Questa riflessione li può condurre anche a mettere in crisi questi dati.

Accanto a libri di sintesi del dato tradizionale (es .Proverbi, Siracide) ce ne sono altri che mettono in crisi il dato della tradizione, dove la tradizione è vagliata e la fede che ne risulta è messa in discussione; questo però al fine di uscirne con una fede purificata, illuminata da una nuova esperienza di Dio: è la fede adulta, che pensa e che non ha paura di lasciarsi interrogare dalla realtà, fino all’ultimo interrogativo della morte. E’ la storia del libro di Giobbe.

Il Pentateuco sapienziale è composto dai seguenti libri: Qoelet, Sapienza, Giobbe, Siracide e Proverbi. Più degli altri è il libro di Giobbe che ci fa capire cos’è la Sapienza.

Indicazioni bibliografiche:- come introduzione alla letteratura sapienzale: Morla Asensio;

oppure Murphy o Gilbert (Maurice); un classico valido è von Rad, La sapienza in Israele;

- per i Salmi: Beauchamp, Salmi notte e giorno; oppure Wenin, Entrare nei salmi; Ravasi, commentario in tre volumi del 1985; Alonso Schokel – Carniti, non è tra le opere migliori di Alonso, ma come bibllista aveva delle intuizioni geniali che qua e là si ritrovano anche in questo commento; più valido ancora è il suo commento al libro di Giobbe)

CENNI SULLA SACRA SCRITTURA: PAROLA DI DIO E DI UOMINI

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La Scrittura è Parola di Dio che si incarna in parola di uomini. È un libro quindi che ha uno statuto particolare, in quanto non è né solo Parola di Dio né solo parola di uomini. Bisogna leggerlo con la consapevolezza che è parola di Dio ma anche parola di uomini al tempo stesso. Questa incarnazione è un mistero, proprio come il Verbo che si è fatto uomo (analogia peraltro affermata anche in DV 13).

L’analogia costringe a tenere assieme queste due realtà, obbedendo alle due dimensioni della Scrittura, entrando necessariamente in una prospettiva di fede, senza la quale la lettura del testo rimarrebbe incompleta.

Il Concilio Vaticano II ha fatto una svolta importantissima affermando che nella lettura della Scrittura bisogna tener conto dei generi letterari che vi stanno dentro. La Parola di Dio, espressa in parole umane, più che un genere letterario è un genere di letteratura, diverso e particolarissimo.

LA SAPIENZA, IL SAPIENTE

Che cos’è la Sapienza ? Chi è il sapiente ? E’ uno che vive meglio degli altri e che però non considera questo come un tesoro personale, bensì da condividere con gli altri; il saggio è fondamentalmente il maestro, che la insegna agli altri affinché tutti possano vivere meglio.

Questa ricerca del senso e della comprensione delle cose al fine di gestirle per rendere migliore la vita viene vissuta a tutti i livelli. C’è un primo livello elementare, rappresentato dalla dimensione operativa della sapienza; è la sapienza tecnica del saper fare bene le cose. Sono le conoscenze di tipo più concreto che permettono al sapiente di svolgere bene il proprio lavoro, che lo aiuta del resto a vivere meglio. Il contadino è considerato un sapiente dalla scrittura, perché per coltivare bene la terra bisogna conoscere molte cose. Bisogna essere sapienti per costruire una casa; ancora più sapienti per poter costruire il tempio (Salomone è infatti il sapiente per eccellenza). Dio stesso quando è presentato come creatore è presentato come un sapiente-costruttore, che costruisce il mondo secondo sapienza. È la sapienza di tipo creativo, tecnica, che viene proiettata anche su Dio e che consiste nel saper fare bene le cose (e questo ovviamente aiuta a vivere meglio: la casa, ad es., non ti crolla addosso; il campo è produttivo etc.).

Una seconda dimensione è più intellettuale e di tipo socio-politico: è la sapienza che non solo conosce ed opera sulla realtà,

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ma elabora i dati di questa conoscenza, studia le leggi della natura e del vivere, le comprende e le elabora in modo che vivere diventi facile; è la sapienza che cataloga le cose e gli eventi per capirli meglio, per poter prevenire gli eventi. Mette in gioco una dimensione intellettuale anche nelle relazioni interpersonali, attraverso cui assume una dimensione socio-politico e diventa la capacità di interagire, vivere bene con gli altri, a livello familiare prima e socio-politico poi. A livello familiare, il padre è il primo maestro del figlio su come vivere bene, che poi si allarga e si perfeziona nella scuola.

Ma tutto questo non è ancora sapienza se non si arriva alla dimensione religiosa: se la sapienza dà la vita, non c’é vita possibile se non in un corretto rapporto con Dio ed in una buona relazione con Lui. La sapienza che mi consente di vivere bene deve dunque trovare il suo principio nel timore di Dio. E’ nell’obbedienza al Signore che l’uomo trova la vera vita e la vera sapienza. E’ fondamentale nel mondo sapienziale che la sapienza è un dono di Dio e che viene da Dio; che bisogna dunque desiderare, chiedere, nella consapevolezza di non possederla mai. Questo è il profilo specifico della sapienza di Israele.

Il circolo virtuoso fa sì che per avere la sapienza devi desiderarla e chiederla; e però non puoi desiderarla e chiederla se già non la conosci e non sai quanto è importante: è questo è già sapienza. Per diventare sapienti bisogna essere sapienti. Questo è vero per tutti i doni. Per chiedere la fede devi avere fede, etc. Questo “giro” è tipico di Salomone, che è il modello del sapiente. La sua sapienza comincia nel sogno di Gabaon 1Re 3, 4 ss. La richiesta del cuore docile è letteralmente “un cuore che ascolta”. Questa è la saggezza, il discernimento, come si evince nella risposta che il Signore dà a Salomone.

L’episodio avviene di notte, quando è tutto buio; è nel buio che si accetta il mistero, la non visione dell’opera di Dio. Altro elemento è quello del sonno, in cui la persona è in una situazione di totale impotenza, una specie di anticipazione di morte, non opera nella realtà, non entra in relazione con gli altri; in questa situazione di impotenza dell’uomo si manifesta la potenza di Dio.

Dove si può avere la sapienza ? Quando sei nel buio ed accetti la tua totale impotenza: non sei tu che vedi Dio, è Lui che si fa vedere. La sapienza non può essere frutto dell’attività dell’uomo, ma solo di Dio. Quello che l’uomo può fare è chiederla, anzi la deve chiedere per averla. Bisogna dunque che l’uomo la desideri, la voglia e quindi la riconosca come un dono che viene dall’alto.

Salomone può chiederla perché Dio ha l’iniziativa di chiedergli cosa desidera. La richiesta dell’uomo è sempre

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sollecitata dall’iniziativa di Dio. L’uomo viene sempre dopo. La priorità è sempre di Dio. Per avere la sapienza devo chiederla, per convertirmi devo aprire il cuore, etc. Ma tutto questo l’uomo lo fa come secondo. L’uomo può chiedere di essere perdonato dopo che Dio lo ha perdonato. L’azione dell’uomo è sempre una risposta al dono di Dio che precede. L’uomo è sempre preceduto da Dio, dal suo dono. Nessuno può salire sul monte Sinai se Dio non lo chiama.

Nel cuore che ascolta c’è una sintesi della sapienza. In questa richiesta c’è la confessione della propria incapacità. La consapevolezza di non avere sapienza e di averne bisogno è già in sé sapienza. E Dio non solo gli concede la sapienza, ma anche tutti i frutti di essa (rappresentativi del vivere bene) che pur Salomone non aveva espressamente richiesto. I libri sapienziali ci insegneranno anche ad andare oltre questa nozione tradizionale di sapienza, con le sue promesse e frutti di felicità.

Il cuore che ascolta esprime anche la necessità di una interiorizzazione della sapienza (Pr “il tuo cuore ritenga le mie parole, custodisci i miei precetti e vivrai”). Il cuore nell’antropologia biblica è non solo un organo necessario per la vita fisica, ma anche il centro della vita psichica e spirituale, come sede dei sentimenti, della volontà, della capacità decisionale e della coscienza. Il cuore ha quindi a che fare con la fedeltà. Il cuore è ciò che accoglie la sapienza, mettendosi in ascolto, entrando in relazione, accogliendo ciò che gli viene detto. Un ascolto che è accoglienza e custodia (come Maria nei vangeli). Nello Shemà le parole stanno “sul” cuore e non “nel” cuore. La differenza è che “nel” fa correre il rischio che il cuore le comprenda, le inglobi. Se invece stanno “sul” cuore, allora puoi continuare ad ascoltarle, a capirle, a viverle, non le possiedi ancora. Questa è la prospettiva della sapienza. Un ascolto che non è solo sentire, ma propriamente ascoltare, essere consapevoli che quello che si sente è importante, un tesoro prezioso. L’ascolto diventa così possibilità di vita vera e felice.

In ebraico non c’è un verbo per dire obbedire, la Scrittura utilizza il verbo shemà. L’ascolto è obbedienza ed è molto di più del solo sentire.

CENNI SUL PENTATEUCO SAPIENZIALE

I libri sapienziali sono 5 (c.d. pentateuco sapienziale), come anche il Pentateuco ed anche il libro dei salmi è diviso in 5 libri. Il libro dei proverbi presenta la sapienza tradizionale, quella che fa vivere bene. Ma la realtà che l’uomo vive è diversa, perché anche il

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sapiente si deve misurare con una realtà che non è propriamente quella che racconta il libro dei proverbi, secondo lo schema per cui se ami il Signore tutto ti andrà bene.

Questa struttura è messa in crisi dal libro di Giobbe, per aprire il sapiente a delle nuove risposte. Dietro il libro di Giobbe c’è la grande crisi dell’esilio, una crisi di fede esplicitata in modo sapienzale, appunto. La sapienza va in crisi anche con il Qoelet, che radicalizza addirittura il rifiuto della sapienza tradizionale, dicendo che niente ha senso. Anche lì il sapiente conduce il credente attraverso nuovi cammini che devono portarlo alla ricerca di un nuovo senso.

Dopo questi tre libri vi sono due libri che non fanno parte del canone ebraico (deutero-canonici): il Siracide che ripropone la sapienza tradizionale e davanti al popolo in diaspora ripropone la vecchia tradizione; il libro della Sapienza infine, pur rifacendosi alla sapienza tradizionale, quella dei padri, si apre però a nuove categorie e, davanti all’interrogativo della morte dell’uomo e della sofferenza e della morte del giusto, trova la risposta nella dimensione del martirio. In questo modo il cammino sapienziale giunge a compimento aprendosi alla realizzazione neo-testamentaria.

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INTRODUZIONE AL SALTERIO

DIVISIONE E TITOLO

Il libro dei salmi è diviso in 5 libri: I 1-41; II 42 – 72; III 73 – 89; IV 90 – 106; V 107 – 150. Ogni libro termina con una dossologia che indica le cesure tra un libro ed un altro. La divisione in 5 corrisponde ai 5 libri della Torah.

Il titolo di salmi deriva dal greco ; al plurale : esso vuol dire canto accompagnato da uno strumento a corde; dice dunque la forma senza però indicazioni di contenuto.

La tradizione ebraica originale chiama invece questo libro tehillim (il te iniziale indica che il termine è un sostantivo; la im finale indica solo il plurale, le vocali non contano, ciò che resta è hll che vuol dire lodare) che significa appunto “lodi”. A differenza del termine greco, la tradizione ebraica dà un’indicazione di contenuto: si tratta di lodi, di qualcosa che serve a lodare il Signore.

LE DUE DIMENSIONI DELLA PREGHIERA

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Tuttavia nel salterio non c’è solo il genere della lode, ma anche rendimento di grazie, lamenti, suppliche, liturgie penitenziali, imprecazioni violente. Se i salmi sono preghiera, è chiaro che essi riflettono la complessa esistenza umana, il suo carattere multiforme e variegato. Il salterio dà voce a queste molte e diverse dimensioni dell’esperienza umana che corrispondono al vivere dell’uomo. Comunque è possibile ridurre tutti i vari generi a due grandi blocchi fondamentali: la lode e la supplica. Il titolo ebraico ci indica tuttavia che tutto deve in fondo tendere verso la lode.

In che senso tutta la preghiera va verso la lode ? Lodare Dio vuol dire celebrarlo, riconoscere la sua bontà, la grandezza della sue meraviglie, ringraziarlo. Nel prendere coscienza di chi è Dio l’uomo prende coscienza di chi è lui. Se dico che Dio è buono e perdona, io riconosco di essere bisognoso di perdono e dunque peccatore; se dico che Dio è giusto dico al tempo stesso che io non lo sono; se dico che Dio salva, allora riconosco di essere salvato e questa è una supplica; se mi riconosco come mortale mi inserisco in una prospettiva sapienziale; se mi lamento perché mi uccidono io riconosco in Dio un liberatore e quindi lo sto lodando e ringraziando in quanto tale; quando confesso la colpa celebro Dio come colui che perdona; etc. etc.

La lode mette in gioco tutte le altre dimensioni. I due grandi poli diventano quindi la celebrazione di Dio come Dio (lode) ed il riconoscimento dell’uomo come uomo (supplica), ma la supplica ed il lamento hanno senso se ho fede che Dio mi aiuta e se credo questo io lo sto lodando. Anche quando il salmista lamenta che Dio non lo ascolta, anche in questo il salmista implicitamente ammette che Dio ascolta, altrimenti che senso avrebbe gridare a Lui ? E già nel fatto che Dio ascolta c’è un motivo di celebrazione e di lode a Dio.

Le due dimensioni sono quindi sempre presenti e collegate tra loro. Chi loda fa esperienza di salvezza e chi supplica sa che Dio ascolta, quindi loda. La lode mette l’accento su Dio e sulla vita che viene da Lui. La supplica mette l’accento sulla vita dell’uomo che è sì vita, ma vita salvata e quindi bisognosa di salvezza. La vita salvata mette insieme la lode e la supplica. Non è una vita che ha consistenza in se stessa e questa è la dimensione della supplica che, nel momento in cui si riconosce salvata, loda. Di solito il salmista mette insieme queste dimensioni; non mancano anche salmi solamente di supplica o di lode, dove quindi il rapporto tra le due dimensioni è implicito (sono però piuttosto rari).

Quando la tradizione ebraica ci dice che questi salmi sono lodi

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ci insegna che questo è ciò a cui la preghiera tende e ciò verso cui l’uomo cammina. In questa vita che ha bisogno di essere salvata la lode si accompagna però alla supplica: il punto d’arrivo è comunque una vita di solo lode.

La lode che i salmi ci insegnano non è la lode ingenua ed illusoria, è la lode che sa di essere passata attraverso la prova, che è passata nella sofferenza, che si confronta con il male e con il bisogno di salvezza. La dimensione della prova e della sofferenza è insita nella vita umana. Questo è il punto nevralgico del salterio e della letteratura sapienziale in genere: è l’esperienza della morte; la vita dell’uomo è tragica e questa tragicità è iscritta nell’esistenza umana. L’esistenza umana in quanto tale è segnata dalla morte; è un’esistenza che muore. Dio creatore è solo vita ma noi che siamo creature, proprio in quanto tali, riceviamo una vita che deve passare sotto la morte e quindi perennemente minacciata dal pericolo mortale; questo rende la vita umana incredibilmente bella ma anche incredibilmente drammatica. Il vero problema del mondo sapienziale è il vero grande problema dell’uomo: è che si muore.

Dalla vita dell’uomo non è mai possibile eliminare il bisogno di salvezza. Proprio dall’esperienza di drammaticità, dal supremo atto di sapienza che consiste nel riconoscere la propria mortalità (Sal 90: insegnaci a contare i nostri e giungeremo “al cuore della sapienza”, ovvero al centro, all’elemento fondamentale della sapienza: il supremo atto di sapienza è saper contare i propri giorni, ovvero fare i conti con la morte). Questo atto di sapienza è esperienza di verità non solo perché ci dice che dobbiamo morire ma anche perché ci fa sperimentare l’orrore di morire, il nostro rifiuto di morire ed il nostro assoluto bisogno di vita: ecco la sapienza, che non solo dice io sono uomo e muoio, ma dice anche non voglio morire e dunque io sono fatto per la vita. Il confronto con la morte mi fa fare esperienza di essere fatto per la vita e quindi di avere bisogno di colui che è solo vita e che solo mi può liberare dalla morte e vincerla. Solo il confrontarmi con la morte mi apre a Dio ed al bisogno di Lui, che è l’unico che è solo vita e può salvarmi.

Questo è il cuore della sapienza ed è il cuore del salterio, dove l’orante è sempre alle prese con la morte da cui si viene salvati: ecco la supplica che indica la lode e la lode che indica la supplica. Nel salmo noi contemporaneamente teniamo insieme la realtà dell’uomo bisognoso di salvezza e la realtà di Dio che salva. Questo è il salmo di supplica che insieme loda ed il salmo di lode che insieme supplica.

Queste preghiere sono scritte. La scrittura aggiunge

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qualcosa al salterio perché colui che scrive il salmo è anzitutto una persona salvata che scrive la sua esperienza affinché questa diventi preghiera per coloro che verranno dopo di lui. Il salmista nel momento in cui scrive il salmo diventa testimone per sempre di una salvezza che ha ricevuto. Questa testimonianza diventa un’eredità per tutti. Così il salmo diventa segno, promessa, speranza di salvezza per chi lo prega. Quando lo si prega si raccoglie la testimonianza del salmista che dice: io sono stato salvato, per questo ho pregato, ho supplicato, per questo posso pregare. Noi che entriamo in questa linea di preghiera diventiamo a nostra volta testimoni di salvezza. Chi prega i salmi è preceduto da generazioni e generazioni di oranti e prega insieme a loro: chi prega i salmi non prega mai da solo. Nel pregare i salmi si impara la fede che lì viene testimoniata. Sono parole date perché il credente possa pregare. Quelle che troviamo altrove sono preghiere inserite in una storia e legate ad essa, in bocca ad uno dei personaggi della storia di cui fanno parte, il salterio invece è una raccolta di preghiere che hanno come unica funzione quella di insegnare a pregare. Accogliendo la testimonianza del salmista noi diventiamo capaci di parlare a Dio ed imparare il suo linguaggio per rivolgerci a Lui come Lui desidera che l’uomo preghi e come Lui desidera ascoltarci.

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ANALISI DEL SALMO 31Salmo di Davide, composto quand'egli fuggiva davanti ad Absalom, suo figlio. 2 O Signore, quanto sono numerosi i miei nemici! Molti son quelli che insorgono contro di me, 3 molti quelli che dicono di me: «Non c'è più salvezza per lui presso Dio!» 4 Ma tu, o Signore, sei uno scudo attorno a me, sei la mia gloria, colui che mi rialza il capo. 5 Con la mia voce io grido al Signore, ed egli mi risponde dal suo monte santo. 6 Io mi son coricato e ho dormito, poi mi sono risvegliato, perché il Signore mi sostiene. 7 Io non temo le miriadi di genti che si sono accampate contro di me d'ogni intorno. 8 Ergiti, o Signore, salvami, Dio mio; poiché tu hai percosso tutti i miei nemici sulla guancia, hai rotto i denti agli empi. 9 Al Signore appartiene la salvezza; la tua benedizione sia sul tuo popolo!

QUALIFICAZIONE

E’ un salmo che presenta insieme i due elementi della supplica e della lode. “Quanti sono numerosi i miei oppressori” (in verità, “come sono molti” i miei oppressori). È chiaramente un

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salmo di lamento, inizia appunto con un grido di lamento e di supplica. A questo si unisce la sua professione di fede “tu sei la mia difesa” ed in questo loda il Signore. C’è una grandissima fiducia “mi corico e mi addormento”, “tu sei la mia difesa”. Il salmo termina con la lode, appunto.

Mentre si dice che i nemici sono molti e insorgono per fare del male, contemporaneamente si dice che Colui che interviene, insorge e si alza è Dio e non i nemici. Ci si rivolge a Dio chiedendo aiuto e insieme si dice che il Signore lo sta aiutando.

AMBIENTAZIONE

Il titolo antico di questo salmo, che non fa parte del salmo ma comunque di una tradizione antica già tradotta nella LXX, richiama la fuga di Davide da Assalonne. Davide è tradito come re e come padre. Chi lo tradisce non è solo un suddito, ma anche suo figlio. Secondo il titolo questo salmo dovrebbe essere ambientato lì; non che dobbiamo pensare che sia proprio di Davide, ma nel senso che quell’esperienza drammatica di padre tradito, di trovarti solo (perché quando tuo figlio ti si rivolta tu sei solo anche se hai qualcuno vicino) viene ripercorsa da questo salmo, che riflette tutta la dimensione e l’esperienza di abbandono e fiducia che fu propria di Davide in quella circostanza. Questa è assunta come esperienza paradigmatica, esemplare.

Alcuni dicono (ma non la Costacurta) che poiché si parla di dormire, il sitz im leben potrebbe essere cercato nel rito di incubazione. Può darsi, ma secondo la Costacurta è l’esperienza proposta dal salmo è più ampia: è quella di chi si abbandona a Dio nella certezza che Dio salva.

RIPETIZIONI

Questo salmo ha ripetizioni significative: si insiste sui “molti” che spaventano e che al v. 7 diventano una “moltitudine” di cui il salmista può dire di non aver paura. Si ripete il verbo alzarsi: molti contro di me si alzano (v. 2) e davanti a questi il salmista dice al v. 8 “alzati Signore”. Il termine salvezza o il verbo salvare, in bocca ai nemici “non c’è salvezza per lui in Dio” (v. 3); ed invece al v. 8 il salmista dice “alzati Signore salvami” al v. 9 del Signore è la salvezza: egli quindi chiede la salvezza nella certezza che quello che dicono i nemici non è vero: Dio salva !

DIRE – GRIDARE – RISPONDERE – METTERE A TACERE

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Al v. 3 i nemici dicono «Non c'è più salvezza per lui presso Dio !». Al v. 5 è il salmista che dice “io grido al Signore”. E sempre al v. 5 il Signore risponde. C’è un dire dei nemici che è un dire blasfemo, è una bestemmia; questo provoca il grido dell’orante e poi Dio risponde mettendo a tacere il grido del salmista, il quale non deve più gridare ma può alzare la lode; e mette a tacere anche i nemici, che si ritrovano con i denti spezzati e colpiti alla mascella, sono nell’impossibilità di parlare.

IL DOSSIER

Tutto comincia con la triplice ripetizione di “molti”; è un modo di dire la gravità della situazione e l’assoluta sproporzione rispetto alle sue forze: c’è angoscia, disperazione, nonostante la convinzione che Dio interviene. L’impressione del salmista è di essere sovrastato da questi nemici, che non solo sono molti, ma anche molto alti, che gli vengono sopra (si innalzano, si alzano sopra di me, mi schiacciano). Una inferiorità fisica che diventa psicologica, morale, che prima ancora di uccidere il corpo del salmista cerca di uccidergli l’anima: gli mettono davanti la terribile tentazione: noi ti stiamo ammazzando e nessuno ti può salvare, nemmeno Dio: “non c’è salvezza per lui in Dio”. È un’affermazione che nega totalmente la sua fede e quello che sta succedendo sembra dare ragione a loro. Ed i nemici glielo dicono. È come la tentazione di Gesù in croce: che Dio lo faccia scendere dalla croce. Questa tentazione vuole mettere in crisi anche il senso del suo morire.

I suoi nemici sono molti ed anche ben potenti. Il salmista insiste su questo perché fa esperienza di essere schiacciato. La paura, per meccanismi suoi propri, tende a far vedere il pericolo ancora più grande di quello che è. La percezione di non potersi difendere provoca paura e questo fa apparire i nemici ancora più grandi e più forti e lui a sua volta più piccolo e più deboli. In qualche modo la paura dice che tu non puoi farcela. In altri casi il salmista li rappresenta come leoni, etc., sono tutti modi in cui il salmista dice “ho paura”. Davanti a Golia tutti hanno paura. Davide a differenza di tutti non ha paura, è armato della sola fede in Dio e rifiuta le armi di Saul. “Questo filisteo non sarà peggio di un leone o di un orso”. Non avere paura significa rimettere le cose al giusto posto. Davide riduce le proporzioni gigantesche di Golia perché lui non ha paura.

Il salmista dice questo non perché in effetti ha paura, ma perché questo è tipico della preghiera di supplica: ingigantire il pericolo per stimolare l’intervento di Dio. Dio non può non

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intervenire davanti alla sproporzione, alla necessità ed al pericolo ! Se il salmista descrivesse un pericolo banale, che motivo ci sarebbe per l’intervento di Dio. Questo è tipico della supplica. Davanti alla sproporzione ed al pericolo mortale non si può restare indifferenti. Si vuole provocare l’indignazione di Dio. La certezza del salmista è questa: Dio interverrà.

ANALISI TESTUALEL’invocazione iniziale

È molto significativo che il salmo cominci con l’invocazione “Signore”. Avrebbe potuto mettere come prima cosa “sono tanti”: ed invece comincia con “Signore”, poi segue il lamento del salmista, poi dice sono tanti, ma prima di tutto mette il Signore. Vuol dire che nonostante tutto egli sta riuscendo a non lasciarsi sopraffare da tutto; sta evitando di farsi ipnotizzare, che è proprio di chi vede solo i molti. Questo giro terribile è spezzato sin dall’inizio da “Signore”. I molti sono secondari. Prima di tutto invoca Dio, si rivolge a Lui. Il nome di Dio in un qualche modo spezza l’incanto, esorcizza il terrore. Non è solo la paura che grida a vuoto, non è il grido di angoscia, ma è il grido della preghiera. Non è solo dire “sono tanti” ma “Signore, sono tanti”. Anche questi tanti dovranno fare i conti con l’intervento di Dio.

v. 3: problema sintattico Il v. 3 è molto strano perché l’affermazione “non c’è salvezza

per lui” viene fatta da questi molti che, dice il salmista, “dicono a me”. Sembra esserci discontinuità sintattica tra le due proposizioni: i nemici dovrebbero dire non c’è salvezza “per te” e non “per lui”. Se dicono non c’è salvezza “per lui”, vuol dire che stanno parlando “di lui”, ma non “a lui”. Le traduzioni traducono infatti a volte come dicono di lui, ma l’originale è dicono a me. Quello che il salmista percepisce è che ormai i nemici lo danno per morto, per i nemici lui non c’è più: parlano a lui, ma come se lui non potesse nemmeno ascoltare, come se non ci fosse più. Lo dicono a me ma dicono “lui”: è un’ipotesi, ma può essere un modo per il salmista per dire che lui per i nemici nemmeno esiste più.

v. 4: lo scudo del Signore Il salmista invece è ben vivo ed è proprio per questo rivolgersi

a Dio che egli è vivo. Tanto che subito al v. 4 il salmista oppone, contrappone la sua professione di fede <<ma invece tu Signore sei “il mio scudo all’intorno” (di solito si traduce “la mia difesa”)>>, l’immagine è quella militare dello scudo che non cancella il pericolo, ma mette al riparo dal pericolo, che non

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difende solo davanti, ma “tutto intorno”: è uno scudo particolare, che non difende solo in modo parziale ma in modo totale. I nemici infatti si sono “accampati” tutto intorno.

L’invocazione del nome Al v. 4 la reazione inizia ancora con l’invocazione “ma tu

Signore”. Per sei volte Signore compare con il tetragramma (mediato dal termine Adonai). I nemici hanno detto “Dio” utilizzando una terminologia generica “elohim”. Il salmista invece non dice Dio in genere, ma usa il nome di Dio attraverso il termine Adonai. Il salmista si rivolge un’altra volta a Dio con Dio mio, usando elohim, come “mio elohim” e non elohim e basta. Anche in questa settima volta egli insiste sulla relazione interpersonale. Lo invoca dunque sette volte (numero fortemente simbolico). Al Dio generico il salmista oppone sempre il suo Dio (per sei volte con Adonai).

Dal sonno alla veglia – la notte ed il dormire <<Io mi corico e mi addormento, mi sveglio “ecco” (oppure

“perché”) il Signore mi sostiene>>. Se traduciamo con poiché vogliamo dire che è il Signore a rendere possibile la sequenza del sonno e della veglia. Se traduciamo con ecco, vogliamo invece affermare la presenza di Dio, che è la gioiosa confortante sorpresa del salmista che verifica come, anche durante il sonno, il Signore gli sia stato sempre accanto. È la sorpresa bella di chi si addormenta nel dolore, nella malattia, nell’angoscia e quando riapre gli occhi – e deve quindi riaffrontare il motivo del suo dolore, il pericolo incombente, etc. – la prima cosa che vede non è il nemico, ma il Signore che è lì a sostenerlo: ecco mi è accanto ! È l’esperienza di cui tutti i bambini hanno bisogno, quando si addormentano sofferenti vogliono vedere la mamma al loro risveglio, sapere che la mamma sta lì.

Questa è l’esperienza di cui parla il salmista, che parla di qualcosa che cambia radicalmente la realtà. Quando tu apri gli occhi e vedi che il Signore è li che ti sostiene, questo cambia tutto. I nemici ci sono ancora, si accampano contro di me, però tutto è cambiato ed il salmista può dire io non ho paura. La paura della morte viene vinta dalla presenza di colui che non muore.

È proprio la notte che opera il cambiamento, perché si sperimenta la presenza di Dio nella notte. Il salmista può dire: io dormo, mi sveglio, il Signore c’è. Il dormire fa riferimento a diverse valenze simboliche ed antropologiche. Con il sonno si cade in uno stato in qualche modo di incoscienza. Non si sente più parlare, non si sa cosa succede intorno, chi dorme non ha più

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coscienza di sé, della realtà, di controllare la realtà e di interagire con essa. Il dormire ha qualche cosa a che vedere con il morire.

Quando uno si abbandona al sonno cade in una specie di nulla che è in qualche modo una sorta di anticipazione simbolica del nulla che è il buio della morte. Anche nel modo di parlare si fa questa associazione (di chi è morto si può dire “sembra che dorma”; ancora si dice “dorme come un sasso”). Questa connessione tra il dormire ed il morire è anche inconscia all’interno del nostro vissuto: sembra che la difficoltà che i bambini hanno di addormentarsi deriva dalla paura di cadere nel nulla, che è la paura di morire. E’ la paura di cadere nel sonno in cui si entra da soli, la paura della morte, la paura della solitudine. È una paura che ci trasciniamo anche da adulti e pare che molti disturbi del sonno derivano proprio dalla paura di morire.

Questa relazione entra anche nella Bibbia, dove oltre ad associare il dormire ad un morire (Ger 51, 39-57) si parla anche del dormire come di una fuga dalla realtà: è il caso di Giona che nella tempesta in mare si mette a dormire nella stiva; Elia che fugge sull’Oreb, chiede di morire e si addormenta, così anticipando la morte che chiede. Nel NT Gesù che dorme durante la tempesta, come anche nei salmi si dice “Signore che fai dormi, non te ne importa niente”. Perché se Dio dorme vuol dire che non gliene importa niente. I discepoli che si addormentano al Getsemani, Luca solo specifica che dormivano “per la tristezza”.

In connessione a queste valenze del dormire c’è n’è un’altra apparentemente contraria: il dormire come un formidabile gesto di fiducia. Se io dormo vuol dire che mi fido che quelli che mi stanno intorno non mi fanno del male, che la realtà che mi circonda non è pericolosa. Il sonno può quindi anche essere il segno della fiducia. Quando Davide prende a Saul la lancia e la brocca, il giorno dopo rimprovera ad Abner di non aver custodito l’unto del Signore. Il rimprovero è che Saul si fidava di lui, che avrebbe dovuto vegliare su di lui. Il dormire è un atto di fiducia. Ed in questa chiave il salmista dorme nel salmo 3, come viene ulteriormente enfatizzato in Sal 4,9 “in pace mi corico e subito mi addormento, tu solo Signore al sicuro mi fai riposare”: ecco il rito di incubazione, l’episodio di Gabaon, i sogni come il luogo in cui Dio si rivela e parla. Il nostro salmista non fugge dalla realtà, ma è un’esperienza di fiducia che trova la sua conferma al risveglio: Dio non dorme, resta accanto a lui.

Dopo il mi corico ed il mi addormento, subito dopo, senza congiunzione sintattica e quindi senza soluzione di continuità, mi sveglio: è come se la notte nemmeno c’è più, non sembra esserci soluzione di continuità; dopo il sonno subito la veglia, lo spazio

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della notte è azzerato. Perché il salmista non vuole pensare alla notte, non ne vuole parlare, è come se fosse tutta concentrata in un attimo, perché tutto ormai è sotto la presenza di Dio, legata a Lui e modificata da Lui. Non serve nemmeno più menzionare la notte, la paura è definitivamente vinta, perché Dio ha cambiato le cose.

v. 8: i tempi del perfetto La salvezza definitiva viene resa visibile dal fatto che i nemici

hanno la mascella spaccata ed i denti spezzati. Questa seconda parte del v. 8 è detta utilizzando dei verbi al passato (colpire, spezzare). Il salmista dice “tu hai fatto”; questo però si collega alla prima parte del v. 8 dove compare un imperativo “alzati”: ma se il Signore lo già fatto, perché invocarlo con il “salvami” ? Il problema può essere risolto facendo riferimento a delle particolarità del testo ebraico.

Nell’ebraico esistono forme verbali che hanno il nome tecnico di perfetti “precativi”, che hanno forma di verbo al passato, ma con valore di supplica, di richiesta, e vengono quindi tradotti come imperativi. La traduzione al passato può essere cambiata in imperativo: “colpiscili e spezzagli i denti”.

Esistono però anche i perfetti profetici, dove la forma verbale è al passato, ma devono essere tradotti con un futuro: parla di una cosa come già avvenuta perché si è sicuri che Dio la farà; è profetico perché come i profeti, questi verbi vedono al di là della realtà è una cosa futura ma loro ne parlano al passato: “li colpirai e gli spezzerai i denti”.

Altra soluzione è quella di lasciarla al perfetto passato tout court: “li hai colpiti e gli hai spezzato i denti”.

Secondo la Costacurta i tre tempi vanno tenuti tutti insieme, perché questo è il gioco tipico della supplica, mentre la chiedi sei sicuro che avverrà e quindi ne puoi parlare al passato, ma d’altra parte puoi chiederla nella certezza che questa cosa è già avvenuta, perché chiedere di essere salvati significa già sperimentare la salvezza e quindi ne puoi parlare al passato (è lo stesso circolo virtuoso della richiesta della sapienza); ed allo stesso tempo chiede che Dio spezzi, all’imperativo, i denti dei nemici. Le tre ipotesi si possono quindi richiamare a vicenda. Si chiede quello che Dio ha già fatto, ma bisogna chiederglielo.

Lode – benedizione - dono La supplica è inseparabile dalla lode ed infatti il salmo

termina con la celebrazione esplicita del v. 9, che apre la dimensione della pienezza della vita, dove si fa esperienza di

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benedizione. Colui che riconosce la benedizione di Dio diventa a sua volta capace di benedire il Signore. La proclamazione liturgica di fede è un dono che viene da Dio, come è dono poter chiedere e supplicare nella certezza che Dio risponderà.

La reazione violenta di Dio, descritta con le tinte forti di questo salmo, ci pone però qualche problema, che sarà affrontato con riferimento ai salmi imprecatori (con particolare riferimento al almo 83).

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IL LIBRO DEI PROVERBI

DIVISIONE DEL LIBRO E SUA COMPOSIZIONE

L’esegesi sul libro dei Proverbi è piuttosto recente. È un libro composito dove sono confluiti diversi testi e raccolte di proverbi: è una raccolta di raccolte. I primi 7 versetti danno il titolo al libro; tutto il prologo (fino al cap. 9) è come se fosse una grande introduzione in cui, con un lungo discorso esortativo, si è invitati a seguire il cammino della sapienza ed a sceglierla, con uno stile esortativo mediante il quale il maestro invita il suo discepolo a vivere bene. C’è una forte contrapposizione tra la sapienza e la follia, proprio al fine di esortare il giovane a fare la scelta migliore.

Al cap. 10 cominciano le diverse collezioni di proverbi. I cap. 10 – 22 contengono proverbi attribuiti a Salomone; è una prima raccolta che sembra molto antica. Le tematiche sono eterogenee. Dopo ci sono i proverbi dei saggi; poi al cap. 25 si ridice che sono di Salomone; poi quelli di Abur, Ghenuel, etc.

Il criterio organizzativo con cui sono state organizzate le diverse raccolte è sfuggente. Anche perché all’interno di ogni raccolta non è chiara la successione dei proverbi. Qual è l’ordine che hanno seguito, il criterio di scelta ? Non è quello tematico, perché trattano argomenti diversi; forse un gioco di parole, forse dei suoni, si sta cominciando a cercare di capire. Siamo ancora all’inizio, considerato che la ricerca esegetica è iniziata solo di recente. Chi ha dato l’avvio è Whybray, il cui commento è del 1994 (è un commento importante; altro testo importante è quello di Alonso Schokel – Vilchez Lindez del 1984; nonché quello di Murphy del 1998).

La datazione della compilazione finale del libro sembra essere piuttosto recente, oscillando dal IV al II sec. a.c.

Il libro finisce con il cap. 31 dove non abbiamo una raccolta di proverbi, ma il famoso acrostico sulla donna saggia (Gilbert la

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definisce “forte)” – figura della sapienza –, che a motivo della sua sapienza riesce a dare felicità a tutti ed a rendere bella la vita di chi gli sta intorno.

IL PROVERBIO

Cos’è un proverbio ? Una grande opera di ingegno ed intelligenza fatta da un saggio che mette in gioco l’intelligenza di chi legge o ascolta il proverbio. Un’opera di ingegno perché il proverbio è di solito una composizione molto breve e suggestiva, con la rima che facilita la memoria, dove in pochissime parole si concentra un’esperienza ed un insegnamento di sapienza, che l’altro deve quindi capire e decifrare. Per questo è un’opera di intelligenza che chiede intelligenza per essere capito.

Es. la morale della favola della volpe e l’uva esprime l’incapacità della persona di non riuscire a confessare ciò che desidera e che non riesce ad avere; esprime l’incapacità di confessare il proprio fallimento, arrivando a nascondere, negandolo, il suo stesso desiderio. Il proverbio italiano “chi disprezza compra” è una sintesi geniale della favole della volpe e l’uva: esso ci dice, se qualcuno disprezza qualcosa non credetegli, perché in realtà se potesse la prenderebbe, in realtà la vuole comperare. Tutto ciò però non è immediatamente evidente e comprensibile, per capirlo bisogna fare un atto di intelligenza, pensarci su. Per capire i proverbi bisogna essere sapienti, ma per avere la sapienza bisogna essere sapienti e quindi per capire il proverbio saggio bisogna essere già saggi ! Il “compra” mette in gioco qualcosa di più del semplice desiderare, indica che è pronto a pagare, a privarsi di qualcosa per averla; e quindi non solo la vuole, ma la vuole molto … e invece la disprezza. Il comperare mette in gioco un desiderio intenso.

Il giro virtuoso “chiedere sapienza – avere sapienza” è riproposto in Pr 1,5-6:

5 Ascolti il saggio e aumenterà il sapere,e l'uomo accorto acquisterà il dono del consiglio,6 per comprendere proverbi e allegorie,le massime dei saggi e i loro enigmi.

ANALISI DI PR 21,3

3praticare la giustizia e l’equità per il Signore vale più di un sacrificio

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Rapporto tra rito (esteriorità) e conversione (interiorità)Il senso sembra ovvio: fare la giustizia vale più del sacrificio,

ma questo non vuol dire, ad esempio, che il sacrificio non valga. Qual è il problema di questo proverbio ? Le due cose non si escludono a vicenda. Lo scopo del proverbio è fare riflettere sulla situazione della propria religiosità perché nonostante questi due concetti siano complementari, la tendenza naturale dell’uomo è di metterli in sovrapposizione nel senso che “io faccio il sacrificio e questo mi vale anche come giustizia”. Pensare cioè che fare i sacrifici sia sufficiente e che questo escluda il bisogno di praticare la giustizia. È la sovrapposizione che l’uomo religioso di solito fa del rito che invade tutto il campo e prende tutto il posto del cammino di conversione interiore.

Questo proverbio invita allora a capire quali sono i veri valori (fare la giustizia), per capire che quando faccio il sacrificio devo esprimere il mio rapporto con Dio, la mia vera fede. Non è nemmeno corretto pensare che il profetismo contesti l’esteriorità del culto: ma la liturgia, il rito, un atto di culto, necessariamente ha una sua esteriorità. Ma il problema non è l’esteriorità (necessaria) del culto, è che essa può diventare totalizzante e non corrispondere alla sua esteriorità. L’esteriorità deve invece esprimere una interiorità corrispondente. Il pericolo è invece che l’esteriorità sostituisca l’interiorità del cammino di conversione.

La cacciata dei mercanti dal tempioIl tema di questo proverbio si riallaccia anche all’episodio

della cacciata dei mercanti dal tempio da parte di Gesù. Non è che la presenza dei mercanti nel tempio fosse una cosa di per sé negativa. La loro presenza infatti era funzionale al sacrificio, era richiesta dalla pratica del culto. Il cambiavalute serviva a cambiare il danaro a coloro che venissero da lontano. Gesù si scaglia contro una pratica solo esteriore del culto, contro l’idea di poter acquistare la salvezza attraverso il culto. Per questo era divenuto un luogo di mercanti, non perché si vendevano le pecore e le colombe, ma perché si intendeva vendere ed acquistare la salvezza.

Dimenticare che la salvezza è un dono e che insieme alla salvezza Dio ti dona anche la possibilità di fare un sacrificio, ed in vista di questo comprare la pecora.

ANALISI DI PR 26,4-5

4non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza per non

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divenire anche tu simile a lui5rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza perché egli non si creda saggio

L’apparente contraddizioneSembrano già ad una prima lettura evidenti, ma tra loro

appaiono anche contraddittori. A quale dei due dare retta ? L’atto di intelligenza è quello di capire che la contraddizione è solo apparente. Partono da due punti di vista diversi. Il primo proverbio (v. 4) ha come punto di vista il saggio ed a lui rivolge la propria attenzione. Davanti allo stolto non rispondere come lui, come davanti al male non rispondere con il male, perché diventi malvagio anche tu. Non rispondere con le stesse armi a ciò che è negativo, perché se no tu acquisisci i criteri dell’altro e se acquisisci i criteri dello stolto diventi stolto a tua volta. Quindi non devi rispondere allo stolto in modo stolto.

L’altro proverbio (v. 5) non concentra l’attenzione sul saggio, ma sullo stolto; se si concentra l’attenzione su di lui non si può rispondere con tutta la sapienza, perché altrimenti lo stolto potrebbe sentirsi preso sul serio e addirittura capire che è diventato saggio anche lui ! Rimani al livello dello stolto perché se no invece di capire la sapienza la interpreta malamente e crede di essere sapiente anche lui.

Motivo della loro successioneLa loro successione costringe a vedere che non si può mai

cercare una risposta concreta dentro un proverbio e persino nemmeno dentro la Scrittura. La risposta concreta è qualcosa che funziona sempre, che va bene sempre. Il comportamento sapiente è quello di capire la situazione concreta ed adeguarti ad essa. Il proverbio è uno strumento plastico che deve essere attualizzato davanti ad ogni situazione. Cosa devi fare davanti ad uno stolto ? Dipende dalla situazione; i due proverbi costringono non solo a capire, ma anche a decidere, a prendersi le proprie responsabilità. Questo è vero di ogni decisione che il credente deve prendere davanti alla realtà.

TECNICHE DI COMPOSIZIONE

Parallelismo Una caratteristica dei proverbi biblici è di usare il

parallelismo: dire la stessa cosa in un modo diverso, o ripetendo lo stesso concetto o attraverso il suo contrario.

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21,17 Diventerà povero chi ama i piaceri,non arricchirà chi ama il vino e i profumi

Chi è ricco ama il vino ed i profumi; e queste cose rivelano la sua ricchezza. Ma proprio quelle cose che lo rivelano in quanto ricco, queste stesse cose lo faranno diventare povero, perché se sperpera i suoi denari in piaceri diventa povero: proprio quello che mostrava la sua ricchezza lo impoverisce. Il proverbio non è contrario ai profumi, ai vini ed ai piaceri, ma ad un loro uso smodato. È un invito alla sobrietà e non alla penitenza.

La stessa cosa può essere detta attraverso il suo contrario.

15,29 Il Signore sta lontano dagli empi,ma egli ascolta la preghiera dei giusti

C’è una contrapposizione tra empi e giusti, tra lo stare lontano e lo stare vicino di chi ascolta la preghiera. Se tu sei empio il Signore sta lontano, se tu sei giusto il Signore sta vicino.

Il modo di enunciare i proverbi tramite antitesi è molto frequente. Accade anche unendo due proverbi.

10,1 Il figlio saggio rende lieto il padre,il figlio stolto rattrista la madre

A differenza dell’altro proverbio, dove il soggetto era lo stesso, qui viene tutto contrapposto: saggio/stolto e lieto/contristare. La coppia padre/madre non è in contrapposizione, ma insieme esprimono la relazione parentale. Quello che è in gioco è il rapporto con l’origine, con coloro che danno la vita e danno la possibilità di vivere bene la vita: sono i primi maestri di sapienza e per questo sono i primi a rallegrarsi o rattristarsi dell’educazione dei figli, essendone appunto i primi responsabili.

Quando sei figlio e sei saggio dai gioia a tuo padre. Quando sei padre e tuo figlio è saggio sei nella gioia. Il figlio saggio diventerà a sua volta un padre che avrà un figlio saggio, e così via.

13,24 Chi risparmia il bastone odia suo figlio,chi lo ama è pronto a correggerlo

Si rimane ancora nell’ambito familiare con la tematica della correzione, tipica dell’ambito sapienziale. Il non correggere il figlio, che potrebbe sembrare un atto d’amore, è un modo di odiare il figlio.

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Nell’ottica sapienziale il proverbio può allargarsi al rapporto maestro-discepolo e Dio-uomo.

Quando Assalonne uccide il fratellastro Amnon che aveva violentato Tamar, Davide sta fermo, non interviene ed il testo ebraico aggiunge che lo fa per non dare dispiacere al figlio che avrebbe dovuto punire. Davide viene meno al suo dovere di padre e provoca le tragedie seguenti, fino all’usurpazione del regno da parte di Assalonne. E’ amore questo che ha usato Davide ? L’amore deve intervenire anche punendo, in vista di un bene più grande che è l’educazione del figlio.

La tematica della correzione è una delle chiavi di interpretazione nel libro di Giobbe.

22,3 L’accorto vede il pericolo e si nasconde,gli inesperti vanno avanti e la pagano

Si ritrova anche in Pr 27,2. Accorgersi del pericolo e mettere in opera azioni difensive è un’azione sapiente. Se si allarga il discorso si deduce che il sapiente è una persona capace di avere paura e che chi non ha paura è uno stolto. Perché la paura è la reazione davanti al pericolo, nascondersi è un’opera di sapienza. Non avere mai paura vuol dire non prendere mai coscienza del pericolo e sei uno stolto perché ti credi onnipotente, perché non capisce che la tua vita è sotto minaccia di morte. Non solo sei stolto, ma la tua stoltezza ti porta alla rovina. L’unico che può non avere paura senza essere stolto è Dio, perché la sua vita non è sotto minaccia (Sal 2, Dio guarda dall’alto i re che vogliono fargli guerra, e ride).

Altro modo di fare i proverbi è usando la comparazione.

26,1 Come la neve d’estate e la pioggia alla mietitura,così l’onore non conviene allo stolto

Non c’è rapporto e non ha nessun senso che venga dato onore allo stolto, così come non ha nessun senso pensare che possa nevicare d’estate o che possa piovere al momento della mietitura. Neve d’estate e pioggia durante la mietitura sono fenomeni assolutamente impossibili per la Palestina.

In 1 Sam 12, 16-17, Samuele dice: 16 Ora, state attenti e osservate questa grande cosa che il Signore vuole operare sotto i vostri occhi. 17 Non è forse questo il tempo della mietitura del grano? Ma io griderò al Signore ed Egli manderà tuoni e pioggia. Così vi persuaderete e constaterete che grande è il peccato che avete fatto davanti al Signore chiedendo un re per voi. Per fare

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capire al popolo che ha sbagliato, Samuele chiede un segno inequivocabile, proprio perché non è possibile la pioggia durante la mietitura.

Il nostro proverbio mette in gioco due cose impensabili per dire che queste cose assurde e senza senso è come dare onore allo stolto: stessa assurdità, stesso non senso.

Altro esempio di comparazione, senza però che venga detto “come” o “così”.

11,22 Un anello d’oro al naso di un porco è la donna bella ma priva di senno

La trad. CEI utilizza il termine porco, che è molto forte ed è corretto considerata l’impurità del maiale secondo il pensiero ebraico. L’anello al naso è un ornamento, ma messo al naso del porco è una contrapposizione ripugnante. Così è la bellezza, che è sprecata addosso ad una donna stolta.

27,8 Come un uccello che vola lontano dal nido, così è l’uomo che va errando lontano dalla dimora.

E’ un uomo senza stabilità, una situazione che smarrisce, rende deboli ed indifesi. L’uccello lontano dal nido corre il pericolo di andare in luoghi sconosciuti. Tutto ciò è insito nella mancanza di stabilità. L’uomo è fatto per avere una casa, per stabilirsi da qualche parte. Questo va inteso a tutti i livelli. Israele conosce bene il nomadismo. Il significato si allarga anche alla dimensione affettiva, morale, etc. Il problema di fondo è che l’uomo ha bisogno degli altri, di essere in un tessuto di relazioni; ecco l’idea della casa e della famiglia. Non a caso il primo errabondo è Caino, che ha interrotto tutte le relazioni uccidendo Abele e non può più vivere. L’uomo per vivere ha bisogno di relazioni.

Altro modo di fare proverbi è quello di dire che è meglio una cosa di un’altra.

15,16 E’ meglio poco con il timore di Dio che un grande tesoro con l’angoscia.

In quello seguente si sposta un po’ la prospettiva, perché non è più in riferimento al rapporto con Dio ma con gli altri.

15,17 E’ meglio un piatto di verdura con l’amore piuttosto che un

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bue grasso con l’odio

È giocato sul piano conviviale, con riferimento al cibo, si sta parlando con gli altri, il cibo fa vivere, esprime meglio il rapporto di comunione con gli altri; mangiare con gli altri è un atto formidabile di comunione, significa condividere la vita. “Mangiare con” è un modo per condividere la vita. Per questo l’alleanza terminava con un banchetto. Questo è il contesto in cui il proverbio afferma essere meglio poco con amore piuttosto che tanto con odio.

Altri esempi:

21,9 E’ meglio abitare su un angolo del tetto piuttosto che avere una moglie litigiosa e la casa in comune con lei

21,19 E’ meglio abitare in un deserto piuttosto che abitare con una moglie litigiosa ed irritabile

All’interno del libro ci sono anche proverbi più lunghi, che sono come dei ritratti di caratteri particolari, come piccole scenette.

Nelle tematiche dei proverbi ricorrono personaggi tipici: il pigro, l'adultera, l'ubriaco, etc.

Il prologo (capp. 1 – 9)

I primi 9 capitoli dei proverbi sono testi abbastanza recenti. Israele ha già vissuto il dramma dell'esilio. In essi c'è l'invito/esortazione a seguire il cammino della sapienza, attraverso la contrapposizione forte tra sapienza e follia, tra saggi e stolti. L'intento di questo prologo è appunto esortativo. La tentazione costante della vita dell'uomo (raffigurato nel discepolo/giovane) è di non seguire la sapienza e di lasciarsi fuorviare dall'inganno dei peccatori e da quella figura di donna-stoltezza, presentata come donna straniera e prostituta.

Anche la sapienza viene presentata come donna, dispensatrice di vita. Queste due figure di donna servono a raffigurare le due tipologie: donna-sapienza (cap. 8) e DONNA-FOLLIA/STOLTEZZA (in particolare in Pr 7 e 9), che è donna «straniera», cioè strana ed estranea, incomprensibile.

Alcuni testi la dipingono come simbolo di ciò che seduce ed allontana dalla sapienza, facendo ricorso ad immagini e presentazioni allusive alla donna del Cantico dei cantici, quasi come se donna-follia, straniera, forestiera, adultera e prostituta

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fosse contrapposta non solo alla donna sapienza del cap. 8 ma anche della sposa del cantico: es. Pr 2,16-19 «per salvarti dalla donna straniera, dalla forestiera che ha parole seducenti, che abbandona il compagno della sua giovinezza e dimentica l'alleanza con il suo Dio. La sua casa conduce verso la morte e verso il regno delle ombre i suoi sentieri». La donna forestiera è connotata come infedele allo sposo e dunque all'alleanza con Dio; è la donna empia, che abbandona il rapporto con il divino. Questo essere adultera va nella linea delle metafore dei profeti e del matrimonio come metafora dell'alleanza.

Frequenti immagini sembrano il contrario del Cantico: Pr 5,3-4 «stillano miele le labbra di una straniera e piu' viscida dell'olio e' la sua bocca (questa immagine sembra come quella della sposa del cantico) ma cio' che segue e' amaro come assenzio, pungente come spada a doppio taglio». Il sapiente va oltre e scorge ciò che davvero produce l'abbandono della sapienza. Il miele è qualcosa che ha a che fare con la sposa del cantico ma che qui viene presentato in modo rovesciato.

Pr 7,4 "dì alla sapienza tu sei mia sorella e chiama amica l'intelligenza". La sposa del cantico è infatti chiamata amica e sorella dallo sposo del cantico. Dopo di ciò segue la scena della seduzione del giovane: Pr 7,6 ss. "... ecco vidi fra gli inesperti, scorsi fra i giovani un dissennato ...". Non a caso è notte, non per fare allusioni di tipo sessuale, ma perché la notte è il tempo del nascondimento e dell'ingannno, il buio copre ed impedisce di essere visto. Pr 7,10: "ecco farglisi incontro una donna in vesti di prostituta e la dissimulazione nel cuore". Il tema dell'inganno è centrale: la morte si presenta come se potesse dare la vita; il saggio vede l'inganno, lo stolto no (anche la sapienza sta sulle piazze e sulle strade, non solo la stoltezza, bisogna saper riconoscere e distinguere la sapienza dalla stoltezza).

La scena della seduzione prosegue con immagini che richiamano sempre il Cantico dei cantici. Pr 7,14-15: "dovevo offrire sacrifici di comunione ... per questo sono uscito incontro a te, per cercarti e ti ho trovato", proprio come la sposa del cantico. Pr 7,18: "vieni, inebriamoci d'amore fino al mattino", ancora come lo sposo del cantico. I riferimenti sono tutti stravolti dalla stoltezza: Pr 7,22-23 "egli incauto la segue, come un bue va al macello; come un cervo preso al laccio ... e non sa che è in pericolo la sua vita": è la sapienza a parlare, che svela la realtà.

La sapienza dunque non solo offre la vita, ma rivela l'inganno della morte e fa sì che si possa riconoscere la morte lì dove si traveste di vita. Lo svelamento della verità è tipica della sapienza e quindi il saggio vede il pericolo e sta lontano.

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CAP. 8: LA DESCRIZIONE DELLA SAPIENZA

Ia parte vv. 1-11

vv. 1-5

[1]La Sapienza forse non chiamae la prudenza non fa udir la voce?[2]In cima alle alture, lungo la via,nei crocicchi delle strade essa si è posta,[3]presso le porte, all'ingresso della città,sulle soglie degli usci essa esclama:[4]«A voi, uomini, io mi rivolgo,ai figli dell'uomo è diretta la mia voce.[5]Imparate, inesperti, la prudenzae voi, stolti, fatevi assennati.

C'è una moltiplicazione dei punti di riferimento: la sapienza va in giro, sta un pò ovunque, vuol dire che è alla portata di tutti, si rivolge a tutti; non è riservata solo ad una elite, solo per alcuni. E' per gli uomini nel loro vivere quotidiano, nei luoghi dove l'uomo vive:

- alle porte di casa, luogo della relazione non sociale, non pubblica, ma familiare ed intima, parentale;

- alle porte della città, dove gli uomini si incontrano. E' il luogo tipico del passaggio, dove si parla, si mercanteggia, si dirimono le questioni, perché lì stanno gli anziani; è lì che si prendono gli impegni pubblici. E' il luogo della massima relazione, a tutti i livelli.

Se la sapienza sta lì, vuol dire che essa sta dove l'uomo vive la sua fondamentale dimensione di essere relazionale; per trovarla non serve essere un'elite, nè andare in solitudine a ricercarla in modo mistico, ma la sapienza si trova lì dove l'uomo vive secondo la verità del proprio essere. E' per tutti, senza destinatari differenziati: è per l'uomo lì dove normalmente vive.

vv. 6-9

[6]Ascoltate, perché dirò cose elevate,dalle mie labbra usciranno sentenze giuste,[7]perché la mia bocca proclama la veritàe abominio per le mie labbra è l'empietà.[8]Tutte le parole della mia bocca sono giuste;niente vi è in esse di fallace o perverso;[9]tutte sono leali per chi le comprende

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e rette per chi possiede la scienza.

C’è una esplicita contrapposizione delle labbra e delle parole veritiere della sapienza alle labbra ed alle parole menzognere della donna-stoltezza del cap. 7.

vv. 10-11

[10]Accettate la mia istruzione e non l'argento,la scienza anziché l'oro fino,[11]perché la scienza vale più delle perlee nessuna cosa preziosa l'uguaglia».

La sapienza è un bene inestimabile, per questo va preferita all'argento ed all'oro fino, vale più delle perle. E' un'idea ricorrente nei testi sapienziali. Questo tema sarà sviluppato fortemente in Gb 28.

In questa prima parte del cap. 8 si insiste sulla dimensione della parola e dell'ascolto e non sul fare, perché sono la parola e l'ascolto i mezzi per donare e ricevere la sapienza. Questo è il dono che la sapienza fa di sé e che passa attraverso l'insegnamento, che a sua volta richiede ascolto (in Sir 24 la sapienza dice "io sono uscita dalla bocca dell'altissimo" e si presenta come parola).

Se tu ti metti in ascolto è perché riconosci che ciò che ti viene detto ha valore, ma nel momento in cui lo fai sei già nel circolo virtuoso della sapienza. Lo afferma il testo stesso di Pv 8,8-9 dove si dice «tutte le parole della mia bocca sono giuste … e rette per chi possiede la scienza». L'invito della sapienza è ad essere saggio e ciò che si offre è la sapienza stessa che consente di vivere secondo Dio: il timore di Dio è il principio della sapienza.

IIa parte vv. 12-21: autoelogio della sapienza. La sapienza regale (BJ)

In questi versetti la sapienza si presenta e si scopre che essa non è qualcosa di puramente intellettuale, ma di operativo, che diventa capacità di vivere bene. Si comincia ad entrare nella dimensione del vivere.

[12]Io, la Sapienza, possiedo la prudenzae ho la scienza e la riflessione.[13]Temere il Signore è odiare il male:io detesto la superbia, l'arroganza,la cattiva condotta e la bocca perversa.

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[14]A me appartiene il consiglio e il buon senso,io sono l'intelligenza, a me appartiene la potenza.[15]Per mezzo mio regnano i ree i magistrati emettono giusti decreti;[16]per mezzo mio i capi comandanoe i grandi governano con giustizia.[17]Io amo coloro che mi amanoe quelli che mi cercano mi troveranno.[18]Presso di me c'è ricchezza e onore,sicuro benessere ed equità.[19]Il mio frutto val più dell'oro, dell'oro fino,il mio provento più dell'argento scelto.[20]Io cammino sulla via della giustiziae per i sentieri dell'equità,[21]per dotare di beni quanti mi amanoe riempire i loro forzieri.

IIIa parte vv. 22-31: la sapienza creatrice (BJ)

vv. 22-29

[22]Il Signore mi ha creato all'inizio della sua attività,prima di ogni sua opera, fin d'allora.[23]Dall'eternità sono stata costituita,fin dal principio, dagli inizi della terra.[24]Quando non esistevano gli abissi, io fui generata;quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d'acqua;[25]prima che fossero fissate le basi dei monti,prima delle colline, io sono stata generata.[26]Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi,né le prime zolle del mondo;[27]quando egli fissava i cieli, io ero là;quando tracciava un cerchio sull'abisso;[28]quando condensava le nubi in alto,quando fissava le sorgenti dell'abisso;[29]quando stabiliva al mare i suoi limiti,sicché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia;quando disponeva le fondamenta della terra,

In questa parte si presenta non più in quello che è, che fa o nei vantaggi che procura, ma nella sua dimensione più fondamentale, quella del rapporto con Dio.

La sapienza arriva al punto centrale di se stessa: fino adesso ha detto io io io, ma adesso dice «il Signore», diventa lui il soggetto principale di questa pericope: chi agiva era il Signore, per parlare di sè la sapienza deve parlare di Dio, perché la sapienza non c'è se non c'è Dio. Proviene da Dio ed arriva in mezzo agli uomini, quindi è la sapienza che fa la relazione tra Dio e gli uomini.

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Per Gilbert questa parte, per il rilievo attribuito alla regalità, è un testo pre-esilico, più antico del resto del libro. Non si spiegherebbe infatti se fosse successivo alla caduta del regno anche in Giuda.

Dice che il Signore l'ha creata, costituita e generata. Sono tre verbi importanti. Il primo («creata») è il verbo ebraico qnh che vuol dire acquistare, comperare, ma anche creare e metaforicamente generare. E' il verbo sul quale la donna gioca quando dopo la cacciata dal giardino nasce il primo figlio, segno della fedeltà di Dio alla vita. Benché ferita, la vita resta feconda. Il figlio si chiama qayin (Caino) ed Eva dice «ho acquistato, generato un uomo dal Signore».

Nel dire che la Sapienza è stata «costituita» si usa il verbo nsk (nasak), che vuol dire fondere dei metalli, versare dei liquidi, ma anche intessere. In questo contesto ha fatto pensare di poter fare riferimento all'unzione regale. E' però una possibilità remota. Un verbo affine che fa parte della stessa famiglia, utilizzato insieme al verbo qnh, si ritrova nel Sal 139,16 e sta a descrivere l'azione di Dio che intesse il bambino nel seno materno. Nsk vorrebbe dire essere formato nel grembo.

Quando infine si dice che la sapienza è stata «generata», si usa il verbo hwl/hyl, che vuol dire contorcersi per il dolore, avere le doglie del parto: vuol dire partorire, dare alla luce, fare nascere.

Tutti e tre sono verbi dell'ambito della generazione. La Sapienza dice di sé di essere stata generata da Dio, ma non solo di essere stata creata al pari delle altre cose, bensì di un rapporto particolare con Dio. La sapienza quindi non è Dio ma non è neppure semplicemente una creatura di Dio come le altre. E' una realtà misteriosa, di legame tra Dio e gli uomini, il mondo.

Alonso accenna al quesito se la Sapienza sia un personaggio esistente, fuori del poema stesso, oppure se debba essere considerata solo una figura poetica. Già gli autori antichi ebbero a lottare contro gli ariani che invocavano questo testo. Secondo Alonso si tratta di un personaggio poetico.

Il testo ebraico di Pr 8,22 dice "il Signore mi ha creato (qnh) all'inizio (in principio: in ebraico reshit) della sua attivita'". Reshit vuol dire principio, inizio; potrebbe anche essere, senza preposizione, il Signore mi ha "generato inizio", come inizio, e non solo all'inizio; nel senso che la sapienza è l'inizio di tutte le opere di Dio, la sua primizia, la parte prima e migliore di tutte le sue opere. Siamo in un ambito a-temporale, perché è l'inizio della creazione.

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Sapienza come origine, inizio, come cosa più bella ed importante, che viene prima di tutto ma comunque dopo Dio, perché in ogni caso è creata. Dio solo è la vera origine, anche della sapienza.

L'idea della creazione che sta dietro i vv. 24-29 è l'idea di una terra pensata come un disco piatto (che poi diventa meno piatto per i vari contorcimenti della terra: Sal 90), che poggia su delle colonne che stavano lì dove ci sono tutte le acque sotterranee. Queste emergono poi sulla terra e divengono fiumi, mari e sorgenti. Il cielo era pensato come una calotta (la volta del firmamento) con dei buchi, perché sopra di essa c'erano altre acque, i serbatoi della neve, della pioggia e della grandine che così scendeva aulle terra. La sapienza dice di essere stata generata prima di tutto ciò. Il mare non divora la terra, perché Dio lo tiene a bada, e così va avanti ed indietro. Tutto questo avviene con la sapienza di fianco a Dio che crea. Lei era là, "quando egli fissava i cieli ...".

C'è una insistenza sulla presenza della sapienza all'atto della creazione. Non è tra le cose che Dio fa, ma è presso Dio mentre Dio le fa ed è presso di lui «come architetto». Si usa qui un termine molto raro e quindi di difficile intendimento: può voler dire architetto; l'idea sarebbe di un creare di Dio «secondo sapienza», con il suo «aiuto», come se essa sovrintendesse ai lavori. L'armonia di ciò che crea è anche garantita dalla sapienza, che ne controlla i lavori come un architetto, appunto.

Questo stesso termine potrebbe anche voler dire «discepola, bambina»: l'idea sarebbe non solo quella del governo dei lavori della creazione (architetto), ma (anche, in aggiunta al senso precedente) della sapienza come una bambina che gioca con le cose che Dio crea. Unendo insieme i due possibili significati del termine si può dire che la sapienza sovrintende all'ordine del mondo e lo fa giocando, in modo giocoso. Il giocare fa riferimento non solo alla dimensione di gioia e di bellezza, ma anche dà l'idea di una cosa facile: è un lavoro quello della creazione da parte di Dio con la sapienza che è diverso da quello dell'uomo, fonte di fatica e sudore, ma che è facile, giocosa e così dimostra l'assoluta potenza di Dio, che «sposta i monti senza sudare», ovvero fa le cose senza fatica.

vv. 30-31[30]allora io ero con lui come architettoed ero la sua delizia ogni giorno,dilettandomi davanti a lui in ogni istante;[31]dilettandomi sul globo terrestre,ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.

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L'espressione ebraica può essere intesa nel doppio modo: gioca «sulla terra» ma anche «con la terra». Il verbo usato per dire giocare (o dilettarsi) ha proprio il significato di giocare, danzare, ridere, divertirsi. E' il verbo su cui gioca anche il nome di Isacco (anche se non è proprio lo stesso, cambia il suono). Il Sal 104,26: "(il Leviatan che tu hai fatto) ... perché giochi in/con esso (mare)". E' come se il leviatan gioca nel mare e gioca con il mare.

La dimensione del gioco mette in campo anche la facilità del creare e dunque l'onnipotenza di Dio nella creazione. Questa sapienza è delizia di Dio ma insieme ha le sue delizie che sono gli uomini. Per la proprietà transitiva anche gli uomini possono diventare delizia di Dio. Ecco di nuovo la funzione di legame tra Dio e gli uomini che ha la sapienza, oltre quella di ordinare il mondo sapientemente.

IVa parte vv. 32-36: l'invito supremo

[32]Ora, figli, ascoltatemi:beati quelli che seguono le mie vie![33]Ascoltate l'esortazione e siate saggi,non trascuratela![34]Beato l'uomo che mi ascolta,vegliando ogni giorno alle mie porte,per custodire attentamente la soglia.[35]Infatti, chi trova me trova la vita,e ottiene favore dal Signore;[36]ma chi pecca contro di me, danneggia se stesso;quanti mi odiano amano la morte».

Dopo la sua presentazione, arriva l'ultima esortazione. La Sapienza finisce come ha iniziato, con l'esortazione all'ascolto. Ora dice che sono gli uomini a stare sulla sua porta. Ora tocca agli uomini cercarla. Ascoltare l'esortazione e metterla in pratica. La sapienza dona sapienza, ma sta all'uomo vivere da saggio e vivere secondo di essa. Come tutti i doni di Dio, anche esso viene da Dio, l'uomo non può conquistarlo ma solo accoglierlo e dopo averlo accolto deve vivere secondo di esso. Il dono di Dio deve diventare qualche cosa dell'uomo stesso.

Se è così l'uomo diventa beato, perché chi trova la sapienza trova la vita. Ritorna l'insegnamento di fondo secondo il quale chi trova la sapienza trova la vita (come chi va dietro la stoltezza trova la morte). Ecco ancora la funzione di mediazione tra l'uomo e Dio. Chi pecca contro la sapienza danneggia se stesso non la sapienza. Non vivere secondo sapienza come un obbligo, ma il vivere secondo sapienza avendo capito che è l'unico modo possibile

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per vivere e che rifiutarla è danneggiare se stessi: questa è la vera sapienza.

L'obbedienza di cui parla la Bibbia non è di chi le fa perché è obbligato, ma di chi capisce fino in fondo il valore di ciò che gli viene chiesto e lo fa suo in modo tale quando obbedisce obbedisce a se stesso. Questa è l'obbedienza che Dio chiede ed è l'obbedienza del figlio. L'uomo sapiente capisce che andare contro sapienza è andare contro se stessi. Ecco dunque la frase finale di grande effetto: Pr 8,36: «quanti mi odiano amano la morte». La contrapposizione tra amare ed odiare, è l'estrema follia, la contraddizione dello stolto ed è senza possibile via di mezzo: o si ama la sapienza o si ama la morte. Se la sapienza è questo, diventa chiaro che bisogna seguirla, perché è l'unica strada di vita, di gioia, di delizia e di gioco. Nonostante tanta bellezza, la sapienza è difficile, va affrontata, accolta e desiderata, ma la beatitudine che la sapienza promette non sempre è sperimentabile e allora la sapienza entra in crisi: è il libro di Giobbe.

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IL LIBRO DI GIOBBE

Il sapiente sa che la sapienza dà la vita e la felicità, però sa che la pienezza di vita non è sempre sperimentabile e che, anzi, ciò che si sperimenta è normalmente il contrario: è questa la realtà che almeno apparentemente mette in crisi la sapienza stessa. Nel libro di Giobbe la sapienza accetta la crisi e ne esce rafforzata.

Indicazioni bibliografiche: Weiser del 1974; Ravasi, il commento è divulgativo, ma l'introduzione è molto ben fatta; Alonso Schokel - Sicre Diaz; Habel; Clines.

Cenni generali

E' un libro molto complesso dal punto di vista testuale, come costruzione (ha cose diverse che si intrecciano), nonche' dal punto di vista tematico e linguistico (a volte l'ebraico che usa è quasi intraducibile). Il suo tema ruota intorno all'eterna domanda che l'uomo si pone davanti alla sofferenza dell'innocente: è la perenne continua dolorosissima domanda che l'uomo si pone davanti al dolore ed all'ultima apparente vittoria del dolore che è la morte. Dolore e morte che appaiono non solo inspiegabili ma anche, in quanto inspiegabili, inaccettabili. Pertanto chiedono all'uomo o di essere accettati supinamente, oppure di spiegare una lotta senza quartiere per cercare risposte, ammesso che ci siano: Giobbe sceglie la linea della lotta.

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Ambientazione

Tutto è ambientato al di fuori di Israele. I nomi dei protagonisti non sono israeliti ma stranieri (solo Eliu, secondo Gilbert, e' un nome semitico) . La località che viene indicata è chiamata Uz, di difficile localizzazione, secondo Alonso forse in territorio edomita (Edom era un lontano parente di Israele, che ha sempre avuto un ruolo di nemico di Israele). Non solo siamo al di fuori di Israele, ma anche in territorio ostile. Come mai ? Sembra che possa essere più facile mettere in bocca ad uno straniero discorsi che per un buon israelita sarebbero al limite se non oltre il limite. La terra straniera dà al narratore maggiore libertà. Può essere che ci sia addirittura anche una nota polemica in tutto questo, perché il libro di Giobbe mette in crisi la sapienza tradizionale di Israele. A questo proposito non è male l'annotazione di Alonso secondo cui questo edomita (Giobbe) discende dalle genti del territorio di Esaù: sarebbe significativo che proprio un edomita diventi maestro di Israele/Giacobbe; si tratterebbe di una nota ironica.

Altra lettura vede in Giobbe un uomo di ogni paese e di ogni terra, senza bisogno di localizzare Uz: un'apertura universalistica del libro sottolineata dal fatto che Giobbe non appartiene al popolo eletto.

Composizione

Il libro è composto di due parti tra loro molto diverse: l'inizio e la fine del libro sono in prosa e raccontano una storia edificante, dove Giobbe è un uomo paziente che accetta tutto, senza lottare e reagire. Tutto il resto è in poesia e Giobbe è un'altro: uno che lotta, che non accetta, che vuole confrontarsi con Dio, pretendendo delle spiegazioni; è l'uomo che va in cerca del perché.

Il prologo e l'epilogo in prosa sono forse un'antica leggenda che narra di un uomo giusto che resta fedele nonostante le disgrazie ed alla fine viene ricompensato per la sua fedeltà. Al centro invece (capp. 3-42) il grande dramma del dialogo tra gli amici e Giobbe, con l'intervento finale di Eliu e la risposta di Dio.

Il modo in cui il libro è organizzato è oggetto di discussione, al pari del RAPPORTO TRA LA PARTE IN PROSA E QUELLA IN POESIA. Secondo alcuni il prologo e l'epilogo sono una leggenda preesistente che sarebbe stata aggiunta dopo la parte in poesia, al fine di dare un quadro narrativo al tutto. Altri invece ritengono che la leggenda

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fosse anteriore e che sulla base di essa sarebbe stato fatto il resto. Altri ancora dicono che tutto è stato fatto insieme e dallo stesso autore, il quale avrebbe voluto intenzionalmente dare l'impressione che si trattasse invece di una leggenda preesistente. Secondo la Costacurta la cosa più plausibile è che l'autore abbia elaborato (in forma poetica) una storia già conosciuta (in prosa). Questa è anche l'opinione più diffusa.

Si ritiene anche che l'intervento di Eliu sarebbe stato aggiunto dopo e che anche lo stesso cap. 28 (inno alla sapienza) sarebbero stati aggiunti dopo. In particolare il cap. 28 sembra una cosa estranea, pur rappresentando il punto di svolta di tutto il libro.

Per quanto concerne la DATAZIONE, certamente il libro di Giobbe risente dell'esilio ed è da situare nel post-esilio tra il IV ed II sec. a.c.

Struttura

Come si presenta il libro ? Sulla sua struttura c'è discussione.1-2 Prologo in prosa: presentazione dell'uomo giusto colpito da

disgrazie.3 Inizia la parte in poesia: monologo dolorosissimo di Giobbe che

reagisce maledicendo il giorno della sua nascita ed affermando che il suo vivere non ha senso. Per lui bisognerebbe cancellare la vita.

4-14 Primo ciclo di dialoghi/discorsi in cui parlano: Elifaz - Giobbe; Bildad - Giobbe; Zofar - Giobbe.

15-21 Secondo ciclo: E-G; B-G; Z-G22-26 Terzo ciclo:E-G; B-G.27-31 Mashal: grande monologo - discorso sapienziale di Giobbe

(che riprende quello del cap. 3).32-37 Interviene Eliu38-42 Dio risponde, in due volte, con due risposte di Giobbe.42,7-17 Epilogo in prosa in cui tutto finisce felicemente con la

ricompensa di Giobbe.

I tre cicli di discorsi ed il silenzio di Zofar

I cicli di discorsi sono tre ed in questi parlano tre amici. Nel terzo ciclo parlano però solo in due (Elifaz e Bildad) e questo fa problema: per questo alcuni autori e traduttori si «inventano» un intervento di Zofar nel cap. 27 (chi dal v. 7, chi dal v. 13), individuando in questa parte la voce di Zofar (le Bibbie spesso recano un titolo in tal senso della pericope a partire dal v. 13).

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Secondo la Costacurta questo discorso non può essere attribuito a Zofar, perché l'autore del libro è sempre molto preciso nell'indicare chi parla. Si tratta di un tentativo addirittura «patetico» di recuperare Zofar laddove non c'é. Un'obiezione è nel senso che i vv. dal 13 (o dal 7) al 23 sono discorsi che avrebbe potuto fare anche Zofar. Gli amici si rifanno all'idea tradizionale di Israele del male come conseguenza di una colpa. In questi versetti si parla della giustizia di Dio e del suo intervento sull'empio. Ma in realtà secondo la Costacurta questi vv. vanno benissimo anche sulla bocca di Giobbe, perché lui è sotto il dolore e la confusione di una sofferenza percepita come ingiusta; egli sta lottando ed ha un andamento discontinuo che appare incoerente ma che invece fa parte dell'assoluta coerenza del dolore. Egli quindi dice che Dio è giusto, però aggiunge che questa giustizia non la vede; si proclama innocente e poi prega che non venga guardato il suo peccato; etc.

Nel cap. 27 quindi Giobbe afferma la giustizia di Dio, solo che lo rovescia sugli amici, utilizzando l'arma che loro stessi usano contro di lui. Dio è giusto e l'empio viene condannato, solo che l'empio non sono io, ma siete voi ! Questo dice Giobbe agli amici. Si tratta di un artificio fortemente ironico.

Resta però la domanda: se il cap. 27 è tutto di Giobbe, perché il narratore comunque ha omesso Zofar dal terzo ciclo di discorsi ? Una risposta sicura non c'è. Forse con questo artificio letterario di un terzo ciclo monco si voglia dare un'indicazione sul tipo di dialoghi che stanno avvenendo. Se uno va a vedere bene, non sono dei veri dialoghi: ognuno fa il suo discorso portando avanti le sue idee e colui che risponde lo fa solo in apparenza, ma in realtà riprende il proprio punto di vista. In realtà non c'è una vera progressione, una crescita, che è essenziale al dialogo stesso: una serie di aggiunte reciproche, con cui si va avan ti nella comprensione della realtà. Giobbe e gli amici sono tutti fermi: ognuno ha la sua idea e da lì non ci si muove. Gli amici continuano a dire che Dio è giusto e l'uomo è peccatore. Giobbe continua a protestare la sua innocenza: lotta con gli amici, ma in realtà lotta con Dio.

Perché dunque alla fine il narratore non fa parlare più Zofar ? Forse perché in questo modo vuole dire che il numero perfetto di tre non si compie: in realtà questo è un dialogo tra sordi, non è vero che si conclude qualcosa e quindi non si conclude nemmeno il ciclo, quasi a voler dire che si potrebbe continuare all'infinito. Poiché non si va da nessuna parte tanto vale fermarsi qui: un punto vale l'altro.

Questa ipotesi è ragionevole anche se si tiene conto del modo in cui i dialoghi vengono introdotti dallo scrittore. L'autore sempre

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specifica chi è il personaggio che parla con la stessa identica formula di introduzione: «e cominciò a dire» (il verbo potrebbe anche significare rispondere), che si può anche tradurre «e parlò NN (si aggiunge il nome) e disse». Di particolare c'è che si dice solo chi è che parla e non si dice a chi si parla. Ben diverso è invece il modo in cui l'autore introduce i discorsi tra Dio e Giobbe, quando non è più un dialogo tra sordi, ma un dialogo vero, dove Giobbe cambia posizione perché ha ascoltato la voce di Dio; ed a sua volta Dio parte dal cambiamento di Giobbe per fare un secondo discorso ed andare ancora più avanti (quindi anche Dio ha ascoltato Giobbe). Quando c'è un vero dialogo, quindi, il modo in cui inizia il discorso è: «e parlò (Dio o Giobbe) a/con (Giobbe o Dio) e disse». Rispetto alla formula precedente, quando c'è un vero dialogo, v'è l'aggiunta del destinatario. Questo cambiamento della formula introduttive rafforza l'ipotesi per cui il silenzio di Zofar è un modo per dire che gli amici e Giobbe non stanno in effetti parlando tra di loro e non realizzano un vero dialogo. La mancanza di Zofar può quindi essere del tutto intenzionale ed avere questo specifico significato.

IL PROLOGO (GB 1-2)

Gb 1,1-5: la presentazione del protagonista

[1]C'era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male. [2]Gli erano nati sette figli e tre figlie; [3]possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e molto numerosa era la sua servitù. Quest'uomo era il più grande fra tutti i figli d'oriente. [4]Ora i suoi figli solevano andare a fare banchetti in casa di uno di loro, ciascuno nel suo giorno, e mandavano a invitare anche le loro tre sorelle per mangiare e bere insieme. [5]Quando avevano compiuto il turno dei giorni del banchetto, Giobbe li mandava a chiamare per purificarli; si alzava di buon mattino e offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno offeso Dio nel loro cuore». Così faceva Giobbe ogni volta.

Non si danno di quest'uomo coordinate tali da poterlo identificare: è chiaramente una leggenda. Giobbe non è situabile nel tempo e nemmeno nello spazio (Uz infatti è di difficile localizzazione). Appositamente si evitano coordinate storiche, che spesso si danno anche nei racconti fittizi e leggendari. Ad es. nel racconto di Giuditta si danno coordinate storiche fasulle, ma vengono comunque date per poter immaginare la storia. Giobbe invece è volutamente a-storico, perché Giobbe è il paradigma

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dell'uomo che si confronta con il dolore: è l'uomo di ogni luogo e di ogni tempo. In Giuditta invece il paradigma è quello del nemico, del grande mostro. Con Giobbe siamo in ogni luogo ed in ogni tempo, ovunque c'è un uomo, anche se non si tratta di un uomo sofferente, perché la domanda di Giobbe non è solo perchè l'uomo soffre, ma perché l'uomo muore ? Quindi riguarda ed avvolge anche chi sta bene.

Giobbe è presentato come l'uomo perfetto (il testo dice «integro», ma può essere tradotto anche come «perfetto»). E' l'uomo giusto al massimo grado, si vuole dare l'idea di totalità della perfezione e della giustizia di Giobbe. Giusto sia nel rapporto con gli altri che nel rapporto con Dio: è il giusto per eccellenza. Un uomo così doveva essere sommamente felice e benedetto da Dio. I segni tipici della benedizione divina sono appunto i figli, i quali vogliono dire la pienezza della vita e la sua eternità (nella tradizione biblica la sterilità è drammatica perché intesa come segno di maledizione e di morte: la vita della donna sterile finisce con lei). Avere figli significa prolungare la propria vita, che non è più limitata al proprio corpo, ma prolungata nel corpo del figlio e dei figli di lui e nelle generazioni che verranno. Altro segno di benedizione è la terra (già promessa ad Abramo), essenziale per la vita, per rendere stabile la vita. Altri segni sono la vita felice, quindi buona salute e tante ricchezze. La benedizione non è altro che felicità, perché è Dio che dona il suo bene.

Giobbe ha sette figli e tre figlie, quindi pienezza dei figli. Sia sette che tre vogliono dire totalità, pienezza. Il numero più grande è comunque dei figli maschi, che sono in ogni caso più importanti delle femmine. Sono inoltre figli e figlie, anche questo è indice di totalità Questo modo di parlare nel mondo biblico corrisponde ad una figura stilistica tipica della bibia che si chiama «merismo»: indicazione di due parti estreme della realtà per indicarne la totalità. Nello Shemà si dice che «... ne parlerai quando ti siedi e quando ti alzi, quando entri e quando esci ...». «Maschi e femmine» è appunto un merismo per indicare la completezza della paternità.

Giobbe aveva anche la terra ed era molto ricco, con grande quantità di bestiame. Anche qui c'è un merismo perché si parla sia di bestiame sia piccolo che grande; si parla del bestiame tipico del contadino sedentario e del pastore nomade, è un modo per dire che aveva animali di tutte le specie.

Questo benessere è sottollineato dai banchetti quotidiani e dall'armonia e comunione che regna in tutta la famiglia. Una totalità di benedizioni, a cui Giobbe aggiungeva i sacrifici per i figli. Giobbe è assolutamente giusto e quindi assolutamente benedetto.

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Gb 1,6-12: il dialogo tra Dio e Satan

[6]Un giorno, i figli di Dio andarono a presentarsi davanti al Signore e anche satana andò in mezzo a loro. [7]Il Signore chiese a satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra, che ho percorsa». [8]Il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male». [9]Satana rispose al Signore e disse: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? [10]Non hai forse messo una siepe intorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto è suo? Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda di terra. [11]Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!». [12]Il Signore disse a satana: «Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui». Satana si allontanò dal Signore.

Non siamo più nella terra di Uz, ma in cielo. Dio è immaginato come potente sovrano che dà udienza ai suoi ministri. Tra di essi c'è Satan (personaggio che compare solo nel prologo) che sembra essere colui che ha la funzione di porre il dubbio su tutto. E' opinione comune che in questo libro Satan non ha ancora la funzione di personificazione del male. Per Alonso è solo uno della corte celeste che è quello più scettico, critico, ma non nel senso che è Satana; sarebbe uno che va più sul negativo che sul positivo, un ispettore severo. Gilbert gli attribuisce il ruolo di pubblico ministero ed esclude che sia il diavolo in senso tecnico. Di fatto egli ha solo la funzione letteraria di porre il problema e poi sparisce. Non dobbiamo interpretarlo come personificazione del male, ma come personaggio problematico che serve appunto a porre il problema ed a far andare avanti il racconto.

Qual'è il problema che solleva ? Satan non può dire che Giobbe non è giusto, non può contraddire questo, ma si domanda perché è giusto. Perchè ama la giustizia o perché gli conviene al fine di ottenere la benedizione di Dio ? Tutti sarebbero capaci di essere giusti di fronte a tanta benedizione ! Il dubbio che pone Satan è sulla gratuità della giustizia e della perfezione di Giobbe. Egli dice: la giustizia di Giobbe è una giustizia interessata, (v. 9) forse Giobbe teme Dio «per nulla» ? «Gratuitamente» (hinnam) ? Se la fedeltà dell’uomo fosse disinteressata e continuasse anche nella sofferenza, allora diventerebbe anche una testimonianza del fatto che Dio è veramente amabile e adorabile per se stesso, e non per i benefici che dà agli uomini. In tal modo acquisterebbe senso anche la sofferenza, diventando il vero luogo attraverso cui si può testimoniare la bontà intrinseca di Dio. Qui viene dunque messa in questione la realtà di Dio stesso: noi

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amiamo Dio perché Dio è il bene o perché mi fa del bene ?

ALONSO – SCHOCKEL (p. 118)Finora tutto è buono, di una bontà, se non falsa, almeno sospetta; finora

la religione è un dialogo monotono di un uomo che benedice il Dio che lo benedice …

Satan introduce la tentazione diffidando dell’uomo … Satan tenta Dio nell’uomo, la sua migliore creatura … Dio tenta l’uomo lasciandolo alla sua libertà: prove d’amore … Così s’imbastisce la grande scommessa tra il satan e Dio, tra il divino e l’antidivino: l’uomo è allora vittima innocente e incosciente di tale scommessa, posta che Dio si gioca in un gioco pericoloso ? No, perché la scommessa dell’uomo è la sua libertà.

Rimane aperto un problema: nel Prologo, la sofferenza viene promossa da Satan, ma viene anche permessa da Dio: perché Dio permette la sofferenza ? In realtà, non è Dio che mette alla prova l’uomo, ma è la stessa sua vita che lo fa. Tale prova serve come situazione personale nella quale bisogna decidersi se vivere di fede, o meno: vivere, cioè, fidandosi di Dio e di ciò che non si vede, oppure no. Possiamo, allora, già vedere una soluzione al libro di Giobbe: la sofferenza può avere il senso di testimoniare che Dio è Dio, e non soltanto uno che si ama perché dà cose buone in cambio. Il soffrire, allora, può acquistare il significato positivo perché è testimonianza (martirew) della realtà di Dio. Certo la sofferenza rimane problematica: che Dio è questo che permette la sofferenza? Lo spiraglio del prologo sembra chiudersi e non affrontare il problema. Non basta dire che la sofferenza è occasione di testimonianza della realtà di Dio, perché che Dio è colui che ha bisogno della sofferenza per essere proclamato Dio ? Il prologo mi dice che bisogna andare oltre la visione di Dio che viene presentata all'inizio. La ricerca di Giobbe è la ricerca di un Dio diverso.

Gb 1,13-19: le prove di Giobbe

[13]Ora accadde che un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del fratello maggiore, [14]un messaggero venne da Giobbe e gli disse: «I buoi stavano arando e le asine pascolando vicino ad essi, [15]quando i Sabei sono piombati su di essi e li hanno predati e hanno passato a fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto questo». [16]Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «Un fuoco divino è caduto dal cielo: si è attaccato alle pecore e ai guardiani e li ha divorati. Sono scampato io solo che ti racconto questo». [17]Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I Caldei hanno formato tre bande: si sono gettati sopra i cammelli e li hanno presi e hanno passato a

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fil di spada i guardiani. Sono scampato io solo che ti racconto questo». [18]Mentr'egli ancora parlava, entrò un altro e disse: «I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo in casa del loro fratello maggiore, [19]quand'ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: ha investito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti. Sono scampato io solo che ti racconto questo».

Le disgrazie vengono raccontate a raffica, e per di più di volta in volta da colui che solo è scampato al pericolo. Questo accorgimento letterario non da neppure tempo a Giobbe, ed al lettore, di rendersi conto dell’accaduto. In pochi istanti (“mentr’egli ancora parlava”) si consuma la fine di una situazione vitale perfetta. Non viene neanche dato il tempo di riprendersi dallo shock. È una situazione molto triste ed incalzante. Indubbiamente viene trasmessa l’estrema tragicità che sta avvenendo nella vita di Giobbe. Questo accorgimento letterario è stato usato nella descrizione della situazione vitale di Giobbe, nel Prologo; ugualmente avviene ora con la fine della benedizione per Giobbe. Le disgrazie vengono descritte in modo tale da esprimere la totalità, in perfetta simmetria con quanto prima, invece, era benedizione. La concentrazione degli avvenimenti nel racconto dei messaggeri accentuano la tragicità di una vita distrutta pezzo a pezzo dall'incalzare degli eventi. L'alternanza degli eventi (causa umana e naturale) è un chiaro merismo, che indicando i due estremi di una realtà vuole indicare la totalità della realtà stessa.

Solo il lettore, però, si rende conto che tutte queste morti e disgrazie avvengono proprio a causa della bontà di Giobbe, per mettere alla prova la sua fede. Questo aspetto paradossale Giobbe stesso lo ignora, mentre chi legge è per questo posto davanti ad un problema ancora più grande.

Gb 1,20-22: la reazione di Giobbe

[20]Allora Giobbe si alzò e si stracciò le vesti, si rase il capo, cadde a terra, si prostrò [21]e disse:

«Nudo uscii dal seno di mia madre,e nudo vi ritornerò.Il Signore ha dato, il Signore ha tolto,sia benedetto il nome del Signore!».

[22]In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto.

Giobbe, allora, compie i gesti del lutto e della morte; egli entra in una dimensione di apparente non vita. Mentre, però, i primi verbi sono quelli del lutto, l’ultimo (“si prostrò”) è quello proprio dell’adorazione a Dio buono. In tutto ciò, Giobbe non attribuisce a Dio alcun ingiustizia, pur essendo colui che ha tolto.

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L'idea che nella prova si mette a nudo il cuore dell'uomo è legata anche al fatto che è Dio che mette alla prova. Questo non è da intendere che le prove sono volute da Dio; ciò che ci mette alla prova è la vita vissuta secondo la fede: allora è la fede che ci mette alla prova, e quindi Dio. Non perché Dio manda la prova, ma è il fatto che Dio esiste che ci mette alla prova: nel mio vivere vivo secondo Dio o secondo il mondo ? Cosa ho nel cuore ? Credere in Dio è una prova continua, prova di come vivo ! Se si ha a che fare con Dio ci si troverà prima o poi a prendere delle decisioni, a svelare dov'è il nostro tesoro, dov'è il nostro cuore. Così si mette in luce se il nostro amore è disinteressato oppure no !

Gb 2,1-6: secondo dialogo tra Dio e Satan

[1]Quando un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, anche satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. [2]Il Signore disse a satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra che ho percorsa». [3]Il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male. Egli è ancor saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui, senza ragione, per rovinarlo». [4]Satana rispose al Signore: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l'uomo è pronto a darlo per la sua vita. [5]Ma stendi un poco la mano e toccalo nell'osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia!». [6]Il Signore disse a satana: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita».

A questo punto, siamo nel momento in cui Giobbe ha appena superato il momento di dolore e si è prostrato davanti a Dio. Satan parla con Dio e questa volta è Dio stesso che utilizza l’avverbio hinnam (v. 3, trad. CEI “senza ragione”) riferendolo a se stesso, accusando Satan di aver messo alla prova Giobbe senza motivo. Questa ripetizione è significativa perché se il primo hinnam metteva in questione la gratuità di Giobbe (e quindi metteva in questione anche Dio) il secondo afferma che l'azione di Dio non cerca qualcosa in cambio: Dio sconfessa di essere un Dio che ha bisogno di avere qualcosa in cambio. Dio non ha bisogno che l'uomo soffra per poter essere proclamato come Dio. Sembra di vedere una risposta alla domanda sull'origine divina della sofferenza. Satan è stato sconfessato sia se voleva accusare Giobbe sia se voleva accusare Dio !

Satan ora lancia una nuova sfida: toccare Giobbe non in ciò che possiede, ma proprio nella sua stessa “pelle”. La posta in gioco si alza, e Dio concede la cosa a Satan, ponendo però un limite: non farlo morire. Nonostante questo limite il lettore non è consolato, ma anzi pone nuove domande: è vita questa ?

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Gb 2,7-10: la piaga di Giobbe e la tentazione della moglie

[7] Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. [8] Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. [9] Allora sua moglie disse: "Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!". [10] Ma egli le rispose: "Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?". In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

Giobbe viene toccato gravemente, sentendosi colpito a morte, ma non sa della condizione messa da Dio a Satan. Dunque egli vive come un colpo mortale. Troviamo un altro merismo, che sta ad indicare la totalità della persona di Giobbe colpita dalla piaga maligna (“dalla pianta dei piedi alla cima del capo”).

Entra in gioco anche la moglie di Giobbe, che riprendendo le parole di Dio, ma andando nella via di Satan, dice al marito di “benedire” Dio (Trad. CEI, è un eufemismo per dire “maledire”; Alonso infatti traduce con “maledici”) e poi morire, lasciando trasparire anche una sorta di ironia e sarcasmo: fare una benedizione (segno di vita) ... per poi morire ! O se anche si tiene il significato di benedizione la moglie mette comunque davanti a Giobbe che il suo benedire Dio è posto di fronte alla morte, che vanifica la vita, tutta la vita.

La moglie mostra una prospettiva totalmente chiusa: nella linea della religiosità interessata ed in accoglienza della tentazione del Satan. Questa è una tentazione che viene dall’esterno di Giobbe, ma in realtà è “dalla sua stessa carne”, dalla famiglia. Tuttavia, anche davanti a questa profonda e vicina tentazione, Giobbe risponde con parole di fede. In proposito Alonso richiama Agostino, che accostava la moglie di Giobbe ad Eva.

Bisogna ricordare che la “donna”, nella cultura biblica, è luogo della Sapienza; e proprio a lei Giobbe si rivolge dicendo: “Come una stolta hai parlato”. D'altra parte anche la Follia è donna per la Sapienza. Si aggiunga che poiché marito e moglie sono una carne sola nella prospettiva biblica, il parlare della moglie è la tentazione della propria carne, la tentazione che viene da se stesso. Ancora una volta si sottolinea la dimensione fortemente drammatica di questa ultima tentazione di Giobbe.

C’è poi un problema di traduzione per quanto riguarda la domanda che Giobbe fa alla moglie, che in realtà, in ebraico, non è una domanda, ma andrebbe tradotta: “anche il bene riceviamo da Dio, e il male non riceviamo”. Non è una domanda retorica, ma

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Giobbe dice due cose: il male non può venire da Dio, dunque la moglie è stolta perché da Dio viene solo il bene; in questo modo Giobbe va oltre rispetto al primo capitolo, dove diceva “… il Signore ha tolto…”. Questa affermazione di fede può dire sia la difficoltà di accettare il male, sia quindi anche la certezza che da Dio si riceve solo il bene, e così risponderebbe alla domanda sull'origine della sofferenza. Se metto lo sguardo su Dio posso affermare con Giobbe che il male non proviene da lui. È la risposta di un uomo che ha molto camminato nella fede, che ha un vero rapporto con Dio e che davanti alle difficoltà della vita egli sa porsi correttamente davanti a Dio. Al lettore rimane però un problema: molto bello, ma dunque se non viene da Dio, da chi viene…? Il problema rimane aperto; il male da parte di Dio Giobbe non lo accetta (pur potendo da Egli venire).

Questa polisemia che troviamo nella risposta di Giobbe ci vuole fare intravedere la lacerazione interiore di Giobbe che, pur rimanendo fedele a Dio, tuttavia è in difficoltà. In tutto questo Giobbe comunque non pecca. Gilbert nota che in questo dialogo con la moglie Giobbe capisce di essere rimasto profondamente solo; anche la moglie, carne della sua carne, ha preso le distanze da lui.

Questo fenomeno letterario usato dall’autore possiamo vederlo anche in Gn 22 (sacrificio di Isacco): il problema sorge in riferimento allo spostamento della legna da parte di Abramo, è una sequenza piuttosto inusuale, che abitualmente non verrebbe fatta così. Sorge lo stesso problema anche quando Abramo, rispondendo ad Isacco, gli dice “Dio provvederà all’agnello, figlio mio \ il mio figlio”… Qui si dice sia la consapevolezza di Abramo nel sacrificare il figlio, sia la sua difficoltà ad accettarlo: “scaricando” a Dio la responsabilità di quella situazione.

Gb 2,11-13: l’arrivo degli amici

[11]Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. [12]Alzarono gli occhi da lontano ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. [13]Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.

I tre amici, venuti per consolarlo, non lo riconoscono: Giobbe

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ormai è completamente sfigurato, irriconoscibile (cfr. Canto del Servo sofferente). Si rendono conto che egli è vicino alla morte, e così devono comprendersi i gesti che essi compiono, simili a quelli che Giobbe fece alla notizia della morte dei figli. Questi gesti funebri vengono fatti per sette giorni e sette notti, i giorni prescritti per il lutto (Cfr. Gn 50,10; 1Sam 31,13; Sir 22,11).

Essi entrano nella sofferenza di Giobbe con questa gestualità. Seduti accanto a lui siedono a terra e tacciono. Pur rappresentando la sapienza orientale essi tacciono; dimostrano che davanti al dolore e alla morte è sapiente tacere. Davanti al dolore è stolto cercare di consolare; davanti al dolore la sapienza tace. Nessuno parlò “perché vedevano che molto grande era il suo dolore”.

È proprio in questo silenzio che Giobbe parla, e lo fa per maledire la vita. In questo modo inizia il libro in poesia.

IL PRIMO MONOLOGO DI GIOBBE (GB 3)

Il monologo del cap. 3 di Giobbe si avvicina alla “confessione” di Ger 20,14-18 (notazione anche di Alonso) tutti e due dicono che non vorrebbero essere nati e maledicono il giorno della rispettiva nascita. Geremia sottolinea la differenza tra la promessa di vita felice che è l’annuncio della nascita la realtà di una vita che non è felice. Geremia maledice il messaggero, colui che porta l’annuncio di vita.

Come Giobbe esplicita questo suo dolore e desiderio di non essere ? E’ un testo poetico e ricco di immagini che descrivono una situazione di desolazione radicale.

vv. 1-3[1]Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo

giorno; [2]prese a dire:

[3]Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: E’ stato concepito un uomo.

Giobbe maledice e vuole cancellare tanto il giorno della nascita quanto la notte del concepimento. Al v. 3 Giobbe maledice “la notte che disse”, a volte si traduce la notte “in cui si disse” (trad. CEI). Quando c’è il concepimento del bambino, nessuno è testimone di quell’inizio della vita, nessuno tranne la notte, Giobbe la personifica e vede in quella notte il testimone ed il nunzio dell’inizio della nuova vita; ebbene, proprio lei perisca ! Con quest’artifizio letterario della maledizione della notte del concepimento, Giobbe intende negare completamente la vita.

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Giobbe appositamente parla della nascita e poi va all’indietro nel tempo al fine di arrivare al momento del concepimento per non cancellare solo la vita dalla nascita, ma qualunque forma della sua vita, dunque anche quella prima della nascita: non basta dire non voglio essere nato, arriva indietro a dire non voglio nemmeno essere concepito.

ALONSO - SCHOCKEL (p. 138):il capitolo ha due assi: l’asse di luce e oscurità, l’asse di vita e morte: uno cosmico, l’altro umano; entrambi trascendentali.

Un procedimento analogo, però al positivo, lo si ritrova in Ger 1,5, quando si dice “prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato, ti ho stabilito profeta delle nazioni”. Anche qui Geremia non si limita a dire “prima che io nascessi”, ma risale anche prima che Dio lo formasse nel grembo materno. L’idea che ha Geremia della vocazione è quella di un dono di identità: egli non esiste se non in quanto profeta e questa vocazione precede la sua stessa esistenza; non basta quindi rifarsi alla nascita, perché la chiamata di Dio precede in modo radicale il suo stesso esistere.

vv. 4 e 5[4] Quel giorno sia tenebra,non lo ricerchi Dio dall'alto, né brilli mai su di esso la luce. [5] Lo rivendichi tenebra e morte, gli si stenda sopra una nube e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno!

Giobbe vuole solo il buio e non vuole vedere la luce, che invece è la prima opera della creazione di Dio. Giobbe si pone in aperta contraddizione con tutto ciò che è vivere e quindi anche con l’inizio della vita – la luce – che è l’inizio immaginario della creazione. Decide di voler cancellare non solo se stesso, ma tutto il processo della creazione: se Dio ha detto “sia la luce”, qui è come se Giobbe dicesse “sia il buio” (notazione anche di Alonso). E vuole un buio totale, dove il giorno deve diventare notte e la notte deve anch’essa essere posseduta dal buio.

Giobbe vuole cancellare tutto, non vuole che niente sopravviva. Il giorno deve perire e deve perire la notte. Ecco la maledizione del giorno, che deve essere posseduto dalla tenebra.

Al v. 5a (“lo rivendichi tenebra e morte”) Giobbe utilizza due termini sinonimi: 1) tenebra, che serve per dire oscurità in modo generico; 2) “salmawet”, è un termine ricercato, poetico (si

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pronuncia “zalmaret”); mawet vuol dire morte; significa un buio che ha in sé il suono della morte, è un buio totale, particolare, assoluto, mortale a significare la totalità dell’oscurità.

Al v. 5c figura l’espressione “E lo atterriscano gli oscuramenti del giorno” (trad. CEI “e lo facciano spaventoso gli uragani del giorno”). C’è un riferimento mitologico ai demoni notturni ma molto più probabilmente il riferimento corre all’eclissi di sole. L’eclissi è un’esperienza traumatica, gli animali si spaventano; questa sensazione era forse la stessa di quella percepita dagli antichi che no sapevano spiegarsela scientificamente. La sensazione è quella del sole che viene divorato e che perciò si oscura. Le tenebre vincono la luce e se questo è per sempre, la vita è finita. Quando Giobbe dice “lo spaventino le eclissi”, l’idea è quella della lotta continua tra luce e buio. Se il buio vince di giorno, allora la luce perde definitivamente: questo è quello che si augura Giobbe.

vv. 6 – 10 [6] Quel giorno lo possieda il buio non si aggiunga ai giorni dell'anno, non entri nel conto dei mesi. [7] Ecco, quella notte sia lugubre e non entri giubilo in essa. [8] La maledicano quelli che imprecano al giorno, che sono pronti a evocare Leviatan. [9] Si oscurino le stelle del suo crepuscolo, speri la luce e non venga; non veda schiudersi le palpebre dell'aurora, [10] poiché non mi ha chiuso il varco del grembo

materno,e non ha nascosto l'affanno agli occhi miei!

Dopo aver sistemato il giorno, la luce ed il sole, Giobbe passa a sistemare la notte e vuole che anch’essa sia posseduta dal buio e diventi sterile.

Molte traduzioni al v. 6 dicono “ quel giorno lo possiede il buio ” (trad. CEI), cercando di correggere Giobbe perché la notte è già di per sé buio. Ma il testo ebraico parla non parla del giorno ma della notte e di una notte posseduta dal buio ed in ciò non c’è contraddizione.

Al v. 7 letteralmente si dice “quella notte sia sterile” (trad. CEI: “quella notte sia lugubre”): anzitutto è la notte che ha assistito al concepimento del bambino e dunque è una notte feconda e per questo Giobbe se ne augura la sterilità, ma in più c’è l’idea di una notte non più capace di generare il giorno, così che rimanga sempre buia. Se già la notte è buia, Giobbe si augura che il buio sia permanente.

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Al v. 9 dice “si oscurino le stelle del suo crepuscolo”: queste stelle possono essere sia le stelle della sera che quelle del mattino. Il crepuscolo è quando non è né luce né tenebra, sia alla sera che al mattino. Per Giobbe si devono oscurare sia le stelle della sera, una notte senza stelle e quindi senza nessun segno di luce. Ma la richiesta è anche nel senso di un oscuramento delle stelle del mattino. Quando sorge il sole le stelle naturalmente spariscono per lasciare il posto alla luce del giorno; quello che vuole Giobbe è che queste stelle spariscano anche quando la luce non verrà, senza cioè che venga la luce del giorno.

Perché tutto questo ? Perché questa notte che è stata testimone del suo concepimento non è intervenuta per chiudere il grembo della madre e quindi non ha nascosto l’affanno ai miei occhi (v. 10).

vv. 11-16[11]E perché non sono morto fin dal seno di mia madree non spirai appena uscito dal grembo?[12]Perché due ginocchia mi hanno accolto,e perché due mammelle, per allattarmi?[13]Sì, ora giacerei tranquillo,dormirei e avrei pace[14]con i re e i governanti della terra,che si sono costruiti mausolei,[15]o con i principi, che hanno oroe riempiono le case d'argento.[16]Oppure, come aborto nascosto, più non sarei,o come i bimbi che non hanno visto la luce.

Finora Giobbe ha chiesto la distruzione della vita ed adesso comincia il lamento con domande retoriche cui non è possibile dare risposta e con il sogno impossibile di essere morto. Perché sono nato e perché non sono morto “dal seno materno” ? Compare il desiderio dell’aborto. Ma il desiderio nostalgico della morte prosegue anche per dopo; è una domanda che non aspetta risposta. Prendere il bambino sulle ginocchia è un modo per esprimere tenerezza ed amore, per accogliere (non privo anche di implicazioni giuridiche, es. l’adozione). Il gesto dell’allattamento è fortemente simbolico perché è un modo per esprimere come la madre si lascia mangiare dal figlio. Ebbene Giobbe rifiuta anche questi gesti profondi e radicali di amore materno.

vv. 17-19[17]Laggiù i malvagi cessano d'agitarsi,laggiù riposano gli sfiniti di forze.

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[18]I prigionieri hanno pace insieme,non sentono più la voce dell'aguzzino.[19]Laggiù è il piccolo e il grande,e lo schiavo è libero dal suo padrone.

Se fosse morto pensa invece che potrebbe stare tranquillo lì, nel regno della morte dove non c’è affanno e dolore. Giobbe sta dicendo che nascere sarebbe un’ingiustizia, perché di fatto si nasce per soffrire e per morire. In Giobbe c’è il rifiuto di vivere perché in lui c’è il rifiuto di morire, che è inevitabile per chi vive: ed allora l’unica soluzione sembra essere quella di non esser mai nato. E’ il desiderio di rimuovere alla radice il dolore e l’angoscia. Laggiù i prigionieri non sentono più la voce dell’aguzzino (v. 18) e lo schiavo è finalmente libero dal suo padrone (v. 19).

Giobbe vede nel luogo della morte un luogo di sollievo e consolazione, anche se questo riposo non è il riposo benedicente del sabato, in cui l’uomo è chiamato a celebrare il Dio buono e creatore della vita. Giobbe vuole il riposo senza vita, anzi forse lo vuole senza Dio: quando si riferisce all’aguzzino ed al padrone, il lettore interrogato su chi sia costui. Anche senza nominarlo, forse qui Giobbe sta parlando di Dio La morte lo liberebbe anche da questo padrone insopportabile. Non è la liberazione esodica operata da Dio, ma la liberazione da Dio; a questo forse allude implicitamente Giobbe.

vv. 20-23[20]Perché dare la luce a un infelicee la vita a chi ha l'amarezza nel cuore,[21]a quelli che aspettano la morte e non viene,che la cercano più di un tesoro,[22]che godono alla vista di un tumulo,gioiscono se possono trovare una tomba...[23]a un uomo, la cui via è nascostae che Dio da ogni parte ha sbarrato?

In questi versi l’allusione trova conferma quando dice “perché dare la luce a un infelice … e che Dio da ogni parte ha sbarrato ? ”. Giobbe ricomincia con altri perché, che allargano tuttavia la prospettiva da lui all’uomo: perché nasce l’uomo ? Se prima la domanda era perché è successo a me ? Adesso la domanda diventa universale e filosofica: che senso ha la vita ?

v. 24[24]Così, al posto del cibo entra il mio gemito,e i miei ruggiti sgorgano come acqua,

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La domanda senza risposta è quale è il senso della vita. L'infelicità del vivere è tale che la felicità sembra quella di essere morti: ha senso questo ? Tutto ciò mette esplicitamente in gioco il responsabile, Dio. E' con Dio che bisogna confrontarsi quando si pongono queste domande. al v. 24 dice “così al posto del cibo entra il mio gemito”, questo gemito vuol dire anche ruggito: si sente come la bestia ferita e questa ferita è un grido di accusa nei confronti di Dio.

Quello di Giobbe non è un grido di maledizione nei confronti di Dio, ma di accusa, denuncia, dice a Dio “quella che tu fai non ha senso”. Per questo le immagini e le parole che Giobbe usa sono così forti. Mette Dio dinanzi ad una situazione radicalmente assurda, vuole provocare Dio e fare sì che egli si muova, vuole pro-vocarlo (al pari del salmista nel salmo 3). Per portare Dio al confronto Giobbe deve esasperare la sua sofferenza e la sua visione della realtà: deve maledire il giorno per mettere Dio davanti all'accusa che Dio non può eludere. Non maledice Dio ma fa in modo che Dio si muova davanti alla denuncia di ciò che è ingiusto e senza senso.

E' l'inizio della lotta tra Giobbe e Dio, che Giobbe è pronto a condurre fino in fondo. Il grido di Giobbe, che è un grido di accusa, si contrappone al canto di lode, che è il suo esatto contrario. Chi ascolta non può non intervenire, non può non rispondere, perché se no, nella prospettiva biblica, Dio diventa colpevole. Chi ascolta il grido, se non interviene, diventa colpevole al pari dell'aggressore. Il grido è perché qualcuno venga ed intervenga. Qui Giobbe grida, se Dio non interviene, vuol dire che è colpevole e diventa connivente con l'ingiustizia.

Mentre nel prologo è Giobbe che viene provato, sottoposto alla prova; adesso è Giobbe che mette Dio davanti alla prova; questa è la prospettiva di Giobbe adesso, a questo punto del racconto. E Dio risponderà, ma solo alla fine (al cap. 38); prima bisogna assistere alla lotta di Giobbe con Dio e con gli amici.

[25]perché ciò che temo mi accadee quel che mi spaventa mi raggiunge.[26]Non ho tranquillità, non ho requie,non ho riposo e viene il tormento!

PRIMO CICLO DI DIALOGHI (GB 4-14)

Cerchiamo ora di capire quale è la problematica del libro di Giobbe, in particolare iniziando dal primo ciclo di dialoghi con gli

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amici. In questi dialoghi emergono e si precisano due contrapposte linee di pensiero: quella di Giobbe e quella degli amici. Questi si fanno portavoce della teoria biblica tradizionale, profetica e sapienziale, in base alla quale traggono la conclusione che Giobbe sia colpevole. Essi intervengono nei confronti di Giobbe per convincerlo del suo peccato. Dall'altro lato abbiamo invece Giobbe che continua a proclamarsi innocente e che non accetta il punto di vista opposto. Secondo gli amici la sofferenza è conseguenza del proprio peccato. Giobbe rifiuta questa lettura e non riesce così a dare senso e giustificazione alla sua sofferenza

Cosa dicono questi amici ? Elifaz fa ricorso all'esperienza, e dunque all'uomo saggio che dall'esperienza trae insegnamenti; l'esperienza è che nessun innocente è mai perito, e perciò se Giobbe perisce allora non è innocente. Ma di cosa parla ? Da Abele in poi è tutta una lunga sequela di innocenti che periscono e di ingiusti che fioriscono. Elifaz tenta un discorso consolatorio basato sulle vecchie teorie. Cerca di consolare Giobbe inducendolo a riconoscere la propria colpa ed affidarsi a Dio. In ciò c'è l'ipocrisia di un uomo che accusa un altro senza ascoltare la sua confessione di innocenza. I discorsi consolatori di Elifaz sono quelli di chi, siccome non ha coraggio di mettere in questione ciò in cui crede, invece di vedere il problema della sofferenza di un innocente e di mettere in questione anche Dio, preferisce rifugiarsi in argomenti preconcetti.

Ma come potrebbe Giobbe affidarsi a Dio, proprio quando lo reputa ingiusto ? Ma a volerla dire tutta, Giobbe si sta affidando a Dio, ma non nel modo che indica Elifaz; Giobbe ha il coraggio di invocare Dio, di confrontarsi con lui, di accusarlo: dire questo a Dio vuol dire in profondità affidarsi a lui, perché sai che lui è buono e per questo puoi anche lottare con lui. Elifaz invece vorrebbe un affidarsi nella menzogna.

Elifaz parla anche del valore risanatore della sofferenza, questo è un tema tipicamente sapienziale; secondo Elifaz è una normale opera di correzione divina: il problema è che in Giobbe non c'è nulla da correggere. La teoria vecchia di Elifaz non è sbagliata in sé, ma è sbagliato applicarla a Giobbe.

Bildad aggiunge arroganza ad arroganza: anche ad ammettere che pure tu sia giusto, Dio è sempre comunque giusto e quindi Giobbe viene consigliato di abbandonare i propri figli alla morte e di rompere la solidarietà con loro. Qui risuona la crudeltà di una teoria che si vuole applicare a tutti i costi, anche quando non funziona e diventa quindi crudele.

Zofar dice che Dio solo è sapiente, Dio solo sa tutto, Dio solo è giusto, quindi la colpa è di Giobbe che deve pertanto

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convertirsi. Ancora una volta non ci si rende conto dell'innocenza di Giobbe.

Il loro modo di pensare non è molto dissimile da quello di Satan, entrare in una dimensione di religiosità interessata: convertiti che Dio ti premia. Questa è la linea in cui procedono gli amici. Quello che loro dicono non è falso in sé, è falso dirlo a Giobbe. Quello che dicono gli amici è però molto vero e serio: il loro errore è quello di riportarlo bell'è fatto a Giobbe.

La predicazione profetica e la corrente sapienziale affermano la teoria retributiva: chi fa il bene ha il bene e sta bene; chi fa il male ha il male e sta male. Sia la sapienza che i profeti cercavano in questo modo di spiegare la sofferenza dell'uomo come una conseguenza diretta del peccato commesso dall'uomo. La sofferenza ha sempre fatto problema, come la morte. La teoria tradizionale retributiva rispondeva alla sofferenza come conseguenza del peccato; dunque se tu soffri è a motivo del tuo peccato; se stai bene è a motivo della tua giustizia. Questo non è sbagliato, ma è troppo semplice.

L'idea che c'è sotto è che all'agire perverso ed ingiusto dell'uomo risponde e corrisponde una situazione di maledizione, mentre al contrario la benedizione è il frutto della bontà e della giustizia: questa è una costante della tradizione sapienziale. Questo è troppo semplice e non può essere automaticamente applicato alla realtà. Tuttavia siccome l'automatismo rende tutto più facile, la tentazione costante che fanno gli uomini - e gli amici di Giobbe - è di cercare questo automatismo come soluzione semplice ed immediata del problema del male. In questo modo peraltro non si tocca Dio, perché se ne afferma l'assoluta giustizia, non si tocca la propria credenza (o fede) - mettere in questione Dio significa mettere in questione ciò in cui credo, devo entrare in crisi; chi ne ha voglia ? Questa teoria retributiva diventa falsa ma non in sé, ma è falsa quando viene applicata semplicisticamente ed in modo automatico.

Alla base di questa teoria retributiva c'è la consapevolezza che nell'agire dell'uomo si rivela la forza intrinseca delle sue scelte morali: la consapevolezza del credente che il male che fai inevitabilmente ne produrrà altro a colui che lo riceve ma anche a colui che lo fa. Il male si autoproduce e cresce al di là della possibilità di controllarlo . Al contrario c'è l'idea che il bene che tu fai inevitabilmente ne produrrà ancora: questa è la logica del testo biblico [ad es. il peccato di Davide - rifiutare il figlio è anche una trasposizione simbolica del volerlo morto - il tutto comincia con un adulterio, poi c'è di mezzo il bambino, poi Uria, Ioab ed altri soldati innocenti (omicidio plurimo)]. Questa è la dinamica del

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male, che inevitabilmente finirà anche per colpire te. Il male fa male a chi lo fa. Il bene fa il bene di chi lo fa. Questa sta alla base della teoria retributiva vista in modo non semplicistico.

Alla base c'è anche la certezza di fede che pensa che l'uomo è inserito in un progetto divino di salvezza che prevede di recuperare il male che l'uomo fa. Se noi sappiamo di essere in un progetto di Dio di salvezza entriamo in una prospettiva per cui il male deve essere recuperato, vinto e trasformato in bene. C'è la certezza che Dio comunque salva e che trasformerà il male in bene: è qui che entra in gioco la sofferenza. Perché Dio possa trasformare il male in bene occorre che l'uomo capisca di averlo fatto, perché se ciò non avviene noi non possiamo entrare in questa dinamica. Il progetto divino di salvezza può diventare concreto solo se io accetto di essere salvato. Come faccio a rendermene conto ? Facendo esperienza che il male mi fa male, che il male mi distrugge, mi uccide. La sofferenza conseguenza del male mi fa prendere coscienza di questo ed accettare di essere salvato. La sofferenza entra in gioco nella teoria retributiva per dire che se stai male c'è lì qualche cosa che ti interroga e questo tuo soffrire può essere per te occasione di prendere coscienza della tua colpa e quindi di accettare di essere salvato.

LA GIUSTIZIA IN ISRAELE

La teoria retributiva in sé è una cosa seria e più complicata di quello che pensano gli amici di Giobbe. Essa dice due cose fondamentali: 1) che gli atti dell’uomo hanno delle conseguenze; 2) la certezza che viene dalla fede di essere all’interno di un piano salvifico voluto da Dio, dove anche il male può essere trasformato da Dio in bene. In questo senso la sofferenza può essere compresa come un’occasione per il peccatore deve confrontarsi con le conseguenze del proprio male. La teoria retributiva spiegherebbe così la sofferenza nel senso che lo stare male è il cammino di conversione, perché capisci che fare il male fa male e così smetti di farlo.

La teoria retributiva è alla base del discorso biblico sapienziale e profetico. Israele capisce che il problema del peccato è un problema di giustizia ed ingiustizia ed il modo in cui Dio lo risolve è descritto allo stesso modo in cui in Israele si risponde all’ingiustizia. Dio ristabilisce la giustizia nello stesso modo in cui essa viene ristabilita in Israele. Cosa succede in Israele quando viene commesso un reato ? La Scrittura parla di due possibili percorsi per rispondere al male.

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Il ricorso al giudice

Il primo consiste nel ricorso della parte lesa al giudice, con cui accusa il malfattore; dopo l’istruttoria il giudice decide e pronuncia comunque una condanna, o dell’eventuale colpevole ovvero chi lo ha falsamente accusato. La falsa accusa era punita in Israele con la stessa pena che sarebbe stata inflitta nel caso in cui l’accusa fosse stata vera. In questi casi il giudice non può perdonare, può tenere conto delle attenuanti, ma se afferma la colpevolezza dell’imputato non può assolutamente perdonare. Questo ci invita a stare molto attenti nell’uso della metafora del giudice con Dio: se si dice che Dio è giudice, infatti, si dice al tempo stesso che non può perdonare. La metafora del giudice con Dio non funziona nella dialettica della storia, ma solo con riferimento al giudizio escatologico.

La condanna del giudice deve inoltre prevedere in Israele una proporzione della pena al male commesso (principio accolto anche dagli ordinamenti moderni). La proporzione è richiesta anche in funzione educativa da parte della legge, per distinguere meglio i valori tra loro. La severità o meno di una pena è una dimensione importante perché fa passare un messaggio. La proporzione tra il reato e la pena è la famosa legge del taglione (“vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”), cui Dt 19,21 aggiunge “il tuo occhio non avrà pietà”. La legge del taglione altro non è che l’affermazione del principio di proporzione: reato grande pena grande; reato piccolo pena piccola. Non veniva applicata alla lettera ! Solo voleva affermare la necessaria proporzionalità tra reato e pena, esattamente come accade oggi negli ordinamenti contemporanei. Anzi, la legge del taglione vuole esattamente evitare la vendetta, che di per sé richiede una ritorsione più grande del male ricevuto: questa è proprio la dinamica del male. La legge del taglione serve invece proprio ad evitare il giro perverso della vendetta ed a fare giustizia, attraverso la proporzione.

Con la legge, tuttavia, si mette il recinto intorno al male, ma non si risolve effettivamente il problema del male, perché comunque sono obbligato ad usare dei mezzi che se pure sono necessari, non sono tuttavia in sé giusti. Togliere la libertà ad un uomo non è in sé giusto, può diventare necessario e giusto se questo è l’unico mezzo per evitare alla persona di fare altro male. Ad es. la pena di morte di solito è prevista quando il reato commesso è gravissimo. Essa è però il massimo della contraddizione perché per dire che la vita non va toccata e che non bisogna uccidere, lo facciamo uccidendo ! Si uccide per proibire di

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uccidere ! La Scrittura è ben consapevole di sapere che questo modo di esercitare la giustizia con il giudice ed il tribunale non funziona. Lo presenta come una specie di ammissione di sconfitta. Lì dove non si riesce davvero a fare giustizia allora non si può fare altro che ricorrere a questo modo che è, non proprio ingiusto, ma imperfetto. Bisogna tendere alla giustizia perfetta, ma dove essa non riesce, allora bisogna accontentarsi di questa giustizia imperfetta.

Il rib (lite o contesa)

L’altra strada è quella della contesa o rib (lite), in cui la parte lesa va direttamente dal colpevole e non dal giudice: è una cosa che si risolve in due (un giudizio bilaterale), tutto si svolge tra di loro. La parte accusa il colpevole. Anche qui c’è un’accusa, solo che a differenza di quella fatta al giudice che inevitabilmente provoca una condanna, l’accusa del rib è fatta apposta per evitare la condanna, essendo fatta con la volontà di convincere il colpevole che: fare il male fa male; nel fare il male il colpevole si auto-distrugge; fare il male non ha senso. Lo scopo è appunto convincere il colpevole affinché: desista dal fare il male e torni ad essere in comunione con la parte lesa; smetta di essere colpevole perché smetta di fare il male.

In questo modo non si mettono in opera azioni ingiuste o inadeguate per rispondere al male e si risponde al male con il bene e solo così facendo davvero allora si ristabilisce la giustizia. La condanna del giudice infatti può anche avere un effetto redentivo nei confronti del colpevole, può succedere, ma nel rib il colpevole smette di essere colpevole e diventa uno che il bene, diventa giusto. In questo modo si raggiunge la vera giustizia: LA VERA GIUSTIZIA NON È PUNIRE IL COLPEVOLE, MA CHE NON CI SIANO PIÙ COLPEVOLI. Il rib ha proprio questo fine: rendere giusto il colpevole.

Ma ciò richiede che la parte lesa desideri davvero il bene dell’altro e dunque abbia in cuor suo perdonato l’altro. Se ciò non è stato, l’accusa conterrà sempre una rivendicazione e ciò che mi muove non è desiderio di bene, ma quanto meno di sfogarmi. Il rib deve invece trovare il modo e le parole giuste perché l’altro si converta. Chi fa il rib vuole solo ed esclusivamente che l’altro smetta di fare il male; ciò implica il perdono e la dimenticanza di sé in favore dell’esclusivo bene dell’altro. Da parte del colpevole è necessario prendere consapevolezza del male commesso ed accettare il perdono offerto, lasciarsi perdonare.

Anche Gesù invita ad andare parlare con il fratello che sbaglia

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nella correzione fraterna (Mt 18: innanzitutto invita al rib e solo dopo, in un secondo momento dice di “andare dagli anziani”, che è il giudizio). Questo non è il perdonare di “lasciar perdere”, che non è giustizia, perché non sto cercando il bene dell’altro in quanto lascio che lui continui ad essere colpevole. Per avere pietà del lupo io non ho pietà della pecora (proverbio del nord): anche questa non è vera giustizia. Nel rib, invece, a tutti sono riconosciuti i propri diritti: alla parte lesa, che viene riconosciuta in quanto tale, ed al colpevole, cui si dà la possibilità di divenire giusto.

La parte lesa può convincere il colpevole con vari mezzi: gli può parlare direttamente, raccontargli una parabola (come Natan a Davide, che con il racconto preliminare fa sì che in Davide emerga il suo senso di giustizia, sena provocare subito in lui un atteggiamento difensivo). Possono essere anche usati i cc.dd. rib gestuali, azioni che colpiscano il colpevole facendogli provare che il male fa male. Sono gesti che assomigliano a delle punizioni ma che non sono tali. La punizione è il modo di reagire al male aggiungendo male al male (come la mamma che dà uno schiaffo ad un bambino che si è già ferito da solo con un coltello; è stato già punito per il male che ha fatto). Nel rib gestuale invece il male serve a far sentire al colpevole il male che lui non sta già sentendo.

È il caso di Elia che annuncia la siccità (“né rugiada né pioggia”), perché il popolo invocava Baal (che era inteso come un dio della pioggia). Questa condotta di Elia non è una punizione, ma un rib: vuole che il popolo si renda conto che Baal non è Dio e che l’unico Dio che dà la vita è il Signore. Come glielo fa capire Elia ? Ad Israele che invoca Baal per avere la pioggia Elia blocca la pioggia, affinché Israele comprenda che cercare la pioggia da Baal è male. Finché Israele non subisce le conseguenze della sua scelta, Israele non si convertirà; Elia lo mette di fronte alla siccità per convincerlo che stava cercando la pioggia nel modo sbagliato. Gli deve mancare la pioggia per capire che Baal non è Dio e che solo il Signore manda la pioggia. L’interesse di Elia non è di punire il popolo, ma che il popolo si converta. E quando questo accade immediatamente viene la pioggia. La siccità è un rib gestuale con cui il profeta aiuta il popolo a capire la verità sperimentandola sulla propria pelle.

Osea che dice alla sposa infedele “ed io ti blocco le strade”, e quando la sposa continua nella sua follia “l’attirerò nel deserto e ti farò mia sposa”: conseguenza paradossale, il perdono come dono; per rendere la sposa capace di accogliere il perdono come dono bisogna privarla di tutto. Questo è vero di tutto il profetismo: così Geremia che annuncia l’esilio come mezzo di conversione.

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Lo scopo del rib è in definitiva che il colpevole diventi giusto accettando il perdono (per ulteriori riferimenti cfr. Costacurta, Lo scettro e la spada, EDB, nella parte dedicata alla parabola di Natan).

Dio, parte lesa del rib

Cosa ne risulta se noi applichiamo tutto questo a Dio ? E’ l’operazione che fa la Scrittura, dicendo che finché operiamo nella storia, finché l’uomo è vivo, davanti all’uomo peccatore Dio è la parte lesa e non giudice (questo solo nella fase escatologica, quando l’uomo non si può più convertire perché morto; anche se la Costacurta pensa che il rib funzioni anche nella morte, come ultimo rib); è la parte lesa del rib che, avendo perdonato il peccatore, vuole che si converta e che prenda coscienza del proprio male, che diventi giusto. Per fare questo Dio fa di tutto: manda i profeti, interviene nella storia dell’uomo, quando sembra che nessun profeta più possa funzionare, Dio stesso si fa uomo per portare il perdono (“Dio ha parlato tante volte …”).

In questo confrontarsi dell’uomo con il proprio peccato ecco che viene fuori la tematica della sofferenza, vista come dimensione che aiuta il peccatore a capire il proprio peccato ed a lasciarsi perdonare. In questa visione anche il dolore è una possibilità di cammino per l’uomo per prendere coscienza del proprio male. La sofferenza come esperienza dell’amarezza del proprio peccato non in funzione punitiva, ma perché il peccatore si lasci liberare. Ger 2,19: “la tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Riconosci e vedi quanto è cosa cattiva e amara l'avere abbandonato il Signore tuo Dio e il non avere più timore di me”. Il peccato ha già in sé la sua punizione che permette di riconoscere quanto sia amaro e faccia male abbandonare il Signore. Se il popolo riconosce questo, il popolo ha ritrovato il Signore e la comunione è ristabilita; il rib ha raggiunto il suo scopo. Chi fa il male sta male perché il male stesso già ti punisce. La confessione serve non perché uno così si guadagna il perdono. È il contrario: Dio ha già perdonato il peccatore ed è proprio perché è stato già perdonato che adesso può confessare la colpa e così permettere al perdono di essere perdono, ovvero operante in lui. Il perdono non funziona se il peccatore non riconosce la propria colpa.

Il rib di Giobbe e Dio

Il riferimento degli amici di Giobbe alla teoria retributiva è

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troppo semplicistica: la cosa è molto più complessa perché Giobbe non ha fatto il male. La sua sofferenza, quindi, non può essere spiegata come un rib gestuale che Dio gli fa. Giobbe è innocente e agli amici che gli leggono la sua sofferenza come un rib da parte di Dio egli risponde con un rib nei confronti di Dio stesso; ed anche se quanto gli è accaduto non fosse un rib di Dio, Giobbe comunque fa un rib a Dio pretendendo una spiegazione. Proprio perché la sofferenza di Giobbe non può essere spiegata come un rib da parte di Dio, Giobbe fa un rib a Dio. L’innocenza di Giobbe lo induce ad un contro-rib verso Dio.

Anche Giobbe quindi resta prigioniero della mentalità retributiva e cade anche lui nella stessa trappola degli amici. Resta nello schema retributivo. Alla fine del libro si vedrà che non è così, che non bisogna necessariamente cercare il colpevole ma adesso è ancora prigioniero dello schema per cui se c’è dolore bisogna necessariamente cercare una colpa. Questa è in realtà una trappola, sia quella degli amici che di Giobbe. In realtà Dio non ha mai accusato Giobbe, solo che questo è il modo in cui gli uomini leggono il dolore: gli amici, Giobbe ed anche noi tendenzialmente: se c’è una sofferenza bisogna andare in cerca del colpevole, se non io o qualcun altro, allora Dio. E’ una dinamica accusatoria difficile a spezzare e che nel libro di Giobbe si spezzerà solo alla fine. LA SOFFERENZA È ACCUSATORIA: va in cerca del colpevole.

Tuttavia che l’accusa di Giobbe a Dio è importante perché, entrando nella dinamica del rib, Giobbe non lo accusa semplicemente dicendogli “sei colpevole e basta”, ma “sei colpevole e voglio che tu smetta di esserlo, perché credo che tu sia buono e voglio che tu torni a mostrarti tale”. Lo accusa dopo averlo perdonato. La sua accusa a Dio può anche prendere delle forme che ci possono sembrare perfino blasfeme (in Gb 7,13 ss. Giobbe cita il Salmo 8, ma solo che lo cita per bestemmiarlo, per stravolgerlo: dice lasciami, vattene, non ti prendere cura di me: è la perversione di una preghiera). Ma Giobbe fa questo perché vuole che Dio torni ad essere Dio; è sicuro che Dio è buono e giusto e vuole che Dio torni ad essere così. In realtà il suo parlare è il parlare dell’uomo di fede che non vuole accettare che Dio sia cattivo, la visione di un Dio ingiusto che è quella che gli presentano gli amici e che sembra testimoniata dalla sua sofferenza, anche lo stravolgere i salmi è all’interno di un rib che ha il fine di manifestare il Dio in cui Giobbe crede ed a cui non vuole rinunciare. Questo è il Giobbe gigante nella fede a cui Dio alla fine del libro dirà “tu Giobbe hai parlato bene”. Cerca il confronto con Dio fidandosi del Dio della vita, anche a rischio di morire ma proprio perché ha la certezza che Dio è il Dio della vita. Giobbe

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vuole che Dio si converta ed in questo modo entra anche lui dentro il rib e la teoria retributiva, solo che non è quella semplice degli amici, ma quella messa in crisi e problematizzata che supera gli schemi semplificati per aprirsi alla complessità del problema del dolore.

Se la sofferenza viene vista nella linea del rib è sempre qualcosa che sì serve, ma che deve anche finire. Serve alla felicità. Il libro di Giobbe pone il problema a questo livello. Giobbe non si accontenta di trovare una spiegazione semplice al dolore e così chiede la stessa cosa al lettore. Ci chiede di condividere la ribellione la ricerca e la lotta di Giobbe, di non avere paura di mettere in crisi le nostre certezze se questa sono messe in discussione dalla realtà; di non rispondere con risposte vecchie ad una domanda nuova. Giobbe ha il coraggio di porre una domanda nuova: perché l’innocente soffre ? Perché l’esperienza della sofferenza è sproporzionata rispetto alla colpa ? Alle domande nuove bisogna trovare risposte nuove. Il libro di Giobbe ci dice anche “non abbiate paura delle parole, di porvi delle domande, non abbiate paura di perdere la fede”: la fede è un dono ed è custodita da Dio, solo fate come Giobbe, dite pure che Dio è cattivo se questo serve per trovare una risposta, ma fate come Giobbe, mentre lo dite continuate a credere che Dio è buono.

IL CAPITOLO 10

Al discorso di Bildad Giobbe risponde nei capitoli 9 e 10. Nei vv. 1-12 Giobbe mette davanti a Dio l’insensatezza del suo agire, proprio secondo la tecnica del rib. Egli sta chiaramente facendo un contro-rib a Dio in risposta al presunto rib di Dio nei suoi confronti. Per questo dice “fammi sapere perché mi sei avversario” (v. 2).

Nel cap. 9 Giobbe aveva detto che è impossibile fare il rib a Dio perché tanto ha sempre ragione lui; è inutile parlare con lui, non è un uomo come me, come fai a dirgli di presentarti alla pari in un giudizio ! In sostanza dice di non poter parlare perché lui lo terrorizza e poi subito dopo, al cap. 10, gli fa un rib. Sembra che ci sia una contraddizione con quanto affermato nel cap. 9, tanto che Alonso per spiegare questo apparente contrasto vede nel discorso del cap. 10 un sogno impossibile di Giobbe: è il discorso che Giobbe desidererebbe fare a Dio e che in mancanza lo fa agli amici ed al lettore. L’ipotesi è suggestiva, ma secondo la Costacurta qui siamo ancora una volta davanti alla fenomenologia del dolore e della sofferenza, che spinge l’uomo a comportamenti contraddittori. Quando una vive la crisi della fede non si è più

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conseguenti: ed allora ecco l’incongruenza.

Gb 10,1-12

[1]Stanco io sono della mia vita!Darò libero sfogo al mio lamento,parlerò nell'amarezza del mio cuore.[2]Dirò a Dio: Non condannarmi!Fammi sapere perché mi sei avversario.

Il v. 1, è un lamento: “io sono nauseato della mia vita” (trad. CEI “stanco io sono della mia vita”). È un dolore che dà nausea. L’oggetto della nausea è la vita. Eppure Giobbe è pronto a giocarsela questa vita; la nausea della sua vita dipende dal fatto che Giobbe non capisce più Dio: è una nausea che deriva dalla crisi della fede; è l’anima che nausea. Dio sembra fare cose inaccettabili e questo rende inaccettabile la vita. Giobbe parla dell’amarezza, come modo di esprimere dolore e delusione. L’amarezza è dell’anima (trad. CEI “cuore”).

Questa è la testimonianza di una fede diversa da quella che aveva ipotizzato Satan, che invece aveva pensato ad una fede interessata. Invece Giobbe qui sta dicendo che capire Dio è più importante per lui della propria vita; Giobbe cerca la verità nell’interesse di Dio, egli vuole che Dio possa tornare a manifestarsi come Dio buono, tutto il contrario di quello che pensava Satan.

[3]E' forse bene per te opprimermi,disprezzare l'opera delle tue manie favorire i progetti dei malvagi?

Al v. 3 il rib, come molto spesso accade, prende la forma della domanda: “che cosa hai fatto ?”; “ti sembra bene fare così ?”. Sono domande retoriche, che non aspettano risposta. Così è ad es. in Gn 3 quando Dio domanda ai progenitori “che cosa hai fatto ?”; anche questo è un rib, è un modo per aiutare l’uomo a farsi questa domanda, ad accorgersi che ciò che ha fatto è sbagliato. L’uomo di fatto non accetta la domanda accusa di Dio, il rib di Dio, ed invece di accettare, si scusa accusando la donna. Così è ancora nel grido di lamento “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?” (Sal 22): questo grido è l’accusa del rib. Quando Davide da innocente accusa il colpevole (Saul) interrogandolo con il pezzo di stoffa in mano, prova della sua innocenza: anche questo è un modo per mostrare l’insensatezza di quello che sta facendo Saul.

Sono tutte domande retoriche. Giobbe adesso accusa Dio di

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disprezzare l’opera stessa delle sue mani, come un artista pazzo che distrugge le sue opere d’arte. È un modo per riportare Dio alla ragionevolezza. “E’ bene per te” non vuol dire solo ti sembra bene, ma anche “è utile per te, ti serve a qualcosa fare questo ?”. Qui ritorna il motivo dell’hinnam, usato prima da Satan e poi da Dio. Ora è Giobbe che rinfaccia a Dio questo argomento, senza utilizzare espressamente il termine hinnam, ma con una frase ambigua con cui l’autore vuole di certo comunque evocare il problema della gratuità di cui si è parlato nel prologo.

[4]Hai tu forse occhi di carneo anche tu vedi come l'uomo?

Ai vv. 4 ss. Giobbe prosegue con altre domande, mettendo in gioco gli occhi e gli anni. Nel primo caso (v. 4) l’accusa di Giobbe verte sugli occhi: quelli di Dio sono diversi da quelli dell’uomo. Nell’antropologia biblica gli occhi sono la sede del giudizio, perché vedono e quindi giudicano. Essi rappresentano anche il modo di pensare ed interpretare la realtà. D’altro canto c’è anche una seconda dimensione: quella di avvertire che gli occhi spesso ingannano, perché possono vedere solo l’esteriorità, non possono andare al di là delle apparenze. La tradizione biblica dice che gli occhi dell’uomo non possono vedere Dio ed in ciò non solo afferma l’assoluta trascendenza di Dio, quanto anche il carattere necessariamente limitato della visione.

Tutti dobbiamo sempre andare al di là delle apparenze. Sono gli occhi dei profeti, che non vedono il futuro, ma vedono le cose al di là delle apparenze, più in profondo e meglio degli altri; non è tanto che il profeta vede il domani, ma che vede meglio l’oggi (e quindi anche meglio il domani). Poiché sanno vedere l’invisibile, interpretano nella storia dell’oggi il senso profondo, la storia della salvezza; ma per questo occorre che il profeta si lasci cambiare gli occhi. Sono poi gli occhi che anche il sapiente ha se accetta il dono della sapienza offerto da Dio.

Giobbe dice a Dio che lui ha gli occhi diversi (“solo Dio sa scrutare e vedere i cuori”) e dunque la sua accusa è: sebbene hai occhi diversi, ti comporti come se avessi gli occhi degli uomini, che sono ingannevoli.

[5]Sono forse i tuoi giorni come i giorni di un uomo,i tuoi anni come i giorni di un mortale,

La seconda accusa (v. 5) concerne i giorni: Dio ha un tempo diverso. Nell’eternità la prospettiva delle cose cambia. Da una prospettiva di eternità si può essere pazienti e longanimi, quando

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appunto non si è pressati dal tempo che scorre e che costringe in una prospettiva parziale, confinata in un piccolo pezzetto di tempo. Il tempo dell’uomo è segnato dalla morte, quello di Dio è vita eterna: Giobbe accusa Dio, che è eterno, di comportarsi come se si fosse chiuso nella piccolezza di un sentire umano, piccolo e chiuso è ingiusto.

[6]perché tu debba scrutare la mia colpae frugare il mio peccato,[7]pur sapendo ch'io non sono colpevolee che nessuno mi può liberare dalla tua mano?

Ai vv. 6 e 7 Giobbe dice che Dio cerca colpe che non ci sono, peraltro con la vigliaccheria del potente, a cui nessuno può togliere la vittima dalle mani. È l’ingiustizia della menzogna, perché Dio accusa colpe che non ci sono, e l’ingiustizia dell’abuso di potere, del più forte a cui nessuno può togliere la vita dalle mani.

[8]Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fattointegro in ogni parte; vorresti ora distruggermi?[9]Ricordati che come argilla mi hai plasmatoe in polvere mi farai tornare.[10]Non m'hai colato forse come lattee fatto accagliare come cacio?[11]Di pelle e di carne mi hai rivestito,d'ossa e di nervi mi hai intessuto.[12]Vita e benevolenza tu mi hai concessoe la tua premura ha custodito il mio spirito.

Ai vv. 7 e 8 c’è un gioco molto bello sulle mani, la cui ripetizione serve ad evidenziare il non senso dell’operare di Dio. “Vorresti ora inghiottirmi ?” (trad. CEI “distruggermi”). Ritorna il verbo inghiottire, che è significativo perché Giobbe lotta per una vita che sembra non avere più senso e si rivolge al Dio della vita dicendogli che è come il mostro che inghiotte la preda; nelle prospettiva biblica chi inghiotte la preda sono le bestie feroci, ma è anche lo Sheol, come mostro della morte che inghiotte i defunti.

Ai vv. 8 e 9 Giobbe riprende l’immagine della creazione di Gn 2, che Giobbe vede come un artigiano impazzito. Il “ricordati” del v. 9 è proprio della prospettiva del rib. Ricordarsi che l’uomo è mortale e che dunque non ha alcun senso infierire su di lui. Nella prospettiva di Gn 2 la dimensione di mortalità dell’uomo è di un essere mortale sereno, inserito all’interno di un ciclo: provenire dalla terra ed alla terra fare ritorno. Giobbe invece sperimenta un morire insensato e violento di un Dio sadico che uccide ed inghiotte

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la sua creatura. Al v. 12 Giobbe dice che Dio gli ha donato il “vita e grazia”

(quest’ultima è detta con il termine hesed; trad. CEI “benevolenza”). Nella prospettiva di Gn 2 l’uomo è piccolo, però grandissimo per l’alito di vita di Dio e per il mandato di Gn 1,28 di soggiogare la terra (in Gn 2, dare il nome agli animali, custodire il giardino). La realtà dell’uomo è complessa e paradossale al tempo stesso. Egli deve essere animale senza quindi mai illudersi di essere Dio, però al tempo stesso immagine di Dio; è polvere, quindi un nulla che ritorna al nulla, però al tempo stesso signore del giardino, ricordandosi comunque sempre di essere polvere (e quindi il vero Signore è un altro). L’uomo nel giardino rappresenta Dio. L’uomo deve continuamente vivere in questa tensione: questa è la sua realtà.

Giobbe questo dice a Dio: ricordati che sono polvere e quindi che senso ha distruggere la polvere ? Però gli dice anche, su questa povere tu hai soffiato il tuo spirito, hai riposto la tua hesed. Cosa fai dunque ? Distruggi l’opera in cui c’è il tuo spirito ? Questo è contraddittorio, dice Giobbe, mettendo Dio dinanzi alla propria verità, affinché Dio si converta. Se l’uomo è immagine di Dio, qui Giobbe sembra dire a Dio che così facendo sembra solo essere una brutta immagine dell’uomo ! Questo capovolgimento è l’accusa del rib di Giobbe a Dio.

Gb 10,13-17

Qual è la realtà ? Che Giobbe sia giusto o colpevole comunque si sente perduto. Pur nella limitatezza del proprio essere umano, egli sa di essere un uomo giusto, innocente; il presunto rib di Dio sa che non corrisponde alla sua realtà; Giobbe afferma la propria innocenza dinanzi a questo rib e ne denuncia la sproporzione.

[13]Eppure, questo nascondevi nel cuore,so che questo avevi nel pensiero![14]Tu mi sorvegli, se pecco,e non mi lasci impunito per la mia colpa.

La sua “colpa” (v. 14) al più non sarebbe il peccato, ma una limitazione creaturale.

[15]Se sono colpevole, guai a me !Se giusto, non oso sollevare la testa,sazio d'ignominia, come sono, ed ebbro di miseria.

Al v. 15 Giobbe esclama: “se sono colpevole guai a me !”. non

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è l’unico passo in cui Giobbe ipotizza un peccato da parte sua (es. Gb 7,20: “se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell'uomo ?”, con lo stravolgimento di Dio che da custode diventa carceriere; Gb 7,21 “perché non cancelli il mio peccato e non dimentichi la mia iniquità ? Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò !”). In questi casi c’è anche l’idea di confessare quello che non c’è, purché finisca la tortura. È l’esasperazione che lo conduce ad ammettere colpe che non ci sono. Giobbe sembra davvero non poterne più ed ammette quello che gli altri si aspettano da lui.

Il discorso che fa Giobbe è che in ogni caso è condannato, se è colpevole perché è tale ed anche perché mente; se dice che è innocente sembra che stia alzando la testa, pretendendo di essere santo davanti a Dio; con Dio non si può discutere ! E però con Dio lui discute ! C’è un ritorno della contraddizione del cap. 9 (Gb 9,22: “per questo io dico: «E' la stessa cosa»: egli fa perire l'innocente e il reo !”)

[16]Se la sollevo, tu come un leopardo mi dai la cacciae torni a compiere prodigi contro di me,[17]su di me rinnovi i tuoi attacchi,contro di me aumenti la tua irae truppe sempre fresche mi assalgono.

Alle immagini del cacciatore e del guerriero si aggiunge forse una terza immagine. La frase sul leone (trad. CEI “leopardo”) al v. 16 in ebraico può essere interpretata in due modi: 1) il leone può essere Dio che dà la caccia a Giobbe; 2) Dio è il cacciatore che caccia Giobbe in quanto leone. Leone può essere applicato a “tu” o a “mi”. Le due immagini si sovrappongono. L’ironia abbonda, perché Giobbe è seduto pieno di piaghe in mezzo alla cenere, circondato dagli amici e dalla moglie; uno così può apparire come un leone ? Dio gli dà la caccia come se fosse un leone ? E’ possibile questa associazione per Giobbe ? Però al tempo stesso Giobbe dice a Dio “sei tu un leone” !

La frase deve essere tenuta così, con tutta la sua ambiguità: il leone non sono io, ma sei tu ! L’immagine del Dio cacciatore che dà la caccia al leone si sovrappone a quella del Dio leone che dà la caccia a Giobbe ed a quella del Dio guerriero che manda le sue truppe. La tecnica del cacciatore di nascondersi, aspettare la preda e colpire all’improvviso è la stessa del leone. Il cacciatore fa le cose della belva e quindi è anche un po’ belva. L’immagine della caccia è molto simile a quella della guerra, perché anche lì c’è l’agguato, la preda, il desiderio di uccidere.

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Fare la guerra è un po’ come andare a caccia e viceversa. Giobbe applica tutte queste immagini a Dio per indicare in Dio una dimensione di massima ferocia e di assoluta sproporzione.

Gb 10,18-22[18]Perché tu mi hai tratto dal seno materno?Fossi morto e nessun occhio m'avesse mai visto![19]Sarei come se non fossi mai esistito;dal ventre sarei stato portato alla tomba![20]E non son poca cosa i giorni della mia vita?Lasciami, sì ch'io possa respirare un poco[21]prima che me ne vada, senza ritornare,verso la terra delle tenebre e dell'ombra di morte,[22]terra di caligine e di disordine,dove la luce è come le tenebre.

Ricominciano i perché, e riprende la domanda di Gb 3 “perché sono nato ?”, insieme al tema del grembo materno. La follia di Dio è condensata nella domanda “perché fare nascere qualcuno ?”. In Ger 20 c’è l’immagine della madre che diventa la tomba di colui che muore nel grembo.

Qui Giobbe nomina i due estremi della vita, il grembo materno e la tomba; e lo dice per cancellare quello che c’è in mezzo. Tomba e grembo si uniscono, per sopprimere quello che c’è in mezzo. Tuttavia è solo quello che c’è in mezzo che dà senso ai due estremi. Il grembo materno è promessa di vita e la tomba diventa un altro grembo, quello della terra. Si viene da un grembo che ti apre alla vita e poi quando essa termina ritorni ad un altro grembo che richiama quello di tua madre e che forse al pari di quello materno è promessa di un’altra vita oltre la morte. Il grembo materno dà senso alla tomba, ma questo è possibile solo perché in mezzo c’è la vita. Giobbe invece toglie senso alla vita e con esso ai suoi due estremi.

Il Dio con cui Giobbe lotta è il Dio in cui lui crede e che crede buono. È sempre lo stesso Dio che lui cerca, ma solo che vuole che Egli si mostri come Lui è davvero. Questo è importante perché la costante tentazione dell’uomo è quello di mettersi alla ricerca di un altro Dio e mettere così in campo due dei, uno cattivo e l’altro buono; uno della vita ed uno della morte; uno che dà la pioggia ed uno che fa o non fa qualcos’altro. Giobbe invece crede in un Dio solo, ha una chiara prospettiva monotesistica. Giobbe sa che Dio è diverso da quello che gli presentano gli amici, ma che si tratta sempre dello stesso Dio. Giobbe non va in cerca di un altro Dio

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ma va in cerca di un Dio Altro, diverso, al di là, trascendente, Altro dall’uomo ma che non è un altro dio. Giobbe è deciso ad entrare nel mistero ! Ma ci vorrà ancora del tempo prima che questo avvenga.

IL CAPITOLO 28: L’INNO ALLA SAPIENZA

Difficoltà testuali

Il suo tema è la Sapienza. È un testo molto difficile dal punto di vista della comprensione dell’ebraico. Ci sono versetti “disperanti” davanti ai quali bisogna arrendersi e riconoscere di non capire cosa ci sia scritto. Sono comunque pochi versetti ed in ogni caso nel contesto di pericopi comprensibili.

Se non ci sono sufficienti conoscenze linguistiche e culturali del tempo in cui è stato scritto il documento da tradurre, molti significati inevitabilmente si perdono, vieppiù a distanza di duemila anni. Occorre avere umile coscienza del fatto che la Parola di Dio ci è donata e che quello che serve capire si capisce e se ci sono delle cose che non si capiscono bisogna avere la tranquilla umiltà di riconoscere ciò che non si capisce. Bisogna sapere che sono solo tentativi ed è ragionevole ed onesto dire “qui non sappiamo”. E dunque, il fatto di non capire qualcosa non è di per sé un problema grave !

Con l’ebraico biblico non abbiamo altra letteratura contemporanea: abbiamo solo quello; al più si può cercare qualche altra lingua semitica. Ma non c’è una letteratura con cui fare una comparazione. Per il NT questo problema non c’è.

I problemi testuali ci mettono peraltro davanti alla realtà che la Parola di Dio è un dono, di cui in quanto tale non ce ne possiamo appropriare. Siamo davanti al mistero; nella Parola di Dio è Dio che si rivela e pertanto non può essere sempre compresa. Il che non deve assolutamente indurre ad un disimpegno. L’oscurità del testo è l’occasione di fare esperienza del dono della Parola.

Ia parte: vv. 1-11

In questa parte si parla del lavoro delle miniere. Benché non sappiamo come in esse si lavorasse, però sappiamo che le miniere c’erano e che il mondo antico conosceva la ricchezza del sottosuolo e si industriava per tirarle fuori. L’idea sottostante sembra essere quella per cui la madre terra faceva crescere nel suo grembo le cose preziose e l’uomo nel tirarle fuori permetteva loro di nascere. L’estrazione dei minerali era un fare nascere le cose preziose

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della terra. È come la crescita del bambino nel grembo della madre.

Bisogna comunque sapere riconoscere le cose preziose, saperle estrarre, lavorare. Insomma, bisogna essere saggi. Il lavoro nelle miniere è pericoloso, perché significa avvicinarsi al buio. Esso costringe l’uomo a superare i propri limiti: questo è il problema. La prospettiva dell’uomo è di stare sopra la terra, perché questa è quella che ti dà da mangiare, che ti dà il pane e fa vivere. In quella di sotto c’è il fuoco, lo sconvolgimento ed in cui l’uomo entrando porta sconvolgimento (sconvolge le montagne). Se l’uomo va sotto terra, egli supera il suo limite e va oltre il progetto dell’esistere umano ed oltre le sue capacità. Al v. 3, si dice appunto che pone un termine alle tenebre, perché se l’uomo arriva sotto terra vi porta la luce; ma trasformare le tenebre in luce è opera di Dio.

Con il lavoro delle miniere l’uomo non solo dimostra di essere saggio, ma mette in gioco una dimensione tipica dell’uomo, che è quella della auto-trascendenza, andare al di là della propria chiusa e limitata capacità dell’uomo, possibile in quanto creato ad immagine di Dio. Tutti gli animali non possono fare quello che l’uomo può fare, questo è in linea con il dominare (Gn 1) e dare il nome agli animali (Gn 2). L’uomo dunque tende al divino perché è immagine del divino, ma comunque resta limitato, il suo auto-trascendersi deve restare nei limiti della sua realtà di uomo.

Il testo vuole dire che bisogna stare attenti, andare sotto terra può sconvolgere la terra, può risultare eccessivo, come se comportasse qualcosa di problematico. L’auto-trascendimento dell’uomo e la sua tensione al divino inevitabilmente lo mettono di fronte ai suoi limiti. A quest’uomo chiediamo dov’è la sapienza e lui deve ammettere di non saperlo. Questo è il limite invalicabile dell’uomo: l’uomo può anche trovare l’oro e l’argento, ma non può trovare la sapienza con le sue forze; non può conoscere tutto. Il dominio dell’uomo sulla natura è frutto di sapienza ma non può produrre la sapienza, come se lui ne fosse l’origine, dunque conoscendone il luogo dell’origine. Se tu ne conosci il luogo ne sei il padrone; l’uomo non può esserlo.

[1]Certo, per l'argento vi sono minieree per l'oro luoghi dove esso si raffina.[2]Il ferro si cava dal suoloe la pietra fusa libera il rame.[3]L'uomo pone un termine alle tenebree fruga fino all'estremo limitele rocce nel buio più fondo.

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L’uomo al v. 3 non compare nel testo ebraico, ma è sottinteso.

[4]Forano pozzi lungi dall'abitatocoloro che perdono l'uso dei piedi:pendono sospesi lontano dalla gente e vacillano.

Il v. 4 è uno di quelli “disperanti”: c’è una descrizione del lavoro delle miniere, secondo la scelta operata dalla trad. CEI. Altri pensano che sia un problema mitologico. La Costacurta dice di accontentarsi di quello che si capisce e quello che si capisce è un discorso sulle miniera.

[5]Una terra, da cui si trae pane,di sotto è sconvolta come dal fuoco.[6]Le sue pietre contengono zaffirie oro la sua polvere.[7]L'uccello rapace ne ignora il sentiero,non lo scorge neppure l'occhio dell'aquila,[8]non battuto da bestie feroci,né mai attraversato dal leopardo.

Al v. 8 le bestie feroci sembrano essere i rettili.

[9]Contro la selce l'uomo porta la mano,sconvolge le montagne:[10]nelle rocce scava galleriee su quanto è prezioso posa l'occhio:[11]scandaglia il fondo dei fiumie quel che vi è nascosto porta alla luce.

Anche il v. 11 è un po’ strano, scandaglia il fondo o la sorgente ? Il TM dice “fin dal pianto dei fiumi”: questa è una bella immagine poetica.

Qui finisce la prima parte recante la descrizione del lavoro nelle miniere.

Ritornello di domanda e risposta: vv. 11-14

[12]Ma la sapienza da dove si trae?E il luogo dell'intelligenza dov'è?[13]L'uomo non ne conosce la via,essa non si trova sulla terra dei viventi.

Il TM non usa il termine di via (usato nella LXX, nel senso di dire che l’uomo non conosce la provenienza della sapienza, da dove essa viene), ma dice che l’uomo non ne conosce il suo “prezzo”. Questo riferimento si comprende perché nella seconda parte del

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capitolo si parla del commercio e si dice che le cose preziose trovate nelle miniere non sono mai preziose come la sapienza.

[14]L'abisso dice: «Non è in me!»e il mare dice: «Neppure presso di me!».

IIa parte: vv. 15-19

Questa sezione mette in gioco un ulteriore limite. Essa è tutta formulata al negativo (non … non … non …), per dire che niente può servire per acquistare la sapienza. Il fatto che non si può acquistare vuol dire che la sapienza non si può possedere. E’ un dono che deve continuamente essere ricevuto come dono, senza potersene mai appropriare. Le cose che si prendono nelle miniere non servono, benché preziose.

Anche il commercio che è un’attività sapiente (e che richiede tante conoscenze) è qualcosa che l’uomo non può finalizzare all’acquisto della sapienza. Essa resta sempre un dono di Dio.

[15]Non si scambia con l'oro più scelto,né per comprarla si pesa l'argento.[16]Non si acquista con l'oro di Ofir,con il prezioso berillo o con lo zaffiro.[17]Non la pareggia l'oro e il cristallo,né si permuta con vasi di oro puro.[18]Coralli e perle non meritano menzione,vale più scoprire la sapienza che le gemme.[19]Non la eguaglia il topazio d'Etiopia;con l'oro puro non si può scambiare a peso.

Ritornello di domanda e risposta: vv. 20-22

Anche qui viene di nuovo data una risposta negativa al problema da dove venga la sapienza.

[20]Ma da dove viene la sapienza?E il luogo dell'intelligenza dov'è?[21]E' nascosta agli occhi di ogni viventeed è ignota agli uccelli del cielo.[22]L'abisso e la morte dicono:«Con gli orecchi ne udimmo la fama».

Al v. 22 il termine “abisso” è in ebraico un termine diverso da quello tradotto al v. 14. Più correttamente sarebbe la “devastazione”. Al v. 14 l’abisso ed il mare dicevano “la sapienza non è qui”. Adesso al v. 22 la devastazione e la morte dicono di averne sentito parlare. Il sentire parlare non è conoscenza

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approfondita, ma nemmeno ignoranza assoluta (Sal 18,45; Ger 37,5;50,43; Dt 2,25; 1Re 10,1). Il sentire parlare comporta una qualche conoscenza della cosa al punto da provocare una reazione. Se finora si era detto di non saperne nulla, adesso dentro la morte si trova una qualche conoscenza della sapienza e perciò entrare nella morte vuol dire accedere ad una qualche conoscenza della sapienza.

Perché entrare nel mistero doloroso della morte vuol dire fare esperienza della propria verità di uomo. Questo uomo immagine di Dio, portato ad auto-trascendersi, che secondo Gn 3 vuole sostituirsi a Dio, al momento della morte deve scoprire, morendo, che non è come Dio. Finalmente, nella morte, l’uomo scopre inequivocabilmente di non poter essere Dio. Nella morte l’uomo perde ogni illusione di onnipotenza e così, finalmente, si apre alla verità ed al proprio bisogno di Dio; ed in questo, nella morte, l’uomo diventa sapiente.

Una sintesi eccellente di tutto ciò la si può leggere anche in Ez 28,6-9, l’oracolo contro il re di Tiro:

[6]Perciò così dice il Signore Dio:Poiché hai uguagliato la tua mente a quella di Dio,[7]ecco, io manderò contro di tei più feroci popoli stranieri;snuderanno le spade contro la tua bella saggezza,profaneranno il tuo splendore.[8]Ti precipiteranno nella fossa e moriraidella morte degli uccisi in mezzo ai mari.[9]Ripeterai ancora: «Io sono un dio»,di fronte ai tuo uccisori?Ma sei un uomo e non un dioin balìa di chi ti uccide.

Nella morte nessuno può più illudersi; c’è questa definitiva rinuncia a se stessi, ad auto-realizzarsi, confessando di essere impotente ed aspettando da Dio la salvezza. Questa è la sapienza, questo è temere Dio. Per questo la morte è un luogo in cui si può entrare in contatto con la sapienza. La morte non la possiede, l’uomo non la possiede al momento della morte, ma può aprirsi ad essa. La morte è un luogo di sapienza, perché mette l’uomo nella verità.

IIIa parte: vv. 23-28

In questa parte si dice quello che si prepara prima: la

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sapienza è solo di Dio. E’ una descrizione di Dio che crea, come già in Pv 8; anche qui Dio quando crea lo fa con sapienza, in modo armonico, senza sconvolgere la creazione. Nella prima parte invece il lavoro dell’uomo è visto come un qualcosa di disarmonico.

[23]Dio solo ne conosce la via,lui solo sa dove si trovi,[24]perché volge lo sguardofino alle estremità della terra,vede quanto è sotto la volta del cielo.[25]Quando diede al vento un pesoe ordinò alle acque entro una misura,[26]quando impose una legge alla pioggiae una via al lampo dei tuoni;[27]allora la vide e la misurò,la comprese e la scrutò appieno

La sapienza è lì, quando Dio crea, come in Pv 8.

[28]e disse all'uomo:«Ecco, temere Dio, questo è sapienzae schivare il male, questo è intelligenza».

La domanda dei due ritornelli riceve risposta nell’ultimo versetto ed è Dio a darla: questa è la via della Sapienza: temere Dio e stare lontano dal male, “questo è intelligenza”. È come se il Dio creatore portasse a compimento la sua creazione donando all’uomo il percorso e la via per giungere alla sapienza. La prospettiva finale è assolutamente positiva. L’uomo non sa, l’uomo non può, ma se accoglie il dono Dio riceve la sapienza.

Stiamo entrando quindi nella prospettiva finale. L’inno alla sapienza mostra la strada: è sapiente chi teme Dio e sta lontano dal male. La lunga lotta di Giobbe adesso ha trovato nel v. 28 un punto fermo. In Gb 1,1 veniva però detto che Giobbe temeva Dio e stava lontano dal male; quindi Giobbe la via della sapienza la conosceva sin dal primo versetto del libro. Tutto il cap. 28 è un interrogarsi della Sapienza: la risposta del v. 28 ci rinvia quindi all’inizio del libro. Giobbe già era un uomo giusto che temeva Dio e stava lontano dal male.

Sembra un cortocircuito: se Giobbe già lo sapeva, cosa c’è di diverso dall’inizio del libro ? Apparentemente niente, eppure molte cose sono cambiate: adesso Giobbe sta davanti alla morte, sta fronteggiando il morire; ha fatto un progressivo e doloroso avvicinamento al dover morire; ed insieme a Giobbe lo ha fatto il lettore. Quando il lettore legge il v. 28 capisce che questa sapienza

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è diversa da quella di Gb 1,1. Adesso la sapienza è stata accolta e sperimentata perché l’uomo è entrato nel mistero di quella morte che dice, al v. 22, “ne abbiamo udito la fama”. La sapienza del v. 28 è la Sapienza che ha saputo entrare nel mistero della morte e quindi piena di verità. Era questo che a Giobbe ed al lettore mancava all’inizio del libro. Adesso ci siamo; i discorsi sono finiti, ed infatti finiscono i dialoghi con gli amici. Le parole sono finite, siamo arrivati al punto finale: siamo davanti al mistero del morire, che Dio deve riempire con il suo proprio mistero.

E’ interessante osservare come sulle labbra di Giobbe cambia l’idea della morte: in Gb 3 c’è una morte desiderata, l’essere già morti per non morire e dunque un rifiuto della morte; nonché una visione nostalgica della morte, come portatrice di pace e di serenità, che è diversa da quella di Gb 10, dove è tutto tenebra. In Gb 14 la morte assume una dimensione ancora diversa:

[13]Oh, se tu volessi nascondermi nella tomba,occultarmi, finché sarà passata la tua ira,fissarmi un termine e poi ricordarti di me![14]Se l'uomo che muore potesse rivivere,aspetterei tutti i giorni della mia miliziafinché arrivi per me l'ora del cambio![15]Mi chiameresti e io risponderei,l'opera delle tue mani tu brameresti.

Se fosse possibile morire e poi tornare, Giobbe sarebbe disposto a morire finché a Dio non torni il desiderio di sé. È tanto il desiderio di incontrare Dio e di essere in comunione con Lui che egli sarebbe anche disposto a passare un’infinità di anni nella morte. La morte diventa un luogo dell’attesa, della speranza.

In Gb 28, infine, c’è una visione anche positiva della morte, come luogo della propria verità di avere bisogno di Dio e dell’amore di Dio.

IL CAPITOLO 31: IL GIURAMENTO DI INNOCENZA

Il discorso di Giobbe termina al cap. 31 con il solenne giuramento di innocenza. È un giuramento imprecatorio, con una formula più impegnativa che prevede una disgrazia nel caso in cui il giuramento non venga mantenuto. Il giuramento di Giobbe non è rivolto al futuro, ma al passato, giura sulla sua innocenza. La posizione di Giobbe diventa sempre più chiara e precisa. Afferma di non avere altro da dire se non di impegnare tutto se stesso nella proclamazione di innocenza, alla fine della quale Giobbe mette la

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sua firma (v. 35), con un atto irrevocabile, facendo quindi un gesto molto significativo:

[35]Oh, avessi uno che mi ascoltasse!Ecco qui la mia firma! L'Onnipotente mi risponda!Il documento scritto dal mio avversario[36]vorrei certo portarlo sulle mie spallee cingerlo come mio diadema![37]Il numero dei miei passi gli manifestereie mi presenterei a lui come sovrano

Con la sua firma Giobbe accetta di morire, che Dio conti pure i suoi passi, Dio può fare quello che vuole; anzi adesso è Giobbe che conta i suoi passi per venire verso di Lui: è Giobbe a contare i propri passi. Secondo la prospettiva degli amici di Giobbe il documento di Dio è la stessa sofferenza di Giobbe. Adesso Giobbe dice che del suo documento si fa un diadema, trasforma l’accusa di Dio nella propria gloria e adesso, contando i propri passi, Giobbe va verso Dio. In un certo senso Giobbe adesso esce di scena con questa accusa teatrale. È la forza della disperazione, di chi non ha nulla da perdere, di chi è disposto a tutto anche a morire pur di entrare nel mistero di Dio; bisogna morire ? Entrare nella verità del mistero di Dio è più importante, vale la pena di giocarsi la vita.

I vv. 35-37 spesso vengono portati dopo, alla fine del capitolo. Perché questo ? Non si sa.

I CAPITOLI 32-37: L’INTERVENTO DI ELIU

Prima che Dio risponda c’è l’intermezzo di Eliu, il quale prende la parola in un momento assolutamente cruciale. Se con Alonso intendiamo il libro di Giobbe come una rappresentazione teatrale, a questo punto, dopo l’uscita trionfale di Giobbe che va verso il mistero, interviene, nella sorpresa generale, un giovinetto con un discorso lungo ed arrogante che nell’entusiasmo giovanile pensa di dire cose grandiose ma che in definitiva non fa altro che ripetere le cose già dette. A cosa serve questo intervento di Eliu ? A mettere il lettore/spettatore in un’attesa spasmodica. Quando tutti aspettano la risposta/reazione di Dio e solo a quella volgono attenzione, arriva invece questo intermezzo che se attenua la drammaticità fa tuttavia crescere l’attesa. Eliu è un elemento che prolunga l’attesa ed introduce il momento definitivo del dialogo tra Dio e Giobbe.

I CAPITOLI 38-42: I DIALOGHI CON DIO

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Invece di rispondere, però, Dio fa una mitragliata di domande; a colui che aspetta risposte Dio risponde interrogando. E sono domande a cui Giobbe non può assolutamente rispondere. Quando Dio compare nel turbine Giobbe pensa che Dio gli spiegherà ed invece lo fulmina di domande. Apparentemente non è un gran modo di rispondere, ma solo apparentemente. Attraverso queste domande Dio fa fare a Giobbe un cammino di auto-coscienza attraverso la contemplazione della creazione. Mentre chiede mostra a Giobbe il mondo creato. La creazione è proprio ciò che Giobbe aveva negato al cap. 3, quando disse “sia tutto tenebra”. Adesso Dio mostra a Giobbe proprio la creazione ed aiutarlo così a prendere coscienza di sé.

[1]Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine: [2]Chi è costui che oscura il consigliocon parole insipienti?[3]Cingiti i fianchi come un prode,io t'interrogherò e tu mi istruirai.

La frase è ironica: è Giobbe che aspetta le risposte ! Ma c’è di più dell’ironia: in realtà dicendo questo Dio in qualche modo presenta il suo progetto, di condurre Giobbe alla verità attraverso la scoperta della creazione affinché Giobbe possa arrivare a scoprire se stesso e la verità di Dio. Perché Giobbe arrivi a questo, Dio non gli dà risposte logiche o discorsi esplicativi, lo interroga perché attraverso il confronto con questi interrogativi egli possa confrontarsi con se stesso e con Dio. Attraverso questo Giobbe fa un cammino esperienziale di sé e di Dio attraverso la relazione esperienziale con il creato. Dio non vuole prendere in giro Giobbe, ma vuole che davanti a queste domande Giobbe possa trovare le risposte, da sé ed in sé Giobbe stesso possa rispondere alle proprie domande, possa egli stesso esperienzialmente, dentro di sé e non dall’esterno le risposte che cercava.

Nella prima risposta nei capitoli 38 e 39 Dio mostra a Giobbe la bellezza del creato. Gliela mostra sotto forma di domande, ma gliela mostra. Dio prima presenta la terra, poi il mare, l’aurora, gli abissi, gli inferi, i fenomeni naturali, gli animali, etc. Dio presenta tutte queste cose come se fosse un mondo fatato, le presenta come belle e pertanto non spaventano. Ciò che Dio presenta a Giobbe è il mondo di Gn 1, quello che Dio contemplava come buono. Dio gli presenta questo mondo come bello e buono, in modo tale da far capire a Giobbe che anche chi

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lo ha fatto è bello e buono.

[4]Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra?Dillo, se hai tanta intelligenza![5]Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,o chi ha teso su di essa la misura?

Dio mette subito Giobbe davanti al fatto di non aver fatto lui la terra su cui egli sta. Sin dalla prima domanda Giobbe è invitato a riflettere come davanti a tutte queste domande possa solo rispondere “no”. Le domande lo incalzano non perché Giobbe si spaventi, ma perché indietreggi dentro di sé, perché possa prendere coscienza del fatto di non sapere. Giobbe sa di cosa Dio sta parlando, sono cose quotidiane, che Giobbe ben conosce, eppure dinanzi ad esse Giobbe realizza di non sapere. Giobbe deve riconoscere l’assoluta oscurità del segreto del mondo, non avendolo fatto, in realtà Giobbe non lo conosce !

[8]Chi ha chiuso tra due porte il mare,quando erompeva uscendo dal seno materno,[9]quando lo circondavo di nubi per vestee per fasce di caligine folta?

Giobbe il mare lo conosce, ma come fa a rispondere a queste domande ?

[22]Sei mai giunto ai serbatoi della neve,hai mai visto i serbatoi della grandine,[23]che io riserbo per il tempo della sciagura,per il giorno della guerra e della battaglia?[24]Per quali vie si espande la luce,si diffonde il vento d'oriente sulla terra?[28]Ha forse un padre la pioggia?O chi mette al mondo le gocce della rugiada?[29]Dal seno di chi è uscito il ghiaccioe la brina del cielo chi l'ha generata?

Qui Dio parla dei fenomeni naturali. L’idea di fondo è quella della cosmologia con i serbatoi di acqua, grandine, etc.

[31]Puoi tu annodare i legami delle Plèiadio sciogliere i vincoli di Orione?[32]Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattinoo puoi guidare l'Orsa insieme con i suoi figli?[33]Conosci tu le leggi del cieloo ne applichi le norme sulla terra?

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Subito dopo i fenomeni naturali segue il riferimento alle stelle, che sembrerebbe fuori posto; ed invece secondo l’idea degli antichi è dalle stelle che scende la pioggia. L’idea di allora era che le stelle fossero annodate tra loro, per spiegarne il movimento comune.

La descrizione è quella di un mondo bello e buono, che Dio affida all’uomo come sua casa, ma del quale l’uomo deve riconoscere di non sapere. Ecco la domanda cruciale: se io uomo non conosco le leggi che lo governano, come posso pretendere di conoscere il senso della vita dell’uomo dove entra tutto il mistero insondabile della libertà dell’uomo ? E’ a questo che Dio vuole portare Giobbe con le sue domande. Che Giobbe capisca di essere solo una creatura, di non essere lui il padrone, di accettare senza drammi la propria piccolezza, accettando di essere stato fatto da un altro in un mondo, bello e buono, fatto da un altro, bello e buono. Giobbe si confronta con la realtà e così si confronta con se stesso e si riconcilia con la propria dimensione creaturale.

Alla fine del percorso, in Gb 40, Dio può dire a Giobbe:

[2]Il censore vorrà ancora contendere con l'Onnipotente?L'accusatore di Dio risponda!”. [3]Giobbe rivolto al Signore disse:[4]Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere?Mi metto la mano sulla bocca.[5]Ho parlato una volta, ma non replicherò.ho parlato due volte, ma non continuerò.

Giobbe ha capito di non poter capire, di aver fatto domande che toccano il mistero, di avere preteso di avere risposte che Giobbe non può avere. Alla domanda di Dio “mi continui a fare il rib” ? Giobbe entra nel silenzio. Non è il silenzio di chi si dichiara sconfitto, ma quello pacato, sereno di chi riconosce di avere sbagliato a fare il rib, cercando risposte che non gli appartenevano. Giobbe è arrivato a capire. Pretendeva risposte e capisce l’assurdità della sua pretesa: accetta il mistero, anche se il dolore non resta spiegato da Dio; egli tuttavia capisce che il mistero della sofferenza può essere accettato e che quindi la sofferenza può cessare di essere accusatoria.

[6]Allora il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine e disse:[7]Cingiti i fianchi come un prode:

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io t'interrogherò e tu mi istruirai.[8]Oseresti proprio cancellare il mio giudizioe farmi torto per avere tu ragione?[9]Hai tu un braccio come quello di Dioe puoi tuonare con voce pari alla sua?[10]Ornati pure di maestà e di sublimità,rivestiti di splendore e di gloria;[11]diffondi i furori della tua collera,mira ogni superbo e abbattilo,[12]mira ogni superbo e umilialo,schiaccia i malvagi ovunque si trovino;[13]nascondili nella polvere tutti insieme,rinchiudili nella polvere tutti insieme,[14]anch'io ti loderò,perché hai trionfato con la destra.

Qui sembrerebbe finito tutto; ed invece Dio prosegue con un secondo discorso. Dio invita Giobbe a fare lui il dio. Vuoi schiacciare il male ed i superbi ? Fallo tu ! Pensi che io non sappia essere Dio ? Fallo tu ! Tu fai il dio ed Io come uomo ti loderò. Giobbe deve ancora capire che l’uomo vuole essere come Dio e non vuole accettare che Dio sia diverso da come l’uomo lo desidera: questo è l’eterno problema dell’uomo. Quando Giobbe accusava Dio in sostanza lo rimproverava di non saper fare il suo mestiere. Questa provocazione di Dio va al nocciolo del problema, a ciò che mancava ancora a Giobbe: capire che Dio è Dio e che è diverso dall’uomo e da come l’uomo desidera che sia.

Dinanzi a questa provocazione Giobbe finalmente capisce di non essere Dio: quando Dio propone questo scambio delle parti, anche la creazione cambia, Dio presenta a Giobbe una natura diversa, problematica, che spaventa, adeguata alla sfida che Dio sta muovendo a Giobbe. È la natura dei grandi mostri (io coccodrillo, l’ippopotamo e quello mitico, il Leviatan). Una natura che spaventa l’uomo ma con la quale invece Dio gioca.

Quello che viene messo in gioco è il nostro sogno di Dio: che risolve i problemi umani, come quello che Dio propone a Giobbe di essere; un Dio che in un attimo risolve il problema del male. Se nel primo discorso Dio ha messo in questione il problema dell’onniscienza, Dio adesso passa al problema dell’onnipotenza. Le nostre categorie di potenza non sono quelle di Dio; sono quelle volte a risolvere i problemi dell’uomo ed innanzitutto il dramma del male. Il Dio onnipotente per noi è quello che evita il male. Ma Dio è invece un altro e la sua potenza è un’altra: è quella di chi amando l’uomo lo vuole portare alla felicità della salvezza, senza bloccare la libertà; è la potenza che vince il dolore dando un senso

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al dolore, alla vita ed alla morte; e tutto questo non intervenendo con la forza ma mitemente provocando la conversione del cuore; non è il Dio della magia o della bacchetta magica.

Dio non percorre i cammini della magia, ma quelli impensabili per l’uomo di una potenza che si fa amore, mitezza, entrando nell’apparente impotenza di chi per salvare si dona fino al punto di morire. Questa è la potenza di Dio e la potenza (ed il Dio) con cui adesso Giobbe si deve misurare e che Giobbe deve accettare. È un Dio che pone definitivamente il problema: oseresti tu cancellare il mio giudizio e dire che io sono colpevole e tu innocente ? Gli amici dinanzi alla sofferenza accusavano Giobbe, il quale rispondeva alle accuse accusando a sua volta Dio. Dio adesso conclude dicendo che non è necessario accusare qualcuno per dimostrare di essere innocente e soprattutto che la sofferenza non è un’accusa. In questo modo Giobbe, non per via di discorsi, ma attraverso l’esperienza personale, può finalmente capire.

Gb 42[1]Allora Giobbe rispose al Signore e disse: [2]Comprendo che puoi tuttoe che nessuna cosa è impossibile per te.[3]Chi è colui che, senza aver scienza,può oscurare il tuo consiglio?Ho esposto dunque senza discernimentocose troppo superiori a me, che io non comprendo.

Nella seconda risposta Giobbe dice che quello che ha detto era al di sopra delle sue possibilità, un andare oltre, quella pretesa di essere Dio o di sapere quanto meno come Dio dovrebbe essere. Giobbe adesso riprende l’incipit di Dio, per mettersi definitivamente nelle sue mani. A questo punto Giobbe può dire la sua frase finale:

[4]«Ascoltami e io parlerò,io t'interrogherò e tu istruiscimi».[5]Io ti conoscevo per sentito dire,ma ora i miei occhi ti vedono.[6]Perciò mi ricredoe ne provo pentimento sopra polvere e cenere.

Il v. 6 può essere interpretato in termini di pentimento, come dispiacere di essere andato per strade che hanno complicato il cammino di Giobbe. Quella del pentimento è una possibilità di traduzione del v. 6, che effettivamente è difficile da tradurre. In questa traduzione tradizionale l’idea che Giobbe esprime è quella

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della prima risposta: prima ho parlato senza discernimento ed ora mi pento di quello che ho fatto; è la comprensione di un atteggiamento che Giobbe ora conosce come non adeguato alla realtà di Dio ed alla sua realtà di uomo.

Secondo altri potrebbe essere interpretata in un modo del tutto diverso. Una traduzione proposta da altri è “io detesto polvere e cenere ma ne sono consolato”. È una traduzione possibile perché la frase consente la doppia lettura, sia per il verbo usato sia per la disposizione delle parole. Questa possibilità va oltre e, invece di mostrare un Giobbe che si ripiega umilmente su di sé dicendo “mi ricredo”, troviamo un Giobbe che, proprio perché vede Dio, riesce a vivere in pienezza la contraddizione del vivere umano.

La polvere e la cenere diventano in questo contesto non un segno di penitenza (come nel contesto precedente), ma di morte. Le gestualità della morte, infatti, sono le stesse gestualità della penitenza. Questo perché davanti al morto io faccio dei gesti come se il morto fossi anch’io (il morto è sulla polvere ed anch’io mi cospargo; il morto è avvolto in un sacco ed anch’io mi ci vesto). Applico su di me i gesti della morte cosicché Dio mi possa liberare dal peccato. Polvere e cenere conservano dunque questa ambivalenza simbolica.

Secondo l’altra traduzione Giobbe rifiuta la morte, la sofferenza, il cammino mortale nel quale ha proceduto e che ancora vive (Giobbe infatti è ancora malato, sofferente e davanti alla morte). Giobbe rifiuta perché non riesce a vedere nella morte e nella sofferenza una dimensione positiva. Tuttavia aggiunge “ne sono consolato”. Il rifiuto della morte è un rifiuto che Giobbe vive aprendosi al mistero. Pur non accettando la propria situazione di dolore, paradossalmente in essa può trovare consolazione, accettarne l’incomprensibilità proprio perché adesso egli vede Dio. Anche questa realtà che pure è negativa può essere trasformata in una realtà positiva, capendo e sperimentando che quel dolore può diventare un cammino positivo che conduce all’incontro con Dio. È un capovolgimento totale che annuncia la pasqua. Il vedere Dio da parte di Giobbe gli permette di rileggere la sua storia in modo completamente diverso.

Secondo la Costacurta tutte e due le traduzioni sono possibili e non si escludono a vicenda; quindi possono essere tenute insieme. Questo Giobbe che vede Dio può dire sia “io vedo e mi pento” e dire anche “se pure appare ingiusto soffrire, tuttavia la sofferenza può diventare un luogo di incontro con Dio e di consolazione, se si accetta il mistero”. La morte diventa adesso, alla fine, un luogo di consolazione: l’incontro con Dio cambia radicalmente la realtà e permette a Giobbe di aprirsi al mistero ed

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accettare anche quella che sembra una contraddizione. Giobbe può quindi alla fine riconciliarsi con Dio e con se stesso e fare esperienza che anche il dolore e la sofferenza possono essere vissute in modo diverso. Il modo in cui l’uomo vive la sofferenza è accusatorio (accusa di Dio verso l’uomo o accusa dell’uomo verso Dio). Giobbe adesso capisce che la sofferenza non è accusatoria, ma è un mistero che può essere accettato in quanto tale. Giobbe fa esperienza del Dio buono che ama l’opera che fa e che si lascia incontrare ponendosi affianco dell’uomo per aiutarlo a capire che non si può capire tutto, a capire che non si può capire il mistero; ma a capire anche che questo mistero è donato e può essere accettato.

Dio non ha dato risposte in senso stretto, in quanto non ha dato spiegazioni; non ha cambiato le cose. Si è però fatto vicino, fatto prossimo all’uomo ed in questo modo ha dato un nuovo senso a tutta la realtà; è per questo che Giobbe può affidarsi a Dio, nella cui vicinanza trova la risposta che cercava. Dio per Lui non è più qualcuno conosciuto solo per sentito dire; è qualcuno che Giobbe può vedere con i propri occhi e quindi qualcuno di cui Giobbe si può fidare. Questo Dio che si è fatto vicino ha permesso a Giobbe di capire che la realtà ha un senso. Vedere Dio vuol dire potersi fidare di Lui.

GB 42,7-17: L’EPILOGO

In questo modo il libro di Giobbe potrebbe considerarsi finito. L’autore del libro però aggiunge l’epilogo in prosa. Questa aggiunta sembra a prima vista fuori luogo, un po’ eccessiva rispetto alla parte in poesia. Si potrebbe pensare che l’autore del libro aveva per le mani questa storia (facente parte appunto di una leggenda pre-esistente) e che, trovandosela tra le mani già bella e fatta, l’ha inserita alla fine del libro. Si può invece pensare che se l’autore del libro l’ha inserita non l’ha fatto così, tanto per non sprecarla, ma perché aveva in mente qualcosa.

Secondo molti questo epilogo è solo la parte finale del prologo, che l’autore ha appiccicato alla fine del libro, ma che in realtà non c’entra niente con quello che precede e sembra anzi contraddire la rottura dello schema retributivo operata dalla parte in poesia. L’epilogo sembra fare ricadere indietro nella teoria retributiva proposta dagli amici, quasi un ritorno al punto di partenza. Molti quindi, per armonizzare il tutto ed evitare problemi, staccano l’epilogo dalla parte in poesia.

Secondo la Costacurta, invece, il grande autore letterario del libro di Giobbe non poteva commettere una tale caduta di stile ed

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un così vistoso errore. Le due parti propongono due eroi completamente diversi ed entrambe le figure si ritrovano nella scrittura: un eroe paziente che accetta tutto e viene ricompensato (come Abramo messo alla prova sul monte Moria) ed un eroe che lotta e che alla fine capisce di non poter capire (i salmi di lamento, che provocano Dio affinché egli intervenga): è la lotta per costringere Dio a rivelarsi come Dio. Sono due diversi atteggiamenti che convivono nella Scrittura; quello che fa problema nel libro di Giobbe è che questi due personaggi convivono insieme nello stesso libro e nello stesso personaggio. Non è verosimile che l’Autore del libro di Giobbe non si sia accorto di questo. Se l’epilogo è stato messo alla fine aveva intenzione di fare questa strana operazione e attraverso di essa voleva dire qualche cosa.

L’epilogo fa riferimento al prologo perché riprende molti temi del prologo (sacrifici, figli), anche se spariscono Satan e la moglie. Fa però riferimento anche a tutto il libro perché nel prologo gli amici erano stati zitti. Il “dopo che” con cui inizia l’epilogo al v. 7 conferma la continuità di questo intervento con la parte in poesia che precede.

Parte I: vv. 7-9

[7]Dopo che il Signore aveva rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz il Temanita: «La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. [8]Prendete dunque sette vitelli e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi; il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinchè io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe». [9]Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita andarono e fecero come loro aveva detto il Signore e il Signore ebbe riguardo di Giobbe.

L’epilogo è diviso in due blocchi, il primo riguarda gli amici. L’epilogo comincia con un problema: l’ira di Dio. Questa era stata al centro del libro di Giobbe, il quale che la percepiva contro di lui. Ed invece qui si manifesta come ira contro gli amici, perché hanno parlato male: ciò che era sbagliato era dire cose teoricamente giuste ma senza tenere conto della realtà di Giobbe, senza rispetto della verità, tentare di difendere Dio mentendo, perché Giobbe era innocente e non hanno dato ascolto alla sua sofferenza, al suo lamento. È sbagliato parlare di Dio senza solidarietà, quando l’altro è nella sofferenza. Se non si sa accogliere e riconoscere la sofferenza degli altri non è possibile parlare in modo retto di Dio, anche se ciò che si dice è oggettivamente giusto.

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Questa ira non è però l’ira che intendevano gli amici; quella era l’ira secondo la giustizia degli uomini, incapace di perdonare radicalmente e che ha bisogno della sofferenza, applicata come castigo e punizione. Adesso si manifesta un’ira diversa, che serve a condurre gli amici al perdono. Dio non perdona in cambio dei sacrifici e perché i sacrifici vengono compiuti. La prospettiva è che i sacrifici servono solo a rendere visibile la mediazione di Giobbe e l’apertura del cuore degli amici. Nel fare questi sacrifici gli amici confessano che Giobbe era un uomo giusto e che tutto quello che loro avevano detto e fatto era falso.

Gli amici accettano l’accusa/rib di Dio e riconoscono di aver parlato male, andando da Giobbe a chiedergli i sacrifici; in questo modo si aprono al perdono. Non è il perdono di cui parlavano loro a Giobbe; gli amici stanno facendo un’esperienza contraria, Dio li ha già perdonati e gli manifesta il perdono indicando loro la strada per ricevere il perdono: convertirsi e riconoscere che Giobbe è giusto. Quando gli amici lo faranno il perdono di Dio diventerà il dono che loro possono ricevere. Chiedere i sacrifici a Giobbe e da parte di Giobbe farli non è ciò che provoca il perdono di Dio, ma ciò che consente loro di accettare un perdono già formulato. Non siamo nella linea del Dio interessato, ma del Dio che gratuitamente perdona e che indica loro la strada per accogliere il perdono.

Giobbe da accusato che era diventa intercessore e permette al perdono di Dio di giungere al compimento. Per tutto ciò è necessario che anche Giobbe abbia perdonato gli amici, per poter intercedere per loro e fare per loro sacrifici di intercessione occorre che anche Giobbe desideri che Dio perdoni gli amici, li deve quindi amare ed averli già perdonati.

Il Dio che si rivela in questo epilogo è il Dio buono che adesso si manifesta pienamente perché perdona gli amici e fa entrare in questa dinamica di perdono e di bene anche Giobbe. Chi riceve il dono del Dio buono non sono solo gli amici che vengono perdonati, ma anche Giobbe che entra nel desiderio di perdono di Dio. Adesso sì Giobbe è benedetto e può dire i miei occhi ti vedono. Non è più qualche cosa che si aggiunge alla benedizione di Giobbe, ma è qualcosa con cui questa benedizione si manifesta. Quando Giobbe ha detto “adesso i miei occhi ti vedono” egli è entrato nella benedizione totale, ma questa benedizione totale trova il suo modo di esprimersi. Solo adesso Giobbe può fare quello che solo Dio può fare: perdonare.

Parte II: vv. 10-17

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[10]Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto. [11]Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e mangiarono pane in casa sua e lo commiserarono e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui e gli regalarono ognuno una piastra e un anello d'oro. [12]Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. [13]Ebbe anche sette figli e tre figlie. [14]A una mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Fiala di stibio. [15]In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli. [16]Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant'anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni. [17]Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.

Al v. 10, “mentre egli pregava” e “non avendo egli pregato”: l’ultima interpretazione vede la restaurazione di Giobbe come una conseguenza della sua preghiera per gli amici, come un fatto retributivo, a causa della sua intercessione. Non è questa la prospettiva dell’epilogo, bensì quella che Dio restituisce tutto a Giobbe nel momento in cui egli prega, non perché ha pregato, ma perché la preghiera stessa di Giobbe si manifesta come restaurazione. Pregando per gli amici porta a compimento il suo cammino: non c’è più lotta, amarezza e rancore. Ha perdonato gli amici e si è riconciliato con la propria realtà. Questo lo mette nella benedizione totale e questa benedizione in cui Giobbe entra adesso si vede ed è la restaurazione.

E’ vero che leggendo vesti versetti uno ha l’impressione che questo sia un premio che Dio fa a Giobbe per la sua fedeltà, perché si dice che Giobbe riceve tutto doppio. Da un lato si dice che la situazione di Giobbe viene ristabilita (la restaurazione è espressione che si trova spesso nei profeti ed è applicata all’evento del ritorno dall’esilio), ma oltre a ciò Dio raddoppia, è tutto doppio.

Gli viene restituita anche la paternità il numero sette dei figli è detto in ebraico in un modo strano: può essere solo un modo strano di dire sette. Si dice il doppio solo degli animali è perchè solo essi sono possedimenti materiali, mentre i figli sono tesori che non occorre raddoppiare. Questa forma strana potrebbe essere una forma duale del numero 7, per indicare che c’è una realtà doppia. Questo strano modo potrebbe quindi essere una forma duale che indicherebbe un 7x2=14, quindi un raddoppiamento dei figli. Non c’è invece raddoppiamento per le figlie, che restano solo tre, anche se per loro si dice che sono belle e che hanno dei nomi particolarmente belli. Colomba è un nome fortemente simbolico per Israele; Cassia (o cinnamomo) è un profumo che ricorda il cantico dei cantici; il terzo è un nome strano “corno di

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antimonio”, eppure il corno era un contenitore per liquidi o per polvere e l’antimonio era un cosmetico che serviva per truccare gli occhi e renderli più belli; si intende quindi con qualcosa che serve a rendere gli occhi belli. Nella traduzione italiana del commento di Alonso questo nome è stato reso come “ombretta”. Queste donne ricevono inoltre l’eredità, cosa molto strana in presenza di figli maschi: ciò significa non solo grande ricchezza e grande armonia nella famiglia, ma anche un particolare amore di predilezione del padre verso di loro. Pertanto, anche se le figlie non sono raddoppiate rappresentano comunque un valore immenso come il testo sottolinea.

Ci sono anche i doni che vengono portati a Giobbe che significano la sua piena reintegrazione sociale, la ricostituzione della società e della famiglia intorno a lui.

C’è poi il dono della vita di 140 anni, durante la quale egli gode del dono delle generazioni successive. La morte di Giobbe è l’ultimo dono, l’ultima benedizione di Dio perché non è più la morte violenta di cui Giobbe ha paura mentre la desidera, ma la morte serena che non viene perché si ha in odio la vita, ma che è il compimento ed il completamento della vita. “Sazio di giorni” indica appunto questo: che non serve più aspettare altro, che non c’è altro da desiderare, la vita giunge al suo termine senza riserve. Come Simeone al tempio, che non desidera altro ed ora può andare perché la sua vita ha raggiunto il senso cercato ed atteso. Mentre degli altri Luca specifica che tutti erano vecchi (Zaccaria, Elisabetta, Anna), non lo dice però di Simeone: è che quando tu sei vicino a Gesù bambino, questo basta, la vita è piena, l’età anagrafica non ha più senso, non ha più senso il giovane ed il vecchio, c’è solo che la tua vita è piena. Così è Giobbe, che ha potuto tutto ed ha avuto tutto: è la morte sazia di giorni, è la benedizione che ora è totalmente restituita a Giobbe.

Resta il problema: ma questa benedizione dell’epilogo non può essere un po’ come una cosa consolatoria da film a lieto fine ? Non è che tutto questo è un modo per attendere una ricompensa ? Non è che hanno davvero ragione gli autori che dicono che in questo epilogo si ricade nella vecchia teoria retributiva ? Secondo la Costacurta certamente c’è nella finale del libro di Giobbe l’idea che alla fine il bene vince. E questo è vero. Solo che non è la semplificazione degli amici; qui c’è davvero la vittoria del bene, anche perché Satan sparisce e la moglie ricompare completamente risanata in quanto partorisce nuovi figli a Giobbe. È una carne risanata che si è aperta al mistero della vita. Anche la moglie partecipa della benedizione di Giobbe come benedizione della

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maternità. È vero che il bene vince, ma non è vero che si tratta di

un lieto fine. Questa restaurazione materiale di tutti i beni e le cose che Giobbe aveva di per sé non era necessaria. Giobbe era già entrato nella benedizione, aveva già potuto perdonare gli amici, il cambiamento della sorte, la sua restaurazione era già avvenuta. Che poi gli animali raddoppiano, che riceve figli e doni, di per sé non era necessario, è una cosa in più, una cosa gratuita. Non è questo il lieto fine che mette in gioco una ricompensa da parte di Dio. Non è una ricompensa ma una cosa in più assolutamente gratuita in cui questo raddoppiamento di beni ratifica una realtà di bene a cui Giobbe era già arrivato. E’ solo un’espressione visibile di qualcosa che Giobbe aveva già raggiunto.

Peraltro, è un lieto fine per modo di dire, perché chi glieli ridà a Giobbe i figli morti ? Quelli restano morti. E la disperazione e l’angoscia vissuta nel momento della prova, chi gliela toglie ? E cosa può essergli dato in cambio di quel tempo che ha trascorso ? E’ un tempo che nessuno gli può restituire. Il tempo del buio, della morte, del dolore Giobbe se lo tiene. Nessuno glielo può togliere il fatto di essere stato nel dolore, il dolore dei figli morti non può essere cancellato da nessun figlio nato dopo. Restano ferite nella carne di Giobbe che nessuno gli toglie.

Questo lieto fine è davvero un bel fine o non è piuttosto semplicemente un modo in cui questo che gli viene dato doppio è una compensazione simbolica che dice la gravità della perdita e la profondità del dolore che Giobbe ha vissuto e che non arriva a giustificare questo dolore e lo lascia per ciò che è, un mistero inspiegabile. Sottolinea il mistero del suo dolore. Il raddoppiamento è quindi un modo con cui si segnala la perdita e con cui attraverso le categorie classiche della benedizione si esplicita quella che è la situazione di Giobbe. È un modo per dire che dentro la morte si trova la vita, che dentro la maledizione si può trovare la benedizione, che nella prova e nel dolore si può incontrare Dio. Questo è stato detto con Giobbe che esclamava “i miei occhi ti vedono”, nella fede pura, ed adesso viene detto con le categorie classiche che servono di solito ad esprimere la benedizione, ma che non dicono che queste cose sono il premio, ma il modo con cui nei termini classici si dice che Giobbe è stato benedetto, ma di quella benedizione che Giobbe già godeva dicendo che vedeva Dio senza chiedere nient’altro.

I beni raddoppiati fanno vedere che il bene produce bene: ma questo bene è il nuovo rapporto con Dio, in cui si vede che Giobbe è benedetto quando rinuncia alla sua benedizione. La sua

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benedizione è avere occhi che vedono Dio, egli rinuncia alla forma visibile della benedizione per accedere alla benedizione vera che è dire “i miei occhi ti vedono”. Quando egli rinuncia alla benedizione visibile allora vengono anche quelle cose che Giobbe non ha chiesto, un po’ come nel sogno di Gabaon fa Salomone. In questo modo Giobbe arriva veramente alla piena riconciliazione e benedizione, comprendendo che quando si fa esperienza di Dio la realtà cambia ed anche la morte cambia e diventa luogo in cui è possibile incontrare Dio.

Il libro finisce senza dare spiegazioni del male, ma affermando che il male viene trasformato in bene. Giobbe ha posto la domanda in tutta la sua crudeltà, sul senso di una sofferenza che ti fa maledire la vita. La risposta non è stata Dio in modo logico, ma per via d’esperienza. La risposta c’è, ma non si capisce, è un mistero, è il Dio; perché si possa manifestare in pienezza, bisognerà aspettare che il Figlio di Dio si faccia carne (Natale) e muoia e risorga (la Pasqua), perché nella resurrezione di Gesù c’è la fine della morte ma anche la fine della colpa, perché il dilemma tra colpevole e innocente finisca, perché di questa morte non è colpevole né Giobbe, né gli amici, né gli uomini, perché Gesù dice “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. La colpa è finita e Giobbe ha trovato la sua risposta.

**********************************

SALMO 126

[1]Canto delle ascensioni. Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion,ci sembrava di sognare.[2]Allora la nostra bocca si aprì al sorriso,la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.Allora si diceva tra i popoli:«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».[3]Grandi cose ha fatto il Signore per noi,ci ha colmati di gioia. [4]Riconduci, Signore, i nostri prigionieri,come i torrenti del Negheb.[5]Chi semina nelle lacrimemieterà con giubilo. [6]Nell'andare, se ne va e piange,portando la semente da gettare,ma nel tornare, viene con giubilo,portando i suoi covoni.

È un canto di lode che celebra il Signore che è intervenuto a

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cambiare le sorti di Sion, così come ha cambiato le sorti di Giobbe. Cambiare le sorti non è solo tornare nelle situazioni di prima, ma in una situazione più bella. In questo salmo il Signore restaura le sorti di Sion, facendo ritornare gli esiliati in Gerusalemme.

È un salmo costruito in modo molto attento, con elementi stilistici come le ripetizioni e le contrapposizioni pur nella ripetizione dei concetti. Seminare e raccogliere è un bel merismo, si parla di piangere e di ridere (altro merismo) il tutto in riferimento alla restaurazione delle sorti di Sion operata dal Signore.

Restaurazione/ritorno dall’esilio

Per esprimere questo concetto di restaurazione il nostro salmo utilizza la stessa espressione del libro di Giobbe (“quando Giobbe pregava per gli amici il Signore restaurò …”). È un’espressione ebraica difficile e strana perché a seconda del tipo di interpretazione che si dà al verbo dal quale lo si vuole fare provenire, cambia il senso del sostantivo che viene usato. È un verbo che può dire ritornare ed indicare anche la conversione. Tornare è un verbo intransitivo, però nella nostra espressione è usato in modo transitivo e quindi suppone che significhi far tornare (qualcuno); secondo questa prospettiva l’espressione potrebbe significare “far ritornare il cambiamento”.

Lo stesso verbo però può dire anche cambiare e, nel nostro caso potrebbe quindi significare “farmi cambiare direzione (o situazione)”. Se il sostantivo retto da questo verbo viene da questo verbo, allora è un accusativo interno: è lo stesso verbo che è diventato sostantivo e diviene sostantivo del verbo: il significato della frase sarebbe “cambiare il cambiamento” ovvero “far tornare il ritorno”. Vuol dire “cambiare la situazione”, restaurare la sorte, cambiare in meglio la situazione di qualcuno. Questa è la più letterale.

Questo sostantivo complemento oggetto del verbo può però venire anche da un verbo che invece vuol dire deportare, fare prigionieri; allora in questo caso bisogna trovare un sostantivo che viene da questo verbo e questo potrebbe essere deportazione (che è astratto) e che in concreto può essere reso come “i deportati”: allora il significato dell’espressione è “fare tornare i deportati”. Questa è quella più ricorrente nelle tradizioni e nelle traduzioni antiche.

Entrambe le traduzioni sono possibili (in Giobbe si usa restaurò). Tutte le antiche versioni vanno però nell’altra linea, far tornare i deportati invece di restaurò. Il paradigma, il modo

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esemplare, di Dio che cambia la situazione, che restaura le sorti di qualcuno, il punto di riferimento di questo è il ritorno dall’esilio; questo è l’esempio più tipico di quello che Dio fa quando restaura qualcosa, quando cambia le sorti di qualcosa.

Ognuno può fare suo questo salmo perché il salmo parla in generale del cambiare le sorti, ma al tempo stesso ognuno sa che ogni intervento di Dio nella sua vita nel cambiare le sorti è stato come un tornare dall’esilio.

L’esilio di Israele come crisi di fede

Ma che vuol dire tornare dall’esilio ? Sia Giobbe che Qoelet risentono molto del problema dell’esilio: che vuol dire che Dio fa soffrire il suo popolo, come si concilia questo con il Dio buono, il Dio dell’Alleanza ? L’esilio è stato infatti il momento della grandissima crisi di Israele, con l’esilio Israele non ha perso solo la terra, ma ha corso il rischio di perdere Dio ed una gran parte del popolo lo ha perso; nel senso che non sa più dov’è, non sa più trovarlo, non sa più riconoscerlo. Il Dio dell’Alleanza non si vede più, il Dio con voi, Israele è solo: alla fine dell’assedio lungo ed estenuante Gerusalemme crolla, il tempio è profanato e dato alle fiamme. E’ finito tutto. L’Alleanza è “Io sarò con voi”, ora Dio non c’è più. La grande promessa “tu sarai il mio popolo” non si verifica. Dio aveva promesso un re per sempre (Natan a Davide in 2 Sam 7), il re nell’esilio viene deportato ed accecato, il regno davidico sembra finito per sempre. Ed infine l’ultimo fallimento, il Dio con noi che abita nel tempio, ora vede il proprio tempio distrutto e profanato. La grande terribile domanda dell’esilio è: ma Dio dov’è ? Che poi si radicalizza in quella: ma Dio c’è mai stato ? Nel Sal 84 si dice: Dio ci ha svenduti senza nemmeno ricavarne qualcosa. E’ il Dio della crisi, lo stesso Dio della crisi di Giobbe. Che tu hai conosciuto come Dio buono e che improvvisamente ti appare cattivo; quello che tu hai conosciuto come il Dio della salvezza e che invece ti ha abbandonato.

La crisi di Israele e la crisi di Giobbe sono le nostre mille crisi di quando Dio sembra farsi assente: questo è il problema dell’esilio, ciò a cui Israele trova risposta quando ritorna dall’esilio. Questo è il cambiamento delle sorti: non è solo che ritorna in patria e ricostruisce il tempio. La crisi dell’esilio non è stata solo una crisi politica, ma di crisi della fede, quando Israele ritorna in patria non ritrova solo la patria, ritrova Dio, ritrova il rapporto con il suo Dio. È come quando Giobbe può dire “adesso i miei occhi ti vedono”. Se noi vogliamo fare di Giobbe la figura del popolo di Israele lo possiamo fare. Riavere la terra è solo un modo con

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cui si sperimenta materialmente un ritorno diverso che consiste nel riavere il rapporto con Dio, che è la cosa più importante, la possibilità di vedere di nuovo Dio, di poter essere di nuovo il popolo di Dio. Questo è il retroterra esistenziale del nostro salmo.

Parte I: vv. 1-3

Si comincia appunto con l’idea della restaurazione delle sorti.

v. 1: “Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion”

L’espressione restaurare le sorti non si trova solo in Giobbe ma anche in diversi testi profetici. In particolare nel libro di Geremia: Ger 29,10-14 (Ger 29 è la famosa lettera agli esiliati):

[10]Pertanto dice il Signore: Solamente quando saranno compiuti, riguardo a Babilonia, settanta anni, vi visiterò e realizzerò per voi la mia buona promessa di ricondurvi in questo luogo. [11]Io, infatti, conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - dice il Signore - progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza. [12]Voi mi invocherete e ricorrerete a me e io vi esaudirò; [13]mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; [14]mi lascerò trovare da voi - dice il Signore - cambierò in meglio la vostra sorte e vi radunerò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho disperso - dice il Signore - vi ricondurrò nel luogo da dove vi ho fatto condurre in esilio.

Cambiare le sorti vuol dire cercare Dio con tutto il cuore e quindi trovarlo, dove il ritorno nella terra è solo un segno, ma la realtà importante di questo ritorno è che Israele sarà capace di cercare Dio e Dio si lascerà trovare.

Anche in Ger 30,3:

[3]perché, ecco, verranno giorni - dice il Signore - nei quali cambierò la sorte del mio popolo, di Israele e di Giuda - dice il Signore -; li ricondurrò nel paese che ho concesso ai loro padri e ne prenderanno possesso»”.

Ed in Ger 30,18-19:

[18]così dice il Signore:«Ecco restaurerò la sorte delle tende di Giacobbee avrò compassione delle sue dimore.La città sarà ricostruita sulle rovinee il palazzo sorgerà di nuovo al suo posto.[19]Ne usciranno inni di lode,

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voci di gente festante.Li moltiplicherò e non diminuiranno,li onorerò e non saranno disprezzati,

Cambiare le sorti è avere compassione del popolo. Tornare dall’esilio vuol dire fondamentalmente sperimentare la compassione di Dio, sperimentare che Dio è amore. E quindi la risposta sarà la lode ed i canti di gioia. Questo è il vero ritorno dall’esilio, ritrovare Dio e ritornare a lodarlo e cantare i canti della gioia e del rendimento di grazie.

Ger 33,6-9: qui la cosa si completa perché il ritorno dall’esilio è messo in connessione con il perdono del peccato. Far tornare il popolo dall’esilio è avere perdonato il suo peccato. Tornare dall’esilio è l’esperienza del perdono che trasforma la morte in vita ed in grazia ed allora di nuovo la risposta del popolo sarà la lode e l’apertura all’esperienza di salvezza che sarà salvezza per tutti.

Il far tornare ha sempre un significato oltre, non è mai solo un tornare: è trovare Dio, fare esperienza di perdono, poter lodare Dio.

v. 1: “ci sembrava di sognare”

Questo vuol dire fare un’esperienza di sogno “eravamo come sognanti”. Il verbo utilizzato per dire sognare ha questo significato nella maggior parte delle ricorrenze, ma esso può anche voler dire (sebbene in poche occorrenze) “stare bene”, “guarire”, “uscire da una malattia grave”. Tornare dall’esilio vuole appunto dire: noi eravamo come quelli che avevano una malattia mortale ed ora siamo guariti (così anche per Giobbe).

Allo stesso tempo dice eravamo come quelli che sognano, cioè ci sembrava di sognare; una realtà quella del ritorno dall’esilio, talmente grande, bella ed insperata da apparire irreale, avere paura che fosse un sogno e risvegliarsi in Babilonia e domandarsi ancora Dio dov’è ? Un qualcosa del tipo “troppo bello per essere vero”. Nell’esperienza le cose di Dio sono sempre molto più belle di quelle che uno può sperare: eppure ecco che il Signore le realizza.

Coloro che sognano però sono anche i visionari, quelli cui Dio parla nei sogni, sono i profeti. Dire tornare dall’esilio come sognare vuol dire anche che coloro che tornano hanno ricevuto in dono degli occhi di profeti, sono quelli che sognano, che hanno le visioni e

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vedono la realtà per quella che è, andando al di là delle apparenze, capaci di interpretare il significato vero di questo ritorno. E perciò possono dire che il ritorno dall’esilio non è solo tornare in patria, ma tornare a Dio; non è solo avere la terra, ma avere il perdono e dire ancora che non è Ciro ad averli fatti tornare ma che, pur tornando in patria come effetto dell’editto di Ciro, possono testimoniare ai fratelli che è Dio che li ha fatti tornare.

vv. 2-3: la lode di Israele e degli altri popoli – l’universalità della salvezza

Se è così è chiaro che questa esperienza diventa un’esperienza di gioia traboccante. C’è la gioia, la festa (“grandi cose …”), detta dai testimoni che sono quelli che assistono alla meraviglia ed al miracolo. È Israele il protagonista, colui per il quale il Signore fa le grandi cose e le meraviglie (“con noi …”). Gli altri possono dire “con loro …”, ma mentre lo dicono entrano nelle grandi cose di Israele. È Israele che ritorna dall’esilio, ma gli altri popoli se riconoscono le grandi cose che Dio ha fatto con Israele (con loro), questo entrare nella lode fa anche di questi popoli i destinatari della salvezza.

Attraverso questa lode gli altri popoli entrano nella salvezza e vivono anch’essi un loro particolare ritorno dall’esilio: trovano il Signore. E’ proprio la loro testimonianza a far sì che anche essi possano ritrovare il Signore ed entrare nella salvezza. È vero che non è la stessa cosa di Israele, però è anche vero che questa salvezza che Israele sperimenta è una salvezza per tutti. Le Nazioni entrano in questa salvezza, basta che entrino nella lode di questo Signore che fa grandi cose.

Parte II: vv. 4-6

v. 4 “Riconduci, Signore, i nostri prigionieri”

Su questa nota di festa si chiude la prima parte del salmo, che riprende al v. 4 il concetto di restaurare le sorti. Solo che al v. 4 questo viene espresso in forma di richiesta, di domanda, di supplica. Se al v. 1 il Salmo parla di una restaurazione avvenuta, adesso al v. 4 il salmo dice Signore restaura le nostre sorti o fai tornare i nostri prigionieri. Sembra che il salmo si contraddica: parla prima di una ritorno avvenuto e poi lo chiede. Come spiegare questa apparente incongruenza ?

Si propongono diverse possibilità di traduzioni: alcuni

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ritengono di riferire tutto al passato, sia il v. 1 che il v. 4, interpretando l’imperativo del v. 4 come una forma arcaica del verbo al passato e tradurre “il Signore restaurò le nostre sorti”. Modificare l’imperativo trasformandolo come un verbo al passato.

C’è invece chi risolve diversamente: il v. 4 è effettivamente una richiesta mentre il passato del v. 1 andrebbe interpretato come un perfetto profetico, espresso al passato per indicare una cosa futura. È detto profetico perché il profeta è colui che vede la realtà ed anche se qualche cosa deve ancora avvenire, i profeti però vedono che avverrà, sono sicuri nella fede che avverrà ed anche se ne parlano al passato, sono certi che succederà nel futuro. Sono talmente certi che ne parlano al passato come se fosse già avvenuto.

Un’altra possibilità è di lasciare i verbi come stanno, cercando di spiegare questa incoerenza. Ci sono due possibili spiegazioni che possono tenersi insieme seconda la Costacurta. La prima è di tipo un po’ storico. Se si sta parlando del ritorno dall’esilio, quello che noi sappiamo è che il ritorno non è stato in effetti così facile: tempio distrutto, scontro con i samaritani, mura distrutte. La realtà era difficile, peraltro non tutti sono ritornati tra i deportati, perché altri si erano sistemati in Babilonia, avevano fatto carriera, iniziato un commercio, avevano dimenticato il Signore ed erano corsi dietro agli dei di Babilonia. Allora l’idea del salmo è che alla celebrazione che il ritorno dall’esilio si aggiunge la preghiera del compimento dell’opera iniziata: facci tornare davvero (abbiamo i samaritani in casa), facci tornare del tutto e facci tornare tutti. La richiesta è quindi una richiesta del compimento.

Accanto a questa ipotesi di spiegazione del salmo un po’ troppo legata all’elemento storico può essere messa un’altra, legata all’esperienza di Israele e di ognuno di noi per cui, quando Dio interviene nella vita dell’uomo, questo intervento è sempre incompiuto perché non è ancora mai la salvezza definitiva che invece l’uomo continua ad attendere. La salvezza di cui l’uomo fa esperienza è un segno, una promessa, un inizio di questa salvezza definitiva che sarà quando la Gerusalemme cui si torna sarà la Gerusalemme celeste. Sì c’è gioia e festa nel ritorno ma anche la consapevolezza che la salvezza che sperimentiamo oggi non è quella definitiva; il fatto stesso di sperimentare oggi questa salvezza ci deve portare a chiedere la salvezza definitiva. Invece di chiuderci alla gioia effimera della salvezza di oggi noi ci dobbiamo aprire alla richiesta di salvezza definitiva e che sarà per tutti.

Israele che ritorna in patria deve capire che questo ritorno in

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patria non è definitivo, è solo il segno e l’anticipazione di un altro ritorno che è il ritorno definitivo a Dio, che sarà l’incontro definitivo ed escatologico con Dio. Chi fa esperienza di salvezza è giusto che sogni, che dica grandi cose il Signore ha fatto con noi, ma bisogna anche che si apra alla supplica, alla preghiera, perché queste grandi cose siano per tutti e non solo per noi e perché giungano ad essere le grandi cose definitive, la salvezza che non conosce più altre perdite. Israele che ritorna dall’esilio di Babilonia è lo stesso che perderà ancora la terra per andare in diaspora. È così sempre, il Signore interviene e ci salva dalla malattia, ma poi ne verrà un’altra, poi muoriamo. La salvezza non è mai definitiva.

Mentre lodiamo chiediamo, mentre rendiamo grazie, supplichiamo; tanto più facciamo esperienza delle grandi cose di Dio tanto di più dobbiamo chiedere a Dio di fare grandi cose e diventare intercessori per gli altri e chiedere la salvezza escatologica. Chiedere questo è il compito fondamentale di ogni credente, mentre sperimentiamo una realtà di regno che ci viene donata, il nostro dovere è chiedere venga il tuo regno. Il già e non ancora. La salvezza è già avvenuta ma non ancora definitivamente.

Il nostro salmo non è incoerente, mentre ci fa lodare Dio per la salvezza ci dà il compito di chiederla: venga il tuo regno.

v. 4 “come i torrenti del Negheb”

Due immagini: la prima sono i torrenti del Negheb. Che vuol dire tornare come i torrenti ? Il Negheb è un deserto fatto di colli di pietre e di sassi, che da lontano sembrano dune di sabbia, ma invece sono tutti sassi, bianchi all’esterno e neri di dentro, mentre all’interno diventano rosacei. Queste colline del deserto con questi pendii ripidi sono separati da piccole valli strette che durante il periodo delle piogge diventano letto di torrenti impetuosi. Questo sembra incredibile: nel deserto ci sono i torrenti !

Ecco qualche cosa di impensabile ed improvviso, che non puoi gestire, provocare ed arrestare, perché quando il torrente passa travolge tutto. Il salmo dice: facci tornare così, con una salvezza che avviene come un qualcosa di impensabile, di inaspettato e di inarrestabile, che non dipende da noi ma da Te.

La pioggia nel deserto non ha solo questa forze dirompente che distrugge, ma il giorno dopo il passaggio del torrente il deserto è ricoperto di erba in inverno (a primavera è addirittura pieno di fiori colorati): è il miracolo del deserto che fiorisce ! E quindi vuol dire non solo impeto, ma anche un modo meraviglioso, che solo a Dio poteva venire in mente: torrenti che fanno fiorire il

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deserto e ricoprono di colore ciò che prima sembrava solo morte. Questo è il ritorno che si chiede; così lo si richiede.

vv. 5-6[5]Chi semina nelle lacrimemieterà con giubilo. [6]Nell'andare, se ne va e piange,portando la semente da gettare,ma nel tornare, viene con giubilo,portando i suoi covoni

Legata a questa immagine del ritorno c’è anche l’immagine del contadino. L’esperienza del contadino è quella di gettare il seme, cioè chicchi di grano che potrebbero diventare pane e però li butta. Lo fa nel pianto perché se ne priva. E lui non sa che fine faranno tutti questi chicchi. Il contadino semina ma non sa se il seme darà frutto: ed infatti non basta seminarlo, bisogna della pioggia, del calore, del sole e del freddo al momento giusto. Il buttare del seme da parte del contadino è un vero buttare e piange perché sta rinunciando al pane. Nella speranza e nella fede che questa rinuncia sia un modo per avere altro pane ed ancora di più. In questo senso il contadino è l’uomo della fede e della speranza.

La sua speranza ben risposta lo fa mietere nel giubilo e nella festa. Le spighe di grano vorranno dire pane e pane per tutto l’anno. L’uomo della fede e della speranza, che butta lì ed aspetta il raccolto. Il contadino fa l’esperienza della speranza come abbandono, come fiducia. Il contadino sa che dopo aver buttato il seme bisogna fare altro, ma anche fermarsi ed aspettare, sperando. Sa che questo non dipende da lui; non può fare altro che aspettare altro e fidarsi; ed egli è capace di fidarsi anche dopo una delusione, un raccolto andato a male, fame per un anno, ma l’anno dopo è capace ancora di buttare di nuovo il seme. È l’uomo che sa superare la disillusione, la speranza è più grande. Ed è l’uomo che assiste al miracolo. Noi oggi adesso sappiamo che cosa succede del seme che viene gettato nel solco, ma all’epoca il contadino aveva nelle mani un sacchetto di solito di pelle con dentro tutti semi, apparentemente morti, grigiastri, secchi; eppure da essi fioriva il filo d’erba verde, che cresce e cambia di forma, di colore, fino a diventare una spiga d’oro ! Che a sua volta contiene tanti semi ! Come ha fatto quel seme insignificante ? E’ il miracolo della vita, come la vita del bimbo che cresce nel seno della madre. È il miracolo del seme che diventa spiga, un miracolo che avviene lì, nel buio umido del ventre della terra.

Il contadino fa esperienza dell’assoluta sproporzione tra il

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pianto della semina e la gioia incredibile del raccolto. La sproporzione, perché quando Dio interviene fa grandi cose, è un intervento grandioso. Ecco la grande spiga, ecco i granai ricolmi, ecco la morte che si trasforma in vita ed in vita sovrabbondante, perché è Dio che opera la trasformazione.

Il salmo ci parla dell’esilio con questa immagine: l’esilio è come una semina, è seminare per avere un grande raccolto; questo esilio che è dubbio su Dio, un dubbio lacerante, che è buio totale, questo salmo dice che è come seminare, è come un chicco di grano che deve morire per dare grande frutto (come dice Gv). L’esperienza del dubbio, della crisi e della morte è esperienza di vita, come quella di Dio, grandi cose ha fatto il Signore (come Maria nel Magnificat). Bisogna che il chicco muoia, ma questo è per dare grande frutto.

Noi con questo salmo chiediamo che Dio operi la restaurazione in modo definitivo perché questa semina diventi il definitivo raccolto della grande messe del regno di Dio definitivamente instaurato. Lì dove è la morte trionfi la vita, ma questa volta vita per sempre. Questo è il salmo, ma questo è anche il mistero del Natale che inizia la trasformazione per condurci al regno definitivo.

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SALMO 46

[1]Al maestro del coro. Dei figli di Core.Su «Le vergini...». Canto. [2]Dio è per noi rifugio e forza,aiuto sempre vicino nelle angosce.[3]Perciò non temiamo se trema la terra,se crollano i monti nel fondo del mare.[4]Fremano, si gonfino le sue acque,tremino i monti per i suoi flutti. [5]Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio,la santa dimora dell'Altissimo.[6]Dio sta in essa: non potrà vacillare;la soccorrerà Dio, prima del mattino.[7]Fremettero le genti, i regni si scossero;egli tuonò, si sgretolò la terra. [8]Il Signore degli eserciti è con noi,nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.[9]Venite, vedete le opere del Signore,egli ha fatto portenti sulla terra. [10]Farà cessare le guerre sino ai confini della terra,romperà gli archi e spezzerà le lance,brucerà con il fuoco gli scudi.

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[11]Fermatevi e sappiate che io sono Dio,eccelso [mi innalzo] tra le genti, eccelso [mi innalzo] sulla terra. [12]Il Signore degli eserciti è con noi,nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.

E’ un salmo complesso che mette insieme molte cose. Un Dio guerriero che invece di fare la guerra fa la pace. Pace in Gerusalemme mentre intorno ad essa tutto è guerra e sconvolgimento. Gerusalemme invece è nella pace perché il Dio della pace è in lei. E’ un salmo di lode che celebra Gerusalemme ma che invero celebra Dio che dà pace a Gerusalemme.

Per due volte si ripete un ritornello (vv. 8 e 12: “Il Signore degli eserciti è con noi, nostro rifugio [riparo] è il Dio di Giacobbe”) che riprende l’inizio del Salmo al v. 2. Nella prima parte (fino al ritornello del v. 8) nei vv. 5-7 si dà la visione di Gerusalemme come città santa in cui Dio abita e che è sicura nei cataclismi sia cosmici che politici. In questi versetti c’è un accumulo di verbi che dicono scuotimento, tremore, capovolgimento.

La seconda parte è costituita dai vv. 9-11, cui segue il ritornello del v. 12. In essa c’è un invitatorio, un invito a celebrare il Signore che apre alla visione messianica della pace definitiva.

vv. 2-4

[2]Dio è per noi rifugio e forza,aiuto sempre vicino nelle angosce.[3]Perciò non temiamo se trema la terra,se crollano i monti nel fondo del mare.[4]Fremano, si gonfino le sue acque,tremino i monti per i suoi flutti.

All’inizio c’è questa proclamazione del “Dio per noi” che rende sicuri, come “rifugio, forza, aiuto”. C’è subito nel salmo l’affermazione del rapporto con Dio che fonda la fiducia e nel quale ci si può rifugiare. Il termine tradotto con “rifugio” è un termine che vuol dire luogo di riparo e di protezione. Molto spesso questo è riferito a Dio e reca l’idea di un luogo nel quale è possibile nascondersi, dove i nemici non possono arrivare e le intemperie ed i pericoli non possono fare del male. Questo termine è spesso associato ad altri del tipo, roccia, rupe, luogo alto, roccaforte, fortezza. È comunque un rifugio astratto che evoca tuttavia qualcosa di molto concreto dove quando si entra non c’è più motivo di avere paura.

Insieme a questo termine si aggiunge un termine sia astratto

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che concreto che però và in una linea più attiva e che si può tradurre con “forza” o “fortezza”. In italiano il termine fortezza è ambiguo, vuol dire sia forza/potenza che costruzione che protegge; ed in questa ambivalenza c’è sia il significato astratto (forza) che concreto (fortezza).

In questa linea và anche la terza parola “aiuto”, che suppone qualcuno che si trova in una situazione di debolezza e che riceve aiuto da chi si trova in posizione di forza. Anche il termine aiuto è un termine sia astratto (l’aiuto che si dà) che concreto (indicando l’alleato, la persona che viene in aiuto). Questo aiuto nella dimensione biblica può avere un significato materiale (militare) ma anche spirituale.

Si comincia quindi con Dio come rifugio, poi come forza e come riparo che combatte ed ora come alleato. Il salmo indica la situazione di difficoltà come situazione in cui si ha bisogno di aiuto sia dal punto di vista materiale che spirituale, perché ci si trova nelle angosce. Il termine angoscia in ebraico fa riferimento a qualcosa che stringe e che comprime: è l’idea della strettoia, dell’essere messo in una situazione stretta. Questa è proprio l’angoscia, situazione in cui uno si sente stretto, compresso ed oppresso. Ed infatti una della somatizzazioni più comuni dell’angoscia è proprio la difficoltà a respirare. Ci si sente stretti e Dio invece porta al largo (come dice un altro salmo). Il nostro salmo dice invece che Dio lì dentro si fa trovare sempre, si lascia trovare. La traduzione più probabile è si lascia trovare sempre, grandemente, in modo grande, molto. Questo è significativo perché questo Dio che è roccaforte, fortezza, che sta in alto, inaccessibile, questo Dio invece si fa presente, si rende disponibile, è a disposizione, sempre presente in mezzo ai suoi ed accetta di essere trovato. Il Dio inaccessibile, lontano è invece sempre a portata di mano.

Questo è il mistero di Dio in Israele, totalmente trascendente, che quando si rivela sul Sinai fa paura, fa tremare i monti, che se ti avvicini troppo muori, il Dio assolutamente Altro, del quale bisogna avere timore, perché bisogna riconoscere che è diverso da noi, incontenibile, né dalla terra né dai cieli; proprio questo Dio però si lascia racchiudere dentro la storia di un popolo, dentro una terra che così diventa santa, dentro una città, anzi dentro una stanza, una casa, il tempio. E’ il mistero del Dio trascendente che si fa immanente, è il mistero dell’incarnazione.

Questo Dio si fa trovare sempre, nelle angosce; il Dio vicino perché noi ne abbiamo bisogno; è il Dio vicino che si fa trovare se riconosciamo di averne bisogno. Serve riconoscersi come persone bisognose, allora ecco, dice il salmo, che Dio si fa trovare sempre.

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Per questo non avremo paura se si sconvolge la terra e se vacillano i monti nel fondo del mare. La possibilità di non avere paura si fonda sul fatto della presenza di Dio. È una presenza che dà una sicurezza totale: io mi sento sicuro anche se tutto crolla. I disastri cosmici anticipano i disastri nazionali di cui si parla subito dopo. L’immagine del v. 3 è importante perché ciò che è per definizione assolutamente fermo e stabile non è più né fermo né stabile. La terra che è un disco piatto che poggia su fondamenta inamovibili, che è “da” sempre e quindi ci si immagine che debba essere anche “per” sempre; ebbene proprio questa terra che è per nostra esperienza ciò che di più solido ed eterno che c’è, questa terra si sconvolge e sembra che si possa sgretolare. Ed ancora più spaventoso i monti crollano e vacillano nel fonda del mare. I monti che sono secondo l’immaginario biblico le prime creature della terra, le prime cose che la terra ha generato. Secondo il Sal 90 la terra genera nelle doglie del parto le montagne; antichissime, le prime cose che compaiono, che quando le vedi ti accorgi che sono antiche perché sedimentate da millenni, fatte di roccia dura e che stanno lì e che non è proprio possibile muovere. L’impressione è che le montagne sono ciò che niente riesce a muovere ed invece dice il salmista vacillano e poi crollano.

Fa paura una montagna che crolla non solo per le sue dimensioni ma anche perché se crollano le montagne in un certo senso crollano anche tutte le nostre certezze. Per noi è evidente che la montagna è stabile, se questa non lo è più lo spavento non è solo in sé, ma anche nel fatto che non c’è più niente di certo, perché crolla ciò in cui fondamentalmente credevamo. Il crollo dei monti fa paura perché è un fenomeno incomprensibile, che fa crollare la normale comprensione della realtà che ci circonda: credevamo di sapere che le montagne stavano ferme ed invece non è così; ed allora non sappiamo più nulla. Eppure il Salmo ci dice che anche in questo momento – quando appunto finisce la dimensione fondamentale della creazione che è la separazione – non bisogna temere. In Gn 1 la cosa fondamentale che Dio fa è separare le cose: quelle di sopra e quelle di sotto, la terra dal mare, le cose e gli animali nascono separate (“secondo la propria specie”). È la separazione che consente alle cose di esistere. Questo sembra ovvio. Un singolo foglio ad es. esiste solo in quanto separato da un altro pur ad esso identico. Io esisto in quanto separato dagli altri. Questo significa che il nostro esistere implica l’accettazione della mia diversità dagli altri e dall’accettazione della diversità degli altri da noi. Questo non è facile, ma è questo che consente l’esistenza. Accettare la diversità dell’altro è riconoscere di non essere io il principio degli altri.

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Nel rapporto con Dio questo implica che uomo e Dio sono diversi e finché non accetti questo non c’è creazione possibile secondo Gn 1, ovvero creazione buona e bella.

Il Salmo dice che non c’è più la separazione tra terra e mare, non c’è più creazione, siamo davanti alla fine, al caos. Eppure se Dio è nostra forza etc. neppure questo ci fa paura. La sicurezza che Dio dà, proclamata dal Salmo, arriva fino a questo punto ! Nel mondo biblico le acque non spesso indicate per indicare i nemici: si descrive quindi un cataclisma cosmico ma si annuncia anche un cataclisma politico perché si parla delle acque che invadono tutto, metafora tipica dei nemici che come le acque entrano in un paese, dilagano e distruggono tutto. La descrizione cosmico apre alla metafora di un disastro politico. I monti tremano perché le Acque vi sbattono contro, ma tremano anche perché hanno paura di queste acque e di questi nemici. Dinanzi a questi cataclismi Dio sembrerebbe avere perso il controllo della creazione, questa è l’impressione, ma invece Dio è rifugio e forza e quindi noi non tremiamo. Mentre tutto questo avviene, poiché Dio è forza ecco un’oasi di pace.

v. 5-6[5]Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio,la santa dimora dell'Altissimo.[6]Dio sta in essa: non potrà vacillare;la soccorrerà Dio, prima del mattino.

Ecco che in mezzo a tutto il fragore del mare e del terremoto c’è un’immagine totalmente contrapposta, il silenzio di Gerusalemme, interrotto solo dallo scorrere dei ruscelli che la rallegrano. Tutto si muove intorno mentre Gerusalemme resta ferma e stabile. Eppure a Gerusalemme non ci sono né ruscelli né fiume. Questa è una visione di Gerusalemme trasfigurata, come il giardino di Eden.

Il rapporto di Israele con l’acqua è sempre problematico e duplice (nel Sal 126 l’acqua fa fiorire il deserto, ma anche distrugge tutto). In questo salmo il mare come un grande mostro, pronto ad ingoiare la terra. L’acqua ha in sé una forza che è sia distruttrice ma anche fecondatrice. Siamo in una zona arida dove l’acqua è un bene che rende fertile la terra, ma che conserva comunque una forza devastatrice. Quando l’acqua è incanalata allora diventa fertile, non invade e distrugge ma dà linfa ed irriga i campi. In Gerusalemme come in Eden non c’è l’acqua terrificante ma l’acqua incanalata che implica e significa vita. Per la visione biblica una terra in cui ci siano dei ruscelli e dell’acqua incanalata vuol

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dire frutti, grano, vita per gli animali e per gli uomini. Come nel giardino dell’Eden ci sono i fiumi, qui ci sono i ruscelli che fanno sentire il loro canto e danno allegria. Questi ruscelli vogliono dare una dimensione di fecondità. Il Sal 87 dice appunto che le sorgenti della vita sono in te (Gerusalemme, come madre, come donna feconda). L’acqua con questa dimensione di fecondità ha a che fare con la figura materna e della donna (nel Cantico dei cantici la donna è detta appunto essere una fonte d’acqua).

La stabilità di Gerusalemme è perché Dio è in mezzo ad essa: ecco dunque la presenza di Dio come presenza di vita. Gerusalemme è come il giardino dell’Eden resa tale da Dio che abita in mezzo ad essa con questo fiume che esce da lei e che l’attraversa, evocando la visione di Ez 47. Ciò che è determinante per questa città che è santa, come il giardino paradisiaco, è la presenza di Dio, il santuario. Al v. 5 questa città viene definita come la santa dimora dell’Altissimo. Qui tempio e Gerusalemme si identificano.

Al v. 6 c’è un’espressione ebraica che dice proprio “nel suo centro, nel suo interno”. Dio non sta semplicemente in Gerusalemme, ma proprio “in mezzo, dentro”, quasi a voler dire “chiuso là dentro”. Ritorna l’idea della trascendenza che si fa immanenza. Questa presenza di Dio che nella prima parte del salmo consentiva all’uomo di non avere paura adesso consente a Gerusalemme di non vacillare, di essere stabile.

Il verbo vacillare che si usa qui è lo stesso di quello che viene usato al v. 3 per dire che i monti vacillano e che sarà usato al v. 7 per dire che i regni della terra vacillano. La ripetizione del verbo serve ad accentuare la contrapposizione: tutto crolla, tutto vacilla, tranne Gerusalemme perché Dio è in mezzo ad essa.

Ritorna anche lo stesso termine di aiuto, lì sostantivo, qui verbo (trad. CEI con soccorrere), ma con la stessa radice. Viene in aiuto di Gerusalemme sul far del mattino, dunque all’alba, al momento in cui la notte piano piano scompare e comincia a venire la prima luce. È l’alba il tempo tipico dell’intervento di Dio, quando finisce il buio della notte e la sua angoscia.

Il buio è evocatore di morte e di pericolo, mentre la luce è vita; il buio è il regno della negatività, il non senso; anche concretamente rende tutto più difficile e pericoloso. La paura del buio che è innata nell’uomo è una paura vinta razionalmente; ma è una paura sana perché risponde ad una situazione reale. Il bambino ha paura ad entrare in una stanza buia perché è un qualcosa di irrazionale. Si può anche ragionare sul fatto che in una stanza buia non c’è nessuno e quindi non c’è pericolo, ma come fai a saperlo davvero se è buio e quindi non vedi ?

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Se non vedi non puoi vedere il pericolo e quindi non puoi organizzarti; è più facile che il nemico ti entri dentro casa o dentro la città, non vedi gli ostacoli, le trappole, è tutto più difficile e quindi più angosciante. La paura del buio è una paura di difesa, ma la paura stessa ti consente di organizzarti, di evitare i luoghi bui, se puoi, o almeno di essere più prudente, proprio perché hai paura. E questo ti salva. Per questo, sempre secondo la tradizione biblica, sono necessarie le sentinelle, il giro di ronda, perché di notte è tutto più pericoloso e quindi quando finalmente viene la luce si ha l’impressione di essere salvi e che arriva la vita.

Quando l’angoscia della notte viene vinta dalla gioia della luce, è quello il momento in cui è più facile fare esperienza di Dio e della salvezza di Dio. L’alba è il tempo della salvezza e della giustizia, proprio perché ha anche una dimensione liberatoria che apre alla speranza. In Israele infatti è al mattino che si dice che bisogna fare il giudizio, la sollecitudine al giudizio significa farla al mattino, all’alba, presto, senza farsi attendere, anche perché l’alba è l’apparire della luce e quindi metaforicamente della verità, perché è la luce che ti consente di vedere la realtà delle cose. È al momento della luce che si vede anche la realtà della salvezza di Dio.

La notte è il tempo dell’angoscia e del dubbio, come nel passaggio del Mar Rosso, quando inizialmente Israele vive l’angoscia di essere bloccato davanti alla riva del mare con l’Egitto che lo insegue e Mosè interviene per dare fiducia al popolo: sempre nella notte segue la traversata, quando ti incammini su vie sconosciute facendo qualcosa che ti sembra assolutamente folle ed impensabile (appunto come andare in mezzo al mare nella notte). Ed è solo all’alba che Israele vede l’Egitto morto sulle rive del mare; è al mattino che finisce la notte in cui si attraversa il mare. Cosa davvero è successo lo scopri solo al mattino, quando la salvezza diventa visibile.

v. 7 [7]Fremettero le genti, i regni si scossero;egli tuonò, si sgretolò la terra.

Dio aiuta Gerusalemme nel momento dell’attacco, l’alba è infatti il momento dell’attacco, quando anche i soldati sono mezzi addormentati (Gs 8). Ritornano adesso le immagini di cataclismi ora politici, ma Dio interviene e la terra si sgretola e Gerusalemme è salva.

Ora abbiamo non solo il Dio che sta in mezzo in Gerusalemme che è rifugio e forza, ma il Dio che combatte con il suo popolo (“egli

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tuonò”). Alza la voce e combatte. Ecco l’immagine del Signore come guerriero cosmico. Da notare la contrapposizione di suoni ed immagini. Prima il fragore del terremoto, poi la pace di Gerusalemme ora di nuovo un altro fragore come di terremoto, però provocato da Dio non per distruggere Gerusalemme ma per salvarla.v. 8

[8]Il Signore degli eserciti è con noi,nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.

Nel ritornello c’è un doppio attributo di Dio che è “con noi” (Immanuel) e Dio che è il Signore degli eserciti (Yhwh [Adonai] sebaot), ovvero Signore delle schiere. Queste schiere possono essere le schiere celesti (degli angeli, degli astri e delle stelle), ovvero le schiere dei fedeli di Dio (che si alternano nel tempio e nella preghiera, le schiere dei leviti), ovvero le schiere militari (proprio degli eserciti). Adonai sebaot implica tutto questo. Nel nostro salmo certamente questo termine ha una forte connotazione militare, perché il modo in cui viene descritto Dio sono le azioni del guerriero, un guerriero che però non fa la guerra ma la pace.

Dio è poi anche un Dio “con noi”, quindi Immanuel, riparo per noi. N ella seconda parte del versetto c’è poi il titolo divino di “Dio di Giacobbe”. Giacobbe vuol dire la storia, la particolarizzazione storica dell’intervento di Dio nel mondo. Il Dio degli eserciti, il guerriero cosmico è però anche il Dio della storia, dell’Alleanza, della fedeltà e dell’amicizia, che trasforma Giacobbe in Israele. Il salmo nomina il padre Giacobbe ed in tal modo il salmista fa memoria della propria storia, della propria origine, ed in questo modo Israele dice che Dio è il Dio della storia, dell’Alleanza e quindi della fedeltà.

Giacobbe è colui che permette alla storia iniziata con Abramo di diventare storia di un popolo, in quanto padre delle dodici tribù. Egli però è quanto meno un personaggio problematico: inganna il fratello, è un malfattore che approfitta della cecità del padre per ricevere una benedizione che non gli apparteneva. Non a caso il suo nome vuol dire “lo storto”, uno tortuoso, che non va diritto. Il suo nome evoca anche il calcagno. Quando nasce egli viene fuori aggrappato al calcagno di Esaù, il che descrive quello che poi Giacobbe farà nella vita: aggrapparsi al fratello per passargli davanti. Giacobbe è uno che mette dentro la storia della salvezza una dimensione di inganno, di cattiveria, di ingiustizia. E’ come se egli stesso si intrufolasse a forza nella storia della salvezza assumendo un ruolo che non gli spettava,

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perché spettava ad Esaù. Il Dio di Giacobbe è colui che interviene in questa storia di inganno e di violenza per prendergliela dalle mani e ridonargliela come benedizione. Giacobbe aveva rubato la benedizione, ma Dio interviene e gli dona lui la benedizione. Non è più la benedizione che Giacobbe ha strappato con l’inganno ma quella donata da Dio. Il Dio di Giacobbe entra dentro la storia di inganno dell’uomo per ridonarcela come storia Sua, storia della salvezza, come nostra vocazione invece che come nostro tentativo di auto-realizzazione, al pari di quella che era stata la storia di Giacobbe. Un Dio capace di tanta fedeltà da non indietreggiare nemmeno davanti all’inganno, che invece entra nella storia dell’uomo e gliela capovolge tra le mani, ridonandogliela come storia Sua, redenta, salvata. Adesso Giacobbe non si chiama più “lo storto”, “il tortuoso”, ma Israele, che vuol dire che Dio è grande. Quando il nostro Salmo evoca il Dio di Giacobbe sa di cosa stanno parlando, evoca una storia in cui Dio è stato fedele nonostante il peccato dell’uomo, entrandovi e trasformandola in grazia.

Questa fedeltà di Dio manifestata in Giacobbe è una fedeltà anche per noi, perché il Dio di Giacobbe è il Dio anche per noi, “con noi”, anche a noi sempre fedele, perché è e per sempre resta il Dio di Giacobbe.

vv. 9-11[9]Venite, vedete le opere del Signore,egli ha fatto portenti sulla terra. [10]Farà cessare le guerre sino ai confini della terra,romperà gli archi e spezzerà le lance,brucerà con il fuoco gli scudi.[11]Fermatevi e sappiate che io sono Dio,eccelso [mi innalzo] tra le genti, eccelso [mi innalzo] sulla terra.

Ecco dunque l’invitatorio. Queste meraviglie sono la pace, la fine delle guerre. Il Dio guerriero è il Dio che instaura definitivamente la pace, farà cessare le guerre. Si utilizza qui il verbo sbt (shabat). È il verbo del sabato, che fa smettere, fa riposare, “fa fare sabato alla guerra”.

Vengono spezzate e distrutte le armi potentissime usate per uccidere da lontano: queste armi sono più pericolose, perché non le vedi, sono lontane. Ed hanno una forza ed un’efficacia tanto maggiore quanto più sono veloci.

Insieme a ciò vengono bruciati i carri. Il termine usato indica i carri trainati dai buoi, quindi non i carri di per sé da guerra. Questo è un problema. Sembrerebbero carri per trasportare le

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cose. Alcuni preferiscono modificare il testo ed insieme alla LXX preferiscono leggere “scudi”. L’idea di bruciare gli scudi sarebbe la distruzione non solo di ciò che offende ma anche di ciò che difende. È una possibilità, così legge la LXX.

Secondo la Costacurta si può comunque mantenere la lettura dei carri, anche se non da guerra, nel senso che finiscono talmente le guerre che non solo non ci sono più le armi ma nemmeno quei carri che servono non per combattere direttamente, ma per trasportare viveri, acqua, le armi stesse, ciò quindi che consente ai soldati di vivere. Questo implicherebbe un merismo con lance ed archi (cioè armi, ciò che uccide) ed anche i carri, cioè ciò che serve a far vivere coloro che uccidono, i soldati: l’idea è che per fare scendere la pace non basta distruggere le armi, ma anche ciò che serve a far vivere gli eserciti, tutto ciò che serve a mantenere in vita un esercito, a dargli da mangiare, distruggere tutto, un gran falò. L’idea del fuoco del resto sembra proprio più adeguata ai carri che agli scudi. In questo fuoco brucia tutto, bruciano definitivamente le guerre stesse.

Questo apre la dimensione universale ed escatologica. A partire da Sion e sul suo modello si inaugura sulla terra la pace voluta e fatta da Dio, una pace universale in cui tutte le nazioni entrano in questa pace e riconoscono il Signore come Signore ed aprono a questa visione escatologica del Dio portatore di salvezza attraverso quel messia che entra in Gerusalemme non su un carro di guerra ma su di un’asina,

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QOELET

La datazione dell’opera è fatta risalire al III sec. a.c. (per Gilbert ca. il 250 a.c.). L’idea di fondo del libro è quella per cui in realtà nulla serve.

[1]Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme.

L’autore intende presentarsi come Salomone, ma si tratta evidentemente di una finzione letteraria con lo scopo di accreditare l’opera e di darvi autorità (secondo il diffuso, nell’antichità, fenomeno della pseudonomia). L’autore infatti si dice “figlio di Davide” (1,1) e “re d'Israele in Gerusalemme” (1,12). Salomone è infatti il sapiente per eccellenza e molti libri sapienziali tendono ad essere attribuiti a lui (Proverbi, ma anche il Cantico dei Cantici). Il

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nome utilizzato dall’autore – “Qoelet” – a volte è preceduto dall’articolo ed a volte no. Ciò è indice del fatto che l’espressione originariamente non indicava un nome proprio ma verosimilmente una funzione (il Qoelet), man mano divenuto un nome proprio o uno pseudonimo, come il Satan è divenuto Satan e l’Adamo è divenuto Adamo [Gilbert].

Dal punto di vista grammaticale il nome deriva dalla radice qhl (qahal), il cui sostantivo significa “assemblea”, “comunità”. Il Qoelet può essere quindi colui che chiama o istruisce un’assemblea o comunità. L’essere saggio corrisponderebbe così ad una funzione di guida di un’assemblea o comunità.

La tematica fondamentale del libro è indicata all’inizio.

[2]Vanità delle vanità, dice Qoèlet,vanità delle vanità, tutto è vanità.

L’espressione ripetitiva “vanità delle vanità” è un modo per esprimere un superlativo assoluto, come cantico dei cantici. Vanità viene detto con il termine ebraico hebel, che vuol dire vuoto, inconsistente, soffio, alito, vapore, vacuità, una cosa senza consistenza. È lo stesso termine usato per indicare gli idoli. È anche il nome proprio di Abele, indice del suo destino, appare e scompare subito. Ucciso dal fratello. Hebel, vuol dire inutile, proprio perché non c’è.

Qoelet dice che tutto è vuoto assoluto. La traduzione più attuale potrebbe però essere “non senso”: qualcosa che non c’è e che se ci fosse sarebbe meglio che non ci fosse.

Se ciò che muove la vita delle persone è proprio la ricerca del senso, bene proprio questo Qoelet dice che non c’è, che niente ha senso. Questa è la visione paralizzante che dà l’inizio del libro: la vita è inutile.

[3]Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affannoper cui fatica sotto il sole?

La domanda è evidentemente retorica.

[4]Una generazione va, una generazione vienema la terra resta sempre la stessa.

Qoelet riferimento all’esperienza dell’uomo: la terra è stabile, ma questa stabilità è vista come un qualcosa che getta una luce sinistra sulla comprensione dell’uomo, perché la terra è stabile, mentre l'uomo no.

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[5]Il sole sorge e il sole tramonta,si affretta verso il luogo da dove risorgerà.[6]Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana;gira e rigirae sopra i suoi giri il vento ritorna.[7]Tutti i fiumi vanno al mare,eppure il mare non è mai pieno:raggiunta la loro mèta,i fiumi riprendono la loro marcia.[8]Tutte le cose sono in travaglioe nessuno potrebbe spiegarne il motivo.Non si sazia l'occhio di guardarené mai l'orecchio è sazio di udire.

Qoelet dice che c'è una dimensione di ciclicità, ma le cose girano senza senso. La domanda paralizzante di Qoelet è: e allora ? Per aggravare la situazione Qoelet conclude: “e nessuno sa spiegarne il motivo”.

[9]Ciò che è stato saràe ciò che si è fatto si rifarà;non c'è niente di nuovo sotto il sole.

“Ciò che è stato sarà ...”: a che serve rifarlo se si continua a fare sempre la stessa cosa ? “Non c'è niente di nuovo sotto il sole”, altra affermazione paralizzante di Qoelet. E allora perché faticare ? C'è una qualche novità per Qoelet? No !

[10]C'è forse qualcosa di cui si possa dire:«Guarda, questa è una novità»?Proprio questa è gia stata nei secoliche ci hanno preceduto.[11]Non resta più ricordo degli antichi,ma neppure di coloro che sarannosi conserverà memoriapresso coloro che verranno in seguito.

Perché a te sembra che ci possa essere qualcosa di nuovo ? Perché tu non hai il ricordo di quello che è stato già fatto. Solo per questo ti sembra di fare delle scoperte, ma in verità è già tutto rifatto, solo che noi ne abbiamo perduto la memoria. E come noi non ricordiamo coloro che ci hanno preceduto, così dobbiamo sapere che coloro che verranno dopo di noi non avranno nessun ricordo di noi e di ciò che abbiamo fatto.

La visione di Qoelet appare un po' troppo negativa; qualcosa ci

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ricordiamo, ma in verità se pure ricordiamo non ne abbiamo fatto esperienza. Questo dice Qoelet: non c'è memoria vera, perché non c'è esperienza e non c'è esperienza perché quelli di prima sono morti e dunque non possono testimoniare nulla ed un domani anche noi saremo morti e quindi non potremo passare a loro la vera memoria.

[12]Io, Qoèlet, sono stato re d'Israele in Gerusalemme. [13]Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. E' questa una occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. [14]Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento.

[15]Ciò che è storto non si può raddrizzaree quel che manca non si può contare.

[16]Pensavo e dicevo fra me: «Ecco, io ho avuto una sapienza superiore e più vasta di quella che ebbero quanti regnarono prima di me in Gerusalemme. La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza». [17]Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento, [18]perchè

molta sapienza, molto affanno;chi accresce il sapere, aumenta il dolore.

A questo punto Qoelet comincia a raccontare quello che ha fatto; dice di aver fatto grandi cose e di essersi messo alla ricerca del senso, entrando in tutte le dimensioni dell'esistenza e quindi facendo esperienza di tutto (sapienza, follia, ricchezza, viaggiare, etc.): di certo un'esperienza superiore a tutti quelli che gli sono intorno e che l'hanno preceduto. Ma dopo tutte queste fatiche la conclusione cui Qoelet arriva è ancora una volta che tutto è vanità, come inseguire o pascere il vento, quindi un assoluto non senso.

[Capitolo 2]

[1]Io ho detto in cuor mio: «Vieni, dunque, ti voglio mettere alla prova con la gioia: Gusta il piacere!». Ma ecco anche questo è vanità.

[2]Del riso ho detto: «Follia!»e della gioia: «A che giova?».

[3]Ho voluto soddisfare il mio corpo con il vino, con la pretesa di dedicarmi con la mente alla sapienza e di darmi alla follia, finché non scoprissi che cosa convenga agli uomini compiere sotto il cielo, nei giorni contati della loro vita. [4]Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. [5]Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d'ogni specie; [6]mi sono fatto vasche, per irrigare con l'acqua le piantagioni. [7]Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa e ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero più di tutti i miei predecessori in Gerusalemme. [8]Ho accumulato anche argento e oro, ricchezze di re e di province; mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme

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con le delizie dei figli dell'uomo. [9]Sono divenuto grande, più potente di tutti i miei predecessori in Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. [10]Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d'ogni mia fatica; questa è stata la ricompensa di tutte le mie fatiche. [11]Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento: non c'è alcun vantaggio sotto il sole.

Qoelet ha continuato a cercare ancora, nella linea del potere, della ricchezza e della gioia, arrivando anche al successo di quello che faceva, ma la conclusione è ancora la stessa: “... non c'è alcun vantaggio sotto il sole”.

[12]Ho considerato poi la sapienza, la follia e la stoltezza. «Che farà il

successore del re? Ciò che è gia stato fatto». [13]Mi sono accorto che il vantaggio della sapienza sulla stoltezza è il vantaggio della luce sulle tenebre:

[14]Il saggio ha gli occhi in fronte,ma lo stolto cammina nel buio.Ma so anche che un'unica sorteè riservata a tutt'e due.

[15]Allora ho pensato: «Anche a me toccherà la sorte dello stolto! Allora perché ho cercato d'esser saggio? Dov'è il vantaggio?». E ho concluso: «Anche questo è vanità». [16]Infatti, né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto.

[17]Ho preso in odio la vita, perché mi è sgradito quanto si fa sotto il sole. Ogni cosa infatti è vanità e un inseguire il vento. [18]Ho preso in odio ogni lavoro da me fatto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. [19]E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità! [20]Sono giunto al punto di disperare in cuor mio per tutta la fatica che avevo durato sotto il sole, [21]perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura.

Qui Qoelet arriva al cuore della critica alla sapienza, ma in realtà della vita. C'è qualcosa che non è vana, è la sapienza, effettivamente dice Qoelet è un bene, è una cosa positiva, ha un senso, non è vanità, è come la luce rispetto alle tenebre. È chiaro, chiarissimo che la sapienza è meglio della stoltezza. Tuttavia dice Qoelet sembra che la sapienza sia meglio, perché in realtà sia il saggio che lo stolto muogliono allo stesso modo, e questo rende ancora peggiore la situazione, perché il mio successore è uno stolto e se pure fosse saggio non servirebbe a niente lo stesso, perché anche lui muore e quello dopo di lui non sappiamo se sarà stolto o saggio. Serve a qualcosa ? No, anzi, serve solo ad aumentare l'affanno (1,18: “molta sapienza, molto affanno”).

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[22]Allora quale profitto c'è per l'uomo in tutta la sua fatica e in tutto l'affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? [23]Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose; il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità! [24]Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. [25]Difatti, chi può mangiare e godere senza di lui? [26]Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre al peccatore dà la pena di raccogliere e d'ammassare per colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un inseguire il vento!

L'unica possibilità è allora di godere quel poco che la vita dà; in un certo senso, scendere a patti con la vita; accettare la realtà e godere di ciò che la vita ci dà, consapevoli che stiamo raccogliendo tutto questo dalle mani di Dio, per poi però scoprire che anche questo è vanità e non serve a niente.

Perché questo ? Perché Qoelet ha un'idea della morte che non è qualcosa che verrà, ma qualcosa che sta già succedendo. Quando descrive l'uomo Qoelet lo descrive come colui che va, che va verso lo Sheol, la morte. È un ripetizione che Qoelet fa diverse volte: l'uomo va; vuol dire che la vita dell'uomo, vivere, significa camminare verso la morte, stare morendo. Questa è la chiave di interpretazione del libro di Qoelet.

Al cap. 9 c'è una definizione dell'essere morto come non essere più in rapporto con nulla; nella morte finisce tutto; non c'è più nessuna facoltà affettiva, attività intellettuale, non c'è il corpo, memoria, etc. Finché sono vivo ho un vantaggio se sono saggio rispetto allo stolto, del buono rispetto al malvagio, ma Qoelet invece continua a dire di no; essere vecchio di duemila anni o un aborto: è tutto la stessa cosa, anche essere uomo e animale: alla fine saranno tutti morti. Le differenze “da vivo” Qoelet le considererebbe un'illusione, proprio perché mentre tu sei vivo in realtà stai morendo, perché vivere vuol dire andare verso la morte, perché la morte è già presente quando sei vivo, con la sua forza vanificante, nullificante. Tu oggi saggio stai già morendo al pari dello stolto: è tutto inutile, vanità e non senso. La morte vanifica tutto, perché è una morte radicale e perché è già presente nella vita, nell'oggi. Per Qoelet il vivere non è un accumulare anni di vita, ma abbreviare gli anni della vita.

Questa è la visione di Qoelet. Ma è solo questa o c'è altro ? E' tutto qua il cuore della sapienza e la sapienza di Davide e di Salomone ? Nonostante questa costruzione di Qoelet sembri così perfetta – egli non nega la sapienza la bontà e la felicità, le ha pure sperimentate, solo che, dice, alla fine tutto è vanità –, pur dentro questa costruzione apparentemente perfetta appaiono delle crepe, che tolgono solidità alla costruzione. L’impianto

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fondamentale della realtà secondo Qoelet è quella di essere insensata perché dominata dal segno della morte. Se la morte è nulla totale e non c’è nessun raziocinio o relazione, allora questo nulla è già presente oggi. E ciò sia nella realtà del saggio che dello stolto, del ricco che del povero, del giovane che del vecchio: tutto è uguale, tutto è ripetuto, tutto è inutile.

Le crepe di questa costruzione, il nucleo esplosivo, è Dio. Qoelet assume ed esamina la realtà secondo questa sua prospettiva, ma poiché lo fa in modo onesto non può non tener conto dell’insondabile presenza di Dio, che è all’origine della possibilità per l’uomo di godere quel poco che c’è nell’esistenza e nei confronti del quale l’uomo deve nutrire timore. Ma sopratutto c’è quello che Qoelet chiama il giudizio di Dio. Questa realtà ricorre in diversi punti del libro:

2,24-26

[24]Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. [25]Difatti, chi può mangiare e godere senza di lui? [26]Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre al peccatore dà la pena di raccogliere e d'ammassare per colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un inseguire il vento!

3,16-17

[16]Ma ho anche notato che sotto il sole al posto del diritto c'è l'iniquità e al posto della giustizia c'è l'empietà. [17]Ho pensato: Dio giudicherà il giusto e l'empio, perché c'è un tempo per ogni cosa e per ogni azione.

8,11-14

[11]Poiché non si dà una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore dei figli dell'uomo è pieno di voglia di fare il male; [12]poiché il peccatore, anche se commette il male cento volte, ha lunga vita. Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Dio, appunto perché provano timore davanti a lui, [13]e non sarà felice l'empio e non allungherà come un'ombra i suoi giorni, perché egli non teme Dio. [14]Sulla terra si ha questa delusione: vi sono giusti ai quali tocca la sorte meritata dagli empi con le loro opere, e vi sono empi ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere. Io dico che anche questo è vanità.

11,9

[9]Stà lieto, o giovane, nella tua giovinezza,e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù.

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Segui pure le vie del tuo cuoree i desideri dei tuoi occhi.Sappi però che su tutto questoDio ti convocherà in giudizio.

In tutti questi brani si parla del giudizio di Dio, introducendo dentro questa visione apparentemente razionale della realtà un elemento misterioso, una dimensione di alterità, incomprensibilità, di mistero, davanti alla quale non c’è altra possibilità che il timore di Dio. Così finisce infatti il libro di Qoelet:

12, 13-14

[13] Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto.[14] Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male.

Se questa sia un’aggiunta o no, se sia stata aggiunta come appendice per rendere più accettabile il libro, è un discorso che non inficia il pensiero del libro, così come la tradizione ce lo consegna: come libro canonico, ispirato, normativo per la nostra fede. Bisogna quindi tenerne conto, anche perché questa idea disturbante di Dio è diffusa in tutto il libro.

“Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto”: il giudizio di Dio, questo elemento destabilizzante del sistema di pensiero mortale di Qoelet, diventa il fondamento del timore di Dio e la conclusione del suo percorso.

La costruzione di Qoelet funziona fintanto che noi non nominiamo Dio, perché appena lo nominiamo non sappiamo più dove collocarlo all’interno del suo impianto; e tutto questo barcolla, non sapendo come conciliare il giudizio di Dio con l’assoluto non senso di cui Qoelet parla.

Bisogna quindi cercare di prendere questo libro come punto di partenza. Ci sono diversi elementi particolari di questo libro che pongono problemi. Qoelet contrappone la vecchia sapienza e la realtà che sembra invece smentirla, porta in ciò all’estremo la linea di Giobbe: entrambi avvertono che c’è una vecchia sapienza che la realtà sembra però smentire.

Qoelet non solo si contrappone alla tradizione sapienziale, ma si contrappone anche alla stessa tradizione originaria di Israele, che consiste in una certa comprensione della storia come un qualcosa di collegato a quanto precede e quanto segue, che comincia dall’inizio e va avanti fino alla fine senza soluzione di continuità. Una storia la cui continuità è assicurata dalla

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catena delle generazioni permette il passaggio della vita e della storia stessa, che quindi non è un qualcosa di riferito e limitato solo al mio oggi; ma dove nel mio oggi si condensa tutta la storia passata e quella futura.

Io sono il risultato della storia precedente e delle generazioni precedenti. Allo stesso modo il collegamento generazionale opera nel futuro, dove io continuerò ad essere presente, così come lo sono stato nelle generazioni passate. Quando l’israelita nella notte di pasqua dice “io ero presente nel Mar Rosso”, crede davvero a quello che dice, la sua presenza era mediata dalla carne dei padri che hanno visto il Mar Rosso: è questo che può far dire all’israelita “io ho visto il mar rosso ed allo stesso modo io vedrò venire il Messia, non con i miei occhi, ma con quelli dei figli, dei figli, dei figli …”.

Qoelet contesta tutto ciò: non c’è passaggio o continuità tra le generazioni, la morte taglia tutto. Qoelet si chiude nell’oggi, nel puntuale di un oggi senza ieri e senza domani, senza passato e senza futuro, si chiude nella fenomenologia, si limita all’apparenza, ad una dimensione immediata di esperienza della realtà; e questo gli impedisce di andare al di là dell’apparenza del reale, che è invece il grande cammino del popolo di Israele e del mondo biblico.

Qoelet in qualche modo vanifica anche quello che lui stesso dice. C’è una vanificazione della parola che è anch’essa contraria a tutta la creazione biblica e mina alle basi il suo stesso discorso. Proprio perché si ferma all’apparenza, alla fine è costretto a dire che la sapienza è vana. Il giro di Qoelet è vizioso, perché nel momento in cui dice che tutto è vanità, allora anche dire questo è vanità, è senza senso, non serve, ed allora davvero tutto si vanifica. È per questo che la prospettiva di Qoelet ha bisogno di aprirsi. La vera sapienza non è ciò che si ferma a ciò che si vede, ma ciò che vede al di là delle apparenze. E la sapienza stessa è già di per sé una ricompensa. Salomone chiede la sapienza, non le sue conseguenze, i suoi frutti. Il vero giusto, il vero sapiente non aspetta nulla perché sa che la stessa sapienza è la ricompensa, la benedizione. La sua ricerca non è dei vantaggi, è disinteressata. La dinamica della sapienza è la stessa dinamica dell’amore, è il perdersi che permette di ritrovarsi.

Qoelet non si apre alla sapienza che invece è altro. Ma proprio il dover affermare Dio ed il suo giudizio porta Qoelet ad andare al di là del suo discorso, della mera fenomenologia. Proprio ciò che fa barcollare la costruzione di Qoelet trasforma il suo libro in un libro di sapienza, costringendolo ad aprirsi ad altre dimensioni. Dio non è verificabile, catalogabile, Dio è altro. Nel momento in cui

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Qoelet inserisce nel suo discorso il giudizio di Dio, lo apre ad una sapienza altra, al timore di Dio.

Qoelet fa questo parlando del giudizio di Dio ed è in questo contesto che Qoelet dice che c’è altro. L’orrore del nulla e della vanificazione, l’orrore del morire, dice che l’uomo è fatto per la vita. Quando Qoelet parla del giudizio è consentito al lettore di interrogarsi e trarre delle conclusioni. Qoelet non trae conclusioni da questo, se non dicendo di temere Dio. Qoelet non conclude, ma permette al lettore di concludere interrogandosi su questo dato (il giudizio di Dio) che sfugge ad ogni catalogazione fenomenologica.

Qoelet dice solo che c’è un giudizio di Dio, che fonda il timore di Dio, e non dice altro. Se questo giudizio di cui Qoelet parla è un giudizio nella storia, esso non serve assolutamente a niente ed è assoluta vanità; tanto stiamo tutti morendo alla stesso modo, anche se Dio fa il suo giudizio. Allora possiamo dire e pensare che il giudizio di cui Qoelet parla è un giudizio dopo la storia, nell’al di là, ma anche questo non serve secondo la prospettiva di Qoelet perché l’aldilà è nulla, nella morte non c’è nulla ed allora è inutile parlare di un giudizio anche dopo la storia. Ed allora l’unico giudizio a cui in qualche modo Qoelet sembra fare affidamento – anche se non lo dice – non è né prima della morte né dopo la morte, ma un giudizio nella morte e sulla morte. Questo è l’unico giudizio che non è vano secondo la costruzione di Qoelet. Il giudizio di cui parla Qoelet non sappiamo cos’è, ma il solo giudizio che può non essere vanità è quello che trasforma la morte. Perché il giudizio di Dio abbia senso non può essere solo rimandato, ma serve che l’intervento di Dio sia una vittoria sulla morte (traduzione in termini cristiani).

Questo Qoelet non lo può dire, non può arrivarci, ma con il suo discorso e le contraddizioni che stanno all’interno del suo discorso, permette al lettore di dirlo. Lui non lo può dire, ma mette il lettore in grado di aprirsi alla speranza. La sua fenomenologia disperante dice la necessità di sperare. Anche Qoelet stesso, chiuso nella sua fenomenologia disperante, dice che c’è un giudizio di Dio. Davanti alla disperazione di una vita che muore c’è la necessità impellente di una speranza, che è quella cristiana che percorre tutto l’AT e che trova il suo compimento nel NT. Il discorso di Qoelet è un discorso universale che riguarda ogni uomo. Questo stesso uomo è anche portatore di un bisogno di andare al di là; ecco la necessità di sperare di un permanere al di là della morte: ecco la speranza messianica che è la speranza di una definitiva vittoria sulla morte, l’unica possibile risposta al libro di Qoelet.

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Egli come Giobbe pone la domanda in tutta la sua brutalità: che razza di vita è questa se è un vivere morendo ? E che razza di Dio è questo ? E’ solo perché abbiamo capito fino in fondo la domanda che possiamo accedere alla risposta. Il libro di Giobbe la dà parzialmente, Qoelet nemmeno la dà, ma entrambi ci consentono di aprirci ad essa: Dio deve vincere la morte. L’unica risposta è il mistero pasquale del NT, verso cui tutta la tradizione dell’AT cammina. È nel mistero pasquale che il libro di Qoelet può trovare una risposta e ricomporre le sue contraddizioni, nella prospettiva di una morte vinta, nella prospettiva di una vita che si dona. La prospettiva è quella della vita che si consuma nel dono di sé. Se troviamo questo cammino di domanda in Qoelet e Giobbe, che ci porta a questa risposta, allora abbiamo anche trovato una nuova sapienza, quella definitiva.

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LA SAPIENZA

La prospettiva di una nuova sapienza è aperta proprio dal libro della sapienza, come capacità di risposta alla domanda del morire e quindi del vivere. È l’ultimo libro del pentateuco sapienziale, che pone anch’esso un problema che parte dalla realtà. Israele è perseguitato, ha problemi di sopravvivenza, questa è la realtà con cui il libro della sapienza si confronta.

È il libro più tardivo del pentateuco sapienziale. La datazione più verosimile è dal 50 a.c. all’anno zero, dunque seconda metà del I sec. a.c. E’ stato scritto direttamente e solo in greco, non ha versioni anteriori ebraiche. Ad Alessandria in Egitto, attribuito anch’esso, come Qoelet, a Salomone, con una finzione letteraria. Il suo genere letterario è fondamentalmente greco, è quello dell’encomio, della laudatio, dell’elogio di una virtù. Pur se costruito secondo gli schemi tipici di una cultura greca, mantiene però degli elementi tipicamente ebraici. La sua parte finale contiene ad es. un midrash, cioè una rilettura (sapienziale) dell’evento dell’esodo, fatto proprio con il sistema midrashico, che è tipicamente ebraico. Fa dunque da ponte tra le due culture, quella ellenistica ed ebraica.

Con riferimento alla sua struttura si possono distinguere in esso tre grandi blocchi:1) Sap 1-6: si fa riferimento all’elogio che si vuole fare, con esortazioni al lettore e compare la grande contrapposizione sapienziale tra il giusto e l’empio, il saggio e lo stolto;

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2) Sap 6-9: c’è l’elogio della sapienza, la sua origine, la sua natura, il suo agire il suo manifestarsi che termina con la preghiera di Salomome (Sap 9);3) Sap 10-19: con esempi concreti si illustra il discorso fatto e l’importanza della sapienza. Si rilegge la storia di Israele e l’evento dell’esodo, si mostra l’amore di Dio per l’uomo, la sapienza del cammino dietro al signore e la stoltezza dell’idolatria, per concludere con un epilogo.

Lo schema è quello della lode di una virtù, la sapienza, con la particolarità tipicamente ebraica della rilettura midrashica dell’esodo, in cui non vengono fatti nomi: né Israele, né l’Egitto, né il faraone, come se i personaggi fossero senza volto. Viene nominato solo il mar rosso. O perché gli ebrei in diaspora sapevano bene di cosa si trattasse oppure perché c’è un’apertura all’umano universale, pur dentro la particolarità di una storia. La narrazione dell’esodo contiene così la storia di ogni uomo, riconoscendo la portata universale di questa stessa storia. La sapienza condurrebbe ogni uomo ad entrare dentro quella storia di salvezza, ognuno di noi può metterci il suo nome: questo è sapiente.

Attraverso sette esempi il libro mostra come Dio agisce nei confronti dell’empio e del giusto; mostra come l’agire di Dio sia coerente, secondo una sorta di legge del contrappasso. Si parla ad es. dell’acqua del Nilo che diventa sangue per l’Egitto, mentre per Israele c’è un’altra acqua, quella che sgorga dalla roccia nel deserto. Sull’Egitto piovono le rane, su Israele le quaglie. Sull’Egitto c’è l’invasione delle cavallette, per Israele c’è il serpente di bronzo che guarisce dal morso dei serpenti velenosi; per l’Egitto c’è la tenebra, per Israele tutto è illuminato. In Egitto muoiono i primogeniti, Israele è salvato. Il Mar Rosso uccide l’Egitto, per Israele il mar rosso si apre.

La presentazione di ciò che avviene per l’empio Egitto e di ciò che avviene per il giusto Israele, in un libro peraltro scritto in Egitto, ha un intento consolatorio. Tutto il libro della Sapienza vuole consolare Israele, che si trova in diaspora, dunque non ha più la terra, è alle prese con una cultura ellenistica molto potente ed affascinante, è perseguitato anche dai suoi stessi fratelli apostati e convertiti all’ellenismo. È disperso tra genti nemiche d insieme affascinanti e vive al suo stesso interno la defezione di tanti che abbandonano la fede e diventano empi, nemici. A questo Israele così drammaticamente messo alla prova il libro della sapienza dice “non ti preoccupare, come il Signore ha liberato Israele dall’Egitto lo farà ancora oggi, di nuovo”. La rilettura midrashica dell’esodo vuole appunto dare ad Israele la possibilità di aprirsi alla speranza pur in una situazione drammatica.

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Un esempio di come questa consolazione sia presente nel libro della sapienza si ritrova all’inizio del libro, dove il libro introduce la contrapposizione tra i giusti e gli empi. Israele vive una doppia contrapposizione, cui corrispondono vari empi, gli ellenisti tout court e gli ebrei ellenizzati. Gli empi descritti dal libro sono da identificare forse ancora di più con i giudei apostati e mostra come il giusto li metta in crisi pur andando per questo incontro alla morte. Ritornano tematiche non propriamente uguali a quelle di Giobbe e di Qoelet, ma che le proseguono. Anche qui si parla della sofferenza dell’innocente e del problema della morte.

Sap 2[1]Dicono fra loro sragionando:«La nostra vita è breve e triste;non c'è rimedio, quando l'uomo muore,e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi.[2]Siamo nati per casoe dopo saremo come se non fossimo stati.E' un fumo il soffio delle nostre narici,il pensiero è una scintillanel palpito del nostro cuore.[3]Una volta spentasi questa, il corpo diventerà ceneree lo spirito si dissiperà come aria leggera.[4]Il nostro nome sarà dimenticato con il tempoe nessuno si ricorderà delle nostre opere.La nostra vita passerà come le tracce di una nube,si disperderà come nebbiascacciata dai raggi del solee disciolta dal calore.[5]La nostra esistenza è il passare di un'ombrae non c'è ritorno alla nostra morte,poiché il sigillo è posto e nessuno torna indietro.

Questi sono i discorsi degli empi, ma assomigliano anche a quelli dei sapienti di Israele, dei salmi, di Giobbe, di Qoelet: che cioè la morte che rende tutto vano, che la vita è come un soffio. Tuttavia questa fenomenologia del reale è usata dagli empi per negare Dio e qualunque rapporto con Dio, cosa che invece non fanno i sapienti, Giobbe e nemmeno Qoelet. Gli empi infatti si chiudono ad ogni dimensione di trascendenza, la loro non è un’esperienza di creaturalità, come invece è quella del sapiente che si apre al Dio della vita. Per gli empi la vita è pura immanenza, senza nessuna possibilità di trascendenza.

[6]Su, godiamoci i beni presenti,facciamo uso delle creature con ardore giovanile!

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[7]Inebriamoci di vino squisito e di profumi,non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera,[8]coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano;[9]nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza.Lasciamo dovunque i segni della nostra gioiaperché questo ci spetta, questa è la nostra parte.

“Godiamoci la vita”: anche Qoelet l’aveva detto, ma Qoelet aveva anche detto che tutto ciò che possiamo godere viene dalle mani di Dio. Qua invece c’è una volontà di godere sfrenato, chiuso ad ogni prospettiva, per se stesso; un godimento che diventa perverso, perché continuano a dire:

[10]Spadroneggiamo sul giusto povero,non risparmiamo le vedove,nessun riguardo per la canizie ricca d'anni del vecchio.[11]La nostra forza sia regola della giustizia,perché la debolezza risulta inutile.

Il godiamo non è un godere ragionevole, ma un affermare se stessi distruggendo tutti coloro che ci ricordano debolezza, fragilità e morte. L’empio va contro i deboli, contro le categorie tipiche degli indifesi (povero, vedova, vecchio). Tutte e tre queste categorie sembrano inutili. E tutte evocano la morte: per il povero è data dall’assenza dei beni che permettono una vita ragionevole. Davanti a queste manifestazioni, invece di aprirsi alla Sapienza, all’amore, alla volontà di protezione ed aiuto, ecco da parte degli empi il tentativo di negare la morte e la debolezza, mostrandosi potenti, quasi onnipotenti, schiacciando ciò che è debole ed impotente. Sono le negazioni della morte: si distrugge l’altro nell’illusione che ciò ti possa far sentire onnipotente. Uccidi il vecchio nell’illusione di sentirti immortale; è una droga per dimenticare che si muore.

Ecco allora la decisione degli empi:

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[12]Tendiamo insidie al giusto, perché ci è di imbarazzoed è contrario alle nostre azioni;ci rimprovera le trasgressioni della leggee ci rinfaccia le mancanzecontro l'educazione da noi ricevuta.[13]Proclama di possedere la conoscenza di Dioe si dichiara figlio del Signore.[14]E' diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti;ci è insopportabile solo al vederlo,[15]perché la sua vita è diversa da quella degli altri,e del tutto diverse sono le sue strade.[16]Moneta falsa siam da lui considerati,schiva le nostre abitudini come immondezze.Proclama beata la fine dei giustie si vanta di aver Dio per padre.[17]Vediamo se le sue parole sono vere;proviamo ciò che gli accadrà alla fine.[18]Se il giusto è figlio di Dio, egli l'assisterà,e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.[19]Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti,per conoscere la mitezza del suo caratteree saggiare la sua rassegnazione.[20]Condanniamolo a una morte infame,perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà».

Gli apostati si sentono messi in questione dai giusti, che fanno emergere in loro un senso di colpa e la verità della loro empietà. La bontà dell’altro diventa insopportabile per l’empio ed il malvagio, che non solo decide di distruggere il giusto fisicamente, ma mettendo in questione la sua stessa fede: mettiamolo alla prova, come già visto nel Sal 3 ed alla prova della passione. Quello che viene messo in gioco è la fedeltà ad una verità che in questo modo viene assolutamente negata. La morte diventa il luogo della verità e lo dicono sicuri che Dio non c’è, vogliono provocare la morte del giusto per provare che Dio non c’è, ma in questo modo provano soltanto che ciò che c’è per loro è la morte. L’unica realtà che questi empi vogliono provare è che c’è solo la morte.

Ma tutto questo è solo apparenza. La parte finale del cap. 2 dice che questo è un inganno e che bisogna andare al di là delle apparenze. Dio ha creato l’uomo per l’immortalità: l’uomo è fatto per la vita anche se c’è la morte ed anche nella morte si vede questo, perché la morte non è l’ultima parola e per i credenti si apre la certezza dell’immortalità, mentre agli empi rimane la testimonianza del giusto che muore, la testimonianza del martirio. La morte è vinta perché l’uomo è fatto per l’immortalità,

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ma anche perché questa morte può diventare testimonianza di vita, la testimonianza del martirio appella alla conversione degli empi, così che anche per loro ci sia salvezza ed anche per loro la morte sia vinta. E questo è Sapienza.

[21]La pensano così, ma si sbagliano;la loro malizia li ha accecati.[22]Non conoscono i segreti di Dio;non sperano salario per la santitàné credono alla ricompensa delle anime pure.[23]Sì, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità;lo fece a immagine della propria natura.[24]Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo;e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.

(leggere 1-3; 10-19)

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IL SIRACIDE

Si presenta in modo simile al libro dei proverbi, è un insieme di insegnamenti e riflessioni sapienziali. È una raccolta di Sapienza. Il Siracide era di fatto uno scriba, un grande sapiente che presenta questa sorta di grande raccolta, un’enciclopedia di grandi tesori sapienziali. Ha una dimensione antologica, eterogenea.

È stato scritto a Gerusalemme in ebraico verso il II sec. a.c., poi tradotto in greco dal nipote di Ben Sira verso il 130 a.c. ad Alessandria di Egitto. La questione testuale è così resa ancora più complicata. L’ebraico si è perso, come nel caso del libro di Giuditta. Non entra nel canone ebraico, ma nel canone greco e poi in quello nostro. Nel 1896 nel ripostiglio della sinagoga del Cairo sono stati riscoperti manoscritti ebraici del Siracide. Altri sono stati rinvenuti a Qmram e Masada. Questi manoscritti consentono di recuperare circa il 70% dell’originale ebraico. È una stranezza che pone anche problematiche di tipo teologico in punto di ispirazione: a quale rifarsi. Uno solo dei due o tutti e due ?

In Sir 24 c’è l’auto-presentazione della sapienza, come verbo e come parola che è uscita dalla bocca di Dio ed ha posto la sua tenda tra gli uomini. Nella parte finale del libro, dal cap. 42 alla fine, c’è la presentazione della presenza di Dio nella natura e nella storia, dove il Siracide fa una specie di galleria dei personaggi storici, attraverso i ritratti dei principali personaggi della storia biblica. È una rilettura sapienziale della storia di Israele, come presentazione di tutta la storia attraverso i suoi principali

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personaggi.(leggere il cap. 24 e gli ultimi dal 44 al 50).

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IL CANTICO DEI CANTICI

È un libro molto particolare dal punto di vista del contenuto. Tutto incentrato sull’amore, il grande canto di un lui e di una lei che si amano, dove Dio stranamente sembra non comparire. L’autore è ignoto. La data di composizione è incerta. Non è nemmeno sicuro che sia un libro unitario. La datazione deve però essere post-esilica, risalire allo stesso tempo dei grandi libri sapienziali. Si può anche affermare che si tratti di una composizione unitaria, il che non esclude la presenza di materiale preesistente rielaborato.

Dal punto di vista del contenuto è il canto dell’amore di un uomo e di una donna; sono loro i due grandi protagonisti, con un coro che di tanto in tanto interviene. In questo libro Israele diventa una specie di giardino, come quello dell’Eden, dove questi due protagonisti si cercano, si trovano e si amano; e dove ricreano in un certo modo il giardino dell’Eden che i progenitori avevano pervertito. È il mondo bello di Gn 1, trasfigurato dall’amore che recupera ogni male. Gli amanti attraverso l’amore recuperano il giardino dell’Eden perso dai progenitori.

Molto si è discusso e ci si è interrogati su che tipo di amore sia. Si è fatto fatica ad accettare che fosse il canto d’amore di un uomo e di una donna; l’apparente assenza di Dio ha sempre fatto problema. È un libro ispirato, canonico, e ci si aspetta quindi un discorso religioso. Per rispondere a questa esigenza in passato si è cercato di spiritualizzare il contenuto attraverso l’interpretazione allegorica del testo. Questa è stata quasi unanime, fino al secolo scorso. Tutto il libro è stato visto come una grande allegoria, con un senso esclusivamente spirituale, non solo in ambito cristiano – come allegoria dell’amore tra Dio ed il credente, tra Cristo e la Chiesa, tra Cristo e l’umanità, lo Spirito e Maria –, ma anche in ambito giudaico – dove era visto soprattutto come un’allegoria della storia di Israele.

Si è andato quindi in varie direzioni, dando a questo lui ed a questo lei una dimensione di divino. Solo che questa dimensione allegorica è stata spesso esasperata fino a diventare improbabile, si è cercata tentando di identificare allegoricamente ogni singolo elemento che compare nel cantico. Non solo lui e lei, ma anche le immagini, le piante, gli animali, di ogni cosa si è cercato il

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significato allegorico, rendendo in questo modo il poema spezzettato, per quanto belle e suggestive queste immagini potessero essere. Per es. quando lei va in cerca di lui nella notte nella città, questa ricerca dell’amato può essere vista come la ricerca spirituale di Dio, nella notte spirituale appunto; e fin qua le cose possono anche andare. Il fatto è però che si è andato ben oltre: la colomba è stata vista come lo Spirito, poi però nel canto si dice che gli occhi della sposa sono come gli occhi di una colomba e si intende quindi che gli occhi della sposa rappresentano l’intelligenza spirituale della scrittura; siccome a pasqua in Israele venivano offerte le colombe come sacrificio, questo dire che la sposa è come una colomba, farebbe riferimento al mistero di Cristo perché Maria e Giuseppe hanno offerto una colomba per lui nel tempio. Ancora, le orecchie simboleggerebbero coloro che ascoltano la parola di Dio; le mani diventano le opere buone; tutto del corpo dei protagonisti diventa simbolo di qualcosa. Si va alla ricerca esasperata di simboli e significati con il rischio quindi di superare le stessi intenzioni del testo.

È una lettura allegorica che finisce, in definitiva, con il diventare sovraccarica e improbabile. Questo ha condotto nel secolo scorso ad una reazione che ha opposto una lettura storicistica o storicizzante, volta a vedere nel testo una vera storia d’amore. E si va così alla ricerca di storie bibliche che starebbero sotto il testo: e si ritrova quella di Salomone che si innamora della sunammita, una pastorella che viene condotta nella casa del re e che però ama un altro, un semplice pastore. E Salomone deve cedere perché l’amore è più forte delle ricchezze.

Anche queste letture sono piuttosto improbabili, sebbene hanno il merito di avere reagito all’interpretazione allegorica fino ad allora dominante ed hanno permesso di aprirsi a visioni più equilibrate e serene, che prendono il libro per quello che è: un canto di amore di lui e di lei, che canta l’amore umano e che attraverso una visione serena del libro e di tutta la tradizione biblica capisce che in questo amore umano si rivela l’amore divino. Senza bisogno di allegorie esasperate (per cui il lui del libro è lo Spirito Santo e lei diventa Maria) i protagonisti del canto restano un uomo e una donna e la storia viene letta come tale, con la consapevolezza però che laddove uomo e donna si amano c’è qualcosa dell’amore divino. È un amore umano che rimanda all’amore divino ed è segno dell’amore divino. L’amore divino è punto di riferimento dell’amore umano ed è questo che dà senso all’amore umano. Il rapporto di Dio con il suo popolo nell’AT, l’Alleanza tra Dio e Israele, è espresso infatti con due metafore privilegiate: quella della paternità e quella sponsale. L’amore di

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un uomo e di una donna permette di parlare metaforicamente dell’amore di Dio, che è modello e svela il vero senso dell’amore umano. E questo in tutto la scrittura, dall’AT all’apocalisse.

Ct 2[8]Una voce! Il mio diletto!Eccolo, vienesaltando per i monti,balzando per le colline.[9]Somiglia il mio diletto a un caprioloo ad un cerbiatto.Eccolo, egli stadietro il nostro muro;guarda dalla finestra,spia attraverso le inferriate.[10]Ora parla il mio diletto e mi dice:«Alzati, amica mia,mia bella, e vieni![11]Perché, ecco, l'inverno è passato,è cessata la pioggia, se n'è andata;[12]i fiori sono apparsi nei campi,il tempo del canto è tornatoe la voce della tortora ancora si fa sentirenella nostra campagna.[13]Il fico ha messo fuori i primi fruttie le viti fiorite spandono fragranza.Alzati, amica mia,mia bella, e vieni![14]O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia,nei nascondigli dei dirupi,mostrami il tuo viso,fammi sentire la tua voce,perché la tua voce è soave,il tuo viso è leggiadro».[15]Prendeteci le volpi,le volpi piccolineche guastano le vigne,perché le nostre vigne sono in fiore.[16]Il mio diletto è per me e io per lui.Egli pascola il gregge fra i gigli.[17]Prima che spiri la brezza del giornoe si allunghino le ombre,ritorna, o mio diletto,somigliante alla gazzellao al cerbiatto,sopra i monti degli aromi.

Questi testi hanno a che fare con Gn 2, il primo giardino,

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quello iniziale dell’Eden e richiamano anche l’altro giardino, quello del sepolcro, dove una donna va in cerca del suo amato (Gv 20, 11 ss.).

Quello che è interessante è questa specie di sovrapposizione/fusione delle due voci, perché è lei che parla ed è attraverso quello che lei dice si sente la voce di lui (v. 10: “ora parla il mio diletto e mi dice”). Quando lui parla lo fa attraverso la voce di lei e nella voce di lei ci sono le parole e la voce di lui. Questo dice quello che è il mistero dell’amore come fusione di due persone, questo perdersi dell’uno nell’altro che è un perdersi per ritrovarsi. In Gn 2,23 l’uomo parla la prima volta e lo fa per dire il nome di lei. Egli può dire il proprio nome perché dice il nome di lei: è un riconoscersi l’uno nell’altro.

C’è poi l’altro elemento assolutamente determinante dell’amore che è il desiderio, che si nutre nell’attesa e si nutre dell’attesa. Lei si vede come colomba (v. 14) perché lui la vede così; e lui è un cerbiatto perché lei lo vede come un cerbiatto. Tutti e due vivono nell’attesa dell’incontro che è una cosa assolutamente tipica dell’amore. Lui corre ma in un certo modo anche lei corre, non fisicamente, ma con il desiderio, con l’attesa, con gli occhi che guardano lontano per riuscire a vederlo, ed in un certo senso è come se anche lei andasse sui monti per vederlo, per cercarlo, con il desiderio, la cui dimensione va insieme a quella dell’attesa.

Ed è per questo che lui non entra subito, ma si ferma. Aspettare dice una dimensione fondamentale dell’amore, l’apertura al senso della continua novità, è l’amore che non si abitua mai all’altro perché l’altro, se è visto con gli occhi dell’amore, è sempre nuovo, è sempre una sorpresa, una meraviglia da ricevere. Lui viene sempre, ma per lei è sempre una novità, è la meraviglia davanti al dono, che non viene mai dato per scontato, di cui non ci si appropria mai. Il desiderio che rimane sempre perché va sempre al di là del possesso. Un possedere senza possedere, sempre accogliendo, sempre riconoscendo l’altro come dono e dunque ogni volta attendendo, meravigliandosi, ringraziando.

Tutto questo è vero di lui e di lei, ma è anche vero dell’amore di Dio. Ecco quindi che i due amanti si vedono come animali che corrono, ma che fanno anche tenerezza, con immagini di tenerezza, che muovono istinti di protezione. E quando questo cerbiatto arriva si ferma, resta dietro la parete, guarda dietro la finestra. La dimensione dell’attesa, del rispetto dell’altro, dell’unione che è possibile solo quando non diventa possesso, ma accoglienza e dono reciproco. Non è un lupo che carpisce la preda o un leone, ma l’amante che desidera incontrare lei il prima

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possibile eppure insieme si ferma per dare tempo all’amore di attendere e desiderare e rispettare ancora di più l’altro, assaporando così il momento di incontrarsi.

Se tu carpisci la cosa bella non è più tale, bisogna prendere coscienza che c’è e che è bella e già questo è un gustarla; ed allora poi si può entrare. Ma bisogna prima dire quanto è bella: ecco allora il giardino trasfigurato, che è la terra di Israele, di cui vengono nominate le piante e gli animali tipici. La terra di Israele è diventato il grande giardino incantato dell’amore, dove tutto è primavera (traducibile anche come “il tempo del canto”) e dice vita nuova, incantata, che rinasce che sboccia, dove si presenta con la forza evocativa dell’assoluta novità. È come se fosse una nuova creazione; è primavera ed allora lui dice vieni e la chiama colomba.

L’essere nascosta tra i monti dice la dimensione del mistero dell’inaccessibilità, bisogna saperla trovare. Finalmente allora lui può chiedere a lei di entrare nel suo mondo e nel suo riserbo, può chiederle di sentirla, di toccarla, in quella unione che è l’unione dell’amore. Tutto questo effettivamente si rivela come esperienza del divino. Lettura letterale e lettura spirituale si fondono nel cantico dei cantici. È il libro che apparentemente non parla di Dio ma è il libro dell’amore di Dio.

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SALMO 110 (109)

[1] Di Davide. Salmo. Oracolo del Signore al mio Signore: "Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi". [2] Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: "Domina in mezzo ai tuoi nemici. [3] A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell'aurora, come rugiada, io ti ho generato". [4] Il Signore ha giurato e non si pente: "Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek". [5] Il Signore è alla tua destra, annienterà i re nel giorno della sua ira. [6] Giudicherà i popoli:

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in mezzo a cadaveri ne stritolerà la testa su vasta terra. [7] Lungo il cammino si disseta al torrente e solleva alta la testa.

È un salmo regale. È molto complicato il v. 3, che può essere tradotto in molti modi. La CEI traduce “io ti ho generato”, seguendo in ciò la LXX, che però non corrisponde al testo ebraico che è invero parecchio complicato. È chiaramente un salmo regale perché è un testo che celebra il re, facendo allusione ad un momento molto particolare, quale quello di intronizzazione ed inizio del suo cammino regale. Si allude infatti ad una giornata particolare, in cui il popolo si raduna intorno al re, sul quale scende questo oracolo. Sembrerebbe proprio il momento festoso e celebrativo dell’intronizzazione del re. Si fanno gli auguri al re e si prospetta un futuro radioso per il re in riferimento alle sue vittorie.

Il momento di intronizzazione è un momento delicato nella storia dei popoli in genere e di Israele in particolare, perché vuol dire un cambio, una nuova era che si pare e che rende un po’ debole in quel momento il regno stesso. Il vecchio re è morto ed il nuovo deve ancora cominciare. È un interregno in cui i popoli vassalli potevano approfittarne per emanciparsi. Nel salmo si augura al re vittoria totale sui nemici interni ed esterni.

Questo re che viene intronizzato alla destra di Dio è il re messianico dalle dimensioni escatologiche, in una prospettiva che supera l’intronizzazione di un preciso evento e re storico. La possibile datazione del salmo è assolutamente incerta. Chi lo situa al tempo di Davide, chi al momento della rivolta maccabaica.

v. 1"Siedi alla mia destra,

Sedere alla destra di qualcuno è segno di prestigio e di onore. Alla destra di Dio vuol dire assurgere ad una dimensione di massimo onore e di grandissimo privilegio. Quando Betsabea chiede a Davide di nominare come successore Salomone, si prostra davanti a Davide; ma quando Salomone è re, la regina madre ha un ruolo di grandissimo privilegio e non si inginocchia davanti a lui, ma anzi è il re che la fa sedere alla sua destra. Chi diventa una persona da onorare, non si inginocchia più, ma siede alla destra del re. Nel nostro salmo il sovrano re d’Israele viene fatto sedere da Dio alla propria destra in segno di omaggio e privilegio.

finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi".

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Non solo siede alla sua destra, ma riceve anche la promessa di una vittoria totale sui nemici. Il re potrà porre simbolicamente il suo piede su di loro, ma forse nemmeno troppo metaforicamente. Sembra che lo sgabello che veniva posto sotto il trono recasse figure dei nemici, cosicché simbolicamente li potesse calpestare. Questo sgabello non lo mettono i servi, né se lo mette da solo, ma viene messo sotto i suoi piedi direttamente da Dio.

L’idea di regalità di Israele fa sì che ogni vittoria fosse considerata un dono di Dio al re. Il re rappresenta il Signore sulla terra per un mandato che il re riceve e vive in obbedienza. Non è il re che strappa il potere regale, ma lo riceve da Dio. Non è egli che si arrampica nella scala sociale, ma è il re che viene posto lì da Dio. Egli deve vivere il ruolo come un servizio per i fratelli in obbedienza a Dio.

In Dt 17, 14 ss. si dice come deve essere il re Israele. È un testo che insegna come si esercita il potere in genere.

[14]Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti e ne avrai preso possesso e l'abiterai, se dirai: Voglio costituire sopra di me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno, [15]dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore tuo Dio avrà scelto. Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno straniero che non sia tuo fratello. [16]Ma egli non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi gran numero di cavalli, perché il Signore vi ha detto: Non tornerete più indietro per quella via! [17]Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca; neppure abbia grande quantità di argento e d'oro. [18]Quando si insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di questa legge secondo l'esemplare dei sacerdoti leviti. [19]La terrà presso di sé e la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore suo Dio, a osservare tutte le parole di questa legge e tutti questi statuti, [20]perché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli ed egli non si allontani da questi comandi, né a destra, né a sinistra, e prolunghi così i giorni del suo regno, lui e i suoi figli, in mezzo a Israele.

Il re è scelto dal Signore, non sei tu che ti dai il re, ma è il Signore che te lo da; e non sei tu re che decidi di diventare re, ma è il Signore che ti sceglie, e dunque tu sei re finché riesci a vivere questa elezione.

Chi esercita il potere lo deve fare da fratello e non come despota e deve vivere il proprio potere come servizio di un fratello ad altri fratelli.

Non avere un gran numero di cavalli e di mogli, nonché argento ed oro. I cavalli servivano ad apparire anzitutto potenti e

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ricchi (pensiamo ad Assalonne), ma soprattutto servono a fare la guerra. Non bisogna cercare il potere militare, non è lì che devi mettere la tua forza, perché questo ti costringerebbe a tornare in Egitto. Se tu vuoi rendere potente il tuo esercito per essere potente nella guerra, inevitabilmente finirai per asservirti a quelle nazioni e quei popoli che ti forniscono le armi. Se vai in Egitto ridiventi schiavo dell’Egitto. Se io mi faccio armare da un popolo, inevitabilmente ne divento servo.

Non potere militare, né potere politico: ecco le mogli ! Anche avere molte mogli è segno di ricchezza. Ma non è questo il punto, è che se no il tuo cuore si smarrisce. Le mogli servivano per fare alleanza: es. Acab che sposa Getzabea, ma questo fa smarrire il tuo cuore, non solo perché il potere è una malattia che uccide, ma anche perché queste mille alleanze ti portano inevitabilmente a perdere la tua identità. Con Getzabea il baalismo diventa infatti religione di Stato insieme allo Jahvismo.

Ed infine niente potere economico, si completa così il panorama degli elementi fondamentali. Cosa cercare ? DT 17 dice che la legge dovrà esser letta tutti i giorni della sua vita. Il re è colui che medita la legge del Signore giorno e notte e vive obbedendo a quella legge.

v. 2[2] Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion: "Domina in mezzo ai tuoi nemici.

Il salmo, dopo aver detto che è Dio che gli dà i nemici nelle mani e che lo insedia sul trono, ora dice che Dio gli affida lo scettro del dominio e del servizio, per dominare in obbedienza a un comando che gli viene da Dio. Sì è il re che domina, ma con uno scettro che in realtà tiene in mano il Signore: è lo scettro del “tuo potere”, ma lo “stende il Signore da Sion”; ed il re vive appunto obbedendo. Questo è il re del nostro salmo, ma secondo la prospettiva biblica è Adam, cioè l’uomo. Nella prospettiva di Gn 1-2 Adam è il re del giardino ed il re messianico non fa altro che portare a compimento la vocazione, il compito, il mandato divino di Adam. Il dominio dell’uomo sul creato è obbedienza al mandato di Dio. E qui non si sa se è il re che domina con lo scettro o è Dio: l’immagine vuole volutamente confondere, perché sono tutti e due a dominare, insieme.v. 3

[3] A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori;

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dal seno dell'aurora, come rugiada, io ti ho generato".

Dopo questa promessa di dominio, ecco la visione di questo strano e difficile v. 3 che sembra descrivere il momento del trionfo: “il tuo popolo è generosità”, cioè risponde generosamente, con generosità; “nel giorno della tua potenza militare” richiama il giorno dell’intronizzazione, momento festivo, ma anche la preparazione alla guerra, quando il re può contare sul suo popolo che risponde appunto generosamente al suo appello; “tra splendori di santità dal seno dell’aurora è per te la rugiada della tua gioventù”, con questa immagine davvero difficile si fa riferimento alla luce del giorno che comincia e si dice che la gioventù è come rugiada. Le cose si complicano molto.

La luce dell’aurora richiama il luccichio della rugiada, che luccica proprio grazie ai raggi dell’aurora. L’idea era che la rugiada veniva dalle stelle e portava oltre alla fertilità anche la luce delle stelle. È connessa con l’idea della fertilità e della vita, legata al mistero delle stelle e del suo nascere. Questa immagine con la forza evocativa di mistero e di vita rinnovata è usata per dire che così è la tua gioventù. Questa gioventù è inoltre volutamente detta in modo ambiguo perché la tua gioventù, come giovani, ragazzi, soldati, che sono come rugiada, che vengono per difendere la vita (si può ricordare l’episodio di Qusai che consiglia Assalonne di radunare l’esercito e di prendere Davide alla sprovvista e cadere su di lui come la rugiada, che non sai da dove è venuta, silenziosa, misteriosa). Certo rugiada come fecondità e vita, i tuoi giovani, ma anche gioventù come la tua età giovane, come rinnovamento delle forze, energie e della vitalità.

L’immagine resta comunque enigmatica.

v. 4

[4] Il Signore ha giurato e non si pente: "Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek".

Con il v. 4 inizia un oracolo che conferisce al re dignità sacerdotale. Siamo davanti ad un altro enigma. Questa allusione a Melchisedek è di difficile decifrazione. Abramo offre pane e vino a Melchisedek che lo benedice. C’è forse una visione teocratica della regalità, legata all’idea della vittoria e della benedizione, così da completare la visione del re.

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vv. 5-6[5] Il Signore è alla tua destra, annienterà i re nel giorno della sua ira. [6] Giudicherà i popoli: in mezzo a cadaveri ne stritolerà la testa su vasta terra.

Dopo di questo abbiamo la visione brutale della vittoria del re. Adesso le posizioni cambiano. Se prima era il re che stava alla destra di Dio, adesso c’è un’inversione e il salmista dice che il Signore Dio è alla destra del re. E si capisce bene questa inversione perché quando si diceva che il re sedeva alla destra di Dio si voleva dire che il re era in una posizione di assoluto privilegio. Adesso si vuole dire un’altra cosa e cioè che Dio è il difensore del re. In battaglia si combatte tenendo nella mano destra l’arma e con la sinistra si regge lo scudo che deve difendere. Se io voglio difendere qualcuno me lo devo tenere alla mia sinistra e quindi io difensore mi devo mettere alla destra di chi voglio difendere. Dio si posiziona come in battaglia per difendere il re.

Questa difesa del re che implica da parte di Dio un combattere per il re. Ma chi è allora che combatte e che vince, il re o Dio ? Tutti e due. Ancora una volta il soggetto di tutti questi verbi è insieme il re e il Signore. Il re difeso da Dio combatte e Dio combatte con lui e per lui e allora appare la grande visione della vittoria con i re nemici schiacciati, le teste schiacciate e i cadaveri ammucchiati. Una visione brutale che vuole indicare una vittoria totale che il salmista sente il bisogno di rendere visibile. Quando si dice che Dio vince i nemici ed il male l’uomo ha bisogno non solo di poterlo credere, ma anche di poterlo vedere. C’è un’esigenza di visibilità di un’esperienza reale e visibile che il bene vince il male, e questo fa il nostro salmo, rende visibile questa vittoria di Dio sul male.

v. 7[7] Lungo il cammino si disseta al torrente e solleva alta la testa.

Anche l’ultima visione resta enigmatica, reca in sé un mistero: quella del re che beve dal torrente e perciò alza la testa. Alzare la testa è un segno di vittoria, ma perchè sia in connessione con il bere dal torrente è un enigma. Possiamo tentare alcune linee allusive: bere dal torrente allude a molte cose. C’è nella scrittura una connessione tra la regalità e l’acqua. Davide è al fiume Giordano che viene riconfermato come re. In Is 7 l’oracolo di Isaia

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al re Acab è fatta lungo un canale d’acqua. Quando Salomone è unto come re, questa unzione è fatta alla fonte di Tifon. C’è una connessione tra l’acqua ed il re.

In più l’acqua è simbolo di vita, ancor più in una terra semidesertica come quella di Israele. In guerra l’acqua è ancora più fondamentale. Senza acqua si perdono le forze e si muore. Davide prende la brocca dell’acqua che stava presso Saul insieme alla lancia. In guerra quella è importante come la lancia. È inutile avere la lancia se non hai l’acqua. Questo bere è segno di un re accompagnato dal dono di Dio.

L’acqua è considerata nella Scrittura come dono di Dio in genere, ed anche per effetto dell’episodio di Elia che al torrente Kerit mangiava il cibo che gli portavano i corvi e beveva dal torrente. Si usa la stessa immagine. Questo salmo mette Elia nello sfondo, perché il re è sacerdote, come Melchisedek, però è anche profeta. Racchiude così tutte le grandi dimensioni di autorità in Israele: è re, sacerdote e profeta. Vive la regalità in obbedienza a Dio, ricevendo il dono da Dio. Mentre la terra diventa deserto, Elia nel deserto ha invece l’acqua che viene dal torrente. Elia nel deserto fa quello che dovrebbe fare il popolo, andare nel deserto e fidarsi di Dio e ricevere la vita da Dio e non cercarla da Baal. La vita di Dio viene da mezzi improbabili, perché Elia riceve il cibo dai corvi (animali impuri, in modo inimmaginabile) e l’acqua dal torrente nel deserto in tempo di siccità: è l’improbabile totale, che Elia vive proprio perché accetta l’improbabile, si fida dell’improbabile e crede nell’incredibile. Il profeta Elia che beve dal torrente è icona di questo e forse anche il re che beve dal torrente nel salmo vuole fare riferimento a questo.

Questa visione conclusiva del salmo vede il re in un momento di pausa e di trionfo insieme. Così si conclude il salmo, su quella che è la vocazione stessa dell’uomo, chiamato a dominare ma obbedendo all’unico Signore, che si apre in modo esplicito alla dimensione messianica. È la regalità del re che diventa re nel momento in cui dà la vita, il messia che è sacerdote, re e profeta.

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SALMO 83 (82)

Il salmo 110 presenta oltre ai suoi misteri insoluti, anche la scena assolutamente brutale di una vittoria e di un potere che si esercita ammucchiando i cadaveri. Questo salmo, come molti altri,

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ci porta ad interrogarci sul problema della violenza. In particolare della violenza nei salmi, nei testi che dovrebbero essere di preghiera. È un problema reale e non fittizio, molto dibattuto. Non solo nel salterio, ma anche in molte altre preghiere nella Scrittura (anche nell’Apocalisse, dunque anche all’interno del NT), si chiede a Dio di fare vendetta. C’è il problema di una preghiera che diventa imprecazione, richiesta di vendetta, di distruzione e di morte. Il problema è di mettere insieme queste due dimensioni, pregare imprecando.

Ci sono salmi che sono totalmente imprecatori, dove non c’è altro. Un esempio è il salmo 83, che leggiamo senza studiarlo nello specifico.

[1]Canto. Salmo. Di Asaf.[2]Dio, non darti riposo,non restare muto e inerte, o Dio. [3]Vedi: i tuoi avversari fremonoe i tuoi nemici alzano la testa.[4]Contro il tuo popolo ordiscono tramee congiurano contro i tuoi protetti.[5]Hanno detto: «Venite, cancelliamoli come popoloe più non si ricordi il nome di Israele». [6]Hanno tramato insieme concordi,contro di te hanno concluso un'alleanza;[7]le tende di Edom e gli Ismaeliti,Moab e gli Agareni,[8]Gebal, Ammon e Amalekla Palestina con gli abitanti di Tiro.[9]Anche Assur è loro alleatoe ai figli di Lot presta man forte. [10]Trattali come Madian e Sisara,come Iabin al torrente di Kison:[11]essi furono distrutti a Endor,diventarono concime per la terra.[12]Rendi i loro principi come Oreb e Zeb,e come Zebee e Sàlmana tutti i loro capi;[13]essi dicevano:«I pascoli di Dio conquistiamoli per noi». [14]Mio Dio, rendili come turbine,come pula dispersa dal vento.[15]Come il fuoco che brucia il boscoe come la fiamma che divora i monti,[16]così tu inseguili con la tua buferae sconvolgili con il tuo uragano. [17]Copri di vergogna i loro voltiperché cerchino il tuo nome, Signore.[18]Restino confusi e turbati per sempre,siano umiliati, periscano;

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[19]sappiano che tu hai nome «Signore»,tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra.

Si chiede a Dio di intervenire e di uscire dal sonno e dal silenzio e di intervenire, secondo le modalità della natura (invocando una distruzione totale per mezzo di fenomeni naturali) e secondo le modalità della storia: “come Madian e Sisara” (i madianiti sconfitti da Gedeone, Gdc 7-8; ed i cananei, quando Sisara viene ucciso da Giaele, Gdc 4-5, con un chiodo conficcato nella testa).

Il motivo della richiesta è che questi nemici si stanno rivolgendo contro Dio. Il salmista non dice i miei nemici, ma “i tuoi nemici”, coloro che ti odiano, che hanno sì fatto alleanza contro di noi, ma sono i tuoi nemici, allora destati ed intervieni. Nel momento in cui nomina i nemici (dieci), tutti costoro sono tutti i popoli che sono stati nemici di Israele, ma sempre con una dimensione blasfema, combattendo Israele con la volontà di combattere Dio, di impedire il realizzarsi del progetto di Dio: sono anzitutto contro Dio.

Quello che adesso i nemici dicono ha una forza blasfema, utilizzano un passivo teologico, non sia più ricordato il nome di Israele, non vuol dire solo che nessuno più se lo ricordi, ma che Dio non se lo ricordi più. Quando dicono “conquistiamo per noi i pascoli di Dio”, lo dicono con un verbo teologico che si usa per dire che Dio dà in eredità la terra ad Israele. Questi popoli invece dicono “noi questa eredità ce la prendiamo”. Vogliono interrompere l’alleanza e strappare il dono di Dio come conquista. Ecco la blasfemia, che rifiuta il dono per appropriarsene e che dice che Dio non ricorda, quindi non c’è. Allora il salmista insorge e dice “intervieni e piantagli il chiodo nella tempia”.

Questa richiesta è un problema: nella scrittura ci troviamo davanti a preghiere che chiedono morte e la chiedono al Dio della vita. Questo è contraddittorio e appare inaccettabile. Cosa possiamo dire davanti a questi testi ? Non è una soluzione dire facciamo finta che non ci siano. Bisogna cercare di capire cosa vogliono dirci, alla luce del messaggio globale della Scrittura.

La prima cosa da dire è che questi salmi imprecatori vengono dall’esperienza che colui che viene messo in questione è Dio. La preghiera imprecatoria nasce dalla consapevolezza che il male ed il peccato sono anzitutto realtà contro Dio, che mettono in questione lui. Chi prega questi salmi non è preoccupato per sé, ma del fatto che quel male mette in gioco la realtà di Dio. Se il male trionfa senza che Dio intervenga, diventa dunque legittimo dire Dio non c’è o se c’è è impotente, il che è la stessa cosa.

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La preghiera imprecatoria prima di tutto si preoccupa di Dio ed aiuta a capire la profondità del male e dell’orrore del male. Ti costringe a reagire in qualche modo dicendoti che se davanti al male tu rimani fermo e tranquillo e sorridendo inviti al perdono, il salmo imprecatorio ti dice che se fai questo stai mentendo, vuol dire che non te ne importa niente, che sei connivente ed indifferente. Prova a farti toccare da quell’orrore, vivilo fino in fondo e vediamo se rimani calmo; se succede a te o a qualcuno che ami, resti ancora calmo ? Il salmo imprecatorio ti dice che davanti al male bisogna reagire e farlo violentemente. Il salmo ti fa tirare fuori tutta la tua violenza, perché questa ed il desiderio di vendetta sono dentro di noi.

Il salmo imprecatorio ti fa tirare fuori tutto questo, ma te lo fa dire come preghiera, mostrandola a Dio e mettendola davanti a Lui, permettendo che Dio ci converta. Se il nostro desiderio di vendetta lo convertiamo in preghiera stiamo al tempo stesso rinunciandoci, mostriamo a Dio il nostro desiderio perché lui lo converta e trasformi. Chiediamo sì a Dio di fare vendetta e di farla come vorremmo fare noi, gli chiediamo di farla così, però alla fine diciamo che sia Tu a farla e non io, nella consapevolezza che quando siamo noi a farla la facciamo con i nostri criteri, mentre la vendetta di Dio è quella secondo i suoi criteri. Se lasciamo a lui di fare vendetta lasciamo a lui di farla anche a modo suo.

Ed il modo di Dio adesso lo conosciamo, fa vendetta perdonando, distruggendo il vitello d’oro e polverizzandolo, in modo che il peccato non ci sia più, e poi dando le seconde tavole; distruggendo sì, ma non il peccatore, ma il peccato; mandando suo figlio ad uccidere la morte, quella sì, ed a distruggere il peccato, quello sì. Ecco che ultimamente pregare i salmi imprecatori è chiedere che venga Pasqua, che la morte muoia, che “venga il Tuo regno”, ma venga davvero e venga presto e venga con tutta la forza di Dio.

Ecco che le immagini di violenza ci aiutano a dire che la violenza non chiude la nostra vendetta, ma la violenza del nostro desiderio del regno di Dio, il regno di Pasqua, lì dove la morte muore ed il peccato è vinto. È il desiderio pasquale del perdono definitivo. Chiedendo che il male venga distrutto chiediamo anche che venga distrutto il nostro male, che quei paletti vengano infilati anche nelle nostre teste, perché finalmente si sia liberati dal male e ci si possa aprire al bene della vita.

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SALMO 136 (135)

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[1]Alleluia. Lodate il Signore perché è buono:perché eterna è la sua misericordia.[2]Lodate il Dio degli dei:perché eterna è la sua misericordia.[3]Lodate il Signore dei signori:perché eterna è la sua misericordia. [4]Egli solo ha compiuto meraviglie:perché eterna è la sua misericordia.[5]Ha creato i cieli con sapienza:perché eterna è la sua misericordia.[6]Ha stabilito la terra sulle acque:perché eterna è la sua misericordia.[7]Ha fatto i grandi luminari:perché eterna è la sua misericordia.[8]Il sole per regolare il giorno:perché eterna è la sua misericordia;[9]la luna e le stelle per regolare la notte:perché eterna è la sua misericordia. [10]Percosse l'Egitto nei suoi primogeniti:perché eterna è la sua misericordia.[11]Da loro liberò Israele:perché eterna è la sua misericordia;[12]con mano potente e braccio teso:perché eterna è la sua misericordia. [13]Divise il mar Rosso in due parti:perché eterna è la sua misericordia.[14]In mezzo fece passare Israele:perché eterna è la sua misericordia.[15]Travolse il faraone e il suo esercito nel mar Rosso:perché eterna è la sua misericordia. [16]Guidò il suo popolo nel deserto:perché eterna è la sua misericordia.[17]Percosse grandi sovraniperché eterna è la sua misericordia;[18]uccise re potenti:perché eterna è la sua misericordia.[19]Seon, re degli Amorrei:perché eterna è la sua misericordia. [20]Og, re di Basan:perché eterna è la sua misericordia.[21]Diede in eredità il loro paese;perché eterna è la sua misericordia;[22]in eredità a Israele suo servo:perché eterna è la sua misericordia. [23]Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi:perché eterna è la sua misericordia;[24]ci ha liberati dai nostri nemici:perché eterna è la sua misericordia.

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[25]Egli dà il cibo ad ogni vivente:perché eterna è la sua misericordia. [26]Lodate il Dio del cielo:perché eterna è la sua misericordia.

Questo salmo è la grande lode, il grande hallel, recitato al termine della cena pasquale ebraica. In Mt si dice che Gesù, finito di recitare gli inni, si recò nel Getsemani: recitò anche questo.

È il salmo che termina ad ogni invocazione con la ripetizione “perché eterna è la sua misericordia”. È una grande litania, con questo responsorio continuo, che in qualche modo dà al salmo un ritmo particolare, una monotonia, che attraverso la ripetizione della motivazione della lode apre questo salmo ad una qualche eternità. Proprio la ripetizione della stessa frase permette a chi prega di essere preso in questo ritmo ed essere così portato a metterci dentro le proprie ragioni di lode; il salmo vuole creare in chi legge la percezione di una lode eterna di Dio, che in quanto tale non finisce nel testo del salmo, ma si estende alla vita di chi prega. È una lode che potrebbe continuare all’infinito.

Nel salmo stesso ci sono infatti segni precisi di alcune aggiunte posteriori. I nomi dei due re, nonché la frase sulla memoria dell’umiliazione, presentano – per motivi piuttosto complessi di esegesi – chiari segni di aggiunte. Quindi già il salmo stesso comprende elementi aggiunti in diversi momenti, è fatto a strati, è cresciuto nella sua storia ed è stato assunto da Israele che prega come qualcosa che si può dilatare. E chi assume il salmo può fare lo stesso, entrando in questo ritmo martellante della lode con la propria esperienza di vita.

vv. 1-3

[1]Alleluia. Lodate il Signore perché è buono:perché eterna è la sua misericordia.[2]Lodate il Dio degli dei:perché eterna è la sua misericordia.[3]Lodate il Signore dei signori:perché eterna è la sua misericordia.

Si comincia con il triplice invito alla lode (vv. 1-3). È significativo che tutto cominci con questo triplice comando: “lodate”. In questo modo il salo fa fare l’esperienza della lode come qualcosa che non è semplicemente un fatto spontaneo, ma è la risposta al dono di Dio di una persona che vive nell’obbedienza. Questo salmo ci dice che è obbedienza anche la lode. Di solito si

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pensa invece che la lode debba essere spontanea: ed invece no, se lodi obbedisci a quello che è il tuo compito fondamentale, lodare il Signore, nella consapevolezza che Dio può essere lodato anche nel pianto e nella sofferenza. È l’obbedienza alla propria verità di fede.

Questo “lodate” è detto in modo particolare perché non si usa il verbo che ci si aspetterebbe – il verbo hallel – ma i verbo ydh, da cui il sostantivo todà. Ydh indica la lode come rendimento di grazie, ringraziare, ma con la sfumatura particolare del riconoscere qualche cosa e quindi anche confessare qualcosa. Nel suo significato di base diventa quel riconoscere Dio e la sua bontà, ma è insieme anche riconoscere non solo chi è Dio ma anche chi è l’uomo, la nostra miseria, il nostro peccato e quindi anche confessare. La todà biblica è contemporaneamente la confessione del peccato e la lode a Dio. Nel nostro salmo si insiste ovviamente sull’aspetto di lode e rendimento di grazie, ma la sua sfumatura ricorda che chi loda ha bisogno di Dio. La grandezza di Dio e la miseria dell’uomo si incontrano in questo verbo, nel duplice riconoscimento che il verbo stesso evoca.

vv. 4-9

[4]Egli solo ha compiuto meraviglie:perché eterna è la sua misericordia.[5]Ha creato i cieli con sapienza:perché eterna è la sua misericordia.[6]Ha stabilito la terra sulle acque:perché eterna è la sua misericordia.[7]Ha fatto i grandi luminari:perché eterna è la sua misericordia.[8]Il sole per regolare il giorno:perché eterna è la sua misericordia;[9]la luna e le stelle per regolare la notte:perché eterna è la sua misericordia.

Le grandi meraviglie, le prime che vengono nominate sono il grande prodigio della creazione di Dio. Il mondo non è solo lo scenario in cui si presenta l’agire di Dio, ma il segno misericordioso dell’agire di Dio. L’inizio del manifestarsi della misericordia eterna di Dio, che nella creazione fa alleanza eterna con la vita e si manifesta come il Dio della vita. È la creazione il primo momento rivelatorio della sua misericordia. La creazione di cui parla il nostro testo fa ovviamente riferimento a Gn 1, ma se ne differenza perché si ferma alla descrizione della creazione della terra e del mare, dei cieli e degli astri. Arriva solo fino al 4°

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giorno della creazione e non continua con la creazione degli animali e dell’uomo.

Si ferma agli astri, a cui dedica ben tre versetti, che servono per la creazione dei luminari (sole, luna e stelle). C’è un’insistenza sulla dimensione celeste, sull’immensità (come nel Sal 8: “[4]Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, [5]che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi ?”). Questa dimensione è per l’uomo e lo mette in relazione con Dio. La funzione degli astri è quella di regolare il giorno, che nella prospettiva biblica diventa quella di dare senso al tempo che non è solo alternanza di luce e buio, giorno e notte, ma è storia, insieme di giorni che diventano mesi, anni, segnati dalla diversità delle stagioni. Cos’è che ci permette di contare i giorni ? Il sole e la luna. Ci permette di sapere qual è il momento di seminare e di raccogliere. Come si fa sapere quando è pasqua ? Bisogna guardare la luna. Gli astri trasformano il tempo cosmico in tempo storico, in tempo umano, in tempo liturgico. Sono gli astri che determinano il momento della celebrazione delle feste e dunque mettono in contatto l’uomo con Dio.

vv. 10-12

[10]Percosse l'Egitto nei suoi primogeniti:perché eterna è la sua misericordia.[11]Da loro liberò Israele:perché eterna è la sua misericordia;[12]con mano potente e braccio teso:perché eterna è la sua misericordia.

Dopo di essi si passa alla celebrazione della storia come storia della salvezza. Si comincia a raccontare la storia della salvezza che le feste celebrano. Si comincia con il riferimento al grande tempo pasquale, al tempo salvifico, paradigma di tutti gli altri: l’esodo, l’uscita dall’Egitto ed il cammino nel deserto. Si evocano le piaghe, raccontando l’ultima che ricapitola ed evoca tutte le altre. E non semplicemente perché le piaghe hanno permesso ad Israele di uscire dall’Egitto, considerato che le piaghe sono un atto di misericordia anche nei confronti dell’Egitto, sono un rib con cui Dio mette l’Egitto davanti alle conseguenze del suo rifiuto; Dio si appella alla coscienza dell’Egitto perché riconosca che Dio è Dio e si lasci salvare. Sono un segno di misericordia per chi le riconosce e le sa accettare.

vv. 13-15

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[13]Divise il mar Rosso in due parti:perché eterna è la sua misericordia.[14]In mezzo fece passare Israele:perché eterna è la sua misericordia.[15]Travolse il faraone e il suo esercito nel mar Rosso:perché eterna è la sua misericordia.

Dopo le piaghe la grande liberazione dall’oppressione e dalla schiavitù. Il Dio anche guerriero capace di vincere, che interviene per liberare, facendo il rib finché si può e poi operando il grande giudizio. Il Mar Rosso è il grande giudizio, che porta una dimensione escatologica ed allora si vede il povero liberato e l’oppressore morto sulla riva del mare. Israele esce con mano potente e braccio teso, Israele esce a mano alzata, ma è un Israele che deve assistere ad una vittoria di Dio in cui Israele stesso deve prendere coscienza che l’unico che vince è Dio; ecco quindi la divisione del Mar Rosso. Al Mar Rosso Israele fa l’esperienza davvero di chi è Dio: l’aveva visto, il braccio potente di Dio, le piaghe, ma bisognava che Israele facesse esperienza anche della propria debolezza e lì al Mar Rosso si vede.

Lì Israele viene meno e crolla nella fede, dimentica tutto, vede arrivare il faraone con i carri; ed allora Israele che – pure si stava portando dietro le ossa di Giuseppe e che conservava in queste ossa il segno della fedeltà di Dio – appena vede arrivare l’Egitto dimentica tutto, le ossa, le piaghe, e si lamenta: “tu ci hai portato qui a morire nel deserto”. L’azione di misericordia di Dio viene letta dal popolo nel momento della tentazione come un’azione di morte: “Dio ci ha portato fuori per farci morire”. Questa è la lettura della storia che l’uomo fa davanti al dolore, alla morte: questo fa la paura: dire che Dio non mi salva e che devo e voglio salvarmi con i miei mezzi. Questo fa dire la paura, anche se l’Egitto è un luogo di tombe, come loro stessi riconoscono. È il venir meno della fede, a cui Dio risponde richiamando Israele alla fede con Mosè che dice “voi vedrete la salvezza che Dio fa per voi”; e questo “per voi” lo dice due volte. Voi avete dimenticato Dio ma Dio non vi ha dimenticato.

Ed allora le acque si separano ed il faraone muore, e questo senza che Dio faccia nulla. Dio si manifesta e basta e quando si manifesta l’Egitto torna indietro dove le acque si chiudono. Non è Dio che uccide l’egiziano, ma è il mostro, il mare, il nemico che uccide l’altro nemico. I due nemici – il mare e l’Egitto –, tra i quali Israele era stato stretto, si distruggono a vicenda; ed Israele invece conosce la salvezza.

v. 16

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[16]Guidò il suo popolo nel deserto:perché eterna è la sua misericordia.

Ecco venire dopo il cammino nel deserto, in cui Israele impara a fidarsi di Dio e nel quale Dio continua a manifestarsi come presenza di salvezza e di bene.

vv. 17-20[17]Percosse grandi sovraniperché eterna è la sua misericordia;[18]uccise re potenti:perché eterna è la sua misericordia.[19]Seon, re degli Amorrei:perché eterna è la sua misericordia. [20]Og, re di Basan:perché eterna è la sua misericordia.

In questo salmo i re potenti sono paradigmi di coloro che si contrappongono a Dio. E Israele sa che nel momento in cui diventa come Og, come Seon, come il faraone, si contrappone a Dio, entra in questo mistero di morte che è la manifestazione della potenza autodistruttiva del peccato. Quello che il salmo ci consente di capire è che la salvezza di Dio consiste in un giudizio che riguarda anche Israele. Il popolo che canta le lodi di Dio sa di essere stato salvato gratuitamente da quella stessa distruzione, perché non ci vuole niente a diventare come Seon e gli altri “grandi sovrani”, come non ci vuole niente che il credente si contrapponga a Dio e crolli nella fede. Lodare Dio è riconoscere che Dio ci ha salvati da una distruzione così facile per l’uomo.

vv. 21-22[21]Diede in eredità il loro paese;perché eterna è la sua misericordia;[22]in eredità a Israele suo servo:perché eterna è la sua misericordia.

Dopo il cammino nel deserto ecco la conquista della terra che è appare come eredità, dono ricevuto, non conquista blasfema come quella dei nemici di Israele del Sal 83; come se potessimo noi entrare nell’eredità, mentre è accettazione di un dono.

La terra diventa sintesi e paradigma di tutti i doni, perché consente di vivere, dà stabilità, etc.

vv. 23-24[23]Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi:perché eterna è la sua misericordia;

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[24]ci ha liberati dai nostri nemici:perché eterna è la sua misericordia.

Ma in questa terra la vita continua ad essere sotto minaccia. Ecco la perdita della terra, l’umiliazione, la distruzione, la “nostra umiliazione”: qui c’è dentro tutta la storia di Israele, il rapporto di Israele con tutti i nemici; la figura particolare è l’esilio, nonostante il quale Dio si ricorda e libera. La sua fedeltà, la sua misericordia sta tutta nella sua memoria, Israele dimentica ma Dio resta invece fedele.

vv. 25-26[25]Egli dà il cibo ad ogni vivente:perché eterna è la sua misericordia. [26]Lodate il Dio del cielo:perché eterna è la sua misericordia.

Questa fedeltà di Dio alla vita si manifesta ultimamente nei versetti finali del salmo, quando si dice che Dio che “dà il pane ad ogni carne”. È un Dio di tutti, è un Dio per tutti. Ad Israele dà la terra in eredità, ma il cibo lo dà a tutti. Mostra il suo volto definitivo, è Padre, perché è tipico del padre dare il pane ai figli e dare l’eredità. Questo Dio che fa gli astri, che ricolma l’universo della sua presenza di bene, è il Dio Padre che mostra la sua misericordia eterna nel piccolo e grandissimo segno del pane che Dio ci dona. In questo pane trova compimento il rivelarsi della fedeltà di Dio, è in questo pane quotidiano che la storia quotidiana dell’uomo si riempie di Dio e della sua eterna misericordia.

Questo salmo in qualche modo ci presenta una sintesi di tutta la scrittura. C’è la Torah (attraverso la creazione e l’esodo), ci sono i profeti (attraverso la memoria della conquista della terra e dell’esilio), ci sono gli scritti sapienziali (nella cultura universalistica in cui si rivela come Dio di tutti: è la dimensione sapienziale che si apre alla problematiche universali).

Si comincia con Gn 1 e si arriva ai sapienziali, a Dio che dà il pane, e questo Dio dei sapienti è il Dio della Genesi: con questo salmo ritroviamo la scrittura nella pienezza della sua unità. Si comincia da Gn ed in qualche modo si ritorna a Gn attraverso il pane che proviene dalla terra creata da Dio e – mentre il cerchio si chiude – abbiamo il compimento, perché questo pane che rivela Dio come Padre ci apre al NT, a quel pane di vita che accompagna la nostra esistenza e trasforma la vita nella terra nel Regno di Dio.

Questa sembra essere la vera sapienza. Essere saggi vuol dire riconoscere Dio nella creazione e nella sua opera di salvezza

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(Torah); ascoltare l’appello alla conversione (profeti); cercare il Dio dell’amore (libri sapienziali); rispondere al nome di Dio nella celebrazione e nella lode (salmi); ultimamente credere in un Dio che dà il pane, che si fa pane per essere un Dio per tutti: questa è la sapienza.