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the italianist 27 · 2007 · 99-124 Calvino fra Lukács e Brecht: una lettura in chiave brechtiana de La panchina di Italo Calvino Enrica Maria Ferrara Fra il 1951 e il 1955, parallelamente alla ricerca di un nuovo linguaggio comico ne Il visconte dimezzato e nei racconti di Marcovaldo, Calvino compiva i suoi ultimi tentativi di scrittura neorealista ispirata ai criteri della poetica comunista ortodossa. Già dal 1951 Calvino si era forzato a terminare I giovani del Po nel tentativo di scrivere ‘il vero‑romanzo‑realistico‑rispecchiante‑i‑problemi‑della‑società‑italiana’, 1 ma era rimasto insoddisfatto del risultato e aveva deciso di rinviarne la pubblicazione. Il visconte dimezzato, invece, fu accolto nei ‘Gettoni’ vittoriniani nel 1952 e riscosse un notevole successo di pubblico e di critica nonostante l’opera si potesse ascrivere ad un genere fiabesco e non socialmente impegnato. Il problema che assillava Calvino nei suoi tentativi di romanzo neorealista posteriori al Sentiero del 1947 era quello della mancanza di sfumature che il tentativo di aderire alla rappresentazione fedele della realtà conferiva al suo linguaggio. Già a proposito de Il bianco veliero, scritto fra il 1947 e il 1949, che rappresenta una forzatura del lavoro calviniano ‘nella direzione fiabesca e caricaturale’ e sulla cui mancata pubblicazione peserà il giudizio negativo di Vittorini, 2 lo scrittore lamentava in una lettera ad Elsa Morante del 2 marzo 1950 di sentirsi prigioniero di una maniera: ‘sto cercando di scrivere un libro totalmente diverso, ma è maledettamente difficile; cerco di rompere le cadenze, gli echi in cui sento che le frasi che scrivo vanno a colare come in stampi preesistenti, cerco di vedere i fatti e le cose e la gente a tutto tondo invece che disegnati con colori senza sfumature’ (Lettere, p. 272). La stessa assenza di sfumature, che Calvino arriva a definire ‘grigiore’, appiattisce il linguaggio de I giovani del Po e il risultato stilistico si presenta ancora una volta insoddisfacente: ‘Miravo a dare un’immagine d’integrazione umana; invece mi venne un libro insolitamente grigio, in cui la pienezza della vita, benchè molto se ne parli, si sente poco: perciò non ho mai voluto pubblicarlo in volume’. 3 La fortunata scelta del linguaggio comico nella trasfigurazione fantastica de Il visconte dimezzato consente invece a Calvino di uscire dagli ‘stampi preesistenti’ del linguaggio e di alludere ad una realtà ricca di significati stratificati e complessi

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Calvino fra Lukács e Brecht: una lettura in chiave brechtiana de La panchina di Italo Calvino

Enrica Maria Ferrara

Fra il 1951 e il 1955, parallelamente alla ricerca di un nuovo linguaggio comico ne Il visconte dimezzato e nei racconti di Marcovaldo, Calvino compiva i suoi ultimi tentativi di scrittura neorealista ispirata ai criteri della poetica comunista ortodossa. Già dal 1951 Calvino si era forzato a terminare I giovani del Po nel tentativo di scrivere ‘il vero‑romanzo‑realistico‑rispecchiante‑i‑problemi‑della‑società‑italiana’,1 ma era rimasto insoddisfatto del risultato e aveva deciso di rinviarne la pubblicazione. Il visconte dimezzato, invece, fu accolto nei ‘Gettoni’ vittoriniani nel 1952 e riscosse un notevole successo di pubblico e di critica nonostante l’opera si potesse ascrivere ad un genere fiabesco e non socialmente impegnato.

Il problema che assillava Calvino nei suoi tentativi di romanzo neorealista posteriori al Sentiero del 1947 era quello della mancanza di sfumature che il tentativo di aderire alla rappresentazione fedele della realtà conferiva al suo linguaggio. Già a proposito de Il bianco veliero, scritto fra il 1947 e il 1949, che rappresenta una forzatura del lavoro calviniano ‘nella direzione fiabesca e caricaturale’ e sulla cui mancata pubblicazione peserà il giudizio negativo di Vittorini,2 lo scrittore lamentava in una lettera ad Elsa Morante del 2 marzo 1950 di sentirsi prigioniero di una maniera: ‘sto cercando di scrivere un libro totalmente diverso, ma è maledettamente difficile; cerco di rompere le cadenze, gli echi in cui sento che le frasi che scrivo vanno a colare come in stampi preesistenti, cerco di vedere i fatti e le cose e la gente a tutto tondo invece che disegnati con colori senza sfumature’ (Lettere, p. 272). La stessa assenza di sfumature, che Calvino arriva a definire ‘grigiore’, appiattisce il linguaggio de I giovani del Po e il risultato stilistico si presenta ancora una volta insoddisfacente: ‘Miravo a dare un’immagine d’integrazione umana; invece mi venne un libro insolitamente grigio, in cui la pienezza della vita, benchè molto se ne parli, si sente poco: perciò non ho mai voluto pubblicarlo in volume’.3

La fortunata scelta del linguaggio comico nella trasfigurazione fantastica de Il visconte dimezzato consente invece a Calvino di uscire dagli ‘stampi preesistenti’ del linguaggio e di alludere ad una realtà ricca di significati stratificati e complessi

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che non rispecchia in modo immediato il mondo reale ma è enormemente più ricca e latrice di conoscenza rispetto alla piatta riproduzione dei romanzi neorealisti.4

Nonostante questa ricerca sui limiti espressivi del proprio linguaggio vada a buon fine e si concretizzi in larga parte in una serie di prodotti narrativi riusciti, Calvino continua ad indirizzare i suoi sforzi anche nella composizione del romanzo realista che aveva già tentato ed abbandonato con la stesura de Il bianco veliero e de I giovani del Po. Infatti, fra il 1952 e il 1954, si colloca la scrittura di un romanzo rimasto incompiuto, La collana della regina, che lo stesso Calvino definisce ‘faticosissimo’ (Lettere, p. 414) in una lettera a Mario Ortolani del 7 agosto 1954, e che, in una lettera precedente a Domenico Rea del 15 marzo 1954, lo scrittore aveva etichettato come ‘romanzo realistico‑social‑grottesco‑gogoliano, una cosa a intreccio complicato che ogni episodio devo rifarlo tre o quattro volte prima di trovare la ‘chiave’ giusta’ (Lettere, p. 399).

È questa una chiara indicazione del fatto che nella querelle sul neorealismo, o sul realismo tout court, Calvino non avesse ancora le idee chiare o che, perlomeno, non si rassegnasse a decretare la morte del romanzo neorealista senza prima aver tentato di lavorare con pazienza artigiana sul linguaggio, esplorandone appieno le sue possibilità e riscrivendo ogni episodio tre o quattro volte, fino a dover accettare per l’ennesima volta la propria incapacità a scrivere in un modo che non gli risultava congeniale e che non riusciva più a riflettere lo spirito dei tempi.5 Sia ben chiaro che il blocco creativo calviniano nei confronti del cosiddetto romanzo neorealista, di carattere cittadino ed operaio, non si estendeva ad altre prove letterarie portate a termine negli anni Cinquanta che pure rientrano, a vario titolo, nel repertorio del romanzo realista: mi riferisco al trittico memoriale de L’entrata in guerra pubblicato per la prima volta in volume nel 1954 e al romanzo La speculazione edilizia del 1957 che Calvino aveva concepito come capitolo di un ciclo narrativo di cui avrebbero dovuto far parte La giornata di uno scrutatore, scritto fra il 1953 e il 1963, e un romanzo rimasto allo stato di ideazione dal titolo Che spavento l’estate. Queste opere, benchè possano genericamente essere classificate come opere del filone ‘realistico’ in opposizione alla sperimentazione sul ‘fantastico’ e sul comico che Calvino svolgeva nello stesso periodo, saranno dallo stesso scrittore etichettate come prove di un realismo di tipo ‘neo‑flaubertiano’, nel caso de L’entrata in guerra, e ‘neo‑balzacchiano’, come accade per La speculazione edilizia e La giornata di uno scrutatore,6 dove il punto di vista dominante è quello dell’intellettuale che guarda la realtà con distacco e ironia o abbracciandone la carica negativa ed immedesimandosi con essa. Siamo cioè lontani dal cimento narrativo nel campo della letteratura neorealista che imponeva all’intellettuale la creazione di un io narrativo proletario, preferibilmente espressione di un milieu cittadino e operaio, che si facesse portavoce delle classi sociali meno abbienti e delle ragioni della lotta di classe.

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Ebbene, ciò che mi propongo di dimostrare in questo saggio è che la soluzione per uscire dal blocco creativo sulla forma ‘romanzo’ che la crisi del neorealismo aveva indotto in Calvino doveva scaturire dal teatro e, in particolare, dalla teorizzazione sul realismo intrapresa da uno dei massimi esponenti del teatro novecentesco, il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, le cui opere cominciarono a diffondersi in Italia negli anni Quaranta. Alla poetica realista del ‘rispecchiamento’ teorizzata dal filosofo ungherese Gyorgy Lukács, portavoce dell’ortodossia culturale stalinista, che imponeva un sostanziale immobilismo della forma letteraria a dispetto dell’evoluzione dei contenuti di realtà descritti dagli scrittori nelle proprie opere, Calvino venne contrapponendo nel corso degli anni Cinquanta l’estetica dialettica ed eversiva di Brecht, fondatore del teatro epico. Attraverso l’analisi di alcuni interventi saggistici calviniani pubblicati fra il 1955 e il 1956, dimostrerò che la presa di posizione sempre più esplicita da parte di Calvino a favore dell’estetica brechtiana dello ‘straniamento’ contro quella lukácsiana del ‘rispecchiamento’ divenne il segnale del graduale allontanamento calviniano dal Partito comunista italiano e dalla sua politica, culturale e non, che culminò nelle dimissioni del 1957. L’adesione al modello brechtiano troverà una sua compiuta realizzazione scenica nella prima opera teatrale messa in scena da Calvino nell’ottobre del 1956, l’atto unico La panchina. Nella seconda parte di quest’articolo analizzerò appunto quali sono gli elementi della poetica di Brecht che Calvino lascia filtrare nella struttura della sua opera in versi, a partire dalla sua genesi fino alla sua realizzazione scenica.

Secondo Lucia Re, già all’epoca de Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino aveva attinto alla poetica teatrale di Brecht per realizzare uno stile che fosse più duttile e che si prestasse a quella contaminazione di codici linguistici e stili narrativi cui era improntato il suo primo romanzo neorealista:

Bertolt Brecht (whose work became increasingly well known in Italy in the 1940’s, chiefly through the efforts of Il Politecnico) sought to create a political theater for the masses, but he never really obtained the kind of audience support and interest for which he had hoped. […] Brecht’s ‘epic’ theatre, his alienation devices (Verfremdungseffekten) for the defamiliarization of what is thought to be ‘natural’ in human beings and history, and his recourse to a variety of styles, modes of representation, and generic forms reflect a notion of realism (similar to Calvino’s own dialogical intertwining of codes and modes of discourse) that is much more flexible than Lukács’s: Reality changes; in order to represent it, modes of representation must also change. (Re, pp. 26‑27)

La Re contrappone il nome di Brecht a quello di Lukács nella sua analisi delle teorie letterarie che influenzarono gli intellettuali italiani in epoca neorealista e questa contrapposizione rappresenta il nodo cruciale del tormentato percorso che

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dovette condurre il Nostro a liberarsi dalla ‘maniera’ neorealista per avviarsi in maniera decisa ed esplicita verso terreni di sperimentazione narrativa più fruttiferi e congeniali. Lukács costituiva infatti l’auctoritas critica del neorealismo ufficiale di stampo marxista, il teorico del rispecchiamento della realtà in letteratura che aveva consentito alla direzione culturale del partito comunista internazionale di inquadrare le opere neorealiste nell’ambito della dottrina marxista. Ebbene, la riluttanza di Calvino a respingere pubblicamente l’estetica lukácsiana è uno dei fattori determinanti il ritardo nello scioglimento del suo blocco creativo e si spiega con l’argomentazione della militanza calviniana nelle fila dell’intellighenzia di sinistra.

L’ambivalenza di Calvino doveva rispecchiare un reale senso di incertezza rispetto al linguaggio e ai contenuti da utilizzare, vuoi per ragioni di coscienza riguardo alla necessità di una scrittura politicamente impegnata, vuoi per ragioni di osservanza a criteri di opportunità editoriali e commerciali. Sta di fatto che fra la stesura delle prime storie di Marcovaldo e quella de L’entrata in guerra – che si può ascrivere al filone memorialistico e quindi ancora, in certo qual modo, realistico della sua produzione letteraria – si incunea la lettura delle opere di Lukács per le quali lo scrittore si accende di enorme entusiasmo, come testimonia una lettera a Severino Dal Sasso del 23 settembre 1953:

sono alle prese con una lettura che mi scombussola tutto: il Lukács. Leggilo subito (l’avrai ricevuto): comincia dalla seconda parte, ti consiglio. Io da quegli altri due libri non me ne facevo un’idea: credevo fosse un abile trasformatore di problemi estetici in problemi di storia della cultura. Invece è il primo – forse – marxista che leggo che parlando di letteratura tocca proprio la carne e il sangue delle opere, e ti mette davanti problemi da lasciarti senza fiato. Ma allora i generi letterari sono davvero una cosa importante? Ma allora l’intreccio dei romanzi è una cosa essenziale? Ma allora... Sono qui che non capisco più niente. (Lettere, p. 379)

Calvino si riferisce al testo di Lukács Il marxismo e la critica letteraria, pubblicato da Einaudi nel 1953, che diventerà uno dei capisaldi dell’estetica realista comunista ufficiale e sarà utilizzato come strumento privilegiato nella politica culturale dirigista fino al 1955‑56 per reiterare la corrispondenza fra realismo e letteratura comunista. Un ulteriore riferimento alla lettura del Lukács si trova in una lettera a Valentino Gerratana del 30 settembre 1953 nella quale Calvino afferma di non riuscire più ‘a prescindere dalle sue impostazioni’ (Lettere, p. 379). Si tratta di impressioni a caldo che, come vedremo, non troveranno seguito nella pratica narrativa calviniana e saranno addirittura smentite quando, alcuni anni più tardi, lo scrittore metterà a confronto in alcuni interventi di natura saggistica l’insegnamento di Lukács con quello di Brecht.

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Ed in effetti, già nel 1952, Calvino aveva velatamente preso posizione a favore della poetica brechtiana contro l’estetica ufficiale del partito comunista in una lettera di risposta all’interpretazione che Carlo Salinari aveva dato de Il visconte dimezzato. Nella lettera di Calvino a Salinari del 7 agosto 1952, leggiamo una dichiarazione apparentemente generica che in realtà equivale ad una vera e propria formulazione di poetica: ‘È un racconto come potrei scriverne altri dieci o venti, e senza molta fatica, se non fossi tutto preso dal desiderio di scrivere cose che credo più importanti. E il mio ideale sarebbe di riuscire a scrivere in pari misura, e magari con pari facilità, cose “utili” e cose “divertenti”. E possibilmente “utili” e “divertenti” insieme’ (Lettere, pp. 354‑55).

Ebbene, la fusione di intento didascalico e ricreativo è uno dei capisaldi dell’estetica marxista di Brecht, fondatore del teatro epico, che Calvino poteva leggere in quegli anni nelle traduzioni che Einaudi pubblicò a partire dal 1951.

Le polemiche fra Lukács e Brecht, che si svolsero a partire dagli anni Trenta sul concetto di realismo come interpretazione del materialismo dialettico, erano note alla critica marxista italiana, e non è da escludere che il riferimento di Calvino alle teorie brechtiane nella lettera a Salinari sia da leggere come un’indicazione esplicita della presa di posizione che l’autore intende assumere nei confronti dell’estetica realista ufficiale. Poco importa che un anno più tardi Calvino esprimesse entusiasmo per la lettura del Lukács nella lettera a Gerratana: si tratta, evidentemente, di una fase di transizione e di una manifestazione emotiva che si consuma in un contesto privato, quale quello delle lettere, e non si tramuta in una presa di posizione pubblica.

In sostanza, alla teoria lukácsiana del realismo in letteratura come rispecchiamento del reale attraverso la categoria del ‘tipico’ di derivazione engelsiana, dove il ‘tipico’ rappresenta il tramite fra l’universale della realtà rappresentata e il singolare della personalità artistica che vive in un determinato momento storico, Brecht contrappone l’idea di un realismo dinamico nel quale la realtà rappresentata è colta dall’occhio dell’artista mediante un meccanismo che non è di rispecchiamento, bensì di ‘straniamento’.7 In termini di pratica letteraria, il ‘rispecchiamento’ lukácsiano prevedeva l’adozione di determinati modelli letterari del passato come esempi di scrittura realista e si configurava pertanto come un’estetica di tipo prescrittivo che non prendeva in considerazione la necessità di un’evoluzione della forma, dello stile o del linguaggio, che fosse parallela all’evoluzione dei contenuti di realtà rappresentati. Come afferma Chiarini:

Non sembra, tuttavia, che Lukács abbia sempre avvertito – dietro le istanze di rinnovamento formale che si celano nelle ‘avventure’ di tanta parte della letteratura e dell’arte moderna – un diverso ‘dislocamento’ delle strutture della realtà, un maturare cioè di nuovi contenuti che emergono alla superficie

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e premono, per così dire, contro l’involucro delle forme tradizionali di espressione artistica, fino a spezzarlo violentemente e a proporre – come primo ‘remedium’ – la distruzione stessa della forma.8

Da questo abito mentale derivava il rifiuto lukácsiano delle letterature d’avanguardia e di tutte le forme di espressione letteraria che avrebbero potuto infrangere l’ordinato sistema dei generi da lui stesso teorizzato che si basava sul progressivo tentativo di rispecchiamento della totalità del mondo reale nell’opera d’arte attraverso la mediazione del singolo artista.

Ebbene, la polemica con Brecht – che Lukács accusava di formalismo ed intellettualismo – riguardava il concetto di realismo e la funzione dell’arte come educazione e divertimento. Per Brecht, il divenire dialettico della realtà in continua evoluzione imponeva una parallela evoluzione delle forme utilizzate dall’artista per ritrarne i contenuti ed una necessità di guardare alla realtà stessa, non ad archetipi o a modelli formali, per trovare la forma e lo stile più adatti alla sua riproduzione straniata. In tal senso, il drammaturgo tedesco accoglieva nel repertorio degli stili possibili anche categorie come il ‘grottesco’, respinte dai puristi del realismo lukácsiano, e incoraggiava la sperimentazione sul linguaggio e sui generi come tramite per una rappresentazione dialettica della realtà.

Per tornare a Calvino e al suo riferimento ad una finalità didascalica e ricreativa della letteratura nella lettera a Salinari, bisogna innanzitutto osservare che Brecht predilige la commedia come forma di rappresentazione drammatica per la valenza conoscitiva insita nel comico, perchè: ‘La commedia ammette soluzioni, la tragedia – no. La commedia rende possibile, anzi necessariamente determina la distanza e con ciò una chiara comprensione dei nessi’ (Chiarini, p. 22).

Anche in Calvino la scelta del comico è uno strumento per uscire dall’univocità dell’interpretazione del reale ed ampliare il ventaglio delle possibili verità cui il linguaggio comico allude. La funzione conoscitiva del linguaggio comico sarà chiarita dal Nostro molti anni più tardi nell’ambito di un dibattito su ‘Grottesco, satira e letteratura’ pubblicato sulla rivista Il Caffè nel 1967:

Quel che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca o fumistica è la via d’uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi: un modo per cui chi la dice vuol dire quella cosa e solo quella; e un modo per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il mondo è molto più complicato e vasto e contraddittorio. L’ironia ariostesca, il comico shakespeariano, il picaresco cervantino, lo humour sterniano [...] valgono per me in quanto attraverso ad essi si raggiunge questa specie di distacco dal particolare, di senso della vastità del tutto. (Calvino, Una pietra sopra, in Saggi, pp. 197‑98)

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Nonostante questa lucida definizione calviniana risalga ad un’epoca molto posteriore, già nel 1950 lo scrittore aveva individuato il comico come la via maestra da seguire per ‘uscire dalla limitatezza e univocità d’ogni rappresentazione e ogni giudizio’ (Calvino, Una pietra sopra, in Saggi, p. 197). Le tracce di questa consapevolezza affiorano nella citata lettera ad Elsa Morante su Il bianco veliero, libro nel quale lo scrittore trapassa dal ‘comico’ al ‘caricaturale’ con il conseguente rischio che il linguaggio suoni ‘tutto un pò in falsetto’ (Lettere, p. 271). Le ragioni per l’utilizzo di tale linguaggio sono però chiaramente spiegate da Calvino con un ragionamento che appare molto simile alle argomentazioni fornite molti anni più tardi nell’ambito del dibattito su Il Caffè per spiegare la funzione conoscitiva del comico:

Tu senti che il mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro, però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti. Invece per me scrivere ha voluto sempre dire partire in una direzione, giocare tutto su una carta, però con la coscienza che ce ne sono delle altre, con la coscienza del rischio e del non riuscire a esaurirmi. Perciò il mio scrivere è sempre problematico. (Lettere, p. 272)

Anche per Calvino, dunque, come per Brecht, la scelta del comico si configura come un’opzione conoscitiva.

Il passo successivo compiuto da Brecht nella sua estetica è quello di collegare il piacere dell’apprendimento al piacere estetico e di escludere dunque la possibilità che il divertimento possa essere attinto dalla visione di opere teatrali che siano ‘scientificamente’ inesatte, vale a dire che non rispecchino il reale in maniera veritiera. Viceversa, il piacere estetico e il divertimento sono procurati dalla visione ‘straniata’ della realtà quotidiana, cioè dalla presentazione in una luce diversa delle immagini che siamo abituati a vedere ogni giorno e che non ci soffermiamo realmente a guardare. Come spiega Chiarini (p. 80):

Il piacere che procura l’arte, e nel caso specifico – quello che procura il teatro non sono dati dalla misura della ‘fuga dalla realtà’ che l’autore di volta in volta ci proporrebbe: l’arte, in altri termini, non è un divertimento perchè faccia divergere la nostra attenzione da quelli che sono i concreti problemi del presente ma al contrario perchè ve la riconduce proponendoli sotto una luce nuova (ecco la funzionale presenza dello straniamento), ‘sorprendente’, tale cioè da suscitare il nostro attivo interessamento e da gettare quindi le basi per una effettiva comprensione di essi.

L’adesione di Calvino a tale poetica, in linea di principio, risulterà evidente dall’analisi de La panchina che, come vedremo, denuncia una forte impronta delle teorie brechtiane. Per il momento ci fermeremo ad osservare in che modo

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lo scrittore prenda chiaramente posizione a favore del realismo eterodosso del drammaturgo tedesco e quali sono le implicazioni politiche e culturali di questo suo parteggiare.

Nella produzione saggistica e giornalistica di Calvino, o nel suo epistolario, non esistono riferimenti espliciti alla poetica di Brecht anteriori al 1956, anno in cui, in occasione della scomparsa del drammaturgo, Calvino pubblica un articolo commemorativo sul ‘Notiziario Einaudi’. In questa sede lo scrittore ammette di aver faticato ad accettare quegli aspetti della poetica brechtiana che in un primo momento gli erano apparsi come meccanici e semplificatori, inadatti a cogliere la complessità della vita contemporanea. Ma l’evoluzione del clima storico e politico lo ha portato a ripensare l’opera di Brecht, in particolare i suoi scritti teorici, e ad apprezzarne il messaggio di verità che adesso gli appare superiore all’empirea chiarezza dell’estetica lukácsiana:

Le due più grandi intelligenze del marxismo mondiale (nel campo dell’estetica, e forse non solo in quello, e forse non solo del marxismo), tenute fino a ieri al margine del mondo comunista ufficiale, Lukács e Brecht, non potrebbero avere ideali più opposti: Lukács, per cui l’arte è ‘scoperta’, il fautore del ‘rispecchiamento’, il codificatore – con nostro scandalo – dei ‘generi’; Brecht, per cui l’arte è ‘invenzione’, il fautore di generi spurii come il ‘teatro epico’ in cui il costante intervento dell’autore tra l’oggetto della rappresentazione e il pubblico – deformazione, semplificazione, insomma stile – deve tener sempre vivo in esso pubblico la partecipazione critica, impedirgli d’immedesimarsi passivamente nell’azione. (Calvino, Brecht, in Saggi, p. 1302)

Il discorso di Calvino ci proietta immediatamente nel vivo del clima storico‑politico in cui si colloca la commemorazione per la morte di Brecht. E infatti, lo scrittore allude all’allontanamento di Brecht e Lukács dal ‘mondo comunista ufficiale’ (Calvino, Brecht, in Saggi, p. 1302), e inscrive dunque le affinità di gusto che più avanti professerà nei confronti dell’ideologia di Brecht in un giudizio di ordine politico, oltre che culturale. Già in apertura dell’articolo aveva lamentato che la scomparsa di Brecht fosse avvenuta proprio in un anno come il ’56 che più avrebbe necessitato della sua voce, della sua opinione, e subito dopo aveva affermato di sentirsi più vicino alle idee del drammaturgo tedesco proprio in virtù delle ‘docce fredde della coscienza’ (Calvino, Brecht, in Saggi, p. 1302) che il 1956 aveva portato. Calvino allude qui ai difficili rapporti fra intellettuali e PCI all’indomani delle rivelazioni compiute da Kruscev nel famoso ‘rapporto segreto’ sui delitti politici di Stalin. Una folta schiera di intellettuali, fra cui Calvino, rimproverava al partito di Togliatti di aver rivelato il contenuto del rapporto con estremo ritardo e, soprattutto, di aver procrastinato l’analisi ufficiale delle ragioni che avevano determinato i delitti staliniani. La reticenza di Togliatti aveva fomentato accese discussioni fra gli intellettuali e la tensione si era

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inasprita nel corso dell’estate per le posizioni di ortodossia ‘stalinista’ che i vertici comunisti avevano assunto riguardo alla rivolta degli operai polacchi di Pozna ́n contro il regime di Varsavia. Calvino era entrato addirittura in aperto conflitto con Alicata durante una riunione svoltasi il 24 luglio nella sede di Botteghe Oscure, ed era arrivato ad affermare la necessità ‘che si dimettano i dirigenti della politica culturale, e anche i responsabili di quella economica per i gravi errori commessi negli ultimi anni’.9

In questo clima di disgelo nei rapporti che il partito comunista sovietico intratteneva con l’Occidente, di condanna degli ‘errori’ del regime stalinista e di tensione interna fra intellettuali italiani e partito comunista per la presunta collusione fra i vertici del PCI e i fautori dell’ortodossia sovietica di tipo ‘stalinista’, il parteggiare a favore dell’una o dell’altra autorità in sede di estetica marxista equivaleva a schierarsi con la fazione dei ‘revisionisti’ o con quella degli ‘ortodossi’.

Come portavoce dell’estetica marxista ufficiale del ‘rispecchiamento’, Lukács poteva considerarsi un caposaldo dell’ortodossia anche se la recente condanna dello stalinismo aveva spinto la sua ideologia, come afferma Calvino nell’articolo su Brecht, ‘al margine del mondo comunista ufficiale’. A sua volta, l’estetica del drammaturgo tedesco, bollata dal dirigismo della politica culturale sovietica di Stalin per il suo ‘formalismo’ ed ‘individualismo’, era stata ostracizzata fino al 1956 e non ancora riabilitata dai revisionisti. Nel clima di discussione e tensione dell’estate 1956, Calvino recupera la poetica di Brecht e prende così le distanze dalla critica marxista ufficiale e dai suoi fautori ortodossi, compreso il compagno Alicata:

Io sono per Brecht. Pur sentendo tutto il fascino e l’autorità che la classica imperturbabile chiarezza dell’intelligenza di Lukács esercita, dal suo empireo di valori, sono per Brecht, figlio del dramma dello svilimento della ‘cultura di massa’, sono per la sua sensibilità moderna con cui vuol tener acceso attraverso l’arte la soddisfazione tecnico‑produttiva, la passione ‘scientifica’ […] per l’inesauribile fantasia d’immagini e di significati del Cerchio di gesso nel Caucaso. E quel primo, sbrigativo assioma della sua estetica; che il teatro ha per fine il divertimento, che tutti gli assunti religiosi o didascalici o preziosi o filosofici sono subordinati a quello di divertire la gente, suona come la professione di fede non certo di un evasivo edonismo, ma della sua moralità concreta, del suo ‘umanesimo’. (Calvino, Brecht, in Saggi, p. 1302)

È pur vero che Calvino non pubblicò la sua commemorazione di Brecht su una testata ufficiale come l’Unità o Il Contemporaneo e che, dunque, l’eco di queste sue dichiarazioni non dovette allontanarsi troppo dalle pagine del Notiziario Einaudi. E tuttavia, non si può far a meno di sottolineare che l’ammirazione proclamata da Calvino per gli studi teorici e le opere di Brecht

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– fermo restando il carattere politico delle sue dichiarazioni – deve costituire il segnale di una forte influenza della poetica brechtiana sulla composizione de La panchina che era stata messa in scena soltanto pochi mesi prima al teatro Donizetti di Bergamo. Se poi consideriamo che, come ho accennato in precedenza, si può ipotizzare un influsso delle teorie brechtiane sul Sentiero e sulla produzione neorealista,10 e se costatiamo qui per inciso che la poetica del ‘divertimento’ come pratica di un umanesimo non edonista si può assumere come chiave interpretativa di tutta la produzione successiva di Calvino – dalla trilogia de I nostri antenati e dalle Cosmicomiche alle Città invisbili fino al Castello dei destini incrociati e a Se una notte d’inverno un viaggiatore – ci rendiamo conto che l’eco di queste dichiarazioni calviniane si estende ben al di qua e aldilà della stesura de La panchina. In particolare, nella postfazione alla trilogia che Calvino pubblicò nel 1960, si ritrova una menzione esplicita di questa poetica del ‘divertimento’ in riferimento ai tre romanzi allegorici, e soprattutto a Il cavaliere inesistente, laddove la dinamica della comunicazione testuale autore‑lettore è spiegata da Calvino secondo una divisione precisa di ruoli per la quale, allo scrittore che racconta ‘con distacco’ – o con brechtiano straniamento – corrisponde un lettore che ‘si diverte’:

Questa formula del ‘divertimento’ io l’ho sempre intesa che chi deve divertirsi è il lettore: ciò non vuol dire che sia altrettanto un divertimento per lo scrittore, il quale deve raccontare con distacco, alternando slanci a freddo e slanci a caldo, autocontrollo e spontaneità, ed è in realtà il modo di scrivere che dà più fatica e tensione nervosa. (Calvino, Postfazione ai Nostri Antenati, in RR1, pp. 1217‑18)

Proprio all’altezza cronologica della composizione de La panchina risale un altro documento della partecipazione calviniana alla querelle sul realismo che ci consente di antedatare lo schieramento pubblico di Calvino a favore dell’estetica brechtiana e quindi di liberare le sue dichiarazioni di poetica dall’impronta di militanza politica che la contingenza storica del ’56 proietta sull’articolo appena esaminato. Si tratta di una lettera che Calvino scrisse a Pratolini il 22 febbraio del 1955 in merito alla discussione sul Metello che la critica marxista ortodossa de Il Contemporaneo, con Carlo Salinari in testa, additava come la compiuta realizzazione di un maturo realismo e come l’esempio da seguire per tutta una generazione di scrittori italiani che intendessero contribuire alla produzione di una letteratura socialmente impegnata sul versante realista. La presa di posizione calviniana, anticipando le critiche che i detrattori del Metello lanceranno dall’altra testata ufficiale della critica marxista, la rivista Società, riguarda quegli aspetti del romanzo nei quali lo stile di Pratolini scivola nella rappresentazione idilliaca, nell’apologo dei buoni sentimenti e nella scarsa cura per la tenuta storica dei fatti. In particolare, Calvino sostiene che lo scarso manicheismo nella caratterizzazione

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dei personaggi rende poco credibile l’odio contro i padroni, e quindi il passaggio dall’ideologia anarchica all’ideologia socialista che matura nell’animo del protagonista: ‘Ma questo padrone, perchè l’hai voluto “meno boja”? A me i “meno boja” non piacciono, non m’interessano. […] Per me contano solo i “più boja”: come amici e come nemici. In Metello sono tutti un pò troppo “meno boja”: da una parte e dall’altra’ (Calvino, Lettera a Pratolini sul ‘Metello’, in Saggi, p. 1241).

Calvino rimprovera dunque a Pratolini di aver rappresentato il tema politico in maniera troppo tenue, priva di mordente, e di aver appiattito il protagonista del romanzo nello stereotipo dell’uomo medio che ‘non mette in gioco dei veri sentimenti, non crea dei conflitti decisivi’ (Calvino, Lettera a Pratolini sul ‘Metello’, in Saggi, p. 1241). L’attacco all’estetica lukácsiana che si nasconde dietro le critiche rivolte da Calvino al Metello risulta evidente nel momento in cui il Nostro si chiede se Metello possa considerarsi un personaggio ‘tipico’ e se, dunque, la sua caratterizzazione in termini di dottrina lukácsiana, abbia avuto successo. La conclusione è che, nel tentativo di creare il ‘tipo’, Pratolini è incappato nei pericoli che tale raffigurazione comporta, e cioè quello di scadere nella rappresentazione del personaggio ‘medio’. A tale appiattimento del discorso narrativo, Calvino ammette di preferire una scrittura più provocatoria:

Metello è un uomo medio, bravo ma medio, così in politica, come in amore: non mediocre, medio, come ne esistono tanti. È giusto continuare a un secolo da Flaubert, a cantare gli uomini medi, gli uomini senza scintille, o con scintille lontane, nascoste, remote? Io sogno sempre una letteratura che dia più mordente, più scintilla agli uomini nuovi che ci stanno a cuore, che combatta l’adeguamento alla media, che trasmetta fantasia e senso della complessità della vita a chi ne ha quotidianamente bisogno nella lotta che conduce. (Calvino, Lettera a Pratolini sul ‘Metello’, in Saggi, p. 1241)

Se il richiamo a Brecht e alla sua combattiva ideologia del realismo dialettico non risultasse abbastanza evidente dall’appassionato richiamo calviniano alla complessità del reale presente nel brano citato, sarà lo stesso Calvino a segnalare la derivazione brechtiana delle proprie opinioni nell’ambito di una prefazione alla stessa lettera pubblicata un anno più tardi dalla rivista Società. Nel febbraio del 1956, infatti, lo scrittore decise di partecipare alla diatriba che ancora infuriava sul Metello e che vedeva contrapposti due blocchi di critici marxisti con a capo Salinari e la redazione de Il Contemporaneo, da un lato, Muscetta e la redazione di Società, dall’altro. Nella prefazione alla lettera che Calvino aveva scritto a Pratolini nel febbraio del 1955, e che faceva precedere al corpo della lettera stessa, il Nostro affermava di aver ripensato i termini della questione e di non essere più tanto convinto di quella tipizzazione manichea suggerita a Pratolini un anno prima. A questo proposito vien fuori il nome di Brecht: ‘In fondo tutto il discorso che m’era venuto di fare, portato dalla mia impostazione generale, sul

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fatto che m’interessavano solo i padroni “più boja”, era sballato: ne uscirebbe una rappresentazione della realtà meccanica e legnosa, buona in una stilizzazione alla Brecht, non in una descrizione più sensibile e attenta della realtà’ (Calvino, Lettera a Pratolini sul ‘Metello’ in Saggi, p. 1238).

È interessante notare come l’intervento pubblico di Calvino sul ‘caso Metello’ avvenga ad un anno di distanza dallo scoppio della polemica – che era cominciata con l’intervento di Salinari nel gennaio del 1955 – e che, pur schierandosi con la fazione anti‑metelliana di Muscetta, Calvino ci tenga ad attenuare il tono esplosivo di certe sue affermazioni, con la consueta ambivalenza diplomatica che contrassegna i suoi rapporti con i fautori dell’estetica marxista ortodossa. Il dato importante è che lo scrittore ammette l’influenza brechtiana sul tono e sul contenuto di certe sue opinioni di poetica, in particolare su quell’accenno ai padroni ‘più boja’ dal quale era scaturita la sua valutazione negativa del libro di Pratolini. Abbiamo visto infatti che Brecht ammetteva l’uso della deformazione caricaturale, del grottesco, della parodia, come strumento per ottenere una rappresentazione più veritiera della realtà attraverso la sua visione ‘straniata’. La contrapposizione del personaggio caricaturale, che altrove Calvino definisce ‘caso‑limite’, al personaggio ‘medio’ discendente dal ‘tipo’ di matrice lukácsiana, è dunque un chiaro indizio della presenza di postulati brechtiani nella poetica calviniana. Di certo i protagonisti della trilogia fantastica rappresentano dei casi‑limite e, in particolare, il barone che vive sugli alberi incarna l’esempio chiave di una contrapposizione alla vita media portato alle estreme conseguenze.

Ciò che a noi importa sottolineare a tale proposito è che il richiamo alla poetica di Brecht per giustificare il contenuto critico della lettera a Pratolini scritta nel febbraio del 1955, avalla la nostra ipotesi che le riflessioni di Calvino sull’estetica del drammaturgo tedesco siano coeve alla composizione de La panchina avvenuta nei primi mesi del 1955.

Le ragioni dell’adesione di Calvino all’estetica di Brecht non possono ricondursi unicamente al suo rinnovato interesse per il teatro e alla decisione di inserirsi nel panorama teatrale italiano con un’opera ispirata ai criteri di un’estetica teatrale marxista. Tanto più che l’interpretazione brechtiana del materialismo dialettico era mal vista negli ambienti della critica marxista ortodossa. In realtà, le motivazioni profonde della scelta calviniana sono da ricercarsi nell’estrema libertà espressiva in termini di sperimentazione formale e linguistica che il modello brechtiano autorizzava nella prassi scrittoria, contro la rigidità prescrittiva del canone lukácsiano. Per Brecht il realismo consentiva l’uso della forma ‘oggettiva’ e della forma ‘fantastica’:

Chiunque non sia irretito in pregiudizi formali sa che la verità può essere taciuta in molte maniere e in molte maniere dichiarata, e che lo sdegno per le inumane condizioni può esser destato in molte maniere attraverso

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la rappresentazione diretta in forma patetica od oggettiva, attraverso la narrazione di favole e parabole, mediante lo humour, l’esagerazione o il suo contrario. A teatro la realtà può essere rappresentata in forma oggettiva e in forma fantastica.11

La poetica brechtiana risolveva, dunque, d’un colpo il dilemma calviniano sulla scrittura realistica e la sua mancanza di sfumature che aveva indotto lo scrittore ad interrompere la stesura del romanzo La collana della regina e ad optare per una ricerca letteraria a più ampio spettro nella quale trovavano posto il racconto melanconico‑umoristico di Marcovaldo, la letteratura lirico‑memoriale de L’entrata in guerra, i racconti fantastici della trilogia allegorica e, naturalmente, il realismo comico dell’atto unico La panchina. L’unico problema, del quale lo stesso Calvino si rendeva conto, era che le teorie di Brecht erano state concepite essenzialmente per la scrittura teatrale e la sua rappresentazione. Già in occasione dell’articolo commemorativo pubblicato nel settembre del 1956, Calvino aveva lamentato quanto fosse facile in Italia non tenere conto delle pagine teoriche di Brecht ‘dato che riguardano una voce minore o minima nel nostro orizzonte culturale, cioè il teatro’ (Calvino, Brecht, in Saggi, p. 1301). Alla fine dello stesso anno, in un intervento sulle sorti del romanzo pubblicato sulla rivista Ulisse, Calvino ripropone la questione in maniera più ottimistica ed auspica che si possa tradurre la poetica di Brecht in termini narrativi:

In questi ultimi tempi mi sono affezionato a Brecht, oltre che ai drammi alle pagine teoriche, che avevo, prima, ingiustamente trascurato. Un Brecht della narrativa non c’è, purtroppo, e questo suo modo di intendere il teatro si è continuamente tentati di trasporlo, di tradurlo in altri termini per la narrativa. A cominciare da quel suo primo, meraviglioso assioma: che lo scopo del teatro è di divertire. Che sì, ci sono nella storia del teatro tutte le ragioni religiose, estetiche, etiche, sociali, ma a condizione di divertire la gente. Anche per la narrativa è lo stesso. E ce lo si dimentica troppo. (Calvino, Le sorti del romanzo, in Saggi, p. 1514)

Con questa dichiarazione siamo ormai alle soglie del fatidico 1957 che vede le dimissioni di Calvino dal Partito Comunista Italiano, nel quale aveva militato per oltre un decennio, e la composizione de Il barone rampante che segna la scelta di una maniera letteraria decisamente non‑ortodossa rispetto al dirigismo dell’estetica marxista, se ancora di ortodossia si può parlare a quest’altezza cronologica. Sta di fatto che la progressiva uscita di Calvino dai ranghi della militanza comunista coincide con la sua sempre più esplicita adesione pubblica alla poetica di Brecht, in opposizione all’estetica lukácsiana ufficiale. È ormai maturata in Calvino la convinzione che per revitalizzare la narrativa sia necessario allontanarsi da una precettistica che assume a modello il romanzo realista di tipo

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ottocentesco. E tale convinzione è parallela alla sua disillusione in campo politico di fronte ai metodi coercitivi e filo‑stalinisti che la gestione dei comunisti sovietici e italiani va adottando in occasione della rivolta ungherese dell’ottobre 1956. In sostanza, il dissenso calviniano rispetto al dirigismo culturale e al verticismo politico dei togliattiani si manifesta simultaneamente in questioni di politica culturale – attraverso il definitivo rifiuto del modello lukácsiano –, e in termini di militanza politica, con l’uscita dal partito nell’estate del 1957. Nello stesso intervento sulle sorti del romanzo che contiene l’elogio della poetica di Brecht, Calvino riconosce l’obsolescenza della poetica di Lukács cui addebita in parte la crisi del romanzo italiano:

Mi capitò anche di sostenere [nel dopoguerra] che il romanzo non poteva morire: però non mi riusciva di farne stare in piedi uno. Fu tutto giusto, anche sbagliare: tante cose buone ne son nate, ma non ne è nata una nuova civiltà letteraria. Adesso per convincerci di una intramontabile signoria del romanzo abbiamo bisogno di leggere Lukács, lasciarci prendere dalla sua classicistica fede nei generi, dal suo nitido senso dell’epica. Ma, usciti dall’Ottocento, il suo ideale estetico s’appanna d’una soffice patina di noia: non vi ritroviamo il nervosismo, la fretta del nostro vivere, cui hanno risposto non più il romanzo costruito, ma il taglio lirico del romanzo breve, o la novella giornalistica e cruda in cui Hemingway eccelse, come la perfetta misura della nuova epoca. (Calvino, Le sorti del romanzo, in Saggi, pp. 1512‑13)

Di lì a poco, una volta maturate a fondo le ragioni del dissenso e definiti i termini della sua nuova poetica, Calvino scriverà finalmente il romanzo che non era riuscito a produrre fin dal dopoguerra e che resterà uno dei suoi capolavori incontestati, Il barone rampante. Quale sia l’influsso che la poetica brechtiana abbia avuto sulla composizione del romanzo e quali siano gli elementi di teatralità che in quest’opera si annidano, è un interrogativo che non può trovare risposta nei limiti di questa trattazione ma che si può auspicare sia affrontato in futuro dalla critica. Ci basterà qui osservare che Il barone rampante dovette rappresentare la sintesi di quel processo di riflessione sul linguaggio comico che era cominciato alla fine degli anni Quaranta e che, attraverso il divertissement de Il visconte dimezzato, era approdato a quella fusione di linguaggio narrativo comico e comicità teatrale che troverà la sua compiuta espressione nella scrittura de Il barone rampante. L’insegnamento decisivo di Brecht negli anni che separano la scrittura del Visconte da quella del Barone, e che Calvino riesce a tradurre dal genere teatrale a quello narrativo, è che sia lecito contaminare codici linguistici e generi letterari per la realizzazione di un’opera che sia perfettamente fruibile su un piano ludico e che allo stesso tempo riesca a veicolare profondi significati esistenziali, morali, e politici. Il terreno di prova utilizzato da Calvino per sperimentare i postulati della

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poetica brechtiana è, come si è già detto, l’atto unico La panchina, opera in versi musicata da Sergio Liberovici che fu composta nei primi mesi del 1955 e messa in scena al Teatro Donizetti di Bergamo per la prima volta in occasione del ‘Festival autunnale dell’opera lirica’, il 2 ottobre del 1956. Vale la pena sottolineare che la rappresentazione di quest’operetta si concluse in un fiasco tanto che, come ricorda lo stesso Calvino in una lettera a Maria Corti del 5 luglio 1976, ‘venne giù il teatro dai fischi’ (Lettere, p. 1311). E a ben guardare si può ipotizzare che fu proprio la contaminazione brechtiana di generi, e cioè il tentativo calviniano di mescolare elementi ‘prosaici, neorealistici, un ubriaco, due passeggiatrici’ (Lettere, p. 1311) con la musica ‘convenzionale’ di Liberovici e il genere operistico, a causare la violenta reazione negativa del pubblico di Bergamo.

Di seguito passerò appunto a dimostrare quali siano gli elementi della poetica brechtiana che Calvino lascia filtrare nella struttura de La panchina, a partire dalla sua genesi fino alla sua realizzazione scenica.

La genesi del testo prevede, secondo Maria Corti,12 la derivazione de La panchina teatrale da un testo narrativo dal titolo analogo che, scritto nel 1955 per la serie di racconti di Marcovaldo, fu pubblicato in volume ne I racconti del 1958. A questo primo testo narrativo seguì una successiva variante dal titolo La villeggiatura in panchina che fu inserita nell’edizione scolastica dei racconti di Marcovaldo pubblicata nel 1963. La preziosa ricostruzione della Corti sull’interdipendenza fra testo teatrale e testi narrativi, con le relative varianti nel passaggio da un testo all’altro, non tiene però in conto la presenza di un macromodello generativo che si configura come un terzo polo del processo mitopoietico dal quale ha origine La panchina. Mi riferisco alla storia che Calvino aveva dovuto concepire, e forse anche comporre, per la serie delle Comiche TV, il cui progetto era stato portato all’attenzione di Sergio Pugliese, direttore della Rai di Milano, al principio del 1954, e il cui protagonista, Giliberto, presenta notevoli affinità con il personaggio di Marcovaldo che sarà poi compiutamente sviluppato nella serie omonima.13 L’ipotesi che la composizione de La panchina per la televisione, come fatto progettuale o come testo ibrido che lo scrittore avrebbe potuto adattare sia per il teatro che per la televisione, preceda la stesura del libretto teatrale scritto su musica di Liberovici, è confermata da un menabò ritrovato fra le carte di Calvino nel quale lo scrittore aveva preso nota dei lavori compiuti dal settembre 1954 all’ottobre 1955. Come riporta Mario Barenghi:

L’appunto ‘LIBEROVICI – (libretto opera “La panchina”)’ – seguito dalle parole biffate ‘mimo TV‑balletto’ – appare all’altezza del febbraio 1955, su un foglio piuttosto disordinato, ricco di cancellature, e non a caso lasciato per metà in bianco. Poco sopra del nome di Liberovici, una riga biffata anch’essa recita ‘varie – conferenza Firenze FATTO’: e verosimilmente sarà da riferire al Midollo del leone, presentato alla sezione fiorentina del Pen

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Club il 17 febbraio di quell’anno. Dopo una facciata bianca, la registrazione del quaderno riprende nella successiva pagina di sinistra con il mese di marzo. (Barenghi, Note e notizie sui testi, in RR3, p. 1280)

Leggendo la descrizione di Barenghi ci viene immediatamente da osservare che, per amore di simmetria, se Calvino aveva biffato la dicitura relativa al testo della conferenza Il midollo del leone – che fu effettivamente scritto nel febbraio –, nel biffare la dicitura ‘mimo TV‑balletto’ voleva indicare l’avvenuta stesura de La panchina come ‘mimo TV‑balletto’ piuttosto che come libretto d’opera. È chiaro che la presenza di una terza Panchina, scritta per la televisione nell’ambito della serie delle Comiche TV, si può soltanto ipotizzare, data l’assenza di notizie critiche in merito. Ma quello che a noi preme sottolineare, in tale contesto, è che nella composizione de La panchina teatrale confluirono certamente i criteri‑guida che informavano il progetto delle Comiche TV e che, dunque, il testo teatrale nasce all’intersezione fra genere letterario narrativo, televisivo, e teatrale, tanto da potersi definire come genere ‘ibrido’ o ‘spurio’ secondo il concetto espresso da Brecht nella sua estetica teatrale. Non c’è dubbio, d’altronde, che Calvino stesse effettuando in questo periodo una cospicua attività di sperimentazione sui generi letterari nel tentativo, come si è detto, di uscire dall’impasse della forma neorealista. Si pensi all’incursione nel realismo memoriale de L’entrata in guerra che più tardi lo scrittore avrebbe definito ‘neo‑flaubertismo’ o all’estenuante lavoro di scrittura de La collana della regina, etichettato da Calvino come ‘romanzo realistico‑social‑grottesco‑gogoliano’ (Lettere, p. 399), per non parlare della scelta del ‘fantastico’ ne Il visconte dimezzato che costituisce l’esito di una ricerca calviniana nei territori del comico e del grottesco. Tutte queste prove di scrittura si possono considerare come il frutto di una sperimentazione compiuta nel campo dei generi e degli stili letterari che avrebbe generato risultati più o meno riusciti nel corso degli anni Cinquanta.

Lo stesso Calvino aveva indicato una delle caratteristiche essenziali della contrapposizione di Brecht a Lukács nella teorizzazione di un genere ‘spurio’ come il ‘teatro epico’ che il drammaturgo tedesco contrappone alla classica categorizzazione dei generi di matrice idealistica imperante nella concezione lukácsiana di realismo. La necessità di mescolare gli stili e di sperimentare nuove forme nella rappresentazione della realtà era uno dei tratti salienti del realismo dialettico di Brecht e tale concezione si affaccia nella composizione de La panchina teatrale fin dalla sua genesi. E infatti ci troviamo di fronte ad un testo la cui ‘fabula’ nasce dall’ibridazione di un ‘mimo TV‑balletto’, che essenzialmente doveva essere composto senza dialoghi, e di un testo essenzialmente diegetico, quale è il racconto di Marcovaldo. Ed è proprio dalla commistione di questi due generi, con l’aggiunta della struttura teatrale del libretto d’opera in versi – comprendente un Prologo, cinque scene e due intermezzi – che deriva l’originalità de La panchina

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teatrale in cui l’alternanza fra recitativo, cantato, e mimo costituisce uno dei tratti distintivi dell’opera.

Passando all’analisi del testo teatrale in sè, dimostrerò di seguito come l’influsso della poetica brechtiana sia presente nel testo a vari livelli: a) nella scelta dell’ambientazione e dei personaggi come riproduzione del ‘teatro di strada’, esempio di primitivo teatro epico; b) nell’uso dell’effetto di ‘straniamento’; c) nell’uso della parodia; d) nella subordinazione del messaggio filosofico‑politico all’idea del ‘divertimento’.

Partirò dunque dall’analisi del contenuto realistico dell’opera, che si concreta innanzitutto nella scelta dei personaggi e dell’ambientazione, per portare alla luce le motivazioni ideologiche della scelta calviniana e la sua derivazione da alcuni concetti chiave della poetica brechtiana. Il tema de La panchina è descritto da Calvino in una presentazione per un programma di sala che è stata ritrovata fra le carte dello scrittore:

Il tema della panchina è la disarmonia, il nervosismo della vita contemporanea. […] ‘L’uomo che soffre d’insonnia’ e che vorrebbe ritrovare la pace di una arcadica natura decide di passare una notte all’aperto su una panchina. Ma attorno alla panchina si succedono figure di nottambuli, tradizionali personaggi che non trovano più neppur essi nella notte il loro regno. Gli innamorati i cui antichissimi bronci e battibecchi si caricano del nervosismo dei tempi; l’ubriacone che pare quasi un sopravvissuto; le mondane che rivolgono agli uomini, pieni di solitudine e di squallore, una patetica invettiva‑ninnananna; il poliziotto con la sua ventata di diffidente sospetto verso tutti. E infine una squadra di operai che riparano la linea tranviaria e per cui il senso dei giorni e delle notti è capovolto. In questo susseguirsi d’incontri, l’uomo sulla panchina non ha potuto chiudere occhio. (Barenghi, Note e notizie sui testi, in RR3, p. 1279)

Tutte le scene de La panchina si svolgono dunque per la strada, in un piccolo giardino pubblico, e i personaggi che si alternano nelle varie scene sono tutti passanti, cittadini della notte, che il protagonista incontra nel suo vagabondare alla ricerca del sonno e della solitudine. L’intento realistico che Calvino si proponeva nella rappresentazione di questa tranche de vie risulta dunque chiaro fin dalla scelta del luogo e dei personaggi che sono lavoratori – come gli operai, il poliziotto, e le stesse mondane –, o figure archetipiche della notte insonne, come gli innamorati e l’ubriaco, che acquistano qui valenza realistica per la loro funzione di passanti. In particolare, la decisione di ambientare la storia in strada si deve ricollegare alla teorizzazione brechtiana del teatro di strada come ‘esempio di teatro epico elementare’.14 E infatti, Brecht spiega nel Breviario di estetica teatrale che per comprendere la novità della scena nel teatro epico bisogna immaginare il suo antecedente in ‘una scena che può accadere a un qualsiasi

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angolo di strada’ (Brecht, Scritti teatrali, p. 84), dove i passanti che partecipano casualmente alla vicenda rappresentano degli attori spontanei ed involontari. Per rendere più esplicito il parallelismo fra la scena teatrale e la scena di strada, Brecht immagina che la scena in questione sia un incidente e che il protagonista della vicenda sia un testimone oculare che ha assistito alla dinamica degli eventi e la riferisce ai passanti rappresentando ‘il comportamento dell’autista o del pedone investito, o di entrambi, in modo tale che gli astanti possano formarsi un’opinione sull’incidente’ (Brecht, Scritti teatrali, p. 84).

Ebbene, ne La panchina di Calvino, ci troviamo di fronte ad un fenomeno simile se consideriamo che il ruolo del protagonista, ‘l’uomo che soffre d’insonnia’, è essenzialmente quello di testimone oculare che assiste alle varie scene e in alcuni casi addirittura si astiene dall’interagire con i personaggi‑passanti se non in funzione mimica, come accade nella scena degli innamorati e in quella delle mondane. Anche dove l’interazione dialogica del protagonista si fa più intensa, come nella scena dell’ubriaco e in quella degli operai, le battute non servono ad altro che a fare da contrappunto all’azione dei personaggi‑passanti che sono i veri protagonisti dell’opera. Dunque ‘l’uomo che soffre d’insonnia’ si comporta in tutto e per tutto come ‘il dimostratore’ brechtiano della scena di strada che, invece di raccontare la vicenda cui ha assistito agli astanti – il pubblico teatrale –, la illustra con la sua presenza che produce un effetto straniante e impedisce l’immedesimazione acritica del pubblico stesso nella rappresentazione. Non bisogna dimenticare, infatti, che il teatro epico brechtiano ha, in ultima istanza, una finalità sociale e lo scopo dell’opera teatrale deve essere quello di indurre gli spettatori a partecipare criticamente alla vicenda e di formarsi un’opinione sugli eventi. Il ‘dimostratore’ della scena di strada e, per uscire fuor di metafora, l’attore del teatro epico, assolve a tale funzione attraverso l’uso dell’effetto di ‘straniamento’ che è ‘una tecnica con la quale si può dare ai rapporti umani rappresentati l’impronta di cose sorprendenti, che esigono spiegazioni non evidenti, non semplicemente “naturali”. Questo effetto ha per scopo di permettere allo spettatore una critica efficace dal punto di vista sociale’ (Brecht, Scritti teatrali, p. 15).

Siamo dunque al secondo punto della nostra analisi riguardo ai rapporti di affinità e di derivazione che legano La panchina calviniana ai concetti base del teatro brechtiano. L’effetto di ‘straniamento’ è uno degli elementi‑chiave del teatro epico di Brecht, e Calvino se ne appropria non solo nel conferire al protagonista dell’opera il ruolo di contrappunto comico o lirico o semplicemente esplicativo delle scene che si svolgono intorno alla panchina, ma anche nell’alternanza di registri espressivi – parlato, cantato, ‘parlato con la nota’ e ‘suono di intonazione approssimativa’ (Corti, p. 203) – che scandisce il cambiamento di umori da una scena all’altra ed anche all’interno della stessa scena. Secondo Brecht, infatti, allo straniamento della vicenda, e cioè alla resa sorprendente di fatti naturali, devono contribuire tutti gli espedienti scenici:

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Compito precipuo del teatro è interpretare la vicenda e comunicarla al pubblico attraverso appropriati straniamenti. E non è l’attore che deve far tutto, anche se non deve esser fatto senza riferirsi a lui. La ‘vicenda’ viene interpretata, prodotta ed esposta dal teatro nel suo insieme: dagli attori, dagli scenografi, dai truccatori, dai costumisti, musicisti e coreografi. Ciascuno associa la propria arte nell’impresa comune, senza rinunciare con ciò alla sua autonomia. (Brecht, Scritti teatrali, p. 146)

Ne La panchina di Calvino, lo ‘straniamento’ avviene fin dalla giustapposizione di un contenuto realistico, che classicamente corrisponde all’uso di un registro comico basso, al genere dell’opera in versi cui tradizionalmente si addicono modi di recitazione aulici ed un registro melodrammatico o alto. Tale contrasto fra forma e contenuto della rappresentazione è utilizzato da Calvino in gran parte dell’opera, ma soprattutto nella scena degli innamorati e in quella dell’ubriaco, per demistificare il tono lirico o ludico e per spostare l’attenzione dello spettatore sul messaggio sociale dell’opera: il tema della nevrosi della vita contemporanea e del ritmo incontrollabile della produzione cui gli uomini sono costretti.

Nella scena degli innamorati il dialogo‑litigio dei personaggi è intessuto di retorica melodrammatica, con il susseguirsi di ripetizioni, parallelismi e interrogative retoriche evocanti il linguaggio dei libretti d’opera che Calvino provvede a demistificare attraverso l’uso straniante del dialogo prosaico – il battibecco degli innamorati riguarda la necessità di baciarsi ad occhi chiusi o ad occhi aperti – e la parodia del linguaggio lirico stesso che si riduce ad una serie di frasi stantie e luoghi comuni. Inoltre, l’intervento finale dell’uomo che soffre d’insonnia, che ha ascoltato il dialogo in silenzio nascosto dietro la panchina, produce un effetto comico che abbassa decisamente il tono del registro aulico e smaschera definitivamente la futilità della questione di cui hanno dibattuto gli innamorati. Leggiamo il passo in questione nella prima scena de La panchina:

LUI Ma cara, io voglio…LEI Sopraffarmi, importi, annichilirmi,mentre dici che m’ami… (siede)LUI Se tu m’amassi non faresti così… (siede)LEI Ma se l’amore è questo…LUI Ma se l’amore è questo…L’UOMO (rispuntando dallo schienale con tutto il busto)Ma se l’amore è questoVuol dire che starò destoAd aspettare il mattin!LUI Ma, scusi, chi è lei? (Calvino, La panchina in RR3, pp. 660‑61)

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Tutta la vicenda, dal punto di vista del testimone oculare – ‘l’uomo che soffre d’insonnia’ – potrebbe configurarsi come un evento comico se la sua preoccupazione principale non fosse quella di trovare la pace del sonno nella solitudine del giardino pubblico. Questo elemento di dissonanza impedisce l’immedesimazione del pubblico nella scena degli innamorati e ostacola la fruizione del tono lirico‑melodrammatico che, dopo l’entrata in scena dell’uomo, si corrompe e degenera nell’uso di frasi stantie e sdolcinate, accentuando l’effetto comico.

Da quanto si è detto finora si evince che Calvino abbia seguito l’insegnamento di Brecht nel realizzare l’effetto di straniamento attraverso una collaborazione di scenografia – la scena di strada – recitazione e musica, aggiungendo inoltre l’originale tributo della contrapposizione fra registri stilistici e toni della recitazione per creare un effetto parodico e demistificatore.

Lo stesso Brecht incoraggiava l’uso della parodia come mezzo per combattere l’immedesimazione ed incanalare l’attenzione dello spettatore verso il fine sociale della rappresentazione. La parodia, come imitazione trasfigurata degli stili del passato, consente di enfatizzare la funzione dell’arte come mimesi della mimesi, smascherando dunque la natura fittizia della rappresentazione e valorizzando la finalità gnoseologica insita nella commedia in senso lato. Come afferma Chiarini a proposito dell’uso della parodia nel teatro di Brecht:

L’invito a soffermarsi sul medium della parodia è dettato anche da una considerazione che ulteriormente precisa e circoscrive l’ambito entro cui prende concretamente corpo quell’atteggiamento: dalla considerazione, cioè, che la ‘citazione’ sostituita all’invenzione, la ‘memoria’ come strumento principale della creazione, insomma l’anamnesi al posto dell’entusiasmo […] operano soprattutto entro la dimensione del comico. Non è da oggi, del resto, che le possibilità di un’arte veramente moderna vengono spesso ridotte nei limiti di una trascrizione ironica e giocosa di quei problemi ed eventi che richiederebbero, secondo i precetti della trattatistica ‘classica’, la scelta di strumenti formali diversi (drammatico‑tragici). (Chiarini, p. 17)

L’effetto parodistico assolve dunque ad una funzione conoscitiva mediante la demistificazione ‘straniante’ di stili e registri della comunicazione divenuti obsoleti e la conseguente ricerca, da parte dello spettatore dell’opera rappresentata, di quale sia il ‘vero’ stile che veicola il ‘vero’ significato dell’opera. Nel caso de La panchina la parodia si appunta sugli stilemi e sul registro della tradizione lirico‑melodrammatica, come abbiamo visto nella scena degli innamorati, e la fecondità del suo uso ai fini didascalici si può esperire nella scena successiva, quella dell’ubriaco. Nella transizione fra le due scene, ‘l’uomo che soffre di insonnia’ riesce finalmente a sdraiarsi sulla panchina nel tentativo di addormentarsi ma la sua pace ha breve durata perchè nel giardino irrompe la figura di un ubriaco. Quest’ultimo

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dà sfogo a quella che l’uomo definisce ‘sbornia filosofica’ perchè dalla costatazione che la panchina è ‘doppia’, l’ubriaco si inoltra in una vaneggiante discussione sulla duplicità o molteplicità delle cose, arrivando alla conclusione che soltanto l’uomo è ‘uno’, in opposizione a ogni altra cosa che ‘può esser doppia / tripla / quadrupla / quintupla’ (Calvino, La panchina, in RR3, p. 662). I commenti dell’uomo che soffre d’insonnia conferiscono a tutta la scena una valenza comica che è accresciuta dall’improvviso effetto parodico suscitato dalla decisione dell’ubriaco di mutare la ‘sbornia filosofica’ in ‘sbornia lirica’ e di utilizzare in tal senso un brano del Trovatore per dimostrare la sua abilità canora. Ne vien fuori un duetto lirico nel quale sia l’uomo che l’ubriaco si dedicano alla storpiatura parodica della più alta tradizione lirico‑melodrammatica ai fini di preparare il pubblico allo spettacolo di un altro tipo di lirismo che è quello del monologo finale in cui l’ubriaco diviene ‘simbolo dell’irrazionale contro cui invano cercano scampo le impotenti ragioni della tecnologia’ (Corti, p. 219). E infatti, dopo aver esaurito la ‘sbornia lirica’ e aver tentato inutilmente di smaltire la ‘sbornia politica’, prima di rassegnarsi ad uscire di scena dietro le insistenze dell’uomo che rivendica il diritto al sonno, l’ubriaco si esibisce in una rivendicazione del suo diritto ad abitare la notte e ad incarnare il cosiddetto ‘rovescio del mondo’:

E che notte è la notteSenza l’ubriaco? CaccialoE la notte rimaneSenza il suo più fedeleTestimone. […]Caccialo,caccia la rana, il grillo, caccia la lunae l’ubriaco da strada, il sozzoschiamazzatore solitario,caccia noi che abitiamoil rovescio del mondo!E crediChe il mondo non avrà più un rovescio?Caccia il brivido di questa voce irragionevoleChe si perde sguaiata!Altri brividi avrai, altre ragioniSi perderannoPer le tue strade senza luna! (Calvino, La panchina, in RR3, pp. 664‑65)

L’acme della scena, e forse il centro lirico di tutta l’opera, è proprio nella rivelazione dell’ubriaco che il mondo avrà sempre e comunque un suo rovescio, e che la nevrosi della vita moderna, il tentativo di controllare razionalmente tutti gli aspetti della vita per mezzo della tecnologia, non riuscirà ad eliminare l’irrazionale,

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simboleggiato appunto dalla notte e dai suoi abitanti. L’effetto comico‑parodico della scena nella sua fase iniziale ha dunque ceduto il passo ad una riflessione pensosa e drammatica che costituisce il messaggio storico‑filosofico dell’opera e il tentativo calviniano di straniare ‘i processi socialmente influenzabili’ (Brecht, Scritti teatrali, p. 131), cioè di mutare quegli aspetti del vivere sociale che appaiono come immutabili perchè ormai divenuti familiari agli occhi degli spettatori. Non è un caso che proprio nella formulazione di tale messaggio, che risponde alla finalità pedagogica del teatro epico, si ritrovino, come afferma Maria Corti, echi retorici dell’opera brechtiana: ‘Si osservi che diverso grado di nobiltà retorica assume la repetitio (caccialo, caccia la rana, caccia la luna, caccia noi, caccia il brivido) che, lungi qui dal librettismo melodrammatico, richiama se mai in un contesto cantato sulla scena esperienze formali dell’espressionismo brechtiano’ (Corti, p. 219).

In effetti, a partire da questo momento, e cioè dalla formulazione del messaggio ‘serio’ del testo, si registra un abbassamento del livello comico, quasi che le scene successive siano finalizzate ad approfondire i contenuti emersi nel monologo dell’ubriaco, fino allo scioglimento finale dell’opera che coincide con l’avvento del giorno e con il capovolgimento del messaggio stesso in chiave comico‑parodica. E infatti, nella scena successiva, quella delle passeggiatrici, Calvino tenta ancora di suscitare la risata attraverso la mimica e il dialogo delle donne che ammiccano all’uomo che soffre d’insonnia e disturbano per l’ennesima volta il suo sonno. Ma l’utilizzo del realismo, nella rappresentazione di un tema sociale scottante come quello della prostituzione, serve a deviare l’attenzione del pubblico dal tono scanzonato delle mondane allo spettacolo della solitudine e dello squallore cui le donne devono quotidianamente assistere, e prepara il terreno per la scena successiva, quella degli operai, ‘in cui poetico e teatrale vengono a identificarsi’ (Corti, p. 220). Non esiste infatti alcuna intenzione comica nella descrizione della quarta scena in cui compaiono gli operai di una squadra notturna che ripara le rotaie del tram. Lo stesso ‘uomo che soffre d’insonnia’ non manifesta alcun fastidio per l’intromissione degli uomini nell’agognata quiete del giardino pubblico e si mostra, invece, solidale nel prendere atto della fatica e del ritmo insensato cui il lavoro notturno costringe ‘gli operai‑gnomi / che preparano il giorno / e che ogni alba inghiotte’ (Calvino, La panchina, in RR3, p. 668). La scena degli operai può considerarsi un esempio di realismo e di letteratura sociale in senso stretto, con il dialogo fra l’uomo che sta per cominciare la sua giornata lavorativa – dopo la lunga notte insonne – e la squadra notturna che sta per smontare. L’incontro fortuito fra questi lavoratori della notte e del giorno è punteggiato di domande curiose e di impulsi solidali fra gli uni e gli altri, e il tono serio del dialogo induce il lettore a considerare risolto il dilemma fra i binomi oppositivi giorno‑notte, razionalità‑irrazionalità, stress della vita quotidiana‑pace della vita notturna, grazie al reperimento della razionalità e dell’etica lavorativa nel cuore della notte ad opera della squadra notturna di operai. L’opera sembrerebbe

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così indirizzarsi al suo finale scioglimento in un clima di serietà pensosa e di conciliazione fra opposti che prelude ad una pace ritrovata. Di contro, questo messaggio lirico del testo sarà smentito nella quinta scena dalla notizia finale che ‘l’uomo che soffre d’insonnia’ apprende dalle pagine del giornale mattutino. Secondo questa notizia un gruppo di scienziati ha trovato infatti il modo per uccidere la notte ed accrescere, pertanto, la produttività:

STRILLONE Il giorno ha ucciso la notte.È l’ultima notizia di stanotte!D’ora in poi non più sostaNel mondo ci sarà!Terremo gli occhi apertiIn continuità!L’UOMO (assonnato, compra il giornale; legge)Riunitosi a TorontoUn congresso di scienziatiDice che si spreca al mondoTroppo tempo per dormir.Con opportuno assettoTermo‑radar‑nucleareS’otterrà, abolito il letto,doppia produttività.(sbadigliando) Il giorno ha ucciso la notte… (Calvino, La panchina, in RR3, p. 671)

Dalla necessità di lasciar convivere il mondo e il suo ‘rovescio’ – che era emersa nel monologo lirico dell’ubriaco –, alla possibilità di una loro conciliazione nella scena del dialogo con gli operai, si è passati all’annuncio paradossale del trionfo della tecnologia e della razionalità mediante l’annichilimento della notte e dei suoi aspetti irrazionali cui l’ubriaco aveva inneggiato come necessari per il completamento del mondo. Questo finale comico e paradossale risponde ad un altro dei fattori fondamentali che secondo l’estetica brechtiana devono caratterizzare il teatro epico, e cioè che la finalità prima dell’opera teatrale sia il divertimento. Se l’intento di Calvino è quello di portare il suo pubblico a riflettere su una tematica seria ed attuale, è pur vero che, attraverso l’avvicendarsi di scene e di opinioni espresse dai personaggi de La panchina, lo scrittore può ritenere di aver espletata la propria missione. L’uso del comico nella scena finale ha dunque una funzione catartica ed allegerisce il testo dall’enfasi sul contenuto realista e sul messaggio filosofico che la seconda metà dell’atto aveva accentuato. Come afferma Maria Corti:

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In generale Calvino è regista di una pendolarità fra la soluzione ludica e quella che in fondo si può definire la serietà del messaggio; benchè egli sembri a volte indietreggiare di fronte alla seconda e traslocare nel divertissement o nell’evasione, tuttavia le motivazioni ideologiche sottese ai contemporanei racconti, la denuncia contro la città come luogo del vivere infelice passano a questa graziosa pièce. (Corti, p. 220)

La costatazione che Calvino sembri ‘indietreggiare’ di fronte alla ‘serietà del messaggio’ non sorprenderà alla luce dell’analisi da me compiuta in precedenza nella quale ho portato alla luce come uno dei punti‑chiave della poetica brechtiana cui Calvino mostra di aderire è il primato del divertimento rispetto all’intento didascalico del messaggio, di qualunque natura esso sia. Si ricorderà infatti che, nel già citato intervento dello scrittore su Le sorti del romanzo, Calvino riconosceva il fascino dell’estetica brechtiana in ‘quel suo primo, meraviglioso assioma: che lo scopo del teatro è di divertire. Che sì, ci sono nella storia del teatro tutte le ragioni religiose, estetiche, etiche, e sociali, ma a condizione di divertire la gente’ (Calvino, Le sorti del romanzo, in Saggi, p. 1514).

Mi auguro dunque di aver mostrato in maniera esaustiva come l’influsso della poetica brechtiana abbia agito sulla composizione de La panchina calviniana in maniera preponderante sia per quanto concerne l’aspetto formale, sia dal punto di vista del contenuto o del messaggio che l’opera stessa si proponeva di indirizzare al pubblico degli anni Cinquanta. Dalla scelta dell’ambientazione e dei personaggi – che imita l’esempio del teatro epico primitivo o ‘teatro di strada’ – all’uso del meccanismo di straniamento e dell’effetto comico‑parodico a fini conoscitivi, fino alla subordinazione del messaggio filosofico‑politico all’idea del ‘divertimento’, questa prima opera teatrale di Calvino sembra applicare in maniera essenzialmente fedele i criteri‑guida della poetica brechtiana.

Se accettiamo inoltre che l’adesione di Calvino alle teorie brechtiane non debba considerarsi un fenomeno isolato e circoscritto alla pratica teatrale ma che debba essere interpretata bensì come una presa di posizione politico‑culturale dotata di una progettualità che si estende all’ambito narrativo e si propone come alternativa al modello narrativo ufficiale del romanzo lukácsiano, è evidente che si aprono alla critica calviniana una serie di ipotesi interpretative suggestive e feconde. Basterà alludere in questa sede alla possibilità di rintracciare elementi di teatralità tout court o di teatralità ‘epica’ brechtiana in senso stretto nella narrativa calviniana degli anni Cinquanta, in particolare nella trilogia de I nostri antenati. Si può essere inoltre tentati di applicare il modello di analisi da me utilizzato su La panchina ad alcune delle storie di Marcovaldo che, come abbiamo accennato, erano state originariamente concepite per la televisione come mimi o balletti. Sarebbe poi interessante cercare di analizzare come si evolva la poetica teatrale calviniana in relazione all’estetica brechtiana a partire dagli anni Sessanta, nel

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momento in cui, dopo il distacco dal partito comunista e la fine delle polemiche neorealiste, il parteggiare per Brecht doveva ormai perdere quella carica teoretica eversiva che aveva rivestito per Calvino nella seconda metà degli anni Cinquanta. Sono questi soltanto alcuni dei percorsi ermeneutici che ci auguriamo possano essere esplorati dalla critica calviniana e che si inquadrano nel più ampio discorso sul rapporto di Calvino con il teatro e con la teatralità che io stessa in altra sede ho affrontato.15

Note1 I. Calvino, prefazione all’edizione inglese di Our

Ancestors (Londra, Secker & Warburg, 1980), in Romanzi

e Racconti, collezione ‘I Meridiani’, a cura di M. Barenghi

e B. Falcetto, 3 voll. (Milano, Mondadori, 1991), I, 1310.

D’ora in avanti farò riferimento ai tre volumi dei Romanzi

e Racconti calviniani con le abbreviazioni RR1, RR2, RR3.

2 Si veda I. Calvino, Lettere 1940‑1985, collezione ‘I

Meridiani’, a cura di L. Baranelli (Milano, Mondadori,

2000), p. 247. D’ora in avanti farò riferimento a

quest’opera con l’abbreviazione Lettere.

3 B. Falcetto, Note e notizie sui testi, in RR3, p. 1342.

4 A proposito della scelta del comico in Calvino, si veda il

testo a cura di B. Falcetto e L. Clerici, Calvino & il comico

(Milano, Marcos y Marcos, 1994).

5 Sulla storia della letteratura neorealista e sulla

collocazione del primo Calvino in questa etichetta

letteraria si vedano: B. Falcetto, Storia della narrativa

neorealista (Milano, Mursia, 1992); G. Luti e C. Verbaro,

Dal Neorealismo alla Neoavanguardia (Firenze, Le

Lettere, 1995). Si vedano inoltre: L. Re, Calvino and the

Age of Neorealism: Fables of Estrangement (Stanford,

Stanford University Press, 1990); G. Falaschi, Negli

anni del neorealismo, in Italo Calvino. Atti del Convegno

internazionale (Firenze, 26-28 febbraio 1987) (Milano,

Garzanti, 1988), pp. 113-40; E. Bolongaro, Italo

Calvino and the Compass of Literature (Toronto, Toronto

University Press, 2003).

6 Queste definizioni sono riportate dallo stesso Calvino

nel corso di un’intervista rilasciata a Roberto de

Monticelli nel 1959 in I. Calvino, Saggi, 2 voll., a cura di

M. Barenghi (Milano, Mondadori, 1995), II, 2722-23.

D’ora in avanti farò riferimento al primo volume dei Saggi

calviniani con l’abbreviazioni Saggi.

7 Per un approfondimento della letteratura critica su

Lukács, si vedano: C. Cases, Su Lukács. Vicende di

un’interpretazione (Torino, Einaudi, 1985); G. Prestipino,

Realismo e utopia. In memoria di Lukács e Bloch (Roma,

Editori Riuniti, 2002); G. Bedeschi, Introduzione a

Lukács (Bari, Laterza, 1982); A. Leone De Castris, Croce,

Lukács, Della Volpe: Estetica ed egemonia nella cultura

del novecento (Bari, De Donato, 1978). Sulla vita e le

opere di Brecht e sul teatro epico, si può far riferimento ai

seguenti testi: C. Molinari, Bertolt Brecht (Roma, Laterza,

1996); F. Ewen, Bertolt Brecht: La vita, l’opera, i tempi

(Milano, Feltrinelli, 1970); W. Benjamin, Understanding

Brecht (Londra, NLB, 1973).

8 P. Chiarini, Brecht, Lukács e il realismo (Bari, Laterza,

1983), p. 61.

9 N. Ajello, Intellettuali e PCI 1944‑1958 (Bari, Laterza,

1997), p. 395.

10 Si veda il citato testo di Re, pp. 26-27.

11 B. Brecht, ‘Popolarità e realismo’, a cura di P. Chiarini,

L’Europa letteraria, 1 (1960), 28-35.

12 M. Corti, ‘Un modello per tre testi: Le tre “Panchine”

di Italo Calvino’, in Il viaggio testuale (Torino, Einaudi,

1978), pp. 201-20.

13 Sull’ideazione e la poetica delle ‘Comiche TV’, si veda

M. Barenghi, Note e notizie sui testi in RR3, pp. 1261-62.

In particolare si legga il brano nel quale Calvino esprime

le finalità che si propone con il progetto delle ‘Comiche

TV’ dal quale si evincono facilmente le somiglianze fra la

scenografia delle ‘Comiche TV’ e quella de La panchina

e fra i protagonisti delle rispettive opere: ‘Devono essere

qualcosa di mezzo tra i lazzi d’un Arlecchino (non a caso

avevo pensato di scegliere come interprete Marcello

Moretti) e le gags del cinema muto. Ogni comica deve

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Please address correspondence to: Enrica Maria Ferrara, 10 Maretimo Road, Blackrock,

Co. Dublin, Ireland

© Department of Italian Studies, University of Reading and Department of Italian, University of Cambridge

concentrare la sua azione in un’unità di luogo, con

scenari essenziali (per esempio un albero, una panchina,

una quinta di casa con finestre) e quasi simbolici. […]

Il protagonista, ultima incarnazione d’una classica

maschera moderna, è il piccolo uomo combattuto tra lo

slancio dei grandi sentimenti e la grottesca miseria della

sua esistenza. Passa da un mestiere all’altro, sempre

precari e irti di difficoltà […] è gentile, blandamente

ottimista, contemplatore di quel poco di natura che gli

spunta intorno, ma sempre soprattutto preoccupato di

portare qualche soldo a casa e di non saltare troppi pasti.

Lo chiamerei Giliberto.’

14 B. Brecht, Scritti teatrali (Torino, Einaudi, 1962), p. 84.

Si può ipotizzare che questo famoso brano sulla ‘scena

di strada’, pubblicato nella prima edizione degli Scritti

teatrali brechtiani del 1962, sia stato letto da Calvino

in fase di preparazione del volume. Come abbiamo

visto in precedenza, Calvino aveva dichiarato già nel

1955-56 di aver letto gli scritti di Brecht sul teatro che

peraltro in quegli anni venivano pubblicati in rivista

prima di essere raccolti nel volume einaudiano. Il saggio

in questione sulla ‘scena di strada’ fu scritto da Brecht

nel 1940. D’altronde, le prime traduzioni italiane di

Brecht erano comparse sulla rivista Il Politecnico di

Vittorini già a partire dal 1945. Si vedano gli articoli:

‘La ballata del soldato morto di Bertolt Brecht’, Il

Politecnico, settimanale di cultura contemporanea diretto

da E. Vittorini, 10, 1 dicembre 1945, p. 3; ‘Il canto della

merce e del mercante di Bertolt Brecht’, Il Politecnico,

15, 5 gennaio 1946; ‘L’assalto al quartiere dei giornali’,

Il Politecnico, 28, 6 aprile 1946, p. 3. E inoltre, nella

versione mensile de Il Politecnico possiamo leggere

un profilo di Brecht a cura di Vito Pandolfi nel quale si

analizzano con dovizia di particolari gli elementi del

teatro epico brechtiano e i criteri-guida della sua poetica:

V. Pandolfi, ‘Fisionomia di Bertolt Brecht’, Il Politecnico,

31-32, luglio-agosto 1946, pp. 63-64.

15 Mi riferisco alla mia tesi di dottorato dal titolo

‘Italo Calvino e il teatro’ che è attualmente in via di

completamento ed al mio contributo su ‘La poetica

teatrale giovanile di Italo Calvino’, l’Abaco, 2-3

(2003-2004), 175-98.

10.1179/026143407X190355

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