chiaroscuro numero 6

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6 Novembre 2010 chiaro s curo NUMERO S Sommario La scuola per il futuro STOP visite d’istruzione Le cifre della scuola in Umbria Questa benedetta riforma Gelmini Il Ricercatore Mala tempora currunt La scuola ai tempi di mio nonno Una valigia piena di anni Dai diamanti non nasce niente Sogni infranti L’angolo della vergogna A Foligno c’è un aeroporto Acqua e ambiente L’Aquila e la ricostruzione impossibile Irma la dolce Terra libera, libero sogno Una storia di guerra. Una storia tra tante Immagina Sarajevo Palestina, il muro ed oltre Prisca Cuore di ragazzo Bambini o piccoli terremoti Il relativismo del ciliegio Il relativismo spiegato al mio cane Corpi Riflessioni di una donna/Come vivere gli anta La favola della morte Sorrisi nascosti d’addio Libero Spazio Mazzini, Garibaldi Il fuochista ferroviere Aldo Bernetti: il prete volante 0039 3 4 5 6 7 8 10 12 14 16 17 18 19 21 22 24 25 26 28 30 32 33 34 36 38 39 40 42 43 44 46 48 50 /Slow Press

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ChiaroScuro numero 6

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6Novembre 2010

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O SSommario

La scuola per il futuroSTOP visite d’istruzione

Le cifre della scuola in UmbriaQuesta benedetta riforma Gelmini

Il RicercatoreMala tempora currunt

La scuola ai tempi di mio nonnoUna valigia piena di anni

Dai diamanti non nasce nienteSogni infranti

L’angolo della vergognaA Foligno c’è un aeroporto

Acqua e ambienteL’Aquila e la ricostruzione impossibile

Irma la dolceTerra libera, libero sogno

Una storia di guerra. Una storia tra tanteImmagina Sarajevo

Palestina, il muro ed oltrePrisca

Cuore di ragazzoBambini o piccoli terremoti

Il relativismo del ciliegioIl relativismo spiegato al mio cane

CorpiRiflessioni di una donna/Come vivere gli anta

La favola della morteSorrisi nascosti d’addio

Libero SpazioMazzini, Garibaldi

Il fuochista ferroviereAldo Bernetti: il prete volante

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Guglielmo Castellano[Editoriale]

Autorizzazione Trib. Perugia N. 35/2009

Direttore responsabile: Guglielmo CastellanoDirettore editoriale: Claudio StellaImpaginazione e grafica: Riccardo Caprai, Gabriele Contilli Stampa: La Tipografica, via Flaminia 40, Bevagna

Bimestrale dell’Associazione Chiaroscurole immagini che salvano il mondo

Copertina a cura di “Semiserie” laboratorio tipografico di fantasia

Stacca e conserva la sovracoperta:una piccola edizione artigianaleda rilegare seguendo semplici istruzioni.

Un anno di “Chiaroscuro”… Con questo numero, l’ultimo “ufficiale” del 2010 (in occasione delle festività di fine anno, torneremo con una edizione speciale), si conclude il primo anno di pubblicazioni del nostro periodico. Un anno di intenso ed appassionato lavoro di squadra, che ci ha permesso di concretizzare un progetto al quale tutti noi avevamo creduto fortemente, anche se le difficoltà apparivano insormontabili: quello di realizzare, per l’appunto, un prodotto giornalisti-co di approfondimento che partendo da un approccio misurato e privo di accenti roboanti, affrontasse con obiettività ed imparzialità i grandi temi dell’attualità globale. Temi di rilevanza planetaria certo, ma propri, ovviamente, anche di una comunità periferica come quella folignate.

Ed in funzione di ciò, su argomenti di grande impatto sociale quali, ad esempio, l’emigrazione e l’integrazione in-terculturale, abbiamo raccolto intorno al nostro tavolo, politici ed amministratori locali i quali, pur nella normale contrap-posizione ideologica, hanno portato il loro contributo, “misurato” e costruttivo, al dibattito.Ci siamo occupati, sempre con la partecipazione di professionisti ed esperti folignati (anche in questo caso, portatori di idealità contrapposte), delle problematiche riconducibili alla bioetica ed alla spiritualità. Come non abbiamo dimenticato di analizzare, con lo stesso stile di cui sopra, sia la questione del rilancio dei centri storici che, argomento attualissimo, quello del “destino” delle nostre acque, la cui gestione è pericolosamente in bilico tra il controllo pubblico e le scelte pri-vatistiche.

Ma ci siamo calati, e non poteva essere altrimenti, all’interno della nostra realtà cittadina. Abbiamo rac-contato storie di lavori antichi e di esperienze professionali di oggi. Racconti di vita di figlie e figli di questa città che hanno trovato affermazione professionale anche al di fuori dei nostri confini.Qualcuno di noi ha rievocato la Foligno del passato (ed il suo hinterland), forse con un pizzico di nostalgia, qualcun altro, invece, ci ha fornito determinate “istantanee” dal passato (vedi, ad esempio, la storia dello Zuccherificio) il cui futuro è quanto mai attualissimo.

Quello che ne è uscito, a nostro avviso, non è stato un guazzabuglio di esperienze buttate là alla rinfusa. Tutti i nostri racconti, pur apparentemente lontani nel tempo e nello spazio, si sono allineati intorno ad un filo logico ben preciso: quello della conservazione della memoria storica e del rispetto di tutte le identità.Questo è “stato” e continuerà ad essere Chiaroscuro: un luogo di incontro privilegiato, per chi avrà qualcosa di costruttivo da dire.

L’impegno, come accennato in apertura, è stato notevole.Il nostro, infatti, è un giornale completamente autogestito. Non gode, almeno per il momento, né di sovvenzioni pubbliche né di sponsorizzazioni private. Siamo nati e cresciuti, solo grazie al contributo dei nostri associati e dei nostri lettori. Eppu-re, malgrado ciò, siamo riusciti a partire, decollare, e farci conoscere ed apprezzare.Nell’editoriale di presentazione del primo numero (gennaio 2010), sottolineammo un concetto per noi basilare: tutte le cose che nascono subito “grandi”, prima o poi crollano con la stessa rapidità (e fragore) con la quale si sono imposte. Noi, di converso, siamo partiti con umiltà e discrezione, muovendo i primi passi con molta circospezione…Ora, nell’anno 2011 che sta per iniziare, intendiamo capitalizzare quello che di buono è stato fin qui realizzato. Siamo convinti di potercela fare.

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La scuola italiana è sempre più lontana dall’Eu-ropa. Gli obiettivi di Europa 2020 chiedono a tutti gli stati membri di promuovere una crescita inclusiva e sostenibile per combattere la povertà.Povertà che diventa allarme per il presente e il futuro del nostro paese. Il rapporto annuale 2009 dell’Istat racconta una serie di primati negativi dell’Italia: due milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni non sono né a scuola né al lavoro; il tas-so di abbandono scolastico è del 22%; solo il 12,8 della popolazione è in possesso di una laurea, il 20% di un diploma, il 46% soltanto della licenza di scuola media,. E ancora, 1,2 milioni di giovani non ha letto alcun libro e non sa utilizzare il computer.Il Governo, di fronte a questi problemi, ormai cronici per il nostro sistema scolastico, interviene infliggendo tagli. Il Governo del Fare propone per il futuro la scuo-la del Meno: meno docenti, meno ore di scuola, meno scuole, meno personale ATA, meno indirizzi, meno spe-cializzazione, meno classi di concorso, meno soldi per il finanziamento ordinario, meno sicurezza degli edifi-ci, meno qualità complessiva, meno diritti per i ragazzi e le ragazze, meno e più lontane certezze di uscire dalla crisi con nuovi saperi, tecnologie e conoscenze.La scuola non si cambia con i tagli, minando la stima dei suoi docenti, e dimenticandosi dell’importanza di una ispirazione pedagogica che pensa al valore dell’Uo-mo, alla sua interazione con il tempo e lo spazio.Prima della Legge Gelmini tutte le Riforme avevano in mente un paese dinamico che credeva nella scuola pubblica in grado di essere ascensore sociale e capace di garantire l’uguaglianza e la libertà come la nostra Costituzione chiede.I programmi della scuola primaria dell’85 puntano sulla didattica, sul saper fare, sulla costruzione del pensie-ro critico e riflessivo, sulle competenze relazionali. La riforma della scuola d’infanzia degli anni 90 crede nei campi di esperienza, dove prevale una visione unita-ria del bambino che si relaziona con l’ambiente che lo circonda e lo pone al centro di tutte le relazioni che animano una comunità.Quale idea filosofica e pedagogica abbia ispirato M. Stella Gelmini non si comprende leggendo le sue scar-ne e solitarie Riforme ( decreto-legge 137/2008; Legge 169/2008).

Certamente non è partita dall’analisi delle novità degli ultimi venti anni che possono essere riassunte in cinque aspetti fondamentali.La rivoluzione tecnologica. Ha indubbiamente portato a un cambiamento dei ruoli e dei tempi di vita delle persone. Produzione, comunicazione e telecomunica-zione ridisegnano in senso orizzontale i rapporti fra gli uomini superando anche le competenze acquisite in tempi e luoghi determinati. La scuola deve necessaria-mente promuovere la possibilità di un insegnamento e apprendimento per tutto l’arco della vita. Non basta-no le poche lavagne interattive introdotte nelle nostre scuole spesso sprovviste di collegamento internet! La globalizzazione. Processo sicuramente pieno di luci ed ombre; ma la scuola si trova ormai immersa nell’oceano della globalizzazione planetaria e deve imparare a nuotare per sfidare la “complessità” che i nuovi processi di migrazione comportano.La multiculturalità. La presenza di alunni e studenti di origine non italiana è in costante aumento. La con-sistente rapidità ed eterogeneità ha fatto emergere problematiche nuove e posto delle sfide impreviste. I nuovi cittadini portano a scuola diverse culture, diversi costumi, diverse lingue, diverse religioni. Ciò è fonte di arricchimento ma anche di disagio. La sfida dell’in-tegrazione diventa reale affinché la convivenza sia dia-logo e non solo convivenza passiva. Significa mutuo ri-conoscimento e sforzo di avvicinamento senza toccare nel vivo nessuna delle identità culturali che possono convivere laidamente nelle nostre società.La conoscenza a rete. La realtà virtuale è ormai uno dei più potenti strumenti di conoscenza che la tecnolo-gia ci mette a disposizione. La ricerca di notizie diven-ta, per tutti, poco controllabile, aperta alla trasver-salità, alla trasformazione, all’integrazione. La cono-scenza on line non ha limiti, è svincolata dallo spazio e dal tempo, è un flusso perennemente ed istantanea-mente accessibile e modificabile da grandi e piccini. La scuola deve poter dare le coordinate per evitare inutili navigazioni!Il ruolo delle neuroscienze. Le neuroscienze ci dicono che l’infanzia è il periodo più importante nella vita delle persone. Le esperienze, le relazioni, le conoscen-ze che si formano in questo periodo sono fondamentali per la vita futura. Intervenire precocemente inserendo

di Patrizia Epifani

La scuolaper il futuro

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IDEE

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i bambini e le bambine in servizi e strutture qualificate con educatori e docenti ben formati significa contribu-ire al rispetto della Costituzione.Per la scuola del domani intanto penso che si debba partire da queste considerazioni, poi è necessario sal-vare i percorsi che hanno dimostrato valore formativo e sono stati considerati modelli di eccellenza a livello europeo quali la scuola d’infanzia, il tempo pieno e il modulo a trenta ore con le compresenze.Deve essere pubblica per laicamente garantire la mul-ticulturalità; essere comunità di ricerca che apprenda e insegni percorsi di confronto.Deve promuovere le persone e le loro conoscenze du-rante tutto l’arco della vita. Formare cittadini consa-pevoli e attivi.Deve essere una scuola di tutti e per tutti capace di includere e sviluppare il pensiero divergente.

Deve essere una scuola di qualità che sappia valorizza-re le differenze di genere e le intelligenze di ciascun bambino/a, ragazzo/a, che abbia cura delle eccellenze e delle difficoltà.Deve puntare su metodi flessibili, cooperativi, labora-toriali, attenta ai nuovi linguaggi e aperta al territorio.Certo per ottenere questi obiettivi è necessario inver-tire il percorso dei tagli del ministro Gelmini, arric-chire i percorsi formativi, lavorare in rete tra scuole e con altri enti, pretendere nuove scelte sia dal Governo centrale che da quello regionale.Soprattutto è necessario che i cittadini di oggi ci creda-no fermamente. La scuola del futuro si costruisce con l’impegno di tutti: genitori, docenti, studenti, uomini e donne che non si rassegnano alla marginalizzazione di una scuola indicata dalla Costituzione.

di Carla Oliva

STOPvisite d’istruzione

Quest’anno non progetterò visite a mostre o musei. L’ho sempre fatto: ho portato i miei alunni a vedere tutte le mostre che pensavo potessero essere loro utili. Ho visita-to con loro esposizioni e musei, con l’intento di rivelare la differenza che corre tra l’arte studiata sui libri e quella “vista” di persona. Abbiamo vi-sitato città, che implacabilmente ho fatto percorrere, quanto più possibi-le, a piedi. Un paio di volte (ci potete credere?), con alcuni di loro ci sia-mo dati appuntamento alla stazione di domenica e siamo andati insieme a Roma. Queste ” uscite” sono state precedute, sempre, da un lavoro di preparazione: dell’itinerario, della selezione delle cose da vedere, dallo studio vero e proprio di tutto ciò che sarebbe stato nuovo anche per me. Tutto tempo impiegato con quella “passione” che non è e non sarà mai quantificabile né economicamente né professionalmente; e della quale Bru-netta e Gelmini non sanno nulla. Queste “uscite”, dicevo, quest’anno non le voglio progettare, perché non fanno parte del mio contratto di lavoro. E mi sono an-

che stancata di sentirmi dire da alcuni: beati voi che vi fate questi viaggetti, gratis, per giunta!! Ecco, appun-

to, gratis: quest’anno non ci saranno retribuzioni per gli insegnanti accom-pagnatori nelle gite. E allora, dato che la Storia dell’Arte non è poi così im-portante, visto che è stata cancellata con un colpo di spugna da tutti i bienni dei Licei e degli Istituti professiona-li. Dato che la diffusione della cultu-ra non è tra le priorità del Governo. Dato che l’educazione allo sviluppo di un soggettivo senso critico ed esteti-co non interessa più nessuno. E dato, soprattutto, che la figura dell’inse-gnante diventa sempre più grottesca, umiliata ed irrilevante nella nostra so-cietà, e che la nostra Scuola diventa sempre più un castello di carte, allora io quest’anno, per mostre e musei, ci vado per conto mio.Sperando di non essere l’unica e che, soprattutto, famiglie e studenti in-comincino ad indignarsi anche loro, e che non ci lascino soli di fronte a questo squallidissimo smantellamento della Scuola pubblica.

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SPERSONE

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quest’anno il riconoscimento dell’assunzione di perso-nale docente per l’insegnamento nelle ore alternative alla religione cattolica. Erano anni che questo non av-veniva.

In generale si nota che, mentre gli alunni aumentano in numeri assoluti, le classi diminu-iscono o comunque aumentano in misura asso-lutamente inadeguata: per esempio, a fronte di un aumento di circa 1300 unità della popolazio-ne scolastica (117.145 nel 2010 contro i 115. 847 del 2009), si registra un aumento di sole 5 clas-si, mentre diminuiscono in maniera drammatica sia il personale docente sia il personale ATA. Per il nostro territorio questi tagli equivalgono alla chiusura di una grande fabbrica: per fare un esempio gli occupati alla Merloni sono 349.Naturalmente questa diminuzione è la diretta conseguenza dei tagli previsti dal governo in fi-nanziaria.E’ chiaro che questi provvedimenti aggravano a dismi-sura una condizione di disoccupazione e precariato in-tellettuale che si protrae da anni. Una nota positiva: i sindacati hanno ottenuto per

di Serena RondoniLe cifre della scuola

in UmbriaProspetto riepilogativo

a.s. 2010/2011 a.s.2009/2010Totale alunni n. 117.145 n. 115.847Totale classi n. 5.591 n. 5.586Totale posti sostegno n. 1.053 n. 995Totale docenti(compresi i docenti di so-stegno)

n. 10.819 n. 11.074

Totale ATA n. 3.647 n. 3.846

Personale docente delle scuole di ogni ordine e grado della regione Umbria

a.s. 2010/2011 a.s.2009/2010Scuola infanzia n. 1.508 posti n. 1493 posti

Scuola primaria n. 3.073 posti n. 3157 posti

Scuola secondaria di I grado n. 1.964 posti n. 1996 posti

Scuola secondaria di II grado n. 3.221 posti n. 3433 posti

Sostegno n. 1.053 posti n. 995 posti

Totale i posti assegnati per tutti gli ordini di scuola n. 10.819 posti n. 11.074 posti

Personale ATA : totale -226 addetti, di cui 38 amminisraivi; 21tecnici; 167 collaboratoriPersonale Docente: totale -341 addetti di cui 191 ist. II grado; 27 ist. I grado; 130 scuola primaria; Unico incremento gli addetti alla scuola infanzia: +35

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IDEE

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Per i sindacati e per la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori, a qualsiasi titolo, la riforma è soprattutto un turbinio drammatico di:Riduzione di corsi di studioRiduzione del monte ore settimanale per classe Riduzione del numero delle cattedreEliminazione di plessiAccorpamento di istituti scolasticiSoppressione di presidenze e di uffici amministrativiPerdita di decine e decine di migliaia di posti di lavoro sia per gli insegnanti che per il personale ATATagli indiscriminati dei finanziamenti alla scuola pubblica che costa troppo e sforna solo incompetenti.Smantellamento dell’istruzione pubblicaecc... ecc... ec...

E di contro suonano le affermazioni del ministro e, a dire il vero, di pochi altri:È una riforma epocale. La riforma era non necessaria ma indispensabileL’Italia è il fanalino di coda in Europa e non solo per il livello di efficienza scolastica e di preparazione elargita dalla stessa. Concorsi prestigiosi annullati per evidente e conclamata ignoranza dei partecipanti (!).C’è urgenza di una svolta drastica che ci riporti ai livelli auspicati.Occorre maggiore severità nella valutazione e nell’ammissione alle classi successive ed agli esami di Stato.

La realtà è che si è agito a colpi di decreti: tutto calato dall’alto senza la minima possibilità non dico di dialogo, ma di poter esprimere qualche perplessità e/o osservazione.Nonostante le critiche, nonostante le polemiche la riforma è di fatto in fase di realizzazione.La riforma Gelmini è quanto sopra descritto? È solo questo? A simili quesiti amletici non è possibile rispondere con un si o con un no e, soprattutto, è impossibile rispondere senza cadere inevitabilmente in coinvolgimenti di parte; personalmente, in questa occasione, vorrei tanto non essere di parte. Contesto il metodo dell’imposizione della riforma: contesto il fatto che la stessa sia stata prima decisa finanziariamente e poi si stia cercando di riempirla di significati didattici: contesto i tempi, contesto, in parte, i contenuti, contesto i tagli indiscriminati di posti di lavoro: contesto … contesto, ma, come Dirigente scolastico, la devo attuare. Devo ammettere, però, che:era veramente diventato esorbitante il numero di corsi di studio praticamente identici nei contenuti, ma ritenuti diversi solo perché attivati in istituti diversi.

Era diventato insostenibile, oltre che destabilizzante, la prassi del “sei rosso” con relativa promozione: in merito va detto, ad onor del vero e per “par condicio”, che lo stesso Era già stato rimosso dell’allora ministro Fioroni.era necessario un inasprimento nella valutazione finale delle competenze e del comportamento.Il taglio pesantissimo dei posti di lavoro che la riforma sta comportando (e non è ancora finita), in un periodo di crisi mondiale, è l’aspetto più odioso, e questo è addebitabile a: aumento del numero degli alunni per classe riduzione del monte ore settimanale di lezione per classe.

Necessita, al riguardo, qualche precisazione:nonostante i parametri imposti, il numero degli alunni per classe in Umbria per l’a.s. 2010/2011 nella scuola superiore, in media, va di poco oltre il numero 21: questo numero si riduce per la scuola dell’infanzia, per la scuola primaria e per la scuola media: tutti valori di gran lunga ma di gran lunga inferiori alla media europea.La media statistica è, ovviamente, come il pollo di Trilussa, ma qualcosa di anomalo sta ad indicare.Se nelle gradi città abbiamo classi con una popolazione scolastica che supera normalmente le 25 unità (specialmente per le classi del biennio), come è possibile che la media si attesta intorno al 21?La spiegazione è semplice: in Umbria, come nella maggior parte delle altre regioni italiane, le scuola dell’obbligo, e spesso non solo quella dell’obbligo, è dislocata in territori anche e soprattutto montani dove le classi per sussistere non possono certo arrivare ad avere la stessa consistenza numerica delle scuole di città e queste, ovviamente, pagano lo scotto del sovraffollamento. Ci sono da rivedere, anche qui, le palesi forzature: spesso la montagna non è affatto montagna e molte delle sedi così dette disagiate, viste le attuali vie di comunicazioni, le distanze e la fruibilità dei servizi, disagiate non lo sono più e quello che si ritiene un servizio dovuto diventa spesso una dannosa forzatura, peraltro facilmente e utilmente evitabile.A mio avviso nei tagli del monte ore di lezione a fronte di qualche necessario aggiustamento in alcuni casi si è veramente esagerato.

Mi auguro che chi sta attuando la riforma a tappe forzate si imponga un attimo di pausa e di riflessione al fine di vagliare con i fatti se tutto va veramente bene e se tutto è, non dico giusto, ma quantomeno coerente: l’istruzione non è una catena di montaggio.

Questa benedettadi Mario Barbetti

riforma Gelmini

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SSTORIE

chiaroscuro

il Ricercatoredi Rocco Zichella

Per la sezione ‘vecchi mestieri’ oggi ci occu-piamo del ricercatore universitario, figura tra le più importanti e …’ricercate’ nel panorama intellettuale dei cervelli in fuga del nostro tempo. Ma veniamo al nocciolo della questione: la professio-ne del ricercatore si avvia inesorabilmente al tramonto dopo la riforma che si appresta ad essere varata. Ab-biamo intervistato il dott. Federico Alimenti, folignate doc, ricercatore presso l’Università di Perugia, facoltà di Ingegneria elettronica, delegato a rappresentare i ricercatori nella battaglia contro la riforma.Poche righe che faranno molto arrabbiare il dott. Ali-menti (piuttosto schivo e riservato) ma che daranno conto dell’importanza della sua professione nella no-stra vita. Perché i nostri ricercatori fuggono all’estero? Perché in Irlanda, per fare un unico esempio, guadagne-rebbero 113.000,00 € all’anno contro i nostri 39.000,00 €! Perché in paesi come gli Usa o la Germania la per-centuale di Pil destinata alla ricerca non è dell’1,7% ma del 5 o 6…Si potrebbero banalmente fare decine di esempi: il te-lefonino, il computer, i mini circuiti integrati presenti nelle schede degli elettrodomestici, sono tutte appli-cazioni nate dalla ricerca universitaria.Ultimamente proprio il nostro interlocutore ha spe-rimentato e costruito il ‘radiometro ad onde elettro-magnetiche’, una sorta di rilevatore degli incendi a distanza. Avete capito? Posizionato nei boschi o nelle zone a rischio, eviterebbe danni incalcolabili. Ma i sol-di sono finiti e per il progetto non c’è futuro. Gli ame-ricani da questo sono partiti per renderlo microscopico e più efficace. Ma andiamo a sentire le sue parole. In cosa consiste la tua professione di ricercatore?In buona parte il nostro lavoro è identico a quello dei Docenti ordinari e degli associati (lezioni frontali, eser-citazioni, ricevimento studenti, seminari, esami): gli unici aspetti per cui differisce è che noi non abbia-mo mansioni di dirigenza e non partecipiamo a com-missioni. Tanto per capirci, il 40% degli insegnamenti vengono tenuti dai ricercatori in maniera volontaria e quasi sempre gratuita. Dunque, i ricercatori fanno più o meno le stesse cose degli associati e dei professori, con un costo molto più basso e con benefici molto più alti. Lo stipendio lordo è infatti ben diverso: noi ricer-

catori percepiamo 39.000 euro, gli Associati 55.000, gli ordinari 93.000. Quindi, se la matematica non inganna, l’altro 60% degli insegnamenti è svolto per il 30% dagli associati e per il 30% dai professori che tra l’altro guadagnano molto di più.Questo non è il problema che ci preoccupa di più poi-ché non si può dire che il nostro stipendio sia basso in questo momento di recessione economica e di crisi finanziaria. Quello che rivendichiamo con forza e coe-renza è questo: siccome da decenni (nel mio caso 10 anni) noi ricercatori abbiamo svolto di fatto le mansio-ni di associati e professori, con la riforma si cancellerà la figura del ricercatore e va bene, ma almeno sia rico-nosciuta la qualifica di associato per coloro che hanno svolto le mansioni per tanto tempo. Fammi capire: la vostra rivendicazione non è eco-nomica ma di diritto, o meglio, dal momento che de facto avete svolto mansioni da ordinario, almeno di-ventare de jure associati pur con gli emolumenti più bassi, uniformando lo stato giuridico e non quello economico per rispettare il dettato della riforma che vuole essere a costo zero.Benissimo, soprattutto perché negli anni le Facoltà hanno affidato tali incarichi ai ricercatori, che tra l’al-tro hanno fatto anche ricerca e tra le più apprezzate nel mondo, e quindi non si capisce per quale motivo non si possa dar corso a questa sorta di ‘regolarizzazio-ne’ della ‘classe di professori a basso costo’.

Fatichiamo a capire in effetti come un cultore della materia con 120 pubblicazioni all’attivo in riviste inter-nazionali tra le più prestigiose, con invenzioni social-mente utili, con competenze rilevanti, abbia difficoltà a far riconoscere la propria vita lavorativa. Ma tale è, nel nostro paese, la sorte degli uomini valenti. Insom-ma un altro pezzetto di Foligno che, invece di essere esibito con orgoglio di fronte al mondo, verrà relegato in un angolo dal quale difficilmente potrà liberare il proprio genio.

dopo la riforma Gelmini

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IDEE

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In questi mesi mi trovo in una sorta di limbo, non so che direzione prendere, non so cosa “farò da grande” e sono già “grande”, ho una laurea in Lettere Classiche, una di quelle lauree inutili, pare.Ogni mattina controllo la casella di posta elettronica, regolarmente intasata da roboanti offerte, in ordine di frequenza, di: master in business management, business administration, marketing aziendale, marketing e comunicazione (in particolare con indirizzo moda e beni di lusso). Controllo, con aria scettica e contrariata, il sito del Ministero dell’Istruzione, che raramente dà segni di vita, I siti dei sindacati e vari blog dedicati alla scuola. Non è un modo allegro di iniziare la giornata. Aspetto notizie su una cosa chiamata TFA, sigla che non sta ad indicare una sindrome psicotica, ma il Tirocinio Formativo Attivo, ovvero ciò che dovrebbe sostituire la vecchia

scuola di specializzazione per l’insegnamento nella scuola secondaria, chiusa nel 2008 e a suo tempo chiamata con un’altra inquietante sigla: SSIS. Il TFA permetterebbe ai laureati di abilitarsi per l’insegnamento dopo un anno di studio e tirocinio organizzato dalle università in collaborazione con le scuole. L’accesso a questo tirocinio, nella fase transitoria (cioè finché non saranno attivate Lauree Magistrali specifiche per l’insegnamento) sarà a numero chiuso, ma soprattutto regolato “in base al fabbisogno”, testuali parole del ministro. Ogni volta che pronuncio queste parole proclamate dal ministro Gelmini, mi lascio assalire da una grottesca ilarità pensando al numero di precari abilitati e alle brillanti soluzioni recentemente adottate dal ministero e, come tutti tristemente sappiamo, riassumibili con una parola: tagli. L’iter del decreto legge va avanti da circa un anno, da

Mala temporacurruntdi Giulia Moriconi

mesi il TFA è sul punto di essere attivato, da mesi gli aspiranti insegnanti aspettano con il fiato sospeso e, di fatto, dal 2008 non c’è un percorso di abilitazione per l’insegnamento. L’ultima notizia riguardante il TFA risale al 10 settembre, giorno in cui il ministro ha firmato il decreto/regolamento e proclamato da dietro gli occhiali che finalmente “si passa dal sapere al sapere insegnare” ecc. Bene. Da allora, però, il decreto è fermo, in attesa di essere approvato dalla Corte dei Conti. Il fatto che, dalla firma del ministro al momento in cui scrivo, sia passato più di un mese senza che si sia avuta alcuna notizia, fa pensare che la Corte dei Conti abbia riscontrato problemi e

bloccato il decreto. È probabile che i problemi siano di ordine economico, visto che proprio in questi giorni anche la riforma dell’università è stata bloccata per mancanza di fondi.

D’altra parte potevo fare una scelta diversa a diciannove anni, si sa che gli studi umanistici non servono a niente, no? Potevo studiare chimica, come mi venne più volte suggerito, magari a quest’ora sarei stata in qualche laboratorio a studiare formule per un’industria che produce dentifrici, chi lo sa. Dovevo ascoltare chi, dopo avermi chiesto: “allora, che facoltà sceglierai?”, alla mia risposta domandava con tono quasi incredulo, senza neanche aspettarsi

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SIDEE

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una risposta: “..e che ci fai?”. Invece non ho ascoltato nessuno, ho fatto una scelta idealista, quasi ideologica, ho scelto non solo cosa volevo fare, ma chi volevo diventare e soprattutto ho scelto la prospettiva dalla quale avrei guardato il mondo. Ero convinta che anche se viviamo in una società che valuta solo l’utilità, il tornaconto materiale e personale, doveva pur rimanere qualcuno ad occuparsi delle Humanae Litterae, a studiare lingue morte e opere di gente morta in media più di duemila anni fa, per non lasciare naufragare tutto quel patrimonio e cercare di trasmettere un po’ di passione o anche solo di interesse a chi verrà dopo. Questa convinzione si è fatta più solida e forte durante gli anni di università, quando a seguire i corsi di greco eravamo rimasti in quattro e ci sembrava di essere dei sopravvissuti o una specie in estinzione, con la responsabilità di essere gli ultimi volontari a cui veniva affidato qualcosa di fondamentale di cui quasi nessuno capiva più l’importanza. Allora ho fatto la mia scelta, ho scelto chi sarei diventata, ho costruito la mia identità personale, ma ora paradossalmente, in questa specie di limbo fatto di attesa, sembra che io non abbia ancora una identità sociale. Questa è infatti legata più o meno in modo univoco alla funzione che l’individuo ha all’interno della società: io non ho un ruolo sociale, perché ho studiato cose inutili che non servono alla collettività. Ma tanto anche la scuola è inutile, e magari anche dannosa; ultimamente qualcuno ha detto che la cultura non si mangia e qualcun altro che la scuola è diventata un ammortizzatore sociale. Nel 2004 Derrida scriveva che si stava affermando “una politica ispirata dal misconoscimento, l’accecamento, il risentimento, anche, di tutto ciò che è giudicato a torto e secondo un cattivo calcolo, improduttivo, o addirittura nocivo per gli interessi immediati di un certo mercato liberale: la ricerca fondamentale,

l’educazione, le arti, la poesia, la letteratura, la filosofia.” Beh, possiamo orgogliosamente dire che in Italia, sotto questo profilo, siamo davvero avanzatissimi. In fin dei conti sono ancora un’idealista, come lo ero a diciannove anni, la differenza è il mio idealismo è un po’ più rabbioso di allora. Ora quando qualcuno mi chiede cosa ci faccio con una laurea in Lettere Classiche, cito una storiella raccontata da David Foster Wallace ai laureandi in materie umanistiche di un college americano, durante un meraviglioso discorso dove spiegava qual è il senso degli studi umanistici. Il senso, diceva, non è certamente quello di rimpinzare di erudizione, neanche solo e semplicemente quello di “insegnare a pensare”, come di solito si dice; la vera fondamentale educazione riguarda la facoltà di scegliere cosa pensare e come farlo, “scegliere

a cosa prestare attenzione e come attribuire un significato all’esperienza”, perché, continuava Wallace, “se non sapete o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, siete fregati”. La storiella è questa: “Ci sono due giovani pesci che nuotano e ad un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e

dice:- Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?- I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa:- Che cavolo è l’acqua?” Come Wallace, spero di poter dire “Questa è l’acqua” e magari mostrarlo ai miei futuri studenti.

Ho fatto la mia scelta, ho scelto chi sarei diventata,

ho costruito la mia identità personale,

ma ora paradossalmente, in questa specie di limbo

fatto di attesa, sembra che io non abbia ancora una identità sociale

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Molto spesso quando raccontiamo in casa ciò che accade a scuola e magari ci lamentiamo di questo o di quello, c’è sempre qualcuno (di solito un nonno) che dice “Eh, ai miei tempi.!. Così mi è venuta la curiosità di scoprire cosa realmente avveniva a “quei tempi” e ho chiesto a mio nonno Franco di raccontar-mi come era la “sua” scuola. Beh, era davvero tutta un’altra scuola!

“Ho incominciato la mia seppur breve ma intensa carriera scolastica nel lontano 1944 a Montepennino. Incrocio malinconicamente il ricordo di quel vecchio edificio in mattoni dall’aspetto scarno e rude che dominava maestoso su un piazzale alberato. Ricordo la statua di Bruno Buozzi sapientemente situata sotto un pino che mi ha suscitato sempre un certo terrore con il suo sguardo severo e quei lunghi capelli ricci che ricadevano pesantemente sulle fredde spalle; ricordo l’odore di pulito, un mix tra polvere di sapone e alcool che impregnava le varie stanze e che, a volte, quando la bidella Margherita eccedeva nel dosaggio, si avvertiva fin dal piazzale. Di questa minuta donna ricordo l’elegante portamento, la grazia nei gesti più semplici e il suo camice nero, sempre lo stesso, che indossava come un capo di alta moda. Ricordo la mattonella traballante nell’ingresso che sembrava sussultare spaventata al calpestio dei nostri piedi e ricordo con limpida chiarezza il ritmico ticchettio dell’orologio posto su un tavolo nel corridoio. Si trattava di quelle sveglie rotonde, molto in voga in quei tempi, in cui le ore erano scandite da una gallina marrone che beccava in terra e poi, soddisfatta, alzava la testa con sguardo sornione. Ai miei tempi la scuola incominciava il primo di ottobre. Il nostro corredo scolastico, seppur molto scarno, comportava un elevato costo che incideva sul bilancio familiare; ricordo che era obbligatorio indossare un grembiule nero con il colletto bianco per noi maschietti e il grembiule bianco per le femminucce. Nella cartella di cartone o di pezza avevamo poche cose: un quaderno, il sussidiario, un astuccio di legno con la matita, la gomma, il cannello con il pennino e una

boccetta d’inchiostro; infatti per scrivere si utilizzava la matita in prima elementare mentre in seconda, dopo aver acquisito una certa sicurezza, si passava gradualmente all’uso della cannuccia o cannella col pennino, che veniva intinto nell’inchiostro, custodito gelosamente nel calamaio inserito in un buco nel banco. Bisognava fare molta attenzione nell’utilizzo di questi “arnesi”, infatti con un inappropriato uso del pennino e dell’inchiostro si rischiava di macchiare i fogli dei quaderni e allora il maestro, che esigeva quaderni ordinati, strappava le pagine e bisognava rifare l’esercizio. Magari a quei tempi fossero esistite le penne a sfera come oggi! Tutte le mattine andavo a scuola a piedi insieme a Piero e Michele, due miei amici e vicini: partivamo verso le sette e facevamo molti chilometri in qualunque stagione e con qualunque tempo ci fosse. Spesso per non rovinare le scarpe le tenevamo in mano e ce le infilavamo prima di varcare il portone. D’inverno chi arrivava per primo in classe accendeva la stufa a legna che veniva alimentata con i “ceppi” che portavamo a turno. Alle

otto in punto eravamo tutti seduti sui nostri banchi che erano molto diversi da quelli che troviamo nelle aule “moderne”. Erano robusti, di legno, a due posti con il sedile e il piano di appoggio tutto di un pezzo e inclinato per favorire una corretta posizione della colonna vertebrale. I banchi erano ordinatamente disposti in una grande aula in cui l’unico tocco di colore era “spennellato” da una consumata carta

La scuola ai tempidi Katia Coladi mio nonno

L’iscrizione nell’elenco

dei cattivi alla lavagna aveva conseguenze rimarchevoli perché

alla denuncia seguiva la punizione

inflessibile del maestro, sotto forma di bacchettate

sulla mano aperta

a palmo in su

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geografica e dalle polverose tende color catrame. I miei compagni di classe erano tanti, più di quaranta. Ti stupisci? Beh,ai miei tempi non esistevano le classi miste ma le pluriclassi, per cui in una stessa aula c’erano bambini della prima, seconda e terza. Alle 8:03 minuti arrivava il maestro. Era anziano e forestiero. Era severo, qualcuno diceva cattivo. Abitava a due passi dalla scuola. Aveva pochi capelli, ma li tirava con la massima cura da un lato all’altro della testa tonda, si potevano quasi conta-re, appiccicati uno per uno. Dopo aver fatto l’appello il maestro ci sottoponeva alla delicata operazione di “ispezione di pulizia”; scru-tava con oc-chio attento le unghie, le orecchie e il collo: se erano sporchi era-no guai. Dopo aver recitato la preghiera, guardando il crocifisso che si trovava in alto dietro la cattedra, incominciava la lezione. Il programma sco-lastico era molto rigido: in prima elementare si ri-empivano i quaderni con pagine di aste e successiva-mente con pagine di lettere dell’alfabeto ripetute, in seconda si incominciava a scrivere. La calligrafia era tenuta in gran considerazione, basti pensare che a questa veniva dato un voto (non venivano espres-si giudizi ma solo voti numerici). In terza, quarta e quinta si studiava molto a memoria: poesie, brani di storia, geografia, scienze. Il maestro ci leggeva i rac-conti mensili del libro “Cuore”con precisione e par-tecipazione, noi alunni ci commuovevamo ma, stra-namente, non per la “Piccola vedetta lombarda”, né per il Tamburino sardo, ma per i due ragazzi del “Naufragio”. L’unica altra figura che affiancava il ma-estro era Don Gaetano, alto, stempiato, con un gran naso aquilino. La disciplina era molto ferrea: durante la spiegazione del maestro dovevamo stare in silen-zio con le mani sul banco. Il maestro ci guardava da dietro i suoi occhiali con fare severo; l’unico rumore che si udiva era il leggero tintinnio dei pennini che scorrevano. Verso le 10:30 arrivava il direttore, e tut-

ti meccanicamente ci alzavamo e in coro dicevamo “Buongiorno signor direttore”. Allora non c’era la de-mocrazia e il capoclasse non si eleggeva. Lo nominava il maestro volta per volta per scrivere i nomi dei buo-ni e dei cattivi alla lavagna quando si doveva assen-tare dalla classe ma anche quando a mezza mattina la moglie gli portava la colazione. Quando non c’era il maestro, con quello che stava alla lavagna si pote-va mercanteggiare se aveva scritto il tuo nome dalla parte dei cattivi e promettergli qualche pennino se ti cancellava. L’iscrizione nell’elenco dei cattivi alla la-

vagna aveva conseguen-ze rimarchevoli perché alla denuncia seguiva la punizione inflessibile del maestro sotto forma di bacchettate sulla mano aperta a palmo in su. Il numero delle bacchetta-te non era fisso perché il giudice lo determina-va secondo il suo libero convincimento circa la gravità della colpa. Que-sto accadeva anche per le aggravanti, che erano costituite dalle crocette messe sopra il nome del cattivo ed erano indice di una cattiveria moltiplica-

ta per il loro numero. Quando le bacchettate erano molte il condannato aveva diritto a cambiare mano. Le bacchettate del maestro furono il mio primo ele-mento di conoscenza del problema delle classi sociali e della coscienza di classe. La scuola durava fino alle ore tredici. Durante la settimana era previsto un gior-no di vacanza. Nel pomeriggio si dovevano eseguire i compiti per il giorno seguente ma prima si dovevano aiutare i genitori nei lavori di campagna, in casa o si doveva badare ai fratelli più piccoli. Così spesse volte ci si riduceva a fare i compiti di notte, alla fioca luce del lume a petrolio. Purtroppo io ho frequentato solo fino alla quinta elementare; ai miei tempi infatti non c’era l’obbligo di frequentare le medie. Esistevano esami di seconda per passare alla terza e di quinta per avere la licenza elementare. Chi come me non continuava a frequentare la scuola andava ad impara-re un mestiere presso gli artigiani. Vi ringrazio amici di Chiaroscuro perché in questa occasione ho potuto ricordare gli anni trascorsi a scuola che per me rap-presentano un periodo felice che ricordo con malin-conica nostalgia.”

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Una valigia piena didi Paola Nobili e Ben Mohamed O.

“I ricordi, belli o brutti che siano, fanno sem-pre parte della tua vita, in un modo complesso che non puoi cancellare”. E’ molto serio Ben Mohamed quando racconta, guarda in terra come sopraffatto dalla propria storia, dalla tristezza e dal peso degli anni trascorsi in carcere. Poi, d’improvviso, come per esorcizzare la paura, o forse per gentilezza verso chi lo ascolta, con una battuta rompe il velo grave del suo racconto e i suoi occhi neri ritrovano la luce e il coraggio di guardare avanti.Ben Mohamed è un giovane uomo tunisino, a cui la giustizia italiana ha affidato “una borsa piena di anni”, quelli che sta scontando in carcere. Un clandestino senza permesso di soggior-no, in cerca di fortuna, ri-masto intrappolato nella rete della microcriminalità urbana: una figura stereo-tipata, uno dei tanti senza nome e senza volto che mi-nacciano la bramosia di si-curezza del Tranquillo e La-borioso Italiano Autoctono.Eppure lui, come tutti gli al-tri, un nome, un volto e una storia ce l’ha. Conoscer-lo, parlare con lui, varcare quella barriera di durezza dietro la quale nasconde un universo di sofferenza è un modo per rendersi conto che il suo acume, la sua saggezza e la sua intelli-genza viva sono uno spreco e una risorsa inutiliz-zata: in carcere nessuno sa cosa farsene, dopo il carcere non ci sarà posto per lui, extracomunitario ed ex detenuto. Ha parlato di sé in un racconto, con il quale l’anno scorso ha partecipato alla prima edizione del pre-mio letterario “In fuga tra le righe”, un concorso per i detenuti del carcere di Sollicciano “inventa-

to” da Maurizio, che ora per fortuna è tornato in li-bertà, e promosso da un gruppo di insegnanti delle scuole carcerarie. Il racconto di Ben Mohamed, intitolato “Due ricor-di”, non ha vinto il primo premio ma ha avuto una segnalazione speciale da Marco Vichi, famoso scrit-tore fiorentino. Le parole di Ben Mohamed riportano alla luce un’infanzia come tante, “con tanti sogni da fan-ciullo, pieni di speranza e fierezza. Andavo a scuo-la con i miei coetanei e, ogni domenica, a caccia

di tesori. Una volta, in mon-tagna, in una vecchia ca-serma militare sottoterra, ci siamo portati le candele per illuminare il buio del-le caverne; un’altra volta, abbiamo preso tre conigli; ognuno di noi aveva porta-to qualcosa da mangiare: uno aveva portato l’acqua, l’altro il sale e il legno per accendere il fuoco. Alla fine ci siamo messi a cucinare come in un film western di cowboy. Un’altra volta ave-vamo preso dei pipistrelli e siamo andati a fare degli scherzi ai ragazzi troppo “fini”, per impaurirli. Ma il bello veniva in primavera, quando andavamo a pescare al fiume. Quel che ci univa

era il divertimento e lo spirito di avventura. Alla fine della primavera, quando iniziava il caldo saha-riano, i pesci salivano nel fiume e si mettevano vi-cino alla riva e in quel momento noi li prendevamo con le mani e poi li vendevamo alle macchine che passavano dall’unico ponte, costruito dai francesi durante l’occupazione. Tra le cose buffe ricordo di quando prendevamo i pesci gatto e gli tagliavamo i baffi, così sembravano pesci di mare, simili ai pe-

anni

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sci azzurri. A fine giornata andavamo dal gelataio e con i soldi che avevamo incassato con la vendita del pesce compravamo di tutto: il gelato, la cioc-colata e la coca-cola. Al calar del sole le nostre mamme cominciavano a preoccuparsi e a cercar-ci per ricondurci a casa. Quanto è bello quando qualcuno si preoccupa per te! Allora questo non mi faceva effetto, ma adesso pagherei qualsiasi cosa per un solo sguardo tenero di mia madre”. Poi Ben Mohamed è diventato grande. Ha preso la terza media e ha smesso di studiare per cercare un lavoro. Qualche volta andava a dare una mano al padre mura-tore, tanto per impa-rare un mestiere. “Cre-sci, e in te crescono le ambizioni, il tuo sguar-do va verso il futuro e hai voglia di costruire qualcosa di importan-te. Con gli amici si par-lava solo di un salto di qualità per dare una svolta alle nostre vite. Negli anni ‘80, di preciso nel 1987, nei caffè di Tunisi si parlava della disoccupazione e dei governanti di allora che rubavano per assicurare un futuro ai propri familiari”. Così nel 1988 ha deciso di venire in Italia. “Diciotto ore di mare ed ero a Genova. Dalla nave, di notte, vedevo quelle luci che illuminavano la città. Tra la gente che viaggiava con me c’era chi era già stato in Italia e mi diceva: “Quelle luci che vedi sono le luci della libertà. Sei vicino a vivere un sogno.” Oggi, invece, ci chiamano clandestini e non abbiamo più il diritto di scegliere il nostro destino. Da bambino ammiravo mio padre, che ci spiegava ogni giorno quello che veniva annunciato dai telegiornali italiani. Il fatto che mio padre par-lasse bene l’italiano, senza essere cresciuto in Ita-lia, mi ha sempre affascinato. Gli italiani con cui aveva lavorato in Tunisia lo chiamavano “Piccolo capo”. Io sono venuto in Italia per poter imparare la lingua e farmi grande davanti a lui. Ma guarda-te cosa sono diventato. Ho perso doppiamente. In primo luogo perché non ho avuto la possibilità di vederlo in tempo prima che morisse. E poi, ed è il fatto peggiore, perché l’ho perso per sempre. Pace alla sua anima. Oggi, in ogni momento, pen-so e ripenso a cosa sia servita tutta questa fatica che mi ha causato solo perdite. Forse il mio desti-no era questo e nulla avrebbe potuto cambiarlo. Ogni giorno diventa più pesante, specialmente se

sei diverso e diversa è la tua provenienza. Male-detta questa avventura che mi è costata tanto! Nell’età dell’adolescenza volevo scoprire il mondo e toccare con mano l’ignoto. Fuggivo dalle regole familiari, ignaro delle difficoltà e dei pericoli che stavo per incontrare. Non sapevo che esisteva un mostro invisibile, il crimine, che ti è sempre vicino nelle difficoltà economiche e nella socializzazione quando incontri persone che ti portano su strade sbagliate. Così alla fine perdi la cosa più preziosa che esiste: la libertà. Facevo il manovale in nero,

ero in mano a degli sfruttato-ri. Per mia sfortuna mi sono fatto male rompendomi un dito col martello. All’ospeda-le non potevano mettermi i punti per fermare il sangue e neanche ingessare il dito. Per più di un mese ho dovuto te-nere una fascia e non potevo usare le mani. Il mio datore di lavoro mi dava il posto per dormire, ma quando ha avuto

il timore che lo denunciassi mi ha buttato fuori. Mi sono trovato in mezzo alla strada senza un soldo in tasca. Per due giorni e due notti ho soltanto bevuto acqua. Tutto questo succede in Europa”. Ben Mohamed non si fa illusioni sul futuro: “Oggi io mi trovo fra due possibilità. La prima è ritornare in Tunisia, dopo 22 anni, senza un progetto di lavoro, mentre quelli che conoscevo ormai hanno la loro vita. La seconda è obbedire alla legge del dio de-naro: soldi, nient’altro che soldi, inviti quasi tutti le sere, ogni giorno e ogni notte nuove conoscenze grazie al crimine. Oggi mi trovo in carcere, solo e senza niente. E nessuno mi scrive neanche una cartolina. Ma malgrado tutto sono ancora vivo”. Conclude con un’amarezza che ti trafigge il cuore: “Cerco in me il riscatto, per dare un senso alla mia vita. Ma la vita quello che prende non te lo rende mai più”.

In questo articolo sono citati ampi brani del racconto “Due ricordi”,

scritto da Ben Mohamed O., studente a Sollicciano

Quanto è bello quando qualcuno si preoccupa per te! Allora questo non mi faceva effetto,

ma adesso pagherei qualsiasi cosa per un solo sguardo

tenero di mia madre

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Attenti ai minuscoli bolidi. Mi riferisco proprio a quel veicolo piccolo maneggevole scattante veloce che troppo spesso i guidatori trasformano in una rombante Ferrari impegnata a gareggiare nel circuito di Monaco. Pochi giorni fa una di queste auto ha imboccato con noncurante nonchalance una strada con divieto di accesso. Ho visto rosso, anche se l’auto era giallina, e con la mia bici, piccola maneggevole scattante veloce, ho fatto dietro front e l’ho inseguita, nella certezza che l’avrei sicuramente trovata davanti a qualche negozio. L’ho raggiunta davanti al panettiere. La signora che era alla guida ha risposto alle mie rimostranze dicendo di aver visto che nessuno stava arrivando da quella strada. Bene, chissà se la prossima volta passerà con il rosso, perché tanto dall’altra parte c’è il vuoto o se percorrerà l’autostrada al contrario perché non c’è traffico. BERGEN – NORVEGIA: passeggiamo lungo un marciapiede, arriviamo in prossimità delle strisce pedonali. Mi sento osservata e mi guardo intorno. Esclamo: ragazzi, attraversiamo, abbiamo bloccato il traffico. Un autobus di linea e tre auto da un lato, quattro dall’altro si sono tranquillamente fermati ed attendono pazienti che noi decidiamo di attraversare la strada.FOLIGNO – ITALIA: l’auto davanti a me si ferma diligentemente per far passare un pedone, tra l’altro con problemi motori. Osservo con terrore la persona che con difficoltà percorre quei pochi metri e l’auto che dietro di me decide che davanti ha due stupidi che non sanno andare per strada e ci sorpassa con la grinta di chi vi-faccio-vedere-io-come-si-guida. La persona si salva perché si accorge in tempo della manovra e si ferma di botto, facendo passare l’auto frettolosa ed ignara che quelle per terra sono strisce pedonali e non un tappeto di pelle di zebra, steso appositamente per il suo veloce e prezioso passaggio.SEMPRE NORVEGIA (tutta): strade interne “single track”, praticamente una sola corsia. Per consentire il passaggio di due veicoli, ai lati della strada si incontra una sequenza regolare di piazzole di scambio dove l’auto può accostare per il tempo necessario a far passare l’eventuale altra auto che già impegna la strada. Hanno il vantaggio di essere pochi e di avere

di conseguenza un traffico limitato. Forse è anche per questo motivo che sono calmi e pazienti e non provano il bisogno di essere furbi astuti, prevaricando l’altro anche per strada. Fatto sta che quando passiamo noi, con il nostro camper di sette metri, forse capendo che siamo stranieri e volendo avere un occhio di riguardo o forse perché siamo decisamente più ingombranti, i norvegesi si fermano sempre prima di noi ed aspettano il nostro passaggio, nonostante il simpatico scambio di cenni: prego passi lei, noi lei, si figuri, grazie, bye bye.FOLIGNO – ITALIA: siete mai stati davanti ad una scuola quando escono i bambini e le bambine? Provare per credere. Automobili parcheggiate in seconda, terza, quarta fila, pure davanti allo stop. Alcuni sono in sosta, aspettano in macchina, così almeno se serve spostarla c’è qualcuno cui rivolgersi. Altri approfittano tranquillamente per altre incombenze e se devi prendere la tua auto bloccata, sei tu a dover aspettare pazientemente che tutti gli alunni/e escano da scuola e possano andare a casa con gli apprensivi genitori. Un po’ troppo apprensivi, perché non sia mai che il bimbo/a debba fare quattro passi in più o prenda due gocce d’acqua in caso di pioggia. Il genitore, che in tranquillità torna alla sua auto mangiando la pizza appena acquistata, vedendomi in attesa vicino alla mia auto chiusa dalla sua, pensa bene di difendersi attaccando e mi dice subito: la colpa è del Comune che non fa i parcheggi. In questo caso, dove, di grazia – rispondo – sul tetto della scuola, così venite a prendere i figli in elicottero?

Siete mai stati davanti ad una scuola

quando escono i bambini e le bambine?

Automobili parcheggiate in seconda, terza, quarta fila,

pure davanti allo stop.

Dai diamantidi Maria Paola Giuli

non nasce niente

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Insomma, girare per le strade di Foligno è diventato motivo di stress. Sembriamo tutti Pippo che, da pacioso personaggio qual’è, si trasforma in agguerrito e pericoloso concorrente quando si mette alla guida della sua automobile, come un simpatico e quanto mai sarcastico cartone di Walt Disney ci fa vedere.Eppure, una città vivibile dipende dal comportamento di ciascuno di noi e per arrivare a grandi risultati si passa per le piccole cose. Gesti banali di ogni giorno, che

pure fanno la differenza, contraddistinguono la civiltà di un popolo. Episodi minimi di inciviltà, di egoismo, di maleducazione possono apparire innocui, ma se ignorati si moltiplicano e si estendono ad ancora più alti livelli. Quell’attimo speso in più per parcheggiare come si deve, per far passare i pedoni, per lasciare spazio a chi deve immettersi non è uno spreco; è tempo dedicato ad un atto dovuto, ma anche a fare un regalo, prima di tutto a noi stessi, perché un gesto che strappa un sorriso è benefico e conciliante. È un dono alla collettività di cui siamo parte ed alla nostra città dove vorremmo tutti vivere al meglio. In termini economici, quelli verso i quali – di questi tempi – siamo particolarmente sensibili, è un vantaggio, perché il corretto comportamento di ogni cittadino riduce i costi dei servizi pubblici. DAI DIAMANTI NON NASCE NIENTE, DAL LETAME NASCONO I FIOR. Stupendo passaggio di De Andrè, ma non un motivo per lordare la nostra città. Tempo fa apparvero manifesti del Sindaco che invitavano i cittadini a

tenere pulita Foligno. Alcuni apprezzarono l’iniziativa, altri commentarono ironici “perché vogliono ridurre la spesa della nettezza urbana”, altri ancora affermarono saccenti “pensino a far pulire le strade”. Anche nelle reazioni all’invito si manifesta il significato del senso civico e si discrimina tra chi ce l’ha e chi proprio non sa cosa sia. Il senso civico – dice il dizionario – è la coscienza che il cittadino ha dei propri doveri e quindi anche delle proprie responsabilità nei confronti dello

stato e della comunità. Insomma, essere cittadini attivi e consapevoli. In effetti, non è cosa da poco. È una questione di cultura. Si pensa all’Italia come ad uno dei paesi civili occidentali, ma in effetti la nostra coscienza civica individuale non trova le basi per crescere, in assenza di una cultura civica. E’ ancora attuale il “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”. Lo scrisse Giacomo Leopardi, nel 1824. Pensiamoci su. Il seguito al prossimo numero, con altri racconti di quotidiane piccole inciviltà e riflessioni sul tema. Perché FOLIGNO – ITALIA può essere più bella con il contributo di ognuno.

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PERSONE

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Il mio sogno segreto è una casa a due piani senza ascensore. I maligni potrebbero pensare che sia per avere uno spazio dove non essere raggiunto dalla mia rotoambulante (e marziana) compagna, ma debbo de-luderli. La libidine nascosta nel desiderio è la realiz-zazione di uno scivolo che raggiunga il piano “nobile” senza ausili elettromeccanici. Ma a Foligno mi hanno rubato il sogno.Il primo piano del nuovo ospedale S. Giovanni Battista è raggiungibile da clamorosi e piacevoli scivoli esterni. Dalle ali dell’edificio salgono dolcemente al piano so-pra l’ingresso principale. Forse consapevoli dell’oniri-co furto hanno cercato di porvi rimedio tenendo chiu-se e persino incatenate le porte al nobile pianerottolo e soprattutto rea-lizzando l’accesso dal piazzale uni-camente attraver-so un marciapie-de con rigoroso e ininterrotto scali-no/barriera.Ma quello di una città per tutti al cinquanta percen-to forse è addirit-tura un vezzo per questa metropoli che altrimenti ri-schierebbe di es-sere per tutti tut-ti. Dopo lunghe di-scussioni, prove al vivo in piazza Piermarini, privi del-lo spirito polemico dell’indimenticabile Ciriello, dis-solte disponibilità e convocazioni di assessori e tecnici (vedi “rottamiamo le barriere, chiaroscuro n. 0”), le nuove pavimentazioni che iniziano a fare bella mo-stra in città sembrano frutto più del compromesso che dell’intelligenza. Evidentemente impossibilitati ad abbandonare l’ipo-tesi sanpietrino, da voci infondate pare ci sia stato un accordo trasversale tra il P.di L. (Pavimentazioni della Libertà), e i D.S. (Dossi e Sconnessi), le asperità

dell’irrinunciabile ciottolo sono state “compensate” dalla realizzazione di una “corsia” lastricata e acces-sibile al centro delle vie. Meglio che niente? Forse per la stanchezza del lungo dibattito è sfuggito un parti-colare. Da qualsiasi edificio, che sia prestigioso, popo-lare o impresentabile stamberga, l’accesso alla via av-viene inesorabilmente o dal lato destro o dal sinistro. Non esistono percentuali stabilite né dati statistici su quanti siano gli accessi su ciascuno dei due, ma nel solo caso (e non sempre) di un portone al termine di una via senza sbocco si accede direttamente al centro della strada.La nostra redazione ha comunque provato e verificato su qualcuna delle vie lastricate di nuovo. Il risultato

è sempre uguale. Uscendo da case e botteghe si acce-de alla via sempre da uno dei due lati della strada: ovve-ro sui sanpietrini, ovvero ancora su quella che tecni-camente è defini-bile come “barrie-ra architettonica”. Ma questo potreb-be essere solo l’inizio. Se all’in-domani della posa il sanpietrino sem-bra accondiscen-dere ad una postu-

ra piana e lineare (per quel che può con quella sua naturale gibbosità) nel tempo manifesta un’indole ribelle. Ciascun ciottolo sembra essere animato uni-camente dalla volontà di porsi “su di un altro piano” rispetto ad ogni altro (che ci sia una metafora?). Ma lo spirito ribelle del sasso gobbuto potrebbe per-fino innescare una reazione a catena. Sebbene siano sempre di più gli esercizi commerciali che fanno bella mostra di quelle barriere architettoniche che su qual-che “carta” dovrebbero aver dichiarato di non ave-re, chi dovesse eliminarle davvero potrebbe trovare

Sogni infrantidi Giorgio Raffaeli

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SPERSONE

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L’angolo dellavergogna

La crisi economica è lacerante. È vero che qualche TG delle ore di punta apre i propri servizi con un primo piano sulle scarpe di Carlà, rigorosamente dal tacco basso, altrimenti Sarkozy risulterebbe più basso della sua donna, inaudito! Ma la crisi economica è devastante, anche se chi dovrebbe non ne parla. Delle università paralizzate dallo sciopero dei ricercatori ridotti alla disperazione se ne parla abbastanza? No, parliamo del tempo: caldissimo in estate, freddissimo in inverno, così così nella mezza stagione!Mi fanno imbestialire alcune situazioni: perché nessun governo ha mai esteso seriamente il prelievo fiscale ai proprietari delle case affittate in nero agli studenti universitari a prezzi di fantascienza?

(È facile fare controlli incrociati)

Perché ai Beni Culturali non sono mai state fatte più assunzioni per garantire aperture prolungate di tutti gli infiniti luoghi d’Italia che hanno tesori inestimabili e che consentirebbero

quantomeno “contraddittori” quei sanpietrini proprio fuori dalla porta. Potrebbe persino prendergli il ghi-ribizzo di richiedere all’Amministrazione Pubblica di rimuoverli per creare un accesso privo di barriere alla corsia accessibile e centrale della nuova strada.Addirittura la bizzarra richiesta potrebbe partire da qualche abitante, magari rotodeambulante, delle rin-novate strade e il piacere dell’accessibilità diffonder-si e contagiare i cittadini comuni nel desiderio civile e legittimo di raggiungere senza accidenti gli acces-si “sanpietrino-isolati” di case e negozi lungo le vie. Raggiungerli comunque sia, a piedi, con le stampelle, con passo un po’ strascinato dall’età, in carrozzina o spingendo il passeggino di un bimbo senza costringerlo al vibro-frullato dell’acciottolato…

Per la cronaca alcune banali osservazioni. Il percorso accessibile centrale è pure… stretto: due persone in carrozzina (e in qualche caso anche due passeggini) dovranno camminare in fila indiana. Complicato l’in-crocio tra rotodeambulanti, drammatico, seppur raro, tra due coppie identicamente (s)combinate. Infine, data per inevitabile la scelta della pavimentazione assortita, perché non in ordine inverso? Due fasce ac-cessibili laterali e i ciottoli al centro… Forse è la stes-sa legge che regola le casse ai supermercati, gli scivoli quando ci sono, e in generale i transiti senza barriere architettoniche: “di accessibile ne basta uno… tutti gli altri ne han trentuno”.

un gettito di entrate sicuramente importante e più occupazione?Perché non si investe sulla istituzione di un maggior numero di asili nido, scuole per l’infanzia, garantendo un maggior numero di posti per gli insegnanti del settore e la possibilità per le famiglie di avere un secondo reddito, ove possibile, consentendo a tante neo-mamme di conservare o di cercare un posto di lavoro, che possa farle sentire oltre che più sicure per il proprio futuro economico anche più realizzate come persone?Foligno non fa eccezione a tutto questo: le graduatorie per l’accesso alle scuole dell’infanzia sono ristrette; avere un posto per i propri figli è come vincere una lotteria; le cooperative a sfondo culturale poco tutelate; gli affitti in nero agli studenti diffusi.Perché dobbiamo ancora consentire alla gente di dire, con rassegnazione e disprezzo, riguardo a certi comportamenti degli uomini politici: “Sono tutti uguali”?

VERGOGNIAMOCI!

di Rita Barbetti

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PERSONE

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“Ich bin ein Berliner!” Una volta una splendida si-gnora di origine elvetica mi spiegò che questa frase po-teva significare, oltreché “Io sono un berlinese”, anche “Io sono un bombolone!”, cioè un krapfen, visto che dalle parti del Reno “Berliner”, può indicare anche il noto agglomerato di zuccheri e carboidrati. Immagi-nare Kennedy, nel famoso discorso pronunciato a Ber-lino il 26 giugno 1963, ammettere sorridente di fronte a tedeschi e telecamere di essere in sostanza un pro-dotto dolciario mi fa anco-ra ridere. Sì, sto divagando: però Berlino c’entra. Nel 2008 il Tempelhof, vec-chio aeroporto della capi-tale teutonica, ha chiuso i battenti perché troppo pic-colo per le esigenze degli aerei attuali. Complice an-che l’attuale crisi, invece di diventare l’ennesimo spa-zio residenziale/commer-ciale, una parte dell’area è stata aperta quest’estate alla gente che se ne è ap-propriata pacificamente a colpi di biciclette, skate-board, aquiloni e cestini da pic-nic. Anche noi folignati abbia-mo un aeroporto. Non tutte le altre città possono dire altrettanto. Come tutte le cose con cui si è abituati a convivere, un po’ ce lo sia-mo dimenticati o non ci facciamo più caso; ma non è un posto qualunque. C’è passato un po’ di tutto: quando era solo uno spazio aperto ospitò le grandi manovre militari alla presenza del re Umberto I; negli anni ’30 si ingrandì fino a comprendere una Scuola Addestramento Caccia prima di subire i bombardamenti alleati del se-condo conflitto mondiale; nel 1952 – addirittura – ci at-terrò un Dakota civile della linea Jugoslavia-Zagabria-Pola dirottato da 3 operai di Zagabria che chiedevano asilo politico. Oggi mi piace andarci a prendere una boccata d’aria con mia figlia, come già faceva mia so-rella con me. Allora la sensazione era particolare per-ché l’austerità dell’ingresso della struttura e la serietà dell’uso stridevano con l’atmosfera di decadenza che

avvertivo: un campo da tennis malmesso, erbacce un po’ dappertutto, qualche sparuto aereo da turismo, un piccolo bar dove, però, una buona gazzosa in bottigliet-ta di vetro non mancava mai. Insomma: era un posto a modo suo accogliente, che giocava a fare il serio ma poi non lo era, un po’ come un nonno. Le cose nel tem-po non sono granché cambiate, anche se di acqua sotto i ponti ne è passata. Sarebbe bello poter riqualificare

l’area rendendola, come è stato fatto con il parco fluviale, un posto da vive-re. Si potrebbe iniziare con qualcosa in più per i bimbi; attualmente queste sono le uniche attrattive: due alta-lene decrepite, una voliera con alcune colombe e una vasca recintata con i pe-sci. Qualche panchina, così come qualche albero a dare un po’ d’ombra – ovvio, dove è lecito - invogliereb-be alla frequentazione esti-va più di un cittadino. Le associazioni presenti come l’Aeroclub sono ospitate in dei container: davvero non si riesce a trovare una sede più decorosa? Vista la tra-dizione aeronautica della città, si potrebbe inoltre

chiedere l’aiuto delle aziende del settore, magari alle-stendo nei locali in disuso un museo dell’aeroporto. Se poi si potesse adibire uno spazio a percorso verde per attività fisica, attrezzato con strutture a basso costo, nessuno si lamenterebbe. Il bar mi sembra splendido così.E poi, ci sono loro: gli aerei. Il cielo. Il fascino dell’aria. Mi piace guardare gli occhi dei bambini spalancarsi nel momento in cui questi apparecchi si staccano da ter-ra e rendono il gesto di Icaro meno folle di quanto gli antichi volevano farci credere. Mi piace quando si vol-tano al rumore di un motore che si accende per vedere quell’elica girare come una trottola per “grandi”.Sì, piacerebbe anche a me sentirmi più “Berliner”. Ma non nel senso del krapfen.

A Roberto.

A Foligno c’è di Giovanni Manuali

un aeroporto‡> foto di Alessio Vissani

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SPERSONE

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Torniamo a parlare di acqua. L’abbiamo fatto fin dal’inizio, prima usando il registro dell’informazione, poi attraverso racconti e memorie, successivamente mettendo a confronto diversi punti di vista, nello spazio “sguardi incrociati”.Torniamo a parlarne perché l’acqua ha che fare con la memoria, con la cultura, con la narrazione, con l’origine. Durante l’estate si è conclusa la raccolta di firme per l’abrogazione della legge di cui abbiamo parlato nel primo numero, che sono state di gran lunga superiori alle 500.000 necessarie: 1 milione e 400.000. Mai come stavolta una raccolta di firme ha mosso tanti artisti, gruppi musicali, personalità che hanno voluto sottolineare, con la loro adesione, come l’acqua ha a che fare con il destino dell’uomo e del pianeta.Diversi Comuni hanno modificato il loro statuto, esplicitando che l’acqua è un bene comune che non ha rilevanza economica. La Coop sta promuovendo, con una grande campagna pubblicitaria, il consumo consapevole dell’acqua del rubinetto.Molte persone che prima non si erano mai poste il problema hanno preso coscienza che circa l’85% dell’acqua è consumata dal nord del mondo, mentre nei paesi del sud del pianeta miliardi di persone vivono nella penuria di acqua o senza acqua potabile.Appare evidente allora che la sola idea che l’acqua possa perdere il suo status di bene comune ha attivato un processo riflessivo in cui ha cominciato a farsi strada l’idea che debbano essere i cittadini stessi, prima ancora che i loro delegati politici, a dover vigilare e partecipare perché non siano messi in pericolo i beni fondamentali della comunità.Su questi temi recentemente mi è capitato di ascoltare alcune riflessioni di Svedo Piccioni, tanto più interessanti in quanto il suo osservatorio è quello di Direttore dell’ARPA, l’agenzia regionale per la

protezione dell’ambiente. Gli chiedo di poter approfondire, per i lettori di Chiaroscuro, le sue idee e proposte sul rapporto tra ambiente e democrazia e sulla gestione dei servizi idrici.Il fatto che ci conosciamo da qualche decennio, mi permette di usare un registro confidenziale, a tratti un po’ impertinente.

Mi è sembrata molto interessante la prospettiva che ti ho sentito proporre recentemente: sottolineavi - rifacendoti anche al pensiero della premio Nobel per l’economia, Elinor Ostrom-, che “economia, sviluppo e ambiente” sono uniti e che la salvaguardia

dell’ambiente può orientare i cittadini verso nuove forme di partecipazione democratica … L’acqua è uno degli elementi fondamentali dell’ambiente ed è impensabile che possaessere legata a logiche di

profitto. Questa soluzione è potuta emergere solo perché siamo legati a un

modello di sviluppo che è ormai vecchio. Continuiamo a

pensare l’economia e lo sviluppo attraverso paradigmi ormai obsoleti. L’irrompere della società complessa non ha avuto come corollario la crescita di una cultura della complessità. Al contrario, la politica ha creduto di poter proporre una semplificazione dei processi complessi, producendo così, non maggiore conoscenza, ma banalizzazione e quindi irrigidimento di modelli, intolleranza e anche forme politiche autoritarie.

Intendi dire che la riduzione della complessità e la banalizzazione, implicando scarsa conoscenza e scarsa consapevolezza, sono all’origine della scarsa partecipazione democratica?Io sono diventato molto critico nei confronti del termine “partecipazione” perché è stato abusato, ha perso di significato, perché lo si usa senza dargli spessore. Si dice: “le persone non partecipano”, ma non si fa

Acqua & Ambientedi Anna Cappelletti

Intervista a Svedo Piccioni Direttore dell’Agenzia regionale della protezione ambientale

Mai come stavolta una raccolta di firme ha mosso

tanti artisti, gruppi musicali, personalità

che hanno voluto sottolineare, con la loro adesione, come l’acqua ha a che fare con il destino

dell’uomo e del pianeta

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IDEE

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un’analisi seria delle ragioni di questa mancanza di partecipazione.

Da questo punto di vista è piuttosto evidente che la questione acqua è stata in grado di mobilitare molte energie e molta partecipazione.Penso soprattutto che metta in evidenza che è necessario trovare nuovi paradigmi in grado di rilanciare il tema stesso della democrazia e credo che uno di questi paradigmi sia proprio l’ambiente.Credo, anzi, che l’ambiente sia “il paradigma”, e che sia in grado di ridefinire altri grandi temi come quello della solidarietà, della pace, della giustizia sociale. Per esempio l’acqua: più di 2,5 miliardi di persone non dispongono di acqua pulita, inoltre l’accesso alle risorse idriche è spesso all’origine di focolai di guerra e di conflitto. In questo contesto parlare di solidarietà e di pace non ha alcun senso, se non affrontando le questioni ambientali, in questo caso il problema dell’acqua.

Se la concentrazione in poche mani dell’ac-cesso all’acqua è già divenuta il nuovo spar-tiacque tra ricchezza e povertà nel sud del mondo, non è assurdo proporre con una legge il modello della gestio-ne dell’acqua in mani private, seppure sotto-lineando che il “pubbli-co” garantisce il con-trollo?Certo, perché nonostante si siano usate alchimie linguistiche, la legge che è passata comporta una privatizzazione della gestione dell’acqua potabile e quindi contiene due problemi consistenti: il primo di ordine etico, nel senso che non si può rendere oggetto di speculazione un bene pubblico indispensabile come l’acqua senza snaturarne l’essenza stessa di bene comune. In secondo luogo c’è proprio il problema delle garanzie, perché non è credibile ipotizzare un reale “controllo pubblico” quando il peso dell’imprenditore privato è così prevalente rispetto a quello dei cittadini.

È vero però che anche all’interno della sinistra le posizioni non sono state sempre chiare o nettamente contrarie all’idea che i privati entrassero nella gestione dei servizi idrici...Credo che ciò dipenda dal fatto che, in una situazione economicamente così difficile per le amministrazioni pubbliche, non si riesce a ipotizzare un sistema che possa far fronte ai notevoli costi determinati dalla necessità di un ammodernamento degli impianti.

Che fare, allora?È necessario trovare soluzioni innovative che tengano insieme efficienza del sistema, controllo democratico ed equità sociale. Penso al modello cooperativo, senza ripartizione degli utili, dove il valore aggiunto è rappresentato dalla partecipazione dei soci che sono anche i fruitori del servizio.

Sarebbe necessario ripensare ad un modello di cooperativa che si rifaccia, per così dire, “alle origini”, in cui davvero tutti partecipassero alla costruzione del bene comune: devi ammettere che questa prospettiva si è parecchio affievolita nel movimento cooperativo, dove si sono fatte strada altre logiche, di tipo più aziendalistico…Qui si tratterebbe di pensare che i soggetti che si met-tono insieme divengono protagonisti di un grande pro-cesso democratico di partecipazione, tutela e controllo del bene comune. In questo caso l’interesse individuale è immediatamente riscontrabile attraverso la qualità

del servizio e il costo della bollet-ta, e diventerebbe l’incentivo alla partecipazione attiva dei cittadini alla cooperativa. Lasciandosi gui-dare dall’approccio ambientale si può pensare a bacini di utenza dai confini naturali, senza forzature, senza rincorrere le logiche azienda-listiche, che preferiscono le grandi dimensioni.Questo sistema ridefinisce il con-cetto di “pubblico” che in una so-cietà moderna rappresenta il punto di equilibrio tra diritti individuali e

collettivi e riassegnando valore a termini quali “parte-cipazione” e “democrazia”.

È interessante, ma potrebbero esserci forti resistenze, visto che si tratta di una prospettiva diversa sia dalle posizioni della destra, che sta puntando alla privatizzazione, sia della sinistra che punta sul pubblico (strizzando talvolta l’occhio al privato)?Secondo me una via di questo genere sarebbe la migliore dimostrazione di come una risorsa comune possa assurgere a simbolo della difesa del bene collettivo e individuale e, allo stesso tempo, di come la partecipazione possa diventare il miglior strumento di salvaguardia del bene comune.

Grazie di averci fornito suggestioni così ricche. Molte questioni rimangono aperte e il dibattito si arricchisce ulteriormente. Così..torneremo a parlare di acqua.

Per esempio l’ac-qua: più di 2,5 mi-

liardi di persone non dispongono di acqua

pulita, inoltre l’accesso alle risorse idri-che è spesso all’origine di foco-

lai di guerra e di conflitto

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SIDEE

chiaroscuro

All’Aquila lo chiamano “il cratere”, è la zona rossa, quella inaccessibile perché molto pericolosa. Quella dove il terremoto ha lasciato un segno indele-bile.Come tutti sappiamo, nell’aprile del 2009 una scossa di magnitudo 5,9 della scala Richter, di uno sciame si-smico iniziato nel 2008, ha interessato l’Abruzzo e in particolare la città dell’Aquila. I comuni colpiti sono circa cinquanta, i morti 308. Da allora molte promesse sono state fatte, molti miracoli sono stati prospettati. Ma chi, come me, abita in Umbria, e in particolare a Foligno, può intuire con maggiore facilità le perplessità che gli abitanti dell’Aquila cominciano ad avere riguar-do al futuro della loro città.Nel settembre del 1997 un terremoto analogo per cer-ti aspetti interessò Umbria e Marche. Foligno fu tra i comuni che maggiormente né subì le conseguenze, so-prattutto per le numerose frazioni colpite dal sisma. A questo punto sembra fin troppo facile fare dei pa-ragoni, mettere a confronto la nostra esperienza con quella degli amici aquilani. Eppure non è così sempli-ce. Dopo tredici anni Foligno è ancora “infiocchettata” con monumentali impalcature di ristrutturazioni post sisma. Non immaginate quante ce ne sono ancora nel-le frazioni! Le cause di questi ritardi sono molteplici, tante quante le colpe, che dovrebbero essere urlate…ma non ora. Cercherei invece di porre l’attenzione sulla devastante diversità tra due parole che potrebbero risul-tare similari per molti ma vi assicuro agli antipodi per gli addetti ai lavori; ristrutturare e ricostruire. Foligno è stata ristrutturata e conseguentemen-te migliorata sismicamente; parte del centro storico dell’Aquila dovrà essere ricostruito e adeguato a sostenere ter-remoti d’intensità uguale se non supe-riore. Forse è necessario fare un passo indietro per capire meglio ciò che ine-sorabilmente sta accadendo.L’emergenza nel 1997 In Umbria e Mar-che è stata affrontata con tendopoli che lentamente si sono trasformate in campi container e in ultimo con casette di legno prefabbricate. Tutto in previsione di una rapida ristrutturazione degli edifici dichiarati inagibili, che doveva riportare la gente nelle loro case. Ad oggi, dopo tredici anni, vi assicuro che ci sono ancora persone, soprattutto anziani, che vivo-no in queste eleganti favelas, profughi di una “guerra”

L’Aquilaincolpevole e vittime di una burocrazia delinquente e ingiusta.I nostri “compagni di sventura” dell’Aquila hanno vis-suto un’esperienza un po’ diversa: in breve tempo le tende sono state sostituite da interessanti quartieri di palazzine antisismiche, in previsione di…..un’eterna ed improbabile ricostruzione della loro città.Complessi antisismici, sostenibili ed ecocompatibili formano moderni quartieri che costituiranno la nuova periferia dell’Aquila. Un hinterland come ce ne sono in tante città italiane, con un pregio di grande valore, cioè quello di trasmettere stabilità e sicurezza alle fa-miglie che ci abitano. Credo che in pochi, dopo aver vissuto l’esperienza di un sisma devastante, lascereb-bero un luogo vivibile e sicuro per far rientro nelle loro abitazioni, migliorate sismicamente ma vecchie e non altrettanto sicure Allora mi chiedo, e lo faccio con una provocazione, se sia più giusto ricostruire l’Aquila, o magari avere il co-raggio di far rinascere una nuova città dalle sue mace-rie.La nostra storia, di cui tanto ci vantiamo perché baga-glio insostituibile di cultura, ci insegna che le città sono in continua evoluzione. Ogni periodo storico ha avuto la sua corrispondenza nell’arte, nel pensiero e anche nell’architettura. Da un secolo ormai non riusciamo

più ad essere un’avanguardia del nostro tem-po, i modelli del passato ci accompagnano perché non sia-mo più in grado di trovare una nostra identità architettonica ed urbanistica.Credo che il nostro dovere sia quello di tu-telare il patri-

monio storico e culturale che ci è stato tramandato perché sia una ricchezza anche per i nostri figli. Se riu-sciamo a non perdere di vista questo obbiettivo, allora la trasformazione delle nostre città per farle diventare qualcosa di più sicuro e vivibile non sarà un atto di forza ma un processo che permetterà anche a noi di lasciare un segno.

e la ricostruzione impossibiledi Federico Berti

foto di Alessio Vissani

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IDEE

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Il titolo del film di B. Wilder con Jack Lemmon e Shirley McLaine, senza voler essere blasfemi, ben si addice all’incontro con la signora Irma Zampolini, Irma del fiume, del chioschetto di Porta Firenze, il chioschetto per eccellenza!Irma è contenta di vederci per poter ancora raccontare della sua vita al chioschetto e poter rivendicare i suoi meriti. Noi siamo onorati di poter entrare per un po’ nei suoi ricordi e nelle sue foto che narrano di una Foligno che dal 1936 al 2004 ha visto cambiare i suoi destini ed i suoi cittadini come l’acqua del fiume che scorre sotto il ponte.Le foto del suo archivio raccontano l’avvicendarsi delle sue attività. Erano gli anni Trenta quando sua madre chiese al Comune il permesso e la licenza di distribuire bevande e gelati al pubblico in prossimità del ponte di Porta Firenze, quando ancora fuori dalle mura c’era il Dazio. Ancora conserva le monete dei suoi incassi giornalieri (con l’aquila sul fascio littorio e l’effige di Vittorio Emanuele III con conio del 1939).Il primo chiosco consisteva in un unico bancone con coperchio per le intemperie in cui si conservavano al fresco i primi gelati al cono di cialda, primato che si contende con i Veneziani di via Mazzini. Nel 1939 poi Irma iniziò la sua gestione personale con un chiosco riparato da una veranda in tessuto. Anche questo era collocato fuori dal marciapiede, poiché il Comune non rilasciava la licenza d’uso sopra di esso. In un secondo momento al chiosco fu apportata una miglioria, con una struttura in muratura ed una lampada per l’imbrunire. Ma la pazienza di Irma ebbe la meglio, e le foto testimoniano dell’evoluzione

del chiosco che fu realizzato in muratura sul marciapiede negli anni Sessanta per poi finire con quello definitivo, molto più grande, che ricordiamo anche noi più giovani col bancone in acciaio acquistato a Lucca.Irma è veramente dolce quando racconta del concessionario grasso e volgare che rappresen-tava l’Algida, di cui aveva l’esclusiva, e che la importunava oltre misura; oppure dei dieci furti subiti negli anni, o ancora dei vari ammiratori

e corteggiatori che la subissavano di complimenti. Ma lei tutta d’un pezzo ri-vendicava la sua in-dipendenza.Si alzava alle cinque del mattino per ser-vire i caffè e le cola-zioni agli operai del-lo zuccherificio o le bevande ai camioni-sti che trasportava-no le barbabietole e che, si sa, spargono la voce velocemen-te e la pubblicità è l’anima del com-mercio! E per que-sto era rispettata ed ammirata.Non chiudeva mai il suo esercizio prima della mezzanotte e aveva il tempo di servire qualche

bibita fresca alle pattuglie delle forze dell’ordine che smontavano o a qualche avventore che aveva fatto tardi con gli amici.Non ricorda una sola rimostranza al suo servizio e alla sua correttezza e non stentiamo a crederle. In tutti gli anni di servizio ricevette una sola contravvenzione che volle a tutti i costi onorare, anche se sollecitata a non farlo da uno

di Rocco ZichellaIrma

la dolce

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SIDEE

chiaroscuro

strano invito del pretore stesso. Le era stato insegnato il rigore nei comportamenti e così si portò sempre negli anni.Tutti ricordano con piacere Irma, il suo chiosco, sempre aperto, d’estate e d’inverno, un punto fermo per la città, anche per coloro che solo ci passavano davanti e non si sono mai fermati per un caffè o un vermut. Figurarsi per quelli che hanno vissuto i suoi anni d’oro o coloro che se ne innamorarono perdutamente.Il sogno di Irma era una grande e bella gelateria ma la vita a volte prende strane strade come strani sono gli uomini e le donne che le percorrono. Mille aneddoti Irma potrebbe raccontare, buffi e interessanti. Come quello che capitò un giorno degli anni ’60: lei stava come sempre dietro al suo bancone quando vede una ragazza correre, la riconosce nella cantante Iva Zanicchi, solo il tempo di gridare il suo nome che quella la apostrofa e la invita a recarsi in quel posto, proprio quello…Poi si seppe che durante il Cantagiro di quell’anno la cantante si trovava a Foligno per riposarsi. Lo stupore della reazione e la veloce dipartita della diva ora strappano un sorriso…L’onda dei ricordi ci porta poi a seguire la dolce Irma lungo tutti i 65 anni di attività e a soffermarci sull’epilogo amaro del suo chiosco. Ed allora ecco il rumore delle bombe, la guerra, la

ricostruzione, il boom economico che certamente favorì anche i suoi affari, gli anni Settanta ed Ottanta dove già l’aumento indiscriminato delle auto rendeva difficile la posizione del chiosco, gli incidenti. E poi la fine. Infatti nel 2004 un’

auto va schiantarsi contro il suo chiosco: così si conclude la storia lavorativa di Irma, di una vita spesa per la gente, al servizio della città, a disposizione di cittadini e turisti.

La rivendita è stato smantellata ed è in corso una pratica per l’incidente ed il risarcimento. Il chiosco di Irma era un vero e proprio presidio sul ponte, un simbolo della città di Foligno, un’istituzione storica, una storia importante. In fondo pensateci, quando si ingenera la consuetudine di dire: “dopo Irma sulla destra…” invece che “dopo il ponte di porta Firenze ”, tutto questo non vuol dire altro che il chiosco di Irma è nelle nostre menti, nei nostri cuori, nella nostra storia, la storia della città di Foligno.Al di là di una facile retorica sulla mancanza di una sperata medaglia ricordo, si immagina che il tempo, galantuomo per eccellenza, lenisca un poco i suoi dolori e restituisca ad Irma il posto che le compete, un presidio di simpatia e dolcezza come quelle che regalava agli

avventori e clienti affezionati, laddove sono solamente conservate le rose rampicanti che lei stessa aveva innestato.Ci piace pensare che tutti ricordino Irma come fece un suo amico, Giuseppe Morichini, che le dedicò una poesia in vernacolo folignate che termina così: “Or stà ne lu tramonto de la giovinezza ma pe’ nui fulignati è l’emblema de la dorgezza”. E mi piace pensare che ci sia stato un Jack Lemmon che travestito mille volte in mille fogge diverse, ambisse ad avere tutte per sé le attenzioni della bella folignate, consumando fiumi di Chinotto e fumando quintali di Linda dal tabacco amaro.

Un particolare ringraziamento va all’amico Luigi Adriani ed alla nipote di Irma, la paziente

signora Grazia, ma soprattutto un grazie di cuore ad Irma, la dolce.

Si alzava alle cinque del mattino per servire i

caffè e le colazioni agli operai dello zuccherificio

o le bevande ai camionisti che trasportavano

le barbabietole

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STORIE

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Libera Terralibero sogno

Dobbiamo lasciare che le cose ci posseggano a volte, per renderle un poco nostre, un poco vere, e se si tratta di sogni, per renderle un poco realizzabili.Possedere un sogno vuol dire in realtà creare un lega-me tra noi e quel sogno, o quell’ideale, quel continuo congiungersi di presente e futuro che è alla base della differenza tra l’essere senza speranza e la responsabilità del proprio sperare.Si sogna spesso senza sapere di stare so-gnando, si sogna forse più da svegli, da “vivi” piuttosto che nel muto assopimen-to del letto; sognai a Palermo, sognai in una via di Palermo un sogno che poi mi fu detto non essere mio (fortunatamente non si è sempre obbligati a credere), un sogno colorato, ma che colore abbia la speranza io non so. Mi piace pensare che abbia gli stessi colori degli occhi dei ra-gazzi che per primi in quella via di Paler-mo ci parlarono di un impegno, col fervore interessato (e non illusorio e rozzo) di chi vive una ribellione molto più interiore che evidente. Ci parlarono di Libera.La stanza era tutta bianca, “è un locale confiscato” ci dissero, “era della mafia”; e in quel locale ci raccon-tarono storie strane, storie di ragazzi che ragazzi non erano più, storie di “Don” che non erano preti e storie di potere e sangue, nascoste dalla luce accecante del sole siciliano.Ma quella stanza parlava una lingua diversa, una lin-

gua sgorgata dalle labbra di un prete che partì dicendo di voler “congiungere la terra al cielo”. Poi quel suo-no rimbombò forte, quel parlare di un uomo “piccolo piccolo” che aveva la voce di 160 e più anni di morti ammazzati, soprusi e accumulo di potere sporco e cor-rotto.“La mafia è una montagna di merda” si sentiva urlare un giorno da una radio locale siciliana, e ancora, lo stesso ragazzo, scriveva negli anni ’60: “E venne da noi un adolescente/dagli occhi trasparenti/e dalle labbra carnose,/alla nostra giovinezza/consunta nel paese e nei bordelli./Non disse una sola parola/né fece gesto alcuno:/questo suo silenzio/e questa sua immobilità/hanno aperto una ferita mortale/nella nostra consunta giovinezza./Nessuno ci vendicherà:/la nostra pena non ha testimoni.”Stavolta c’era la testimonianza di chi era pronto a par-lare, a rischiare, a morire, e la febbre del rischio accol-se nuovi nomi, non più solo Don Luigi Ciotti, ma anche Marco, Francesco, Luisa…e iniziative, sogni proposte

e promesse, giovani di Palermo, giovani della Sicilia tutta, a lavorare e per lavo-rare intendo coltivare magari patate su campi dove prima “il sole del buon Dio non da(va) i suoi raggi” lottando contro lentezze di sistemi burocratici e incep-pati.Il suono crebbe, divenne un coro, un coro di tutta Italia, un coro in 40 lingue e mi-lioni di storie, nel quale ognuno, mentre canta, giura silenzioso a se stesso “dirò qualcosa, cosa non importa, ma qualcosa dirò, glielo devo, lo devo a chi è morto e

a chi è rimasto, lo devo perché io vivo da essere umano fedele alla terra, lo devo perché il suono con me non si spenga e finché non morrò, la cosa più grande che posso fare è parlare e parlerò”.

di Gioacchino Properzi

Libera-

Associazioni, nomi e numeri contro le mafie

È nata il 25 marzo 1995 con l’intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia. Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associa-zioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impe-gnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità. La legge sull’uso sociale dei beni confiscati alle mafie, l’educazione alla legalità democratica, l’impegno contro la corruzione, i campi di forma-zione antimafia, i progetti sul lavoro e lo sviluppo, le attività antiusura, sono alcuni dei concreti impegni di Libera.

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SSTORIE

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“Tu, piccola bambina di Ramadi, non dovresti avere più di sei anni in questo momento, per fortuna non ricordi quel giorno di ottobre quando i tuoi ge-nitori morirono, per fortuna sei lontana dall’Iraq ora. Con te sento il legame più stretto, per te sento la più grande responsabilità e il più profondo tormento. Vedi, tuo padre voleva solo salvarti, lui voleva solo strapparti dalle mani della mamma morta e provando-ci ha dato la sua vita, perché ti amava immensamente. Mio figlio John e il suo sergente non hanno capito, hanno visto il tentativo di tuo padre come una minaccia per i loro compagni e hanno fatto fuoco, uccidendo-lo. Vedi, noi due siamo legate perché mio figlio ha ucciso tuo padre. Ti prego, sappi che quando gli uomini del plotone ti hanno tro-vata, spaventata e in lacrime, molti di loro, tra cui anche John, sono crollati a pezzi. Li hai distrutti: tu, con quei grandi occhi marroni spaventati e i tuoi riccioli neri, hai messo in ginocchio mol-ti di loro. Ti hanno fatto una foto quel giorno. Tu sei un esile fagotto di fiori rosa e blu dalle maniche gon-fie posta sulla giacca mimetica del sergente il quale non ti ha te-nuto in braccio per ore. Ti prego, sappi che John conserva ancora la tua foto, sebbe-ne la guardi di rado perché gli fa così male ricordare. L’esercito degli Stati Uniti può insegnare a un uomo come uccidere ma non può insegnare a quello stesso uomo come affrontare le conseguenze, dopo averlo fatto. È di qualche aiuto sapere che mio figlio soffre a causa di quel giorno? Conta qualcosa ai fini della tua vita il fatto che porterà con sé la tua foto per sempre? Probabilmente no, non vedo come possa, ma ti dirò comunque che ti voglio bene.

Averti strappato la tua famiglia mi ha fatto perdere mio figlio, perché lui non potrà mai tornare ad esse-re lo stesso….. per questo noi saremo profondamente legate per sempre. A te assalamu alaikum, la pace sia con te”.

Questa lettera, scritta dalla madre del soldato John, è una delle innumerevoli testimonianze sulle vittime di guerra giunte fino a noi da uno di quei Paesi che è

l’Iraq, ma tra un’ora sarà L’Afganistan, poi il Sudan e tanti altri luoghi dove a parlare sono

dolori come questo che squarciano il velo della nostra indifferenza.

Collaboro con Emergency per-ché soltanto così posso te-

nere viva la mia capacità di sentire e condividere, con quante più persone possibili, esperienze di vita vissuta, o me-glio sopravvissuta, in luoghi di guerra per-manente dove alle persone non è dato scegliere la vita che vorrebbero.

Di tutte le atrocità del-la guerra, questa risulta

per me forse la più cru-dele, la più ingiusta: sin da

piccola mi è stato insegna-to che noi possiamo scegliere

come vivere la nostra vita, che tutto quello che facciamo, se fatto

con impegno, porterà prima o poi a dei ri-sultati. Milioni di uomini in tutto il pianeta sono pri-vati di questa possibilità proprio dalla guerra. Allora, che senso dare a tutto questo? Non ci rimane, per ora, che ascoltare, partecipare e diffondere storie, in at-tesa di un risveglio collettivo capace di ridisegnare un mondo senza guerre.

Una storia di guerra.Una storia tra tante

di Francesca Rossini

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Percorrendo il lungo viale dei cecchini in macchina o con un tram, la grande arteria che entra nella città e che costeggia la Mijliacka non ci si rende conto che cosa ci riserverà la fine del nostro percorso, vediamo scorrere grandi palazzi in un severo stile socialista, sparpagliati, imponenti e allo stesso tempo senza monumentalità, giganti di cemento con la testa alta che attendono qualcosa dal cielo. La strada è lunga e piena di traffico tanto da lasciarci il tempo di immaginare come poteva essere la vita qui 15 anni fa, quando muoversi in queste strade troppo lunghe ed esposte somigliava più ad un affronto a Dio che a una gita fuori porta. Ma già si capisce continuando il nostro viaggio che il centro di Sarajevo si trova in una posizione geografica particolare che alternativamente somiglia a una conca, un ventre, una culla, una voragine. Le colline intorno la cingono come delle braccia amorevoli e il primo pensiero è quello di constatare quanto sia raro trovare una città così vicina ai boschi e alle radure, così protetta dalle intemperie nel gelido inverno balcanico. I veri Sarajevesi invece quelle colline non le guardano con simpatia, è vero alcuni di loro ci hanno costruito intorno delle casette accoglienti e straordinariamente panoramiche, ma tutti si ricordano che le prime granate, i primi colpi di mortaio provenivano tutti da lì. Artiglieria pesante, carri armati invulnerabili, tiratori scelti, questo mi raccontò il generale Jovan Divjak quando mi descrisse il micidiale equipaggiamento della milizia serba che circondò la capitale bosniaca nel ’92. “L’esercito jugoslavo di Tito era uno dei migliori al mondo, eravamo isolati e non allineati con l’Unione Sovietica e dovevamo difenderci da ogni possibile attacco armato. Gran parte delle risorse erano destinate all’esercito e la mentalità militarista faceva parte del nostro sangue.” “Ma cosa c’entrava l’esercito di Tito? Nel ’92 la ex Jugoslavia non esisteva già più” chiesi io ingenuamente. “Ecco i serbi e i serbo-bosniaci si impossessarono di tutti gli armamenti del glorioso passato e di fatto l’esercito jugoslavo coincise con l’esercito serbo.” Immaginatevi quindi una perfetta macchina da guerra sbruffona e perfettamente cosciente della propria superiorità che assedia una città inerme e senza l’ombra di un soldato per tre lunghissimi anni. In quel periodo Sarajevo divenne la città delle scommesse. La prima

scommessa era quella della sopravvivenza, considerato il fatto che il fuoco arrivava senza preavviso e non si sapeva dove le bombe sarebbero esplose e a chi sarebbe toccato perdere la vita. La seconda quella dell’approvvigionamento, essendo una città sotto assedio nella quale era vietato entrare ed uscire fisicamente, il divieto era esteso anche alle merci che comprendevano cibo, medicine, carburante, beni di prima necessità. Il prezzo del pane era alle stelle, il caffè, di cui i bosniaci sono storicamente grandi bevitori, era diventato un bene di extra lusso, per l’acqua occorreva fare lunghe file rischiando la pelle. La terza scommessa era quella della stabilità mentale, le notizie di morte erano all’ordine del giorno, mancava tutto, non c’era modo di fuggire, non vi era un accenno sulla fine dell’assedio, alcuni arrivarono a pensare che non sarebbe mai finito. L’Europa, nonostante gli aiuti umanitari, restava arroccata nelle sue indecisioni, titubante tra l’azione e l’osservazione, tra un senso di umano riconoscimento con gli sfortunati vicini bosniaci e una non troppo velata superiorità nei confronti dei “selvaggi” balcanici, tanto quelli si scannano tra loro. “I Sarajevesi si abituarono all’assedio, è stato questo l’errore fatale” mi disse Zoran con lo sguardo sfuggente “è come l’esperimento termico con la rana. Prendi una rana e gettala in acqua bollente, la vedrai saltare fuori immediatamente, ma se la rana la metti in acqua fredda che farai scaldare lentamente vedrai il povero animale abituarsi e morire bollito.” Così mi spiegò. La verità è che nessuno voleva credere all’imminenza di una guerra, la gente di Sarajevo amava restare ore a chiacchierare in una Kafana davanti ad un caffè turco fumante che bisognava lasciar decantare per far posare i fondi nella tazzina, le donne passavano al mercato a comprare la carne di manzo per riempire la sfoglia dei gustosissimi Burek fatti in casa, i pensionati si riunivano al parchetto di fronte alla chiesa ortodossa a giocare con i grandi scacchi in cui ogni pezzo si spostava con due mani tanto era grande. Tolleranti lo erano per nascita, come spiegare altrimenti la buontempona tendenza a festeggiare tutte le feste che si incontravano nel corso di un anno? Ogni occasione era buona per festeggiare il Natale cattolico con il vicino di casa, la Pasqua ortodossa con il datore di lavoro, il Ramadan

Immaginadi Marta Angelini Sarajevo

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con il proprio zio e, se si aveva la fortuna di conoscere uno degli ottocento ebrei rimasti in città dopo la pulizia nazista degli anni ’40, si festeggiava insieme anche l’Hanukkah! La multiculturalità Sarajevese e, per esteso, quella bosniaca era stata giudicata intollerabile dai signori super nazionalisti della guerra che volevano spartirsi il paese come una torta, da un lato i serbi, dall’altro i croati, i musulmani poi, che si arrangino! Una vera pulizia etnica che mirava alla semplificazione di un tessuto sociale che era complesso ma che funzionava straordinariamente ed era stato l’orgoglio dell’Europa orientale dopo la seconda guerra mondiale. “Ma come, esiste un islam europeo?” mi chiese un giovane compagno di viaggio un po’ ottuso e poco incline al concetto di melting pot. Certo che esiste, da secoli, e la Bosnia ne conservava la parte più autentica. I musulmani della Bosnia erano una élite borghese, prevalentemente cittadina, che si occupava di incarichi pubblici e commercio, erano probabilmente i più colti e anche i più aperti e tolleranti di tutto il paese. Non avevano problemi ad accettare i matrimoni misti, conoscevano le lingue, erano flessibili con le regole religiose perché erano educati ad una cultura laica e illuminata. La guerra degli anni ’90, oltre a produrre migliaia di profughi e di morti, ha avuto la colpa gravissima di distruggere la classe migliore del paese, quella che garantiva benessere e istruzione. Edina, sarajevese di nascita, mi raccontò che i primi obiettivi che l’esercito di Karadžić volle colpire furono

i musei, i centri nevralgici della cultura come le scuole e i teatri e la meravigliosa e preziosissima Biblioteca Nazionale, che fu colpita da bombe incendiarie che mandarono letteralmente in fumo due milioni di libri, tra cui codici antichi di valore inestimabile, in una notte. Quello che fece l’esercito serbo dal ‘92 fu prima di tutto un autentico culturicidio, uno sradicamento della fiera identità di Sarajevo, città che ebbe il primato di avere la prima linea di tram nel mondo e che si considerava la Gerusalemme d’Europa per la sua identità multi religiosa e per la sua posizione strategica, una vera frontiera tra oriente e occidente. Quando mi incamminai salendo su per il belvedere, costeggiando file e file di tombe musulmane bianchissime, mi ritrovai, ormai stanca dalla salita, seduta su una torre panoramica a osservare una città fumosa e arcana, silenziosa e disomogenea, un po’ austro-ungarica, un po’ turca, un po’ metropolitana. E poi, d’improvviso, i minareti delle moschee cominciarono a vociare uno a uno e riempirono l’aria delle preghiere vibranti ad Allah, le chiese cristiane seguirono poco dopo e cominciarono i loro rintocchi di campane e fu in quel momento di rapsodia sacra che persi la percezione del tempo e dello spazio. Ero a Est, a Ovest, ero nel passato e nel futuro. Pensai, Sarajevo è tutto il mondo nella storia.

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Per andare da Gerusalemme a Betlemme si deve attraversare il Muro. I turisti di solito percorrono la bypass road, ed è realistico che non si accorgano neanche di essere arrivati dall’altra parte. Noi prendemmo l’autobus pubblico palestinese. La stazione, caotica e affollata, si trovava vicino alla porta di Damasco. Non c’erano orari. Quando l’autobus era pieno, partiva. Il nostro era un normale pullman extraurbano, con la solita aria condizionata sparata al massimo. Gli altri passeggeri ci guardavano con curiosità, ma senza ostilità. Eravamo gli unici occidentali a bordo. Da Gerusalemme a Betlemme sono solo sette chilometri. Ci mettemmo circa un’oretta. Prima di arrivare al muro, fummo fermati a un check-point. Due soldati adolescenti salirono a bordo dalla porta anteriore e scesero da quella posteriore. Portavano l’arma lunga con nonchalance, come fosse un cellulare o una borsetta. Non ci notarono. Forse fu meglio così. Magari

avrebbero fatto domande. Non volevamo creare disagio agli altri passeggeri.Quel giorno il punto da cui dovevamo passare era chiuso. Non si sapeva perché. Era chiuso e basta. Gli israeliani a volte cambiano programmi all’ultimo secondo. Dovemmo fare una lunga deviazione per arrivare a un altro passaggio, questa volta aperto. Nessuno degli altri era particolarmente agitato. Quest’arbitrarietà era normale. Era la normalità.La strada seguiva l’andamento del Muro. Era alto sei-otto metri. Di cemento grigio. Liscio. C’erano torrette, filo spinato. Pochi soldati, ma c’erano. Lo stomaco mi si stringeva. Non se ne vedeva la fine. Arrivammo al check-point. Scendemmo tutti ed entrammo nel terminal. Prima si passavano dei tornelli, come allo stadio, poi un metal detector. Dentro un gabbiotto c’era un altro ragazzino-soldato israeliano che leggeva un fumetto. Da lì si entrava in una struttura chiusa,

Palestina, il Muroe oltredi Diego Vitali

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un grosso capannone. C’erano molte porte chiuse. Facemmo passare gli zaini in un altro detector. Come all’aeroporto. I palestinesi erano silenziosi. Guardavano in basso. Altri palestinesi pulivano per terra. Mi venne da pensare agli ebrei che pulivano i forni. Con noi c’era un ragazzino con cui avevamo fatto amicizia sull’autobus. Non ci perdeva di vista. Ci aiutava a far passare gli zaini nelle macchine. Era gentile soprattutto con Rebecca. Forse era il suo tipo. Gli lasciai qualche spicciolo, ma me ne pentii. Non mi aveva chiesto niente. Forse l’avevo offeso. Ma io ero un adulto e lui un ragazzino. Non c’era niente di male in una mancia, pensai.Prima di sbucare dall’altra parte c’era una lunga passerella chiusa da inferriate. Era pieno di telecamere. Era lì che i muratori e i cottimisti si accampavano, ogni mattina, aspettando il proprio turno di passare per andare a lavorare in Israele. Per terra c’erano dei cartoni, alcuni bruciati. Accendevano il fuoco per scaldarsi. Adesso il caldo era soffocante, ma all’alba doveva essere freddo. Là fuori c’era uno spiazzo squallido, pieno di taxi in attesa. Mucchi di macerie, immondizia, e altro materiale non identificabile. Scritte sui muri. Sembrava Berlino est. La Palestina era tutta così. Piena di macerie vecchie e nuove, le une sovrapposte alle altre.Provai un senso inafferrabile di tristezza e di liberazione allo stesso tempo. Ero finalmente libero. In una terra assediata, in una prigione a cielo aperto, potevo finalmente sentirmi libero di parlare e comportarmi come volevo. Là dentro nessuno mi avrebbe controllato, seguito, interrogato. Non mi avrebbero chiesto i documenti, non avrebbero cercato di capire se ero un cooperante o un terrorista. Quella terra occupata, ferita, marginale, era anche terra di libertà, di sincerità. E al tempo stesso tutto questo mi rendeva triste. Perché anch’io ormai c’ero dentro. Perché non potevo chiamarmi fuori. La mia posizione neutrale stava vacillando pericolosamente. Avevo subito una violenza. La stavo subendo ancora. Era stato piuttosto soft – più o meno come entrare allo stadio – ma a maggior ragione questo mi faceva stare male. Più quella violenza era sotterranea, subliminale, quotidiana, più mi sembrava ingiustificata. Non che i militari non fossero brutali – lo erano eccome – ma anche se non lo erano, la loro semplice presenza mi sconvolgeva, mi risultava inaccettabile. Eravamo entrati in una zona di guerra. Ma non ci eravamo entrati adesso, al check-point di Betlemme. Ci eravamo entrati dall’aeroporto Ben Gurion, a Tel Aviv, e forse anche da prima.Una guerra che si combatte senza armi, quasi sempre. Una guerra quotidiana, fatta di piccoli gesti, che qui diventano follia o eroismo o stupidità. Andare al lavoro, andare all’Università, raccogliere le olive, andare al mare, suonare uno strumento musicale o fare teatro.In Palestina dicono: exist is to resist. Quanto Sion, la Terra promessa, è la chiave dell’identità ebraica, tanto

la Resistenza è la chiave di quella palestinese. Resi-stenza che diventa resilienza. Capacità di sopportare i traumi, di continuare a vivere in una condizione di emergenza, di marginalità, di fragilità. La resistenza è la pacifica, sebbene ferrea, volontà di sopravvivenza che sempre si contrappone all’altrettanto metallica e implacabile volontà di potenza. Il grande sogno di do-minio e il grande sogno di libertà hanno sempre corso su binari paralleli, intrecciati, gemelli.Entrambi sono sogni di pace, paradossalmente. Gli isra-eliani vogliono la pace, alle loro condizioni. I palesti-nesi lo stesso. Tutti vogliono la pace, tutti preparano la guerra. Volevo evitare di restare impigliato nella logica binaria, nel discorso coloniale israeliano e anti-coloniale palestinese. Nella mentalità del noi contro loro, del buono e cattivo, del terrorista e del carnefice, delle vittime che si auto-proclamano come tali. Eppure al tempo stesso non potevo non fare i conti con la realtà dei fatti. La realtà delle demolizioni, dei muri, delle colonie israeliane, della violenza fisica, psicologia, economica, epistemica.Fu ad Aida che trovai delle risposte. Il campo profughi di Aida, nei sobborghi di Betlemme. Un campo gestito dall’Onu, che era anche stato visitato da Papa Giovanni Paolo II.Il campo – che all’apparenza è un quartiere come un altro di Betlemme, forse solo più povero e fatiscente - è popolato da migliaia di persone, sfollati dai villaggi palestinesi di tutta l’area circostante. Villaggi demoliti dagli israeliani perché edificati in area C, a seguito degli accordi di Oslo, per fare posto alle colonie o per ragioni di sicurezza. Ci sono migliaia di rifugiati palestinesi nei campi profughi come quello di Aida, e non solo in Palestina, ma anche in Libano, Siria, Giordania. La diaspora palestinese.I rifugiati esprimono forse la condizione esistenziale più infima. Sono in un limbo. Hanno case che non sono le loro. Non sanno per quanto potranno rimanerci. Non hanno lavoro. I bambini vanno a scuola, se ci vanno, grazie a progetti di cooperazione internazionale o simili. Fino a poco tempo fa non potevano neanche uscire dal campo, ad Aida. Il cancello di ferro con i tornelli c’è ancora. Abbandonato. È una micidiale condizione di de-soggettivizzazione, di alienazione, di abbandono morale. Incontrammo un ragazzo che era impegnato in un progetto chiamato Beautiful resistance. Portare avanti la resistenza all’occupazione con gli strumenti dell’arte, del teatro, della musica. Cambiare le metafore con le quali si descrive la propria realtà, per cambiare la realtà stessa. Essere liberi prima di tutto dentro se stessi. Non c’era rassegnazione in quel ragazzo, di poco più giovane di me. C’era fervore, rovente entusiasmo, l’implacabile calma forgiata da una vita passata nell’asperità. La fermezza che ho visto negli occhi di molti palestinesi. Ad Aida non ho visto vittime.

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STORIE

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Quando si attraversa la savana, durante la sta-gione secca, si resta abbagliati dalla luce di tenebra azzurra del cielo africano, popolato di tacite stelle vive e luminose, altrettanti sguardi che accompa-gnano e guidano il cammino. Un cammino fatto di incontri e di storie che lasciano un segno indelebile nell’anima di chi le ha vissute.Questa è la storia di Prisca. Un esserino ripiegato su se stesso, un piccolo corpo scheletrico ricoperto di piaghe maleodoranti. Un volto pieno di sofferenza e di abbandono: due occhi che fissano sempre e soltan-to la terra, incapaci di guardare in faccia la vita, di incrociare altri occhi.Prisca è sola al mondo, vive in uno sperduto villag-gio dell’infinita foresta africana, avrà forse 15 anni, difficile stabilirlo: di certo, lei che sembra una bam-bina, appare molto diversa dalle sue coetanee che sono già madri e affrontano la vita con la determi-nazione di donne coraggiose, pronte a lottare per i propri figli e determinate a sfidare il mondo.

Lei, invece, trema se soltanto qualcuno si avvicina, si vergogna di essere “diversa”, ammalata e sporca. Nessuno si è mai occupato di lei, non ne valeva la pena.Ma, come in ogni fiaba che si rispetti, un giorno è arrivato un “uomo bianco”, un uomo buono, che si è chinato su di lei e l’ha aiutata a rialzarsi.Così è cominciata la nuova vita di Prisca, che è stata portata da padre Massimiliano all’ospedale della Mis-

sione, dove si sono presi cura di lei; dove come per magia (nelle fiabe può mancare l’elemento magico?) le piaghe lentamente si sono rimarginate; dove ogni giorno c’è l’acqua e addirittura il sapone per lavarsi, e dove ogni giorno c’è qualcosa da mangiare.Sembra impossibile, ma in questa parte del mondo (quella che è ultima in classifica e che con arroganza chiamiamo Terzo o addirittura Quarto Mondo!) per una ragazzina di quindici anni vivere in una corsia d’ospedale può essere la massima aspirazione e la più grande gioia.Quando l’ho vista la seconda volta, l’anno successi-vo, la mia piccola amica non tremava quasi più quan-do mi avvicinavo e nella sua lingua mi diceva che le ferite erano guarite. Poi, prendendomi per mano, zoppicando lievemente, mi ha portato a vedere il suo lettino in un angolo un po’ buio di una lunga came-rata, piena di malati di ogni tipo: donne e bambini con febbre altissima per la malaria, malati di AIDS, anziani denutriti e stanchi della vita. E in questa sor-ta di girone dantesco, che suscitava in me una sen-sazione di nausea e di vertigine, mi sono sentita dire che era bellissimo stare lì, era meraviglioso avere finalmente “una casa”.Nei giorni successivi ogni tanto Prisca veniva in Mis-sione, attraversava lentamente i duecento metri del grande piazzale antistante l’ospedale, per vedere la signora bianca e scambiare due parole con lei, anche con la speranza di avere alla fine una caramella. Una mattina è arrivata con un desiderio, anzi due: avere una “chola”, una piccola valigia da mettere accanto al suo lettino per riporre le sue povere cose… e comprare una bottiglietta di coca-cola. Le ho dato duemila kwacha, il corrispondente di 50 centesimi, per la coca-cola, promettendole che presto le avrei portato la “chola”. Nelle fiabe i sogni si devono av-verare.Prima di partire ho mantenuto la mia promessa. Ab-biamo riposto tutto in ordine dentro alla valigia e ci siamo sedute sul letto per salutarci, sul comodino c’era la coca-cola. Prisca mi ha guardato e poi, orgo-gliosa di sé, mi ha detto: «Vedi, ne bevo poca poca al giorno, così dura di più!». Poi ha sorriso, forse

Priscadi Carla Tacchi

Sembra impossibile, ma in questa parte del mondo

per una ragazzina di quindici anni

vivere in una corsia d’ospedale può essere la massima

aspirazione e la più grande gioia.

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SSTORIE

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nei miei occhi ha letto lo smarrimento di chi, anche dopo anni, non può capire fino in fondo. Lo stesso smarrimento che si ha quando si regala un pavesino ad un bambino che ne mangia metà e il resto lo tiene in mano per portarlo al suo fratellino, o quando tre bambini succhiano a turno la stessa caramella.Quel giorno ho salutato Prisca, ci siamo abbracciate, profumava di sapone di Marsiglia, quello che arriva con il container, aveva i capelli raccolti in tante pic-colissime treccine e sorrideva. Ha voluto una foto con la signora bianca e poi mi ha detto: «Torna, torna presto, io ti aspetto qui!».Un’alimentazione più regola-re, le medicine, le cure di suor Rose Mary hanno guarito il corpo di questa fragile creatura; le at-tenzioni, l’affetto, la vicinanza le hanno restituito la dignità di persona, l’hanno fatta rinascere alla vita una seconda volta. Nei suoi occhi, quando l’ho lasciata, c’era una sorta di raggiunta sere-nità. Ho avuto l’illusione, o forse la presunzione, di pensare che fra di noi si fosse instaurato un legame speciale e che in minima parte io potessi essere responsa-bile di quella timida gioia. Tante volte, dopo il mio ritor-no, nella frenesia delle mie gior-nate europee, mi riaffioravano alla mente quelle parole: «… io ti aspetto qui!». Ma l’attesa si è interrotta presto. Prisca non è più “lì”, nella casa-ospedale fra il dolore e la sofferenza, sul quel lettino con le lenzuola consu-mate, accanto al comodino con sopra la bottiglietta di coca-cola e la “chola” con i vestiti ben or-dinati. Se n’è andata in silenzio come aveva vissuto, ha lasciato il suo piccolo e strano corpo; il suo cuore, dopo aver sperimen-tato l’amicizia e l’amore, si è fermato.Ora è diventata una stella, una delle bellissime e tacite stelle che popolano l’infinito cielo afri-cano. Non deve più aspettare, ora siamo sempre vicine, in quel-la corrispondenza d’amorosi sen-si che annulla le distanze e vince la morte.

Sole, luna, stelle;in cielo ci sono molte stelle.

Ci sono tribù intere:uomini, donne, bambini,divenuti stelle da tempo.

(Tradizione orale boscimana)

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STORIE

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Un ragazzo cui piace la musica, appassionato di calcio, tifosissimo, una laurea e tanti piccoli lavori fatti qua e là per soddisfare i primi piccoli sfizi ed un incon-tro che gli ha cambiato letteralmente la vita…l’incon-tro con il mondo del sociale. Mi ha sempre stuzzicato sapere qualcosa in più dei giovani che assistono anziani, disabili e minori, sapere che cosa provano, perché lo fanno (non è un lavoro come gli altri…se non hai fega-to e cuore non lo fai). E così ho deciso di fare qualche domanda a un mio carissimo amico di Foligno per ca-pire di più cosa vuol dire lavorare con i minori. Un pomeriggio passato con lui a chiacchierare del suo lavoro e a tirare fuori un po’ di emozioni. Ciao, allora per rompere il ghiaccio parlami un po’ di te, dei tuoi studi, del-le tue passioni (magari in qualche modo legate al mondo del volontariato o al mondo del sociale se ci sono)Ciao, sono un ragazzo lau-reato in Scienze della Co-municazione che da circa 4 anni lavora con immensa soddisfazione nel sociale.La mia grande ed unica passione è la musica. Ti ricordi il momento preciso che ti ha fatto avvici-nare al mondo del sociale?Tutto è nato quasi per caso, nonostante la mia tesi di laurea fosse incentrata sui minori e sul complesso ruo-lo/legame con la famiglia. Partecipai alle selezioni per il Servizio Civile Nazionale all’interno del “Progetto minori”, venni scelto e iniziai l’esperienza in una struttura semi residenziale.Fui letteralmente folgorato e travolto dall’entusiasmo, conobbi persone meravigliose e fu da quel momento che iniziai a fare fatica ad immaginarmi in un luogo diverso. Disabili, anziani, minori sono tre dei grandi settori nel quale il sociale agisce con più presenza. I motivi che ti hanno spinto a seguire i minori quali sono?La mia esperienza ha sempre riguardato totalmente il settore dei minori, all’interno di vari servizi e strutture.Credo che le motivazioni siano esclusivamente di carat-tere emozionale, è attraverso i bambini e con i bambini che sento di dare il meglio di me. Che sensazioni provi nel momento che sei in turno?Sicuramente un gran senso di responsabilità, la perce-

zione concreta di essere, e non solo nel preciso mo-mento del turno, in qualche modo una figura positiva di riferimento.Quanto dai a loro e soprattutto quanto ricevi da loro? Difficile ovviamente quantificare, sicuramente c’è un interscambio di energie e di esperienze che resta a lungo e resiste in molti casi nel tempo.In percentuale quanto sei cambiato in questi anni di servizio?Sono cambiato moltissimo, o meglio, è cambiato radi-

calmente il mio approccio al quotidiano, alle proble-matiche di tutti i giorni.Il confronto costante con situazioni realmente e drammaticamente diffici-li aiuta a rimettere ogni cosa al suo posto, a rista-bilire le reali gerarchie di cosa conti o non conti dav-vero nella vita, a realizza-re quanto spesso le nostre ansie o lamentele appaia-no davvero ingiustificate. Cosa ti senti di dire a chi è titubante ma comunque ha una mezza idea di en-

trare a far parte di questo mondo?Credo che questo sia fondamentalmente un lavoro “ di pancia”, che richiede sacrifici ma che regala immense soddisfazioni ed emozioni. Quanto ti impegna e solitamente come si svolgono i tuoi servizi?Il lavoro mi impegna più o meno costantemente nell’ar-co della giornata (magari in più servizi) e anche a volte della settimana (ci sono strutture in cui si rende ne-cessario lavorare anche i week end o i giorni di festa) ma è talmente forte la passione che non diventa asso-lutamente un peso. Non è il classico lavoro d’ufficio con orario fisso e pausa caffè. Ma è il lavoro che amo, mi sento davvero realizzato e fortunato a svolgere un lavoro che amo. Per concludere, fatti da solo una domanda e dai una risposta.La domanda che mi pongo con maggiore frequenza è:“Cosa pensi o speri di regalare, insegnare ai bambini o alle persone in generale con cui condividi un tratto, un percorso di vita”. La risposta che mi scopro a dare è che vorrei che tutti imparassimo che “nella vita non conta tanto essere forti, quanto sentirsi forti”.

Cuore didi Alessio Vissani ragazzo

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SSTORIE

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Avendo contatti con le scuole della prima infanzia ca-pita sempre più spesso di sentire maestre che parlano di alunni ingestibili, piccoli “mostri” incontenibili che non solo non stanno alle regole imposte dagli insegnan-ti ma che creano confusione e rompono gli equilibri di intere classi. “Non ascoltano quando gli si dice di fare una cosa, non riescono a stare seduti per 5 minuti di fila, disturbano il compagno e sembrano non essere mi-nimamente interessati a ciò che si fa in classe, sono dei piccoli terremoti!”.La reazione che spesso questi bambini suscitano è quel-la dell’espulsione e del rifiuto: un bambino che non si riesce a gestire e ad integrare in una classe è nel con-testo scolastico di oggi, un bambino che crea blocchi, che impedisce il normale svolgimento del programma ministeriale e non permette di lavorare serenamente. Data questa premessa sembra abbastanza palese quan-to possa essere complicato il percorso scolastico per questi piccoli alunni, per le insegnanti e per le famiglie che spesso si sentono in colpa per avere un figlio che viene descritto come un terremoto.Le problematiche che possono soggiacere a questo tipo di “disturbi del comportamento” possono essere molte, in questo spazio non voglio però addentrarmi nei det-tagli delle diverse diagnosi differenziali quanto invece porre l’accento su alcuni sbagli importanti che il con-testo scolastico compie quando ci si trova di fronte un bambino che ha questo tipo di difficoltà.È importante partire da un concetto fondamentale: qual è la vera funzione della scuola materna e dell’in-fanzia? La scuola è il primo vero ambiente sociale, il luogo in cui imparare tutte le dinamiche relazionali , in cui poter capire e interiorizzare le norme, i ruoli e le capacità sociali (altruismo, cooperatività, competizio-ne). La scuola è un luogo di formazione in cui devono essere accolti e integrati tutti i bambini, in cui deve esserci personale adatto capace di personalizzare l’ac-coglienza e il contenimento e in cui nessun bambino deve essere visto come un blocco perché tutti devono avere un loro spazio.Mi è capitato di poter verificare di persona quanto spes-so questi “bambini terremoto” fossero all’interno delle classi delle vere “schegge impazzite” , incapaci di fer-marsi solo perché sentivano di non essere contenuti. La mancanza di contenimento porta nei bambini con-fusione e rabbia: sentire di avere davanti persone che ti temono, che pensano che tu sia ingestibile ti porta, quasi inevitabilmente, a comportarti come gli altri si aspettano che tu faccia. Questi bambini hanno bisogno

di sentire che le regole ci sono davvero altrimenti non le rispetteranno, hanno bisogno di sentire che quel ruo-lo dell’insegnante capace di frenarli, punirli ma anche comprenderli e proteggerli, ci sia davvero altrimenti non lo riconosceranno.La classe è un sistema in cui ogni elemento ha un suo ruolo fondamentale che condiziona ed è condizionato da tutti gli altri elementi. Il ruolo che un bambino con queste difficoltà può assumere all’interno di una classe è molto complicato da capire: cercare di boicottare le attività scolastiche dell’intero gruppo spesso è l’unico modo per dire “io non riesco ad entrare”! Quando un bambino non si sente compreso e aiutato nel modo in cui lui ha bisogno di essere aiutato, non riuscendo a costruire nulla decide che gli rimane solo da distrugge-re, non riuscendo a creare legami di aiuto ne crea altri basati sul potere, non riuscendo a comunicare la sua rabbia decide di “agirla”. Ogni azione aggressiva e tesa all’allontanamento e all’espulsione degli altri è solo il riflesso della paura di essere escluso per le proprie diversità. È in questo con-testo che assume un ruolo fondamentale la sensibilità e la preparazione del docente. Nei diversi casi che ho potuto analizzare, attraverso osservazioni effettuate nelle classi, ho ritrovato una caratteristica comune a quasi tutti i docenti : la paura di gestire questi bambini, l’insicurezza e la sensazione di non saperli contenere .Le reazioni che poi seguivano questa insicurezza era-no diverse, alcune maestre diventano molto autorita-rie con il bambino in questione, altre estremamente lassiste e la domanda che spesso facevano era proprio questa : perché se ci comportiamo in maniera cosi di-versa l’atteggiamento del bambino rimane lo stesso con tutte? La risposta a questa domanda sta nel fatto che il bambino non sente il comportamento-reazione ma ciò che sta dietro a questo: la paura, l’ impotenza e l’incapacità di gestirlo. Comprendo le difficoltà che un insegnante può provare nel dover gestire classi complicate e oggi anche nume-rose, ma si deve arrivare alla consapevolezza che quan-do un bambino di 6 anni riesce a rompere l’equilibrio di una classe intera il problema non è solo nel bambino ma anche nelle capacità di gestione dell’insegnante.Ai docenti non si richiede che facciano gli psicologi ma il loro importantissimo e prezioso lavoro deve essere quello di integrare i bambini capendo le loro diversità e non cercando di omologarli all’immagine del bambino silenzioso e perfetto.

Bambini o piccolidi Elisa Loretiterremoti

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STORIE

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Il relativismodi Francesco Savi

“Noi che abbiamo avuto il coraggio di mandare in frantumi tutte le categorie politiche tradizionali e dirci a volta a volta aristocratici e democratici, rivolu-zionari e reazionari, proletari e antiproletari, pacifisti e antipacifisti, noi siamo veramente i relativisti per ec-cellenza”. L’autore? Benito Mussolini! (“Nel solco delle grandi filosofie: relativismo e fascismo” Il Popolo d’Ita-lia del 22 novembre 1921).La dottrina relativista è molto seducente: non esisto-no verità, ogni ideale si equivale, ognuno ha il diritto di seguirlo senza alcun vincolo. La mentalità “relati-vista” si sperimenta anche nelle discussioni quotidia-ne: può capitare che chi sostiene con convinzione una tesi, chi parla di “verità”, si senta etichettare come “dogmatico”, termine che invece dovrebbe indicare chi rifiuta di discutere le proprie tesi e non chi cerca il confronto. Il fatto è che il relativismo è una costruzione astratta, che non dà risposta ai problemi concreti della vita. Non risolve il problema del mio ciliegio.Un giorno i miei figli mi dissero che avrebbero desi-derato un ciliegio nel nostro piccolo giardino; proprio come quello che avevo io da bambino e su cui passavo interi pomeriggi con gli amici a primavera a mangiare ciliegie. Insieme andammo al vivaio e scegliemmo una piantina esile, un unico stelo, ma con un cartellino che raffigurava splendide ciliegie rosso porpora. Piantam-mo l’alberello e aspettammo la primavera. Spuntaro-no tre esili ramoscelli, alcune foglioline e cinque fiori: strani, erano di un rosa pallido e strane erano anche le foglie! Il ciliegio non fece frutti, ma era il primo

anno! La primavera successiva i miei figli erano pronti con il cartellino a confrontare le loro attese con il pic-colo strano albero. Migliorava, era cresciuto, fece più foglie ed anche più fiori: strani per un ciliegio, ma la foto era lì nelle loro mani, non poteva deludere. Anche quell’anno una gelata tardiva fece cadere i fiori e non vi furono frutti, ma era ancora giovane! Il terzo anno eravamo ancora lì ad aspettare, il solito cartellino in mano. Stesse foglie, stessi fiori; strani per un ciliegio, ma avevamo il cartellino! Finalmente alcuni fiori at-tecchirono e comparvero piccoli frutti allungati e lie-vemente pelosi. Albicocche!? Il nostro ciliegio, quello del cartellino che prometteva succosi frutti rossi, era un albicocco. Quale era la verità? Come far coincidere la promessa verità con la realtà? Non c’è dubbio, la verità è una ed il tempo, la pazienza e l’attenzione hanno mostrato l’unica vera identità di quell’alberello. A ripensarci po-teva essere chiaro sin dal primo momento quale fosse la sua natura ma la falsa verità del cartellino di vendi-ta, che ammiccava ai nostri desideri, ci offuscava l’evi-denza. L’insegnamento è stato certamente uno; non vi erano tante verità, vi era solo un’illusione, una falsa promessa, ed una verità – l’albicocco. La verità non è stata equivalente all’illusione.Io proposi di estirpare l’albicocco per sostituirlo con un vero ciliegio, ma tutti a casa mia si opposero, perché tutti riconoscevano la dignità di quella piccola pian-ta che voleva solo essere se stessa. Dopo tredici anni quello strano ciliegio-albicocco è ancora lì nel nostro giardino, fa raramente frutti poiché è troppo precoce. Con amore lo abbiamo sempre curato e la sua fioritura è sempre una sorpresa che anticipa la nuova primavera (il cartellino lo abbiamo conservato fino a due o tre anni fa). Credo che questa storiella racchiuda il vero significato del relativismo. Posso essere convinto che una deter-minata verità non esista, o che sia deformata, o che debba essere tenuta in considerazione insieme con altre verità. Posso cercare di dimostrare razionalmen-te queste mie convinzioni. Ma non posso fingere che qualcosa sia diverso da come realmente è, solo perché non coincide con le aspettative o con le promesse della

del ciliegio

è necessario mettersi in movimento,

essere continuamente alla ricerca

per potersi far incontrare dalla verità

La prospettiva cristiana

Sguardi incrociati(ovvero come dialogare, pur pensandola in modo assai

diverso, senza gridare, sbraitare e insultarsi)

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SSTORIE

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pubblicità! Il tema della verità, vero soggetto di questa discus-sione, è per i cristiani il motivo su cui giocano la loro intera vita. Dio ne paga le conseguenze. Dio decide di entrare pienamente nella storia dell’uomo e si fa uomo in Gesù di Nazareth. Un Dio-Uomo che cammina tra gli altri uomini, che sostiene, che incontra e che sof-fre con loro. Questo Dio-Uomo non impone certezze, non sconvolge il mondo con punizioni esemplari, non vi sono più Sodoma e Gomorra da distruggere, ma attra-versa il suo piccolo territorio indicando un progetto da condividere e da seguire. Questo progetto rompe tutti gli schemi sociali imposti dall’economia, dall’egoismo, dall’opportunismo e dal possesso. Lui, Gesù, diventa il progetto, lui stesso si dichiara “via, verità e vita”; un folle? Certamente! Ma queste tre affermazioni sono tra loro inscindibili: è necessario mettersi in movimento, essere continuamente alla ri-cerca per potersi far incontrare dalla ve-rità. Già, farsi incon-trare. Poiché la verità non si possiede, essa si ricerca. La verità piena è nella cono-scenza di Dio, è Dio stesso. Quindi non si può possedere, non si può intrappolare nelle mani di qualcuno; sa-rebbe come possedere Dio stesso. La verità non può essere calata dall’alto. Essa va solo ricercata insistente-mente. Tutto questo progetto si può tradur-re in una sola parola: AMORE. L’amore è il filtro con cui effettuare la ricerca nella vita e della vita. Ma cosa è la verità? Questa fu la domanda che Ponzio Pilato fece a Gesù nel sinedrio, ma non ebbe nemmeno l’interesse di ascoltare la risposta. Non ci fu neanche la voglia di aprire un confronto; il prefetto romano aveva un pregiudizio (la Verità non esiste) e così impose una sua verità. I vangeli raccontano, infatti, che fatta que-sta domanda, Pilato “uscì di nuovo”. Uomo moderno Pilato! Divenuto simbolo del disimpe-gno, di chi vuole essere lasciato in pace, di chi non ha più nemmeno voglia di ascoltare le ragioni degli altri. Egli è il prototipo di tanti intellettuali dei nostri tem-pi, i quali credono che la vita non possa essere luogo

di verità. Ancor peggio sono i mass media, relativisti per eccellenza, che però amano presentare se stessi come la bocca della verità. Pilato sembra più oggetti-vo, almeno provò a dire che non aveva trovato colpe in quell’uomo Gesù.Nella nostra società la rinuncia al tema del trascenden-te si traduce in rinuncia al tema del vero, del bene, del giusto, del reale. La tesi per cui unica bussola dell’agi-re umano dovrebbe essere “fa’ ciò che desideri”, senza nessuna riflessione seria sul bene della persona, è una tesi che sembra salvaguardare la libertà individuale, ma non dà risposta al naturale desiderio di felicità e di conoscenza. La verità è ciò che permane nella storia dall’inizio alla fine nel fluire del tempo, essa contiene il germe dell’immortalità, la verità è in se immortale. In tutte le nostre attività umane è necessario continua-

mente scegliere, in base ad un criterio di selezione. Tale criterio di valutazione richiede l’applicazione di principi o valori. Valori che possono a loro volta entrare in conflitto e richiedere una scelta in base ad un ordine d’importanza che deve necessariamente essere forni-to, stabilito. Spesso si hanno tanti punti di partenza anche tra loro equivalenti, ma questo non deve diventare uguaglianza dei punti di arrivo. Ciò che conta è poter ricercare e valutare con l’unico metodo che si eleva al livello della verità; l’amore. “Il ciliegio-albicocco è ancora nel nostro giardino. Con amore lo abbiamo sempre curato e la sua fioritura è sempre una sorpresa che anticipa la nuova primavera”.

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PERSONE

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Il mio cane si chiama Mirtillo. Un nome buffo e insolito, lo so. È un piccolo meticcio (un bastardino, insomma) color miele con ampie macchie bianche, ha zampe corte e storte e una enorme coda, sicuramente progettata per un animale di dimensioni molto maggiori. È un cane tenace, molto risoluto nel far valere le proprie istanze: quando ha fame, quando si avvicina l’ora del pasto comincia ad abbaiare, a ringhiare, a mordicchiare le mie pantofole fino a quando la sua ciotola non viene riempita. Quando ha voglia di coccole incalza con zampatine ripetute l’umano prescelto fino a che, come accade quasi sempre, non viene preso in braccio: allora, con aria trionfante, riceve la sua legittima razione di carezze. È un cane viziato da sette anni di confortevole esistenza domestica, temprato da furibonde e gioiose zuffe con mio figlio. Accoglie l’ospite con un abbaiare furioso, interpretando in modo molto appariscente il proprio ruolo di cane da guardia e di difensore del territorio patrio, salvo poi abbandonarsi con languore alle prime coccole che gli vengono elargite. Ha grandi occhi marroni, molto vivi, molto espressivi, capaci di comunicare felicità ed energia ma anche di riempirsi di una struggente, quasi lacrimosa malinconia, soprattutto quando capisce da sicuri segnali (quando indossiamo pantaloni e scarpe non da “passeggiata”) che stiamo per uscire senza portarlo con noi. Talvolta, mentre se ne sta sprofondato sul suo cuscinone e sembra profondamente avvinto dal sonno, improvvisamente si riscuote e con un balzo veloce si dirige verso il giardino e comincia ad abbaiare con straordinaria intensità e vigore; non sempre è possibile svelare la cause di tale ira impetuosa: certe volte è un merlo che si è posato sul nostro alloro, altre volte è un passante che ha lambito il nostro cancello, altre ancora un cane che ha attraversato il suo campo olfattivo e acustico; altre volte infine la causa rimane misteriosa. Ma si tratta sempre di motivi che ci appaiono banali e che ai nostri occhi non dovrebbero giustificare una così virulenta reazione. E mentre noi lo osserviamo agitarsi, compiere giravolte rabbiose o balzi concitati verso il cancello, lui ci restituisce uno sguardo inquieto ma anche severamente critico, come se volesse dirci: ma possibile che siete così sciocchi da non capire che

qui sta succedendo qualcosa di importante, possibile che il vostro limitato intelletto umano non se ne rende conto? Il fatto è che vediamo cose diverse, o meglio, giudichiamo in modo diverso le cose che ci stanno intorno. Ma talora non sono così sicuro che la questione “umana” di cui mi sto occupando in quel momento sia realmente più importante di un merlo che viene a posarsi sul mio alloro. Ed eccomi dunque pervenuto, dopo un percorso improbabile e decisamente poco rigoroso sul piano filosofico, al tema di cui voglio parlare in questo articolo: il relativismo.

Il relativismo non è una filosofia; non è neppure un modello etico. Il relativismo (io lo chiamerei piuttosto pensiero relativo) è un metodo di approccio alla realtà: è la consapevolezza che la mia idea del mondo è comunque legata al mio esistere qui ed ora, ossia a ben precise coordinate spazio temporali: ciò significa che se io fossi esistito in un altro tempo e in un altro luogo (ad es. nella Grecia del V secolo o nella Turchia del XVI sec.) la mia concezione del mondo sarebbe stata sicuramente diversa. La mia verità è relativa a me (meglio ancora, al “me” di adesso, domani forse cambierò io e cambierà la mia verità), alla mia comunità, al tempo e al luogo in cui mi trovo ad esistere. Tale consapevolezza non toglie forza alla mia convinzione, semplicemente la storicizza e, per così dire, la umanizza, cioè la rende consona al mio essere uomo nell’incessante divenire della storia. Il pensiero relativo implica la coscienza che quella che noi chiamiamo verità non è e non può essere mai un approdo definitivo ma sempre la tappa di un cammino che si completerà (o semplicemente si

Il dio che vuole che le persone muoiano

dissanguate o annegate, il dio che ordina ad Abramo

di uccidere il figlio non ama l’uomo

e dunque non merita rispetto e obbedienza.

Il relativismodi Claudio Stella spiegato al mio cane

La prospettiva laica

Sguardi incrociati(ovvero come dialogare, pur pensandola in modo assai

diverso, senza gridare, sbraitare e insultarsi)

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SPERSONE

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concluderà) con la morte; è la disponibilità a rimettersi in discussione, è consapevolezza che il mondo, la vita sono organismi multiformi e cangianti che non potranno essere compresi con un’unica e immutabile chiave di interpretazione. Il pensiero relativo implica umiltà riguardo alle nostre facoltà conoscitive ma anche la tenacia di continuare a cercare.

Il pensiero assoluto presuppone, viceversa, che esista una verità immutabile e universale e un’unica chiave per accedervi. La verità è racchiusa entro un sacro recinto, al di fuori del quale non si trovano, semplicemente, altre verità ma solo la non verità, ossia la menzogna, l’eresia. Il pensiero assoluto, solitamente, tende ad assumere un Libro come fonte e paradigma della propria assoluta verità. Ciò che sta scritto nel libro è vero, sempre e comunque. I testimoni di Geova, la cui professione religiosa prevede un’interpretazione letterale della Bibbia, rifiutano di sottoporsi a trasfusioni di sangue, anche in situazioni di rischio mortale, perché nel “loro” Libro sta scritto: “Non ti nutrirai del sangue del tuo fratello”. Passando ad un altro Libro, penso alle ragazze di Smirne annegate in fiume, mentre i membri di una scuola coranica che si trovavano sulla riva non solo non le hanno soccorse, ma hanno impedito a chiunque di intervenire. Perché nel “loro” Libro c’è scritto che in nessun caso uomini estranei devono toccare le donne. Le ragazze sono morte annegate e il padre di una di loro ha commentato: “La morte di mia figlia e delle sue compagne è stata volontà di Dio”. Ma che razza di dio è quello che può preferire la morte di una persona al contatto fisico che c’è fra una che sta per annegare e il suo soccorritore? Ho citato questi esempi perché dimostrano in modo lampante come talvolta il Libro possa diventare nemico dell’uomo. Per fortuna la cultura e la sensibilità religiosa dominanti nel nostro paese hanno da tempo superato queste forme di atroce e grottesco fanatismo; pur tuttavia anche da noi esistono a mio avviso situazioni in cui si evidenzia un conflitto fra l’uomo e il Libro, tra i diritti concreti delle persone e le inflessibili istanze del pensiero assoluto. Ciò accade a mio avviso su alcuni temi specifici come l’eros, i rapporti di coppia, la bio-etica, l’eutanasia, su cui peraltro si è già dibattuto nei numeri 2 e 3 di Chiaroscuro.Io credo che il criterio di valutazione più corretto, quello che dovrebbe essere “fondante” sul piano

dell’elaborazione dei valori, debba essere soltanto l’uomo: le leggi e i valori di qualunque comunità civile dovrebbero essere ispirati al rispetto dell’uomo e dei suoi diritti “inalienabili”: il diritto alla vita, alla libertà, alla felicità, alla giustizia, all’uguaglianza. Tutto ciò che mortifica l’uomo e i suoi diritti non può essere vincolante per la mia coscienza, neppure se è scritto nel Libro. Il dio che vuole che le persone muoiano dissanguate o annegate, il dio che ordina ad Abramo di uccidere il figlio non ama l’uomo e dunque non merita rispetto e obbedienza.

Se fossi credente, mi piacerebbe pensare che il mio Dio non mi abbia posto sulla terra imponendomi un’unica strada di verità, al di fuori della quale si apre solo l’abisso del peccato e dell’errore. Se Dio è l’infinito, come può essere soltanto uno il sentiero che conduce a lui?

Un grande poeta cristiano del ‘900, Mario Luzi, definisce la condizione umana come “la ricerca a tentoni della porta/ in fondo a questo corridoio oscuro”. Io non credo che esista una Verità che ci aspetta, al di là della porta; credo che l’essenza della nostra vita stia tutto in questa nostra brancolante ricerca. Ancor più efficace mi appare la metafora utilizzata dal filosofo Norberto Bobbio, nella sua “etica del labirinto”: noi siamo viaggiatori del labirinto, il nostro cammino è la ricerca tenace, paziente del varco, della via d’uscita. Bobbio dice che noi non siamo cercatori di verità ma cercatori di senso. E forse allora il senso sta nel labirinto stesso: in questa confusione di alberi e stelle, di amori e dolori, in questa giostra sregolata di musica e sogni, di cagnolini tristi e vitali che abbaiano al mistero della notte.

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STORIE

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Sono in fila per vedere la mostra su Caravaggio alle Scuderie del Quirinale e penso che la semplicità, l’umanità dei suoi personaggi, la loro immediatezza sono il segreto del suo successo. Il motivo per cui è stato sempre un pittore amato dal popolo, dalla gente comune, dai fedeli.Finalmente entro. La maggior parte dei dipinti li avevo già visti, ma l’emozione si rinnova sempre. Altre opere sono una rivelazione, come la seconda versione della Conversione di Saul.Ma è davanti all’ Incoronazione di spine, che incomincio a formulare una nuova ipotesi. Sono come ipnotizzata dal collo del Cristo, proprio là dove la luce vuole che lo guar-di. È in questo vulnerabile collo che percepiamo la sua umanità. Non nel costato, nelle mani, nei piedi, nei fori, ma in quel collo piegato di lato, esposto al nostro sguardo pietoso. La pelle è fragile e delicata; si potrebbe sfio-rare appena con le labbra. Mi viene in mente il collo della Madonna dei pellegrini: stes-sa inclinazione, la luce che ugualmente lo espone alla nostra attenzione. Lo sguar-do rivolto con grazia verso i pellegrini, il suo stupore per tanta devozione. E allora mi rendo conto che ognuno dei personaggi di Caravaggio ha almeno un particolare che ri-manda a ciò che veramente è un corpo: la fronte rugosa di Matteo, la pelle avvizzita di Pietro, la mano tozza e il polso massiccio di Abramo. I seni turgidi di latte della Madonna della serpe o quelli giovani e frementi di Giuditta. E i piedi: quelli del pel-legrino, sporchissimi per la strada percorsa; o quelli del carnefice che sta spingendo verso l’alto la croce di Pietro. O che sembrano muoversi a passo di danza: si sovrappon-gono quelli della madre e del figlio nella Madonna della serpe; si incrociano con garbo quelli della Madonna dei pellegrini. Sono particolari che li rendono unici, quindi belli. Perché bellezza è unicità. Non sono mortificati né dal dolore né dalla povertà né dalla vecchiaia. Nessuna religione li può avvilire. Ciò che li rende così attraenti è la loro assoluta fisicità, orgogliosa e fiera. Sono orgogliosi, perché non hanno paura dei loro corpi. Esco dal museo, passeggio per le strade di Roma, incrocio persone di tutte le età e di tutti i Paesi e in loro il mio sguardo, non ancora sazio di bellezza, cerca quella stessa

unicità. La trovo nella mendicante accovacciata a terra, nel nonno con il suo nipotino, nel venditore ambulante, nella ragazza avvenente. Chiunque riesce ad abitare il proprio corpo senza scendere a compromessi e a vivere la propria unicità senza paura, è sicuramente “bello”. Certo, non avere paura è impossibile: della morte,della pelle che avvizzisce, del dolore che morde, del corpo che si disfa.Eppure, a me fa più paura chi annulla e mortifica la pro-pria unicità, chi vuole essere come tutti, chi vuole diven-tare come gli altri. Per rendersi indistinguibile ed irrico-noscibile. Per perdersi nel mucchio, perché nel mucchio si diventa tutti uguali e ci si sente al sicuro. Mi fa paura questa irriconoscibilità dell’altro, non poter distinguere la persona che ho davanti. Le donne che fanno di tutto per assomigliare ad un’ idea di “bellezza” omologata da al-

tri, mi fanno lo stesso effetto delle donne nascoste dai bur-qa. Nella bellissima mostra fotografica di Mc Curry, alla Galleria Nazionale dell’Um-bria di Perugia, c’erano stu-pefacenti ritratti di uomini e donne. Lo sguardo attento, vivo. Anche loro, belli perché unici. C’erano corpi sofferen-ti, smagriti, bruciati. Bambini armati, vecchi, cadaveri. Fo-tografie forti e commoventi. Di vita vera, senza masche-re e finzioni. E poi, c’erano fotografie di donne nascoste in burqa colorati: giallo, az-

zurro, fucsia. Quelle stoffe lucide e colorate rendevano ancor più inaccettabili i loro non-corpi. Come se fosse possibile, con una pennellata di colore, riempire il vuoto della loro fisicità. E allora, mi chiedo, tra il burqa e il corpo nel mucchio, non è possibile una via di mezzo? Siamo ricercatrici, scienziate, insegnanti, musiciste, scrittrici. Eppure per molte di noi il biglietto da visita é il corpo, presentato in sostituzione, o in aggiunta, alla laurea. Con la paterna benedizione di chi di donne se ne intende perché le ama! No, non ho intenzione di parlare di politica, non posso contaminare Caravaggio. Anzi, apro i miei libri e cerco La Madonna dei pellegrini: come ha fatto a inventarsi una Madonna capace di apparire così libera da tutto? Dal suo dio, dagli uomini, dal suo stesso artista? Riuscirà, questa Madonna, a far capire alle mie alunne che non devono aver paura dei loro corpi?

Corpidi Carla Oliva

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SSTORIE

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Posso avere un maglione rosso? Rosso?! Ma quest’inverno è di moda il nero e il marrone!Chi l’ha detto? Chi stabilisce la moda? Che cos’è la moda? Quella tendenza ad omologarsi ad appiattirsi, a subire, ad eliminare i 9/10 dei colori dell’arcobaleno, ad indossare pantaloni a vita bassa, che fanno i rotoli sui fianchi anche a donne tutte pelle ed ossa, a mettere sandali aperti d’inverno e stivali d’estate? Chi comanda? Chi detta la moda? Quale logica c’è dietro? Tutto questo mi fa arrovellare.Vorrei un paio di pantaloni dalla vita normale, un golf di un colore pastello, solare; un paio di scarpe comode, aperte d’estate, chiuse d’inverno. Vorrei delle labbra naturali, le rughe d’espressione e di vita vissuta, un seno così come è, la cellulite protettiva e rassicurante.E allora? Sono un mostro o una delle tante donne non tanto giovani, non tanto magre, non tanto alte, non tanto levigate, ma che amano tutti i colori dell’arcobaleno, tutto ciò che è naturale, veritiero, viscerale? E’ possibile che una ragazza si debba sentire obesa perché non entra in una taglia 40-42?Chi stabilisce i canoni di bellezza? Che poi ovviamente cambiano con le epoche.

Quando io ero giovane, andavano di moda le ragazze alla Twiggy (modella supermagra), c’era chi si operava per ridursi il seno, ora devono addirittura vietare per legge alle minorenni di ingrandirselo e imporre di aspettare almeno la maggiore età. A chi dobbiamo piacere?Fermiamoci un po’ a riflettere. Perché non ce li diamo da sole i canoni di bellezza? Delle labbra morbide, anche se non particolarmente carnose, non sono più espressive di un blocco di silicone appiccicato che si muove senza nessuna espressione e sfumatura? Non continuo la disamina di tutti i posticci. L’invito che rivolgo a tutti i giovani e soprattutto alle giovani è: riprendetevi i vostri gusti, la vostra libertà di rimanere ciò che siete; lasciate che gli altri vi scelgano così e non per ciò che volete sembrare di essere.Faccio appello all’intelligenza di tante, anche se minata dalle proprie insicurezze: boicottate tutto ciò che è fittizio, irrazionale, illogico, che vi viene imposto per qualche disegno occulto, ma sicuramente legato a fattori economici..RIPRENDETEVI VOI STESSE, vivrete sicuramente più libere, più leggere, con più autostima!

Riflessioni di unadi Rita Barbetti

donna

Lo sai che allora ... Ti ricordi di ... Quando c’era ... continui riferimenti al passato, a quello che ‘eravamo’ insistono nelle nostre conversazioni, ravvivano ed eccitano ogni discussione, ci rattristano e rallegrano insieme. Spesso affondiamo nei ricordi senza renderci conto che “il Passato” è passato, che non ci rimane altro da fare che ringraziare Dio per averci permesso di raggiungere mete una volta insperate, e vivere al “meglio” il presente, ricco spazio di vita ancora concessoci.Anche se forze, equilibrio, memoria, con gradualità

indicibile ci lasciano, anche se mali ed insidie sono sempre in agguato e ci mettono a dura prova, dobbiamo imporci di godere ogni momento, ogni occasione per stare con gli altri, per vivere serenamente e trovare, soprattutto in noi stessi, motivo di soddisfazione e appagamento di vita. Conversare, programmare, vedere oltre, affidarci, più che al ricordo, alla gioia dell’essere, al piacere di tutto ciò che riusciamo a fare, complimentandoci con noi stessi. Forza, la vita è lunga!

Come vivere gliantadi Franca Franconi Falfari

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STORIE

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Vi racconto una storia. La storia di una morte. Non parlerò del dolore, dello smarrimento, della disperazione nel dover sopravvivere ad un figlio. Non parlerò neppure della sofferenza nel vederlo morire in ospedale a F., ove la terapia del dolore non esiste, esiste solo il capriccio e il caso. Della codardia di alcuni medici, dell’umanità di altri. Racconterò la storia della morte burocratizzata, della morte in ospedale, della macchina commerciale che si appropria del defunto e della leggi scellerate che ti allontanano brutalmente da questo. Cercherò di capire e scrivere di alcune regole “igieniche” che interferiscono con i sentimenti di lutto.Vivendo in una società schizofrenica come la nostra, si può considerare normale la dicotomia tra elaborazione del lutto a cui ci spingono esperti e familiari, supportata da un’ampia letteratura specifica, e l’indifferenza e la brutalità delle regole che ce lo vietano e lo procrastinano in tempi futuri e comodi per le istituzioni. La morte

viene negata, si finge che faccia parte di un videogioco, di una telenovela, solo da vedere e organizzare nel modo più asettico e più pratico, ma non da vivere e da capire.Tra la morte e la vita c’è un nodo stretto e indissolubile che cerchiamo di ignorare, ma che ci accompagna dal momento della nostra nascita. Dovremmo essere abituati ad annusare la morte vivendo e la vita morendo, ma quella che conosciamo è la vita, mentre della morte non abbiamo memoria e come tutte le cose a noi sconosciute ne abbiamo paura, le temiamo.A volte facciamo fantasie sulla morte, sul dopo. Ci aggrappiamo ad ogni ideologia che ci rassicuri, ma la morte non ci rassicura, è pur sempre uno strappo,

una lacerazione, un atto cruento e violento, come la nascita.Il neonato, quando viene fuori dal suo mondo, sporco di sangue, faticando, lacerando le viscere della madre e con i polmoni anelanti aria, piange, grida, si dispera e non sembra portare con sé memoria del mondo accogliente da cui è venuto, o se ne ha il ricordo lo perde in fretta. La morte ripercorre a ritroso lo stesso viaggio. E’ forse questo imprinting di violenza alla nascita che ci rende così cruenti e crudeli, durante la vita, in cui ci esercitiamo alla violenza, in attesa di quella finale!E’ strano come l’uomo, che da sempre convive con la morte, la allontani e finga per tutta la vita che non esista, cercando affannosamente l’elisir contro questa. E come il concetto di morte, come evento naturale, sia inversamente proporzionale al progredire della tecnologia, ma non del progresso! L’illusione di aver sconfitto la morte, di essere immortali e il mito dell’eterna giovinezza che ci rimandano i media, attraverso la finzione e l’espropriazione dei sentimenti, ci illude e ci riempie di non verità, di non vita. Come dei gusci vuoti, ci facciamo riempire da questo e non crediamo più alla morte. Basta non vederla, fingere che non esista.La nostra mente la rifiuta, rimuove la sua esistenza, finge di accettarla, capirla, ma in effetti la allontana. La chiude in strutture, la legge sui giornali, la vede e prevede sullo schermo, nei giochi con le armi giocattolo dei bambini, la vede negli ospedali, nelle strade, nelle case, la accetta nelle guerre, ma in fondo non ci crede, non crede nella propria morte, vede solo quella degli altri, aiutato in questo dal filtro mediatico che consapevolmente ci distanzia dalla realtà, dai nostri sentimenti, rende finte le cose vere e vere le cose finte, rendendoci sempre più alieni a noi stessi.Solo quando tocca a noi o alle persone che amiamo ci rendiamo conto che esiste e che non sappiamo niente di lei, non la conosciamo. Non siamo mai pronti a conoscerla, ad accettarla, figuriamoci a capirla!Ogni morte è un delitto, una violenza, una lacerazione. Fingiamo di rassegnarci, ma non esiste rassegnazione alla morte: è come un omicidio di cui non si conosce l’assassino, è come un suicidio senza movente

di Lucia GengaLa favola

della morte

Come dei gusci vuoti, non crediamo

più alla morte. Basta non vederla,

fingere che non esista.

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apparente. Resta sospeso, senza rispostaCi insegnano che genitori incoerenti destabilizzano il bambino; la società si comporta nello stesso modo con l’individuo. La sua incongruenza tra parole e fatti ci lascia con un senso d’insicurezza e di dubbio, oltre alla paura di sbagliare, di essere puniti ed esecrati.Siamo esseri umani, uomini e donne. Ma la nostra umanità ci viene tolta e contestata da un’organizzazione sociale aliena. Non uomo, non donna, non bambino,

non anziano, ma con la volontà di renderci facili da gestire, facili da manipolare, facili da eliminare. Solo la paura e l’insicurezza possono spiegare la nostra correità con le istituzioni nel rendere la morte più asettica e il più possibile lontana da noi e dai nostri sentimenti. Sentimenti che disconosciamo, ma che lavorano dentro di noi, nel profondo, in modo negativo, come ci insegna il concetto di rimozione.Mi addentrerò in un discorso forse arido e prosaico, ma necessario per spiegare la brutalità ed inutilità di

alcune regole o leggi e dei postulati inquietanti da cui partono.Se hai la sfortuna di morire in ospedale, in orari non consoni all’obitorio, vi vieni chiuso dentro ed i tuoi cari ti rivedono il giorno dopo, a orario di apertura.Come si può lasciare la persona amata, sola, in una fredda stanza, molto simile ad un bagno scolastico di altri tempi, nel momento in cui si sta compiendo il passaggio dalla vita alla morte, in cui ancora il tepore

della vita contende alla morte il freddo marmoreo ed i colori del sole ancora perdurano sul suo viso e quel nulla sconosciuto, chiamato morte, non è ancora riuscito a cancellarli?L’atto ultimo della nostra vita non è meno importante degli altri, meno vitale o scevro di senso. Anzi, esso componendo e finendo il puzzle della nostra vita dà senso e significato a questa.Mi viene da dire: “ Riprendiamoci la nostra morte, il nostro dolore! Non facciamoci espropriare della nostra sofferenza, della nostra umanità, in nome di norme e regole aliene! Facciamo sì che anche il momento ultimo diventi un polo di solidarietà, di odore di bambino, di appartenenza, e sia vissuto insieme agli altri, o in solitudine, ma con i nostri tempi e con le nostre scelte. Non permettiamo che i nostri cari ci vengano presi in gestione da strutture che vogliono toglierci noi stessi! Tocchiamoli, baciamoli, accarezziamoli, non fingiamo di credere che siano intoccabili!Quando è morta mia figlia, l’obitorio dell’ospedale di Foligno era aperto solo due ore al giorno. Ora leggo che, in seguito a proteste individuali e lotte collettive sostenute dai media, viene aperto per ben quattro ore al giorno!Mi chiedo: E’ la struttura che deve essere disponibile verso il cittadino o il contrario?Forse potrebbe restare aperto sempre, per divenire un luogo di solidarietà, un luogo dove poter vivere il proprio dolore, dove poter parlare, raccontare, piangere, gridare e non essere, come adesso è, un’asettica e raggelante anticamera del nulla!Potrebbe essere un luogo accogliente, caldo di affetti, di amore; un luogo senza tempo in cui esperire la nostra vita e darle un senso, mentre

accompagniamo i nostri cari nel loro ultimo viaggio!Potrebbe, la struttura “amica”, mettere a disposizione esperti (medici, psicologi, religiosi) che rispondano alle nostre domande o esigenze, che restano per lo più senza risposta.Forse questo potrebbe essere chiamato progresso o civiltà, se le parole avessero il loro significato primo e non nomi assimilabili a tecnologia e regresso emotivo ed etico.

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Nelle foglie cadute poco prima di seccare rimangono impressi sorrisi d‘addio, esse preannunciano ben altre piogge e, come fa la neve, formano una morbida coltre sui paesaggi urbani e non. L’alito gelido dell’autunno s’insinua a occhi chiusi tra quei mucchi dorati, separa una a una le foglie e le anima, costringendole a muoversi indipendentemente l’una dall’altra. C’è qualcosa di violento nei loro movimenti, come un grido, qualcosa di temuto e desiderato: esse, mai morte del tutto, ricordano nel colore e nel suono un fuoco che cambi d’intensità e di direzione a ogni respiro. Sembrano tante fiammelle il cui tremolio è in grado d’indicarci l’inquietudine più o meno profonda dell’anima che rappresentano. Sembra di poter sentire al loro interno le preghiere e i lamenti di quelle anime del Purgatorio che, seguendo i ritmi agricoli stagionali di morte e rinascita, i culti cristiani e pagani insieme sono soliti ricordare a partire da Novembre. Da questo momento in poi cominciano a comparire maschere di varia forma e natura. I culti dei Santi e dei semplici morti s’intrecciano, così come accade alle diverse simbologie delle maschere, teriomorfe o antropomorfe (si ricorda qui solo L’Uomo Selvaggio, presente nel Nord Italia ma a tutt’oggi anche in provincia di Messina). Le maschere, lungi dal limitarsi a travestire la realtà, si presentano come vere e proprie epifanie, realtà rivelatrici, destabilizzanti, pronte a sovvertire, se non ben incanalate in riti collettivi “di passaggio”, la quotidianità dei vivi. Esse hanno un potere unificante: trasformano, non solo esteriormente, i vivi nei morti e viceversa. Il loro tempo comincia, per esempio, in area slavo-balcanica con San Dimitri (26 ottobre) poi con San Giorgio d’autunno (3 novembre), con San Martino (10 novembre) e Santa Caterina (25 novembre) in Estonia. Dal Nord al Sud Europa, così come dal Nord al Sud Italia, l’uso delle

maschere è ben conosciuto, documentato, e, di volta in volta, stigmatizzato. In questo contesto l’autunno è soprattutto il tempo di una semina rituale, è il periodo cioè in cui si “portano in dono” ai morti (e, quando i morti non passino a consumare i cibi imbanditi per loro, ai poveri) granaglie e semenze varie (l’unica frutta di

stagione è il melograno), il tempo in cui ci si prepara ad accogliere la vita che rinasce proprio dal regno dei morti e insieme ai morti stessi, insieme al loro ricordo e alla loro rinnovata presenza. L’affermazione della potenza della morte, della sua necessità, dell’inevitabilità dei suoi effetti distruttivi, si mescola a una dimensione salvifica di rinascita e continuità. Chi vive negli spazi agricoli, spazi “addomesticati”, strappati al bosco e alle sue fiere, sa che un uomo non è libero di lavorare quando e come vuole, sa che il destino del suo raccolto sta più nella natura e nella provvidenza, identificate entrambe con le divinità ctonie e con i morti, divinità essi stessi, che nelle proprie mani. Intanto gli spazi vuoti, inutilizzati, in città si ricoprono di una seconda pelle già secca, non più bisognosa di cure, facile da mettere da parte qualora

fosse necessario recuperare spazio alla vita e alle sue varie attività. Intanto nei cimiteri, il mondo controllato in cui ci siamo illusi di poter rinchiudere il ricordo dei morti, si approfitta dell’annuale visita alle tombe per interrogarsi sulla propria morte e sulle modalità con cui vorremmo venisse più o meno brevemente celebrata; sempre sperando che non comporti, per sé e per gli altri, troppo dolore.Proprio l’uso cristiano di dare sempre e comunque una sepoltura anche a quei morti che per varie ragioni non potevano permettersela, ha causato l’uso di fosse comuni, all’interno del recinto della chiesa oppure extra moenia, e il conseguente riaffiorare, dopo un terremoto, un fenomeno erosivo, o in caso di restauri,

Sorrisi nascostidi Sara Mirtid’addio

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di ossa antiche. In virtù della loro antichità e del loro mistero esse hanno suscitato e suscitano ancora nelle anime pie dei fedeli una dolce, contrastata, idolatria. Tutto il Sud Italia conosce il culto della collettività anonima dei morti (si pensi ai decollati, o agli appestati) che vengono spesso invocati in soccorso o per ottenere grazie, ma a Napoli (cimitero delle Fontanelle, San Pietro ad Aram, Chiesa dei Santi Cosma e Damiano, ipogeo di santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco) il culto dei morti è particolarmente contingente e inarrestabile, al punto che, per esempio, ogni devoto è solito “adottare” (il termine non è casuale e rimanda a un’identificazione rituale tra i bambini, promessa innocente e “visionaria” di nuova vita, e i morti inquieti) un’anima pezzentella, un’anima scordata, una capuzzella (un cranio, un resto umano anonimo che in questo caso s‘identifica con l‘anima). Il “proprietario” di quest’anima derelitta è solito manifestarsi in sogno - il tempo senza tempo che ancora appartiene ai morti - prima o dopo che si sia iniziato a prendersene cura, per svelare identità e professione e per riscattare così il proprio status d’abbandono. I crani vengono lavati e lucidati (le anime dei morti sono assetate, riarse e bisognose di purificazione), visitati, in loro nome viene fatta l’elemosina per le messe di suffragio e per i poveri (si potrebbe dire che ”i poveri di qua” solidarizzino con “i poveri di là”), ed essi vengono letteralmente rivestiti di un’identità sociale, restituendogli così una sorta di capacità comunicativa. Se la mano “santa”

di qualcuno pone tra i denti di un teschio “che c’ha bisogno” un tarallo o un pezzo di pane, l’offerta dopo poco scompare miracolosamente. I morti dunque non si limitano a tornare, ma sono soliti comunicare coi vivi, hanno dei bisogni corporei, come la fame e la sete o come l’esigenza che venga acceso un lumino davanti ai loro occhi vuoti per poter riavere la vista. I morti, dunque, pena un loro ritorno diurno, fuori da un contesto “controllato”, chiedono il refrisco, vengono a reclamare un ingiusto abbandono, a chiedere e a offrire aiuto. Comunque la si metta, è innegabile che a partire da Novembre e almeno fino all’Equinozio di Primavera dominino i defunti e le loro maschere (indossate in modo saltuariamente benaugurante dai bambini e in maniera loro malgrado più costante dai poveri), e che da una parte essi vengano “mangiati” (dolci rituali, fave e cereali bolliti, melograni) mentre dall’altra ad essi si offrono alimenti, primo tra tutti il pane, frutto del lavoro dei vivi. Così, attraverso il pasto rituale tra eredi e antenati, attraverso lo scambio di se stessi divenuti cibo (cfr. Propp 1946, A. Butitta 1996a, Giallombardo 2003, cit. in I. E. Butitta 2006) viene sconfitto il caos, pur necessario, e ristabilito l’ordine sociale.Inseguire le ombre lasciate sulla terra dai morti ci permette di non perdere di vista i confini concreti dei vivi e ci permette altresì, quando sia giunto il momento, di trovare il linguaggio per lasciarli andare lentamente e ogni anno in maniera più definitiva.

Liberodi Libero Pizzoni

s p a z i oNERO - Mamma mia

Dov’è finita mamma mia, quella bella donna di cui ero innamorato, che mi ha insegnato a ballare il tango e il valzer, pocce imponenti, capelli lunghi e neri, che sapeva sempre chi era la mia fidanzatina e le faceva il regalo a nome mio e a mia insaputa per Natale.Quella che aveva fatto la 5° elementare e che leggeva un libro ogni due giorni, che era stata capace di affrontare i nazisti per salvare papà dalla fucilazione, che aveva imparato a fare il pane, che amava il cinema e il gioco delle carte.Ora se ne sta sulla sua poltrona, due fili di capelli bianchi, piccola e minuta, quasi cieca.Questo la rattrista molto perché non riesce più a seguire Rex in tv e soprattutto perché non può più leggere. Forse ormai non se ne rende quasi conto, certe volte non ricorda i nomi e mi indica animali e presenze che lei sola per-cepisce.Insieme cerchiamo di ricordare i vecchi tempi e i vecchi amici e allora sorride e ridiventa bella. Poi me ne vado e lei rimane nella sua poltrona, nel suo buio e nel suo silenzio e non riesco ad immaginare quanto possa essere per lei lungo il giorno e quanto lunga la notte.

Racconto tratto dalla raccolta “Colori 6.6.1944 - 6.6.2004”

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In buona sostanza, l’ingresso dei Piemontesi a Foligno il 15 settembre del ’60 fu una passeggiata trionfale (chiaroscuro, n. 5, sett. ’10). Ci si può domandare, tuttavia, perché l’accoglienza tributata alle truppe règie fu tanto calorosa. Ebbene, il terreno era dissodato e pronto a ricevere le nuove sementi. E ciò non solo perché, dal tardo Settecento i Folignati (tutti, dai dotti alle inclite) sapevano di gruppi - minoritari, certo, ma molto attivi contro l’odiato potere temporale dei preti; non solo perché quelli che qui erano stati attori partecipi del vortice - esaltante e tragico ad un tempo - innescato dal primo Napoleone erano tutt’altro che degli opportunisti, servili lacché dell’Impero; non solo perché i tanti eventi, passioni, fatti d’arme che si erano susseguiti nei decenni trascorsi dal lontano 1796 erano ancora molto presenti agli occhi e alla memoria dell’intera cittadinanza (tanto della parte liberale di essa, quanto di quella codina); ma perché il precipitare dei grandi avvenimenti recenti aveva predisposto menti e cuori, volenti o nolenti che fossero, a vivere quel passaggio d’epoca, netto, non condiviso da tutti, ma sentito universalmente come inevitabile. Se così non fosse stato, don Bernardino Bartoloni Bocci, sotto la data del 13 aprile del 1859, non avrebbe annotato nel suo Diarium missarum (Diario delle messe): «Die 12 dicunt hic adfuisset Mazzinius», dicono che il giorno 12 fosse transitato da queste parti Mazzini; dimostrando un’attenzione vivissima a quanto si stava muovendo, benché fosse tutto fuor che incline a fiancheggiare i “faziosi”! Ormai si stava facendo sempre più stretto l’intreccio tra ciò che accadeva dentro e ciò che accadeva fuori delle antiche mura urbiche. Tra il marzo e il giugno del ’59, erano inviate lettere da Foligno: al ministro dell’Interno, il direttore di polizia scriveva denunciando la diffusione di stampe sulle quali occorreva una vigilanza occhiuta, e il giudice del tribunale avanzava preoccupate osservazioni onde si ribadissero con forza i principî irrinunciabili sul potere temporale dei papi. A partire dall’aprile, l’ultimatum dell’Austria al Piemonte, l’invasione del Piemonte da parte del

feldmaresciallo Giulay e l’inizio della seconda guerra d’indipendenza (il 27); la mobilitazione in massa di volontari; i rivolgimenti in Toscana; Palestro; la vittoria di Magenta (4 giugno) che suscitava in Foligno (il 6) un’eco vastissima: le campane del comune e della cattedrale suonarono come nelle occasioni più solenni, il concerto cittadino si esibì nella piazza Grande e per le vie, “seguìto da moltissimo popolo con coccarde o altri emblemi nazionali”, le bandiere tricolori issate in luoghi altamente simbolici in un tripudio che non fu orchestrato; i rivolgimenti nelle province emiliane (Parma, Modena), in quelle pontificie di Bologna e delle Legazioni, in Ancona; determinavano una partecipazione tanto viva, forse senza precedenti nella storia di Foligno. Così, allorché il 15 giugno si formava in Perugia una giunta provvisoria di Stato ed era “proclamata la dittatura di Vittorio Emanuele” (il 20, la violentissima reazione papalina avrebbe schiacciato nel sangue la volontà dei Perugini di voltar pagina), anche i Folignati, certo una parte di loro, “divisato aveano di cambiar Governo”; ma monsignor Luigi Giordani, il delegato apostolico che aveva ripiegato precipitosamente da Perugia a Foligno arroccandosi in quest’ultimo avamposto provinciale, per quanto infido e insicuro, li aveva dissuasi con la “forza imponente” e le “disposizioni” della sua gendarmeria, mentre le autorità municipali si mantenevano “nel pieno ossequio alla sovranità del Santo Padre”. La frattura fra quanti erano aperti alle novità della Storia (nonostante gli anatemi papali del 18 e 19 giugno), la parte viva della società civile insomma, e gli uomini delle istituzioni, non si sarebbe sanata; e in un contesto di crescente propaganda “faziosa” - giacché i preliminari di pace austro-francesi a Villafranca (11 luglio), accordi restaurativi, che nell’idea di una Confederazione italiana rimettevano in circolo il potere temporale del pontefice, non avevano intaccato la fede nell’Italia indipendente, unita e senza papa -, l’8 di ottobre, il governatore di Foligno scriveva al ministro dell’Interno un’allarmata missiva: “Sonosi rinvenuti eziandio affissi non solo entro la città, ma benanche al di fuori, e precisamente

di Fabio BettoniMazzini,

Garibaldi

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nei pali del telegrafo lungo le strade corriere, molti cartelli nei quali si leggeva impresso a stampa: W V. E. Nostro Re”. Nell’Italia centrale, del resto, la fase precedente e successiva alla conferenza di Zurigo (10 novembre) fu caratterizzata dalla volontà di non recedere: lo testimoniavano la formazione, sotto il comando di Fanti e Garibaldi, della lega militare tosco-emiliana, alla quale il 10 agosto aveva aderito anche Bologna; l’accoglimento, da parte del re di Sardegna dei voti di annessione espressi da quelle province; la reggenza dell’Italia centrale attribuita a Eugenio di Carignano, cugino di Vittorio Emanuele. Scelta giusta, vista la nuova attenzione dell’Inghilterra verso la logica nazionale perseguita dal Piemonte, visto il progressivo avvicinamento franco-inglese sulla questione papale (che di fatto cancellava Villafranca e Zurigo) e apriva una fase di non interferenza con l’evoluzione delle vicende italiane. In questo quadro, il 21 gennaio del ’60 si registrava in Foligno una certa calma; ma era del tutto apparente: infatti monsignor delegato apostolico, nel mentre scriveva al ministro dell’Interno che era stato “mantenuto l’ordine perfetto e la legalità”, e segnalava che i “pochi esaltati di qui” non davano “luogo finora ad alcuna osservazione contraria a loro carico”, doveva ammettere “qualche riunione segreta fra loro”; tant’è che di lì a poco, il 30 dello stesso mese, il governatore della città denunciava che “dalla vicina Toscana”, da Cortona (ove operava il perugino Giuseppe Danzetta), “si è fatta la introduzione di stampe eccitanti dimostrazioni da attuarsi subito nel nostro Stato per Vittorio Emanuele e per la Francia”. Era in atto quel lavorìo clandestino che faceva maturare anche da noi varie (almeno dieci) iniziative di pubblica ribellione: una per tutte: “Ho rapporto - scriveva monsignor delegato al ministro il 27 febbraio - che in Fuligno comincia la proibizione per parte dei settarî a fumare ed a giuocare al lotto. Si sono date disposizioni energiche a quel signor governatore per impedirla, chiamando a responsabilità le persone che si ritengono le più esaltate, minacciandole del pronto arresto. Si vanno verificando, da qualche giorno, partenze improvvise di individui per arruolarsi in Toscana”. Nella vicina regione infatti, insieme a Cortona, Borgo San Sepolcro era l’altro punto di riferimento per gli umbri militanti e combattenti da quando (27 aprile ’59) il granduca se n’era andato. Proprio lì, il 25 febbraio del ’60, si era svolta una grande manifestazione (chi scrisse di un “convegno pubblico”, chi di una festa da ballo) nel corso della quale i rappresentanti dei Comitati patriottici umbri erano andati a conferire le offerte sottoscritte dalle

varie città per rispondere a Garibaldi che alla fine del ’59 aveva invitato gli Italiani a sottoscrivere per l’acquisto di “un milione di fucili”. I Folignati si fecero vivi, con un messaggio vibrante: Generale, sono già dieci anni, o Generale, dacché, preceduto dalla fama delle Vostre grandi virtù e delle gloriose vostre gesta, presente qua, fra noi, poteste accertarvi che se immensa era la stima verso il valoroso e sempre onesto soldato, non era men grande il nostro slancio per seguire il sacro vessillo che, da voi piantato in Campidoglio deve ormai annunciare alle genti la redenzione della nostra classica terra. Anni di dolore e di lutto pesaron dappoi sulle anime nostre, ma non valsero a scemar quella fede che voi sapeste ispirarci e noi mantenerVi. È perciò che all’invito delle offerte per l’acquisto del milione di fucili, non dovevamo essere ultimi a rispondere alla Vostra chiamata. Tenue è l’invio della somma franchi ottocentottanta che vi presentiamo. Ma non tale per questo da scadere a’ Vostri occhi di pregio, oppressi come siamo nella nostra attuale politica condizione, in cui è dato solo agli sgherri ed ai rettili viventi nelle aspirazioni del dispostismo, il brigare per altra causa perduta. Vivete, o Generale, al Vostro trionfo ed alle nostre speranze. I Folignati.Lo slancio del movimento “settario” manteneva intatta la sua pienezza: talché, il 21 marzo, anonimi, zelanti sostenitori dell’ordine papalino, scrivevano al governatore di Foligno: “E voi? Voi vi nasconderete nel convento de’ Serviti, fingendo d’essere andati a Perugia e poi darete rapporto a modo vostro al Governo che ha la disgrazia di credervi ciecamente, come l’ha avuta per molti altri, e pel qual motivo e pella (sic) soverchia indulgenza si trova negli estremi attuali”; mostrando, gli zelanti, tutta l’indignazione di chi vedeva il rigoglio inarrestabile della sovversione; “èvvi perfino un’officina - scrivevano altri anonimi zelatori - dove, con preparazioni chimiche, si stanno avvelenando stili e pugnali, e l’officina è vicinissima al vostro palazzo, in casa di tale che voi conoscete assai bene, prevenuto e detenuto già per assassinio nel ’49 con altri consorti”; per concludere, minacciosi: “Scuotetevi dal letargo e dall’inazione, o vi crederemo quel che è già nel sospetto dei più, cioè un affiliato alla setta”. Immancabile, la repressione: il 30 marzo ’60, sulla pagina del suo diario, don Bartoloni Bocci annotava: «Hora antemeridiana 2, ponitur in vinculis Hector Sextius et Perusiae transfertur, novis rebus adherens», alle due antimeridiane viene incarcerato Ettore Sesti e trasferito a Perugia: Sesti, un partigiano del nuovo.

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di Fausto ScassellatiIl ferroviere

fuochistaRitorniamo indietro nel tempo. Siamo all’epoca della trazione ferroviaria effettuata con la locomoti-va a vapore. La conduzione della stessa è affidata ad una coppia di persone: il Macchinista e il Fuochista ( poi ribattezzato Aiuto Macchinista a seguito dell’in-troduzione della locomotiva elettrica ). Spesso la locomotiva è “assegnata” a due o tre coppie che,

nel loro avvicendamento, ritrovano la stessa motrice e quindi ne hanno maggior cura.In genere sono due persone affiatate; il loro princi-pale compito è, per il Macchinista, la conduzione del mezzo, per il Fuochista quello di accudire al forno della caldaia, lavoro indubbiamente più faticoso e disagevole. C’è un certo rispetto interpersonale: il

Fuochista, inferiore di grado e più giova-ne, dà del “voi” al Macchinista e lo chiama “Maestro”. Immaginiamo ora di rivederli all’opera. Il lavoro inizia assai prima della partenza del treno. È ancora notte fonda nel Deposito Locomotive, dove il nero ed il grigio-cenere sembrano essere gli uni-ci colori ambientali. Le luci che i fari del piazzale inviano dall’alto rischiarano le lunghe file delle locomotive addormenta-te: solo qualche fruscio di vapore - dei fili bianchi che subito si dissolvono nell’aria - indica che non tutto è fermo, La luce e un po’ di calore arrivano anche da alcuni bracieri accesi dagli addetti ai servizi di manovra sul piazzale e ai rifornimenti di acqua e carbone.Il Fuochista preleva in ufficio le chiavi de-gli armadi di bordo contenenti gli attrezzi di lavoro e il vestiario di ricambio. Quin-di, attraversando i binari, giunge per pri-mo alla sua locomotiva: sa benissimo dove trovarla. Eccola, con quelle ruote motrici più alte di un uomo, con quei grossi fanali simili ad occhi spalancati. Al suo interno trova in un angolo un po’ di carbone ac-ceso, il cosiddetto fuoco di mantenimen-to, opera del manovale che nella notte ha provveduto ad alimentare al minimo tutte le locomotive. Ha inizio il lavoro più fa-ticoso, quello di impalare via via il car-bone gettandolo accuratamente su quel piccolo fuoco che man mano si allarga.

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Con la pala lo lancia sapientemente su tutta la base del forno, cercando di ottenere uno strato di braci ardenti il più possibile uniforme, senza zone in cui la combustione scarseggi a causa di poco o troppo materiale da ardere. Aziona il cosiddetto “soffiante” dell’aria, per meglio alimentare il fuoco. Usa due lunghi attrezzi metallici, uno a mo’ di gancio, l’al-tro a forma di raschietto per togliere le scorie dalla griglia del forno. Segue un giro di perlustrazione in-sieme al suo “Maestro” attorno alla locomotiva: un accurato controllo dei meccanismi, verificandone lo stato e curandone la lubrificazione. Tutto avviene in un’atmosfera particolare, in un silenzio interrotto dal crepitio delle scorie della combustione cadute nei pressi del binario e calpestate dai due. Poche le parole: essi sanno da tempo cosa debbono fare. Il Fuochista provvede anche alla pulizia della par-te esterna della locomotiva: con del cascame toglie polvere di carbone e fuliggine, in modo da renderla più lucida e bella prima di arrivare in testa al con-voglio da trainare e quindi prima di essere vista dai viaggiatori. Ciò avviene, naturalmente, all’ora sta-bilita e con la pressione del vapore al livello neces-sario. Poco dopo aver effettuato l’aggancio al treno, eseguite le prove del riscaldamento a vapore e del freno, si parte: il Macchinista è intento alla guida per rispettare scrupolosamente velocità, semafori, fermate. Il Fuochista, come al solito, è intento, se-condo gli ordini, ad impalare il carbone e a far fuo-co. Ovviamente le salite ed il diverso carico trainato incidono notevolmente sulla pesantezza del lavoro. Oltre a ciò, esistono notevoli disagi ambientali: la cabina di guida non è chiusa, per cui spesso correnti d’aria fredda possono investire i due. Naturalmente chi corre maggiori rischi è chi suda di più, cioè il Fuochista. Poi c’è l’inconveniente di respirare aria,

fumo e polvere di carbone, particolarmente sotto le anguste gallerie ed ancor più quando la locomo-tiva si trova “in coda” ad un treno merci pesante, portando aiuto alla locomotiva “in testa” al treno.

Ecco pertanto la necessità di indossare la maglia di lana e il fazzolettone legato al collo, da portare a metà viso a far da filtro. A volte, a seconda della

durata del viaggio, una piccola valigetta di cartone pressato, contenente generi alimentari, è di soste-gno al fisico provato dalla fatica. Ma soprattutto una bottiglia di vino, per placare la sete e la secchezza della gola. Mai bere acqua! Così passa la giornata. Al ritorno ( a volte anche nel giorno successivo) ci sono le operazioni di sganciamento del convoglio e del ricovero della locomotiva nel piazzale del Depo-sito. Non è finita: occorre provvedere ai rifornimenti acqua-carbone, controllare tutti i macchinari, se-gnalare eventuali anomalie al Capo Deposito. Giorno dopo giorno, questa è la dura vita di lavoro del Fuo-chista. Un sogno? Quello di essere prima o poi pro-mosso Macchinista, dopo aver accumulato gli anni di servizio necessari per poter partecipare al concorso interno, bandito dalle Ferrovie dello Stato. E quelli del fuochista sono stati anni di carbone, fuliggine, fumo, vento e... qualche paura per gli imprevisti di vario genere durante i viaggi.

Un grazie agli ex fuochisti Francesco Finauro e Ercole Paoletti

Le luci che i fari del piazzale inviano dall’alto

rischiarano le lunghe file delle locomotive

addormentate

Ma soprattuttouna bottiglia di vino,

per placare la sete

e la secchezza della gola. Mai bere acqua!

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Ulisse Aldo Bernetti nasce il 13 febbraio 1883 a Cascia, discendente da un’antica e nobile famiglia ca-pitolina, stabilitasi nella patria di Santa Rita con il be-neplacito di un avo illustre, alto prelato della Curia romana. Entrato nel seminario di Spoleto nel 1899 per compiere gli studi filosofici e religiosi, vi rimane fino al 1904, anno in cui, ordinato sacerdote, viene assegna-to alla “cura” di Terraia, piccolo villaggio posto sopra un rialzo nelle vi-cinanze di Spoleto. È durante gli studi del-le dottrine teologiche, nell’osservare le rondi-ni che effettuano ampi giri intorno al campanile della cattedrale, che si lascia prendere dal cu-rioso desiderio di emu-larne il volo. Comincia così il sogno di costrui-re una macchina volan-te. Nell’amica rondine, che egli definisce “mar-tire della scienza”, ha un’alleata convincente, in possesso dei requisi-ti utili a dimostrare che anche l’uomo può vola-re. Presa una rondine, le taglia le penne delle ali e le sostituisce con delle ali da lui fabbricate, fa la prova con più rondini e finalmente l’uccello dalle ali artificiali vola e rivola, anzi, sem-bra volare meglio di prima. “ L’esperimento è fatto, la prova è riuscita, dunque l’invenzione è buona”, com-menta Eugenio Pila, nell’agosto 1910, sul Corriere del-la Sera. E “Il Travaso delle idee”, rivista molto in voga in quegli anni, in una nota dal titolo “Dalla Terraia al cielo”, scrive che “la buonanima di Leonardo da Vinci può esultare, perché la sua teoria sul volo degli uccel-li sta per essere perfettamente applicata grazie alle ali meccaniche inventate dal parroco di Terraia”. Nella sua casetta soleggiata presso la chiesa parrocchiale,

“il piccolo, pallido, asciutto parroco di Terraia” (così lo definisce il Giornale d’Italia) è tutto preso a matu-rare il suo arduo disegno. “Se non si cambierà indirizzo – afferma in un’intervista – noi ogni giorno dovremo assistere alle tristi scene di cadute di aeroplani. Fin-ché le ali saranno rigide, finché la macchina volante e l’aviatore non formeranno, direi quasi, un’anima sola,

questa benedetta aviazione sarà una cattiva madre di sventure.” Il suo aeroplano ad ali ripiegabili, non bat-tenti, “meraviglioso come principio e come concezio-ne”, al cui studio ha cominciato ad applicarsi fin dal 1908, non mancherà di suscitare il più vivo interesse di tecnici ed esperti, non solo italiani. La fama del gio-vane e colto sacerdote, che coltiva la passione per i motori, in particolare per la motocicletta, che si è dato agli studi dell’aviazione e sta sperimentando un nuovo modello di aeroplano, si diffonde non soltanto in Italia ma anche all’estero, specie attraverso la stampa che dà grande risalto all’evento. Oltr’Alpe sono soprattutto

Aldo Bernetti:il prete volante

di Lanfranco Cesari

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i giornali di Francia e Belgio a parlarne diffusamente. In Italia, oltre al Giornale d’Italia, al Corriere d’Italia e al Travaso, il Messaggero, il Corriere della Sera, Giova-ne Umbria, Il Risveglio, L’Unione liberale, il Rigoletto di Palermo. Costruttori, capitalisti e vari altri agenti gli scrivono dall’Italia e dall’estero chiedendogli informa-zioni, foto, la cessione del brevetto o la licenza per la realizzazione del velivolo. E c’è anche chi, interessato all’acquisto del brevetto, lo informa che “ svariati mi-lioni di franchi” tutti di capitalisti cattolici, sono già a sua completa disposizione. Nell’estate del 1910, in occasione della settimana dell’aviazione, don Aldo Bernetti si reca a Milano. Du-rante la permanenza nella metropoli lombarda, studia, progetta, vola. Approfittando dell’amicizia di un mec-canico e delle ore in cui il campo di volo è libero, vaga, felice, con un “Bleriot” per le vie del cielo. Da Milano torna però piuttosto deluso e sconcertato, senza de-nari, confuso tra la folla dei grandi, la sua parola si è perduta tra i clamori degli applausi agli “ effimeri conquistatori dello spazio”. Nonostante ciò, non si per-de d’animo. Scrive Eugenio Pila: “ Quando l’aeropla-no Bernetti sarà conosciuto, si potrà constatare la sua straordinaria superiorità su tutti gli altri fin qui inven-tati”:

L’aeroplano del giovane inventore è ad ali ripiegabili, non battenti, ad ali cioè che diminuiscono di superficie per poter resistere ai colpi del vento, anzi per adopera-re il vento stesso e utilizzarne la forza, qualunque essa sia. Il monoplano Bernetti, ad apertura completa, non supera i sei metri di larghezza e non oltrepassa i tre nella sua apertura minore e per levarsi in volo non ha bisogno che di un motore di dieci cavalli. È così “pic-colo” che può essere parcheggiato in luoghi di ridotte dimensioni (una rimessa, un garage qualsiasi), può po-sarsi in strada e da qualunque strada levarsi in volo. E, cosa veramente straordinaria, con l’apparecchio Ber-netti “il lugubre fantasma del pericolo mortale” scom-pare, anche se il motore per un guasto si spegne. Basta un tenue vento per continuare, come l’uccello, il volo cosiddetto a vela. Se non c’è vento, le ali allargate,

con l’aumento immediato della velatura o della super-ficie portante, danno il mezzo per compiere un volo piano, con molta lentezza di moto. Le prerogative principali di questo velivolo sono sicu-rezza, semplicità, facilità di manovra. “Nel monoplano Bernetti – scrivono i giornali dell’epoca – si ha l’ae-roplano ideale come principio e come concezione, as-solutamente meraviglioso”. L’apparecchio richiede un costo di seimila franchi. Dove, come, quanto e quando abbia volato non risulta dalle cronache del tempo. Da tradizione orale si apprende però che si sarebbe solle-vato da terra e avrebbe “volato a lungo”. Ma la storia di questo aeroplano si perde nei meandri della memo-ria. Quale fu la sua fine? Rimasto in qualche angolo del-la “Terraia”, potrebbe aver concluso i suoi giorni con-sunto dal tempo, dall’incuria e dall’abbandono. Certo è che la sua sorte è legata al destino del suo ideatore, che a un certo momento imprime una svolta decisiva al cammino della sua esistenza. Cala così il sipario su questa bella vicenda del “buon pastore” con la voca-zione aviatoria e tanti altri interessi culturali che, tra il più vivo rammarico dei suoi paesani, lascia presto il suo gregge per convolare a giuste nozze. Inaugurando un nuovo, affascinante capitolo della sua vita, con la giovane sposa si imbarca per la Somalia, dove ricoprirà un importante incarico tecnico – amministrativo come funzionario di una compagnia statale impegnata a ese-guire i lavori per la costruzione del porto di Brava pres-so Mogadiscio. Tornato in patria intorno agli anni venti, Aldo Bernetti si stabilisce a Foligno, fondando un’at-tività industriale – commerciale per la conservazione, la produzione e la distribuzione di bibite. Amato e am-mirato per la sua probità e la sua intelligenza, è un marito felice e un ottimo padre che trasmette ai suoi figli la sua fede cristiana, la sua cultura, il suo amore per la scienza e per l’arte, continuando a interessarsi di pittura, musica, fotografia. E l’aviazione? Capitolo chiuso. Il cielo può attendere. Aldo Bernetti muore a Foligno il 27 agosto 1960

Quando l’aeroplano Bernetti sarà conosciuto,

si potrà constatare la sua straordinaria

superiorità su tutti gli altri fin qui

inventati

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00di Valentina Silvestrini

Tutto da capo, un’altra volta; ricomincio tutto da zero. Ora sono a Berlino. Una lingua totalmente sconosciuta da rincorrere. Ore ed ore di lezione, libri ammonticchiati, pile di esercizi di grammatica che si accumulano nell’accogliente pancia dell’armadio. Trova la scuola, trova il percorso di 12 km dove allenarti. Trova il consolato italiano per registrarti come residente all’estero, trova l’ufficio giusto in cui dichiarare il tuo nuovo indirizzo tedesco. Compra una mappa della città, compra la bicicletta. Trova la casa, trova la piscina, trova la gente con cui uscire per dare almeno una parvenza di calore umano alla nuova sfida. È vero, me la sono cercata: nessuno mi ha fisicamente costretto ad emigrare in Germania, anzi ho sempre registrato una certa esterofilia e la bizzarra tendenza a lunghi soggiorni in località insolite. Ma questa volta è diverso: questa volta non sono partita per “fare un’esperienza all’estero”. La mia partenza è un atto politico. Me ne sono andata dall’Italia per manifestare pubblicamente il mio dissenso verso un sistema politico, amministrativo e culturale che giudico ottuso, autoreferenziale ed asfissiante. Sono laureata, ho un master in economia internazionale e padroneggio quattro lingue straniere, ma l’Italia a quanto pare non ha bisogno di me (ho vinto un concorso pubblico ad Aprile, ma, in seguito alla nuova legge finanziaria, la mia assunzione è stata rimandata... al 2014). Per cui, me ne sono andata. E, per una bizzarra e complicata concatenazione di eventi solo apparentemente fortuiti, mi sono trasferita a Berlino.Berlino mi ha accolto sorniona, come un rifugio di pirati accoglie un nuovo clandestino in fuga. Non si sa bene perché sei arrivato lì, ma quasi sicuramente è perché prima eri nei guai. E hai, automaticamente, la solidarietà di tutti. Correndo il mio percorso da 12 km lungo la Spree, alle sei di mattina, assisto al quotidiano incrociarsi dei Berlinesi del giorno con i Berlinesi della notte (che in realtà sono le stesse persone: un giorno l’uno, un giorno l’altro). I primi avanzano incappottati, con l’ipod a tutto volume per proteggersi dagli estranei

e riscaldare i fragili pensieri mattutini. I secondi, occhi da pipistrello e piumaggio da pappagallo, si muovono come se nuotassero; la notte berlinese li restituisce alle loro case con dieci nuovi contatti Facebook e cento chili di solitudine in più; quella solitudine che non si sa da dove viene ma si sa bene come mandarla via per qualche ora. A Berlino tutti sono benvenuti, in particolare i matti, le prostitute lesbiche, i musicisti impazziti e i geni incompresi. Quelli che sono troppo poveri per vivere a Londra o a Ginevra, e quelli che sono troppo di sinistra per trasferirsi a Vienna o a Copenaghen. Quelli che sono già stati a Madrid e qualcuno gli ha detto che a Berlino si guadagna meglio. E tutti coloro che si dichiarano artisti, qualunque cosa ciò voglia dire. Berlino ti accoglie sempre, senza fare troppe domande sul “prima”. Per quanto dissennato tu sia e per quanto picaresca risulti la tua vicenda personale, per quanto folli siano le teorie su cui basi la tua esistenza e per quanto vasto e impietrito sia il deserto in cui vaghi, cercando di capirti e perdonarti, a Berlino c’è sempre qualcuno che è ancora più scoordinato di te, rispetto al mondo della gente perbene. E in questo grande allegro barcone, ognuno trova il suo posto e la sua propria possibilità d’espressione.Dai il mio numero di telefono tedesco alla tua amica archeologa, Vale, posso andare a prenderla all’aeroporto se ha bisogno. E se o quando, tra qualche settimana, inizierà a sentirsi sola, dille di chiamarmi, che la porto a una festa. Una festa a casa di un ragazzo messicano filosofo, ex coinquilino della canadese che viene con me a scuola di tedesco, che ha fatto uno scambio in Giappone quando aveva sedici anni ed ha incontrato lì la sua attuale fidanzata che viene da Città del Messico ma ora studia in Svezia, insomma a una festa di certi amici miei. Oppure anche solo per un tè. E poi le dico dove deve andare per comprare la bici.

39di Elisa Brandi

Ich bin Elisa, Ich komme aus Italien.

ed Elisa Brandi

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SSTORIE

chiaroscuro

Quante volte durante l’inverno berlinese, stringendosi nel suo cappotto più pesante, Rosaria penserà all’Italia? Certamente lo farà ogni giorno adoperandosi nel suo lavoro di ricercatrice, dato che lei, giovane archeologa dottoranda al Winckelmann Institut, l’istituto di Archeologia della Humboldt Universitaet di Berlino, si è trasferita nella capitale tedesca per studiare le ville marittime della nativa Campania. Forse, però, le capiterà più spesso di tornare con la mente in patria in modo del tutto inaspettato, magari quando, durante una passeggiata per Oranienburgerstrass, entrando in una caffetteria dalle pareti lilla, troverà De André in filodiffusione.In quei momenti so che sarà in grado di arginare la sottile nostalgia della lontananza grazie “all’orgoglio meridionale” che la caratterizza e alla fierezza che le proviene dall’essere in un luogo lontano da casa con uno scopo: la sua ricerca. Già perché in Germania, come nel resto d’Europa (Italia esclusa), quello che conta per accedere ad un dottorato è, in primis, il progetto e gli sviluppi editoriali e scientifici che esso potrà avere. In questa ottica, il principale obiettivo perseguito

dall’Università è la pubblicazione degli esiti del lavoro. Nella prospettiva dell’emigrante, per Rosaria la scelta di questa meta è dettata dalla grande opportunità, formativa e culturale, di apprendere le modalità di studio “classico” in Germania, ovvero direttamente nel paese in cui esiste una tra le più longeve tradizioni in questo senso: fin dal tempo del Grand Tour l’occhio straniero era in grado di apprezzar più di quello locale ciò che gli si palesava davanti e dal suo apprezzamento era possibile ricavare un valido strumento di analisi.

“Quando io vorrei esprimermi a parole, appaiono soltanto immagini davanti ai miei occhi: il bellissimo paesaggio, il mare libero, le isole scintillanti, la montagna ruggente: mi manca la capacità di descrivere tutto ciò. Napoli è un Paradiso, tutti ci vivono in una specie di inebriata dimenticanza di sé; [..] ed é per me una strana esperienza quella di trovarmi con gente che non pensa ad altro che godere.”

W. Goethe “Viaggio in Italia”

In qualità di studente, anche se straniera,a Rosaria è riconosciuta considerazione a livello sociale (probabilmente nessuno la osserverà con occhi commiserevoli pensando che il suo quotidiano sia essere l’assistente di un docente ordinario…) ed agevolazioni economiche come corrispettivo del pagamento delle tasse universitarie (riduzioni sull’abbonamento semestrale ai mezzi di trasporto, sconti in locali, cinema, ristoranti). “Interstizio” è la parola che Rosaria digita sulla sua tastiera e che si visualizza sullo schermo del mio pc quando le chiedo di descrivermi la sua nuova città. Berlino è un interstizio, uno spiraglio dove la concretizzazione delle aspettative può inserirsi, crescere e generare moti di stupore e “innamoramento” così intensi e prolungati da motivare la scelta di stabilizzarsi. Probabilmente è anche percependo questo sentimento che tanti nostri connazionali, come Elisa e Rosaria, riescono a scovare lo stimolo per impegnarsi, nonostante le temperature sconfortanti e una certa ostilità della lingua. Nel suo essere insaziabilmente curiosa Berlino acconsente e recepisce tutte le proposte culturali che le vengono presentate. Rosaria mi informa dell’innocua invasione della taranta nelle scuole di danza popolare berlinesi ad opera di alcuni giovani pugliesi, ballerini e tamburellisti che hanno cominciato ad avere fortuna proponendo le loro radici anche nei locali bohemienne della città. Mi piace immaginare che la prossima estate qualche tedesco in vacanza in Salento sia diventato così bravo da riuscire a mimetizzarsi perfettamente tra i danzatori locali.

di Valentina SilvestriniBallando la taranta sotto la Porta di Brandeburgo

Nel suo essere insaziabilmente curiosa

Berlino acconsente e recepisce

tuttele proposte culturali

che le vengono presentate.

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Hanno collaborato a questo numeroFabio Bettoni, Fausto Scassellati, Patrizia Epifani, Francesco Savi,

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