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ARACNE By Walter Lippmann Opinione pubblica, politica estera e democrazia Virginia Lozito

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ARACNE

By Walter LippmannOpinione pubblica,

politica estera e democrazia

Virginia Lozito

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Copyright © MMVIIIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 a/b00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2220–7

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: dicembre 2008

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Indice

Prefazione a cura del professor Claudio Vasale .................................. 15

PARTE I OPINIONE PUBBLICA E DEMOCRAZIA

Introduzione alla prima parte ............................................................... 21

CAPITOLO I GLI ESORDI DI FILOSOFIA PUBBLICA ......................................... 25 1.1. A Preface to Politics: una nuova filosofia politica per un nuo-

vo mondo .................................................................................. 26 1.1.1. Routiner vs inventor: due modi di essere leader ............ 28 1.1.2. Gli uomini: centro della riflessione politica ................... 30 1.1.3. Natura umana e meccanicità della Costituzione ............ 31 1.1.4. La democrazia: una “forma illuminata di governo”....... 32

1.2. Drift and Mastery: il caos della nuova libertà .......................... 33 1.2.1. La collaborazione come fondamento del nuovo mondo . 36 1.2.2. I progetti al posto delle tradizioni .................................. 37 1.2.3. La scienza come disciplina della democrazia ................ 38

CAPITOLO II OPINIONE PUBBLICA E TEORIA DEMOCRATICA ...................... 41 2.1. Pseudoambiente: dove nasce l’opinione pubblica .................... 43

2.1.1. Una finzione necessaria ................................................. 46 2.1.2. Come si forma lo pseudoambiente ................................. 47 2.1.3. L’opinione pubblica: versione moralizzata dei fatti ....... 48 2.1.4. Gli stereotipi .................................................................. 48 2.1.5. I codici ........................................................................... 53 2.1.6. I simboli ......................................................................... 54 2.1.7. L’irrazionalità dell’opinione pubblica ........................... 56

2.2. Gli ostacoli alla formazione di opinioni razionali .................... 56 2.2.1. Propaganda e censura ................................................... 57 2.2.2. Gli interessi .................................................................... 59

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2.2.3. La volontà comune ......................................................... 64 2.3. Il fallimento della tradizionale teoria democratica dell’opinio-

ne pubblica ............................................................................... 65 2.4. Le tradizionali teorie della democrazia ..................................... 67

2.4.1. Il “cittadino onnicompetente” e il suo ambiente ............ 68 2.4.2. L’isolazionismo e la cieca aderenza alla legge .............. 69

2.5. Una nuova immagine di democrazia ........................................ 71 2.5.1. L’organizzazione dell’informazione ............................... 72 2.5.2. Il compito degli esperti e dei cittadini ............................. 75 2.5.3. La relazione tra l’organizzazione degli esperti e l’opi-

nione pubblica ................................................................ 77 2.6. The Phantom Public.................................................................. 78

2.6.1. Il ruolo dell’opinione pubblica ....................................... 82 2.6.2. L’azione delle masse ...................................................... 83 2.6.3. La regola della maggioranza ......................................... 84

CAPITOLO III IL RUOLO DELLA STAMPA ............................................................ 87 3.1. Liberty and the News: il mestiere d’informare ......................... 89

3.1.1. Il mondo dell’informazione, tra la realtà e i lettori ........ 90 3.1.2. L’influenza delle lobby sull’informazione e la protezio-

ne delle fonti dell’opinione pubblica .............................. 92 3.1.3. La crisi della democrazia come crisi del giornalismo .... 93 3.1.4. La libertà come sistema di informazione sempre più o-

biettivo e indipendente da singole opinioni .................... 95 3.1.5. La libertà d’opinione come discendente dalla qualità

dell’informazione ............................................................ 96 3.1.6. Il buon reporter .............................................................. 97

3.2. Il giornalismo nell’Opinione pubblica ..................................... 98 3.2.1. La stampa e le tradizionali teorie democratiche ............ 99 3.2.2. Le notizie e la verità ....................................................... 100 3.2.3. Lo speciale valore etico attribuito al prodotto dell’a-

zienda giornalistica e il suo rapporto con i lettori .......... 101 3.2.4. La stampa: specchio infedele ......................................... 102 3.2.5.La notizia, cronaca di un fatto che si è imposto all’atten-

zione della comunità ....................................................... 103 3.2.6. La standardizzazione e la carenza di criteri di verifica . 105

Conclusioni alla prima parte ................................................................ 107

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PARTE II POLITICA ESTERA E DEMOCRAZIA

Introduzione alla seconda parte ............................................................ 113 CAPITOLO I L’ETÀ DELL’INNOCENZA ............................................................... 121 1.1. The Stakes of Diplomacy: teoria di politica estera .................... 121

1.1.1. Politica estera e democrazia ........................................... 123 1.1.2. La voce dell’uomo e la Voce del Popolo ........................ 128 1.1.3. Patriottismo e senso di appartenenza nazionale ............ 132 1.1.4. Valore diplomatico dell’unanimità e la democrazia ...... 133

1.2. Il mondo nel 1915: grandi potenze e paesi arretrati ................. 135 1.2.1. Il nuovo imperialismo .................................................... 138 1.2.2.La guerra per il prestigio ................................................ 139

1.3. La cooperazione anglo–americana ........................................... 142 1.4. Il compito della diplomazia internazionale .............................. 143 1.5. Lo stato mondiale: una proposta .............................................. 145 1.5.1. Il patriottismo mondiale ................................................. 149 1.5.2. Il patriottismo al di là dei confini ................................... 152 1.6. La democratizzazione della diplomazia ................................... 154 1.7. La pace: risultato di una saggia organizzazione ....................... 156 CAPITOLO II L’EQUIVALENTE POLITICO DELLA GUERRA ............................ 161 2.1. La Grande Guerra: primo appuntamento con la politica inter-

nazionale per Walter Lippmann ............................................... 161 2.1.1.Una svolta nella politica estera americana...................... 162 2.2. Il potere navale e le garanzie di sicurezza per gli stati demo-

cratici del mondo ...................................................................... 164 2.3. La difesa del «Mondo Atlantico» ............................................. 166 2.4. Lo sviluppo dell’internazionalismo........................................... 169 2.5. La guerra per rendere il mondo un «posto sicuro per la democrazia» 170 2.5.1. Fine della guerra e degli ideali wilsoniani .................... 173 2.6. Il «difetto» del pensiero liberale ............................................... 176 2.7. Un «equivalente politico della guerra» .................................... 178

2.7.1. La questione del disarmo e l’importanza dell’internazio-nalismo ........................................................................... 179

2.7.2. Un parziale ritorno al wilsonismo................................... 182 2.8. Le riparazioni e i debiti di guerra ............................................. 183 2.8.1. Gli Stati Uniti, gli Alleati e gli assetti di pace ................ 187

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2.9. L’abolizione della guerra ......................................................... 190 2.9.1. La critica al Trattato di Locarno ................................... 193 2.9.2. Il Patto Briand–Kellogg ................................................. 194 2.10. La teoria dell’equivalente politico della guerra ........................ 197 CAPITOLO III IL PACIFISMO ARMATO .................................................................. 203 3.1. Lippmann e il mondo negli anni Trenta ................................... 203 3.2. Gli Stati Uniti nelle relazioni internazionali ............................. 208 3.2.1. La politica estera americana in Estremo Oriente .......... 210 3.2.2. La politica estera americana in Europa ......................... 216 3.3. Debiti e riparazioni di guerra ................................................... 218 3.4. La questione degli armamenti .................................................. 220 3.5. La situazione in Europa negli anni Trenta ................................ 222 3.5.1. L’Europa e il ruolo degli Stati Uniti .............................. 223 3.5.2. Le speranze di pace in Europa ....................................... 225 3.5.3. La neutralità americana nella crisi europea .................. 227 3.5.4. Tra neutralità e pacifismo attivo .................................... 231 3.5.5. Il possibile ritorno della guerra totale ........................... 233 3.5.6. L’opinione pubblica americana e la crisi europea ......... 237 3.5.7. Special relationship tra Usa e Gran Bretagna ............... 239 3.6. Il fallimento della società internazionale e la necessità di un

internazionalismo militarizzato ................................................ 242 3.7. Le democrazie e i pericoli delle dittature ................................. 244

3.7.1. La lezione dei Padri fondatori per delegittimare il totali-tarismo ............................................................................ 248

3.7.2. Forza delle democrazie e debolezza delle dittature ........ 249 3.8. Il mondo alla fine degli anni Trenta ......................................... 252 3.8.1. Il pensiero di Lippmann negli anni Trenta ..................... 254 CAPITOLO IV LA FINE DELL’ETÀ DELL’INNOCENZA ....................................... 257 4.1. La seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti: dall’isolazioni-

smo a un primo intervento ........................................................ 257 4.1.1. L’arsenale della democrazia .......................................... 262 4.1.2. Gli errori della politica estera americana ..................... 263 4.1.3. Il dibattito tra isolazionisti e interventisti ...................... 263 4.2. La difesa e la sicurezza degli Stati Uniti .................................. 266

4.2.1. La sicurezza americana come prodotto dell’azione di «grandi uomini di stato» nell’elaborazione della politica estera degli Stati Uniti .................................................... 267

4.2.2. La politica delle alleanze dei Padri fondatori ................ 268

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4.2.3. L’importanza della geografia in politica estera ............. 269 4.2.4. La difesa di un’isola ....................................................... 270 4.2.5. La strategia della difesa passiva .................................... 272

4.2.6. La cooperazione anglo–americana: un rapporto «antico e profondo» ..................................................................... 274

4.3. La difesa dell’Atlantico ............................................................ 277 4.3.1. L’errore del 1917 ........................................................... 278 4.3.2. La Carta Atlantica .......................................................... 280 4.4. Dall’Atlantico al Pacifico ......................................................... 282 4.4.1. Gli Stati Uniti e il Giappone .......................................... 283

4.4.2. Una coalizione di stati nel Pacifico e la politica estera americana ....................................................................... 285

4.4.3. Pearl Harbor: il simbolo di tutti gli errori della politica estera americana ............................................................ 286

4.4.4. Il significato dell’intervento americano nel secondo conflitto mondiale ........................................................... 288

4.5. La politica estera degli Stati Uniti ............................................ 290 4.5.1. L’equilibrio tra impegni e potenza ................................. 291

4.5.2. Gli ingredienti di una buona politica estera .................. 294 4.5.3. Le forze armate e le alleanze tra stati ............................ 295 4.5.4. L’internazionalismo e il sistema delle alleanze .............. 296 4.5.5. La Comunità Atlantica e la sfida dell’Unione Sovietica 298 4.6. Gli scopi di guerra degli Stati Uniti .......................................... 299 4.6.1. La messa al bando della guerra ..................................... 302

4.6.2.La democrazia e le radici comuni degli stati nella Co-munità Atlantica ............................................................. 303

4.6.3. La struttura della società internazionale ........................ 304 4.6.4. Il principio del «buon vicinato» e il mondo diviso in

blocchi ............................................................................ 306 4.6.5. Il carattere democratico della politica estera statuni-

tense................................................................................. 307 4.7. Inizio dell’era atomica e la legge internazionale ...................... 308 Conclusioni alla seconda parte ............................................................ 311 Nota biografica ..................................................................................... 315 Bibliografia ........................................................................................... 323

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PARTE I

OPINIONE PUBBLICA E DEMOCRAZIA

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Capitolo I Gli esordi di filosofia pubblica

Abbiamo ereditato una tradizione ribelle.

È ovvio che il nostro tempo creda nel cambiamento. (Walter Lippmann)

La prima guerra mondiale costituì uno spartiacque tra i primi libri di Lippmann, pubblicati nel primo decennio del Novecen-to, e quelli pubblicati negli anni Venti. La delusione maturata al servizio del governo, specie durante i Trattati di Versailles, e l’esperienza al servizio della propaganda avevano profonda-mente smorzato l’ottimismo e l’entusiasmo dei primi anni, at-traverso i quali guardava il mondo.

Fin da giovane, infatti, Lippmann aveva sempre mostrato un grande interesse per i problemi che riguardavano la società del suo tempo e cercava sempre di tenersi informato su tutto ciò che accadeva intorno a lui. Così già nel periodo che trascorse all’Everybody’s Magazine di Lincoln Steffens, il giovane gior-nalista cominciò a costruire la sua filosofia politica. Nei primi articoli affrontava importanti questioni pubbliche, benché non avesse soluzioni pratiche.

Spesso, infatti, i suoi scritti mostrano una profonda cono-scenza delle questioni del tempo, ma mancano di indicazioni precise su possibili soluzioni.1

1 Michael Kirkhorn, “Walter Lippmann”, cit., pp. 174–189.

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PARTE I – Opinione pubblica e democrazia

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1.1. A Preface to Politics: una nuova filosofia politica per un nuovo mondo

Il giovane Lippmann conosceva le teorie di Freud, Bergson,

Nietzsche e Sorel, e le integrò con una filosofia sistematica dell’azione politica. Ernest Jones, collega e biografo di Freud, rilevò come Lippmann fosse stato il primo a usare concetti freudiani in un’analisi politica.2

Il suo obiettivo non era quello di arrivare a una filosofia po-litica assolutamente vera e valida in ogni luogo e in ogni tempo. Anzi egli stesso sosteneva che ogni filosofia politica era un’invenzione umana elaborata per rispondere a una determina-ta situazione di crisi; era uno strumento per rispondere ai biso-gni delle persone in un dato momento.

In questo periodo il pluralismo e il pragmatismo di William James sembravano catturare l’interesse del giovane giornalista. «Tutti gli uomini, tutti i credo religiosi, qualsiasi idea, teoria, superstizione, [meritano] una rispettosa attenzione». Questa e-spressione, con cui dalle pagine dell’Everybody’s Magazine Lippmann salutava il filosofo di Harvard, esemplifica la sua in-saziabile domanda di conoscenza. «Il solo male che temiamo ― disse una volta ― è l’ignoranza».

Le idee, tuttavia, avevano un potere enorme solo se la gente poteva indirizzarle verso i propri fini. «Gli uomini sentono che sono loro a fare il proprio destino e non il destino a fare loro». Di qui la volontà di rompere con il passato e le vecchie teorie. «Il mondo non è mai stato così giovane come oggi, così intolle-rante verso le cose vecchie e scontrose».

Queste idee furono riunite nel suo primo libro, A Preface to Politics, che uscì nel 1913. Nelle parole dell’autore, il pensiero politico aveva bisogno di «addentrarsi nella contemporaneità».

Il mondo era cambiato e non poteva più essere compreso at-traverso le idee ereditate dal passato, assunte acriticamente e

2 Edward L. Schapsmeier and Frederick H. Schapsmeier, Walter Lippmann: phi-

losopher–journalist, Public Affair Press, Washington 1969, p. 4.

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CAPITOLO I – Gli esordi di filosofia pubblica

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con un lessico poco chiaro. «Abbiamo bisogno ― scrisse ― di una nuova comprensione dei valori politici».

Istinto, intuito e impulsi innati erano i motori che avrebbero spinto l’umanità verso nuove vie del sapere. Vecchie routine, inibizioni, atteggiamenti meccanici dovevano essere abbando-nati. Leader dinamici, liberi dalla tradizione, avrebbero potuto canalizzare gli impulsi vitali delle masse verso importanti cam-biamenti.

La necessità di riforme era stata già evidenziata da Lippmann nel preambolo alla costituzione del club socialista che aveva fondato all’università, in cui scrisse:

Poiché è diffusa l’opinione che l’attuale condizione della società è im-perfetta…, lo scopo di questo club è di studiare il socialismo e tutti gli altri programmi di radicale riforma della società, che aspirano a rag-giungere un miglior sviluppo economico della società. L’ordine sociale del XIX secolo si basava sull’etica prote-

stante del lavoro e della parsimonia, e sull’accettazione di quel capitalismo fondato sul laissez–faire che impediva una regola-mentazione del mercato da parte del governo. Per il giovane giornalista le vecchie forme di pensiero, con le loro false prete-se di infallibilità, erano delle “prigioni mentali”. Dinamicità e creatività erano per lui la strada verso il progresso. Fondamenta-le era, inoltre, «una cultura rivolta alla ricerca dell’interiorità degli impulsi, abile nel respingere gli idoli del proprio pensiero, aperta alla novità e sufficientemente ingegnosa nella gestione del potere». Era dunque necessaria una profonda revisione del sistema politico, perché obiettivo dell’arte di governare doveva essere la ricerca di nuove forme e istituzioni, che soddisfacesse-ro le necessità profonde della comunità. Ma eliminare il vecchio ordine non assicurava una ricostruzione intelligente. I moti irra-zionali interni agli uomini avrebbero potuto portare all’anarchia invece che al progresso. Il relativismo o la mancanza di norme avrebbero potuto danneggiare quella nuova società che i rifor-matori cercavano di creare.

Nel periodo in cui fu scritto il libro, infatti, nella società a-

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PARTE I – Opinione pubblica e democrazia

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mericana c’era un grande fermento per le proposte di riforma della vecchia macchina di governo, come indicava il program-ma politico progressista di Theodore Roosevelt. L’avvento dei grandi trust sembrava aver annientato la condizione basilare del modo di vivere americano: l’uguaglianza delle opportunità. Una situazione che si scontrava con i principi fondamentali della democrazia. Il movimento progressista nasceva dalla denuncia delle incongruenze di questa realtà e proponeva riforme che re-staurassero il tipo di individualismo economico e di democrazia politica, che esistevano prima delle grandi concentrazioni eco-nomiche. La posizione di Lippmann verso i progressisti era complessa: pur facendo parte della redazione del New Republic, uno dei più importanti punti di riferimento del movimento, ne denunciava le semplificazioni e la difficoltà a indicare una pro-spettiva positiva. Vicina al presidente Theodore Roosevelt, la rivista sosteneva idee come la necessità di una forte leadership e l’esigenza di regolare le grandi concentrazioni economiche, ri-prendendo alcuni temi riformatori del progressismo, ma mo-strando una tendenza elitista nell’enfatizzare il ruolo degli intel-lettuali e dei leader politici. Il giornale, inoltre, prestava grande attenzione ai problemi del lavoro e alle classi più povere, atte-standosi su posizioni radicali, senza però confondersi con i so-cialisti.3 1.1.1. Routiner vs inventor: due modi di essere leader

La Preface è percorsa da una distinzione centrale tra i routi-ner, coloro che si comportano secondo modelli tradizionali e si affidano all’autorità delle vecchie istituzioni, e gli inventor, i “creatori” che cercano di costruire un nuovo ordine sociale, a-deguato alle proprie esigenze di realizzazione.4 L’uomo di stato deve «rintracciare il sentimento popolare, organizzarlo e farlo diventare forza motrice del governo».

3 Giovanni Dessì, Lippmann e Dewey. Opinione pubblica e democrazia, cit., p. 692. 4 Ibidem.

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CAPITOLO I – Gli esordi di filosofia pubblica

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Lippmann aveva poca simpatia per la “superstizione” ameri-cana che la politica fosse un conflitto tra due persone che rap-presentavano il bene e il male. La vera distinzione doveva esse-re fatta tra chi guardava al governo come un semplice corso prescritto di amministrazione, una questione di routine, e chi governava come un creativo risolutore di problemi. I politici ammirati da Lippmann erano quelli che consideravano le istitu-zioni e il sistema di valori di una società organizzata come strumenti per realizzare i fini umani e servire i bisogni della gente. Questi leader erano quelli che servivano gli «ideali dei sentimenti umani», che promuovevano invece di seguire mec-caniche routine. Erano i «leader naturali degli uomini». La ten-denza contemporanea, invece, era quella di preservare le vec-chie forme.

Per Lippmann i leader del suo tempo erano “sconvolti” dalle idee. Il loro grande difetto non era la corruzione (come affer-mavano di solito i muckrakers),5 ma la “mancanza di intuito”. Era necessario, invece, un interesse maggiore per le forze poli-tiche, un’enfasi maggiore non sulle forme ma sui bisogni dell’uomo. «Gli uomini di stato devono avere come base la na-tura umana…il loro compito supremo è la creazione di forme e istituzioni che soddisfino i bisogni più profondi dell’umanità». Dunque il vero metro di misura del raggiungimento dello scopo doveva essere la felicità dell’uomo. Questo ricorda un po’ la dottrina degli utilitaristi inglesi che però erano «meccanici» nel loro modo di pensare e confinati in un razionalismo che non prendeva in considerazione la reale natura umana.

Il vero uomo di stato «inizia con l’accettare la natura uma-na», benché questo non volesse dire «accettare il suo attuale ca-rattere». Ricordando i precetti forniti nel Principe da Machia-

5 I muckrakers erano giornalisti scandalistici, impegnati nella ricerca di scoop sen-sazionali per scoprire la corruzione e la disonestà soprattutto tra i politici e il mondo de-gli affari. Lippmann scrive in Drift and Mastery che grazie a questo tipo di giornalismo, gli uomini erano certamente più informati, rispetto al passato, sui torbidi intrecci tra il mondo della politica e l’alta finanza; tuttavia l’autore constata come in realtà ci fosse sempre stata corruzione in politica. Ciò che invece gli sembrava più importante era la capacità di questi articoli di mettere in evidenza i cambiamenti degli interessi che veni-vano perseguiti negli affari, insieme al “crescente potere del lavoro e del consumatore”.

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PARTE I – Opinione pubblica e democrazia

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velli, Lippmann sosteneva che lo statista poteva scegliere tra «la crudeltà e l’avidità» e i «più ricchi valori della vita civile» a se-conda del momento, perché il suo compito era quello di «fornire buone opportunità per l’espressione degli impulsi umani». O-biettivo della politica, infatti, non era quello di prescrivere i «valori fondamentali» della vita, ma di liberare dall’oppressione e di estendere le possibilità di felicità.

Tra i leader del suo tempo il giornalista ammirava Theodore Roosevelt per la sua “nuova visione sociale”. Di Woodrow Wil-son, che allora aveva da poco vinto le elezioni presidenziali, a-veva inizialmente scarsa considerazione. Per lui il neopresidente aveva sì una mente chiara e flessibile, ma «il suo contatto con la vita degli americani non era diretto». A far cambiare la sua opi-nione su Wilson furono l’approvazione dell’Underwood Tariff, provvedimento che abbassò in modo rilevante le tasse sull’importazione, e la creazione del Federal Reserve System, istituito per rafforzare il sistema monetario nazionale.

1.1.2. Gli uomini: centro della riflessione politica

Riprendendo un’idea comune a molti politici e filosofi del passato, Lippmann affermava che la sostanza della politica era la natura umana. Infatti, utilizzando le categorie freudiane nella sua analisi della realtà politica, egli rifiutava di usare un ap-proccio che fosse meramente istituzionale e formale. Citando espressamente il suo professore Wallas, scrisse che il «più pro-fondo errore dei pensatori politici» era stato quello di «parlare di politica senza riferimento agli esseri viventi»; mentre Wallas aveva dimostrato come il concreto comportamento degli uomini dovesse essere “il centro di ogni analisi politica”.6 A quel tem-po, la psicologia politica non era ancora matura, ma per Lippmann non si poteva aspettare ancora. «Possiamo essere i-gnoranti sia sull’uomo che sulla politica, ma dobbiamo inevita-bilmente porre l’uomo al centro della politica».

6 Giovanni Dessì, Lippmann e Dewey. Opinione pubblica e democrazia, cit., p. 692.

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CAPITOLO I – Gli esordi di filosofia pubblica

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Lo studio della vita delle persone, inoltre, doveva necessa-riamente applicare in modo rigoroso il metodo scientifico. L’esigenza di scientificità si riscontrava anche sul piano delle riforme che dovevano essere applicate quando, dopo un esperi-mento, avevano mostrato il «loro valore civilizzatore». 1.1.3. Natura umana e meccanicità della Costituzione

Lippmann aveva una concezione negativa della natura uma-na. Riteneva che nessun democratico poteva accettare l’idea che tutte le persone fossero buone e interamente competenti nello svolgere i propri compiti. Inoltre, nessuna quantità di carte co-stituenti, elezioni dirette e brevi ballottaggi avrebbe mai tirato fuori la democrazia da persone che non sapevano neppure cosa fosse.

Tuttavia, il volere della gente avrebbe dovuto essere «la leg-ge della nazione». Nell’ultimo capitolo, infatti, si legge che «la costituzione non fa le persone, ma le persone fanno la costitu-zione». La Costituzione degli Stati Uniti era l’esempio di una concezione meccanica del governo, «una macchina che avrebbe conservato il suo equilibrio senza il bisogno di prendere in con-siderazione la natura umana». L’autore riteneva che i Padri fon-datori avessero lavorato «secondo la filosofia del loro tempo», che era un compendio di Montesquieu e Newton, mentre se a-vessero scritto nel fuoco della loro giovinezza avrebbero fatto una costituzione più democratica. Gli autori della Costituzione, naturalmente, non erano considerati “routiner”, poiché erano stati loro a inventare il primo ordine. Però, essi non erano né democratici appassionati né reazionari. Lippmann riteneva che, fortunatamente, nonostante la meccanicità della legge, «la parte vitale della popolazione era emersa abbastanza bene da ogni ot-tusa acquiescenza alle costituzioni». Per lui, Theodore Roose-velt rifletteva questa tendenza. Le meccaniche limitazioni del costituzionalismo stavano, ormai, passando di moda insieme a idee come «la Santità della Proprietà Privata, i Diritti conferiti, la Competizione nel commercio, la Ricchezza (a qualunque prezzo)». Le «prime massime del capitalismo erano dunque

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PARTE I – Opinione pubblica e democrazia

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condannate». Sulla scena si affacciava la nuova forza espressa dal socialismo contemporaneo. A Preface to Politics, infatti, ar-rivò dopo le elezioni del 1912, anno in cui il partito socialista riscosse il più largo consenso mai ricevuto da un partito di sini-stra negli Stati Uniti. Per il giovane Lippmann il partito sociali-sta era «forse il più grande esempio sopravvivente del desiderio di contrapporre una leadership naturale a un meccanismo artifi-ciale». La sua più grave carenza, però, stava nel fatto che esso non aveva pensato a una naturale successione delle forme poli-tiche, non anticipava i bisogni della società, né preparava una prospettiva di espansione economica. 1.1.4. La democrazia: una “forma illuminata di governo”

Benché la sua visione della democrazia non fosse quel- la tradizionale presente nel costituzionalismo, il giovane Lippmann continuava ad aver fede nella tradizione democrati-ca e persino nelle procedure democratiche. Il metodo quantita-tivo della democrazia, che secondo l’autore non sempre garan-tiva saggi risultati, dava origine a «una forma illuminata di governo», poiché faceva attenzione al sentimento popolare. I risultati delle elezioni erano considerati espressione dell’opi-nione pubblica, benché comunque i veri democratici non do-vevano credere all’infallibilità della scelta delle persone. «In modo rudimentale e con molte eccezioni ― scrive ―, la de-mocrazia costringe la legge ad accostarsi ai bisogni umani». E proprio per la varietà delle esigenze e degli interessi umani, Lippmann sembrava preferire il sistema multipartitico europe-o, in quanto riflesso di vari desideri, bisogni e idee. L’autore suggeriva persino l’introduzione di una camera che riflettesse e rappresentasse gli interessi speciali. Ma nel libro queste pro-poste restano solo commenti passeggeri che non vengono svi-luppati. Sono vaghe anche le sue idee relative alla forma di governo. Lippmann auspica un governo «che provveda di più», «che fornisca un ambiente civilizzato», che sia meno «poliziotto» e più «produttore», ma non indica le vie per rag-giungere tali obiettivi.

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La prima opera di Lippmann è sembrata ad alcuni osservato-ri un manuale per intellettuali, ricco di idee e di tanti spunti de-rivanti da celebri teorie, che riflettevano una grande erudizione, ma tradivano un’ancora scarsa esperienza nelle questioni politi-che.7 Tuttavia, era un libro promettente, come sottolineò Gra-ham Wallas, professore di Lippmann ad Harvard, che per la giovane età del suo ex studente lo considerava “ricco di varie e generose passioni”. A Preface to Politics, infatti, mostra ancora tutta la fiducia del giovane giornalista nella democrazia parteci-pativa, prima che l’esperienza alle dipendenze del sindaco so-cialista di Schenectady, George Lunn, rendesse evidenti ai suoi occhi i limiti della pratica democratica, portata a compiacere un elettorato in realtà impreparato per ogni tipo di riforma.8 Nel li-bro, infatti, la democrazia è qualcosa di più che una semplice procedura di selezione dei rappresentanti e alle associazioni del-la società civile viene riconosciuta un’utile funzione di pressio-ne politica sulla classe dirigente. Tuttavia, in quest’opera è già presente una concezione negativa della natura umana dominata da impulsi irrazionali e incapace di controllare razionalmente la realtà. Inoltre, si profila già la tendenza elitista dell’autore che propone a guida della società uno statista dotato di intuizione e creatività, in grado di ottenere il consenso popolare grazie alla creazione di miti e immagini condivise.9

1.2. Drift and Mastery: il caos della nuova libertà Nel 1914 Graham Wallas pubblicò The Great Society, libro

che dedicò a Lippmann. Nella lettera premessa al volume e in-dirizzata al giovane autore della Preface, Wallas lo invitava ad

7 Edward L. Schapsmeier and Frederick H. Schapsmeier, Walter Lippmann: phi-

losopher–journalist, cit., p. 8. 8 Brunella Casalini, Tra Dewey e Lippmann: tensioni e ambiguità della tradizione

′liberal′ americana dalla ′Progressive era′ al New Deal, in “Nuova Antologia”, gen-naio–marzo, 1998, pp. 320–338.

9 Ibidem.

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abbandonare quella tendenza all’irrazionalismo che percorreva la sua prima opera.

Il suggerimento di Wallas fu accolto da Lippmann nel libro successivo, pubblicato nel 1914: Drift and Mastery. Se nella Preface i principali nemici della democrazia erano la routine e le tradizioni, qui la battaglia che Lippmann ingaggia non è solo contro i pregiudizi del passato, ma soprattutto contro “il caos della nuova libertà”. Il riferimento è al capitalismo, caratterizza-to da quell’azione del mercato, troppo libera e arbitraria, che non permetteva di comprendere la necessità di una filosofia pubblica.10 Per Lippmann il governo poteva essere efficiente come un’impresa privata e alcune grandi imprese, come ad e-sempio le ferrovie, potevano addirittura diventare proprietà del-lo stato. La prospettiva di una proprietà di stato delle maggiori industrie e di una vasta porzione di territorio, dunque, non era per lui una cattiva idea. Lippmann, infatti, condannava il lais-sez–faire perché portava al caos; mentre era più favorevole a un controllo del governo sul mercato. Infatti, attaccando i sosteni-tori del liberismo scrive: «Abbiamo perso l’autorità. Ci siamo emancipati da un mondo ordinato. Andiamo alla deriva». Lo stesso pensiero liberale, per lui, era nel “caos” e aveva bisogno delle fondamenta della certezza.

Per Lippmann la lotta contro la tradizione e i pregiudizi sembrava ormai superata. «Abbiamo ereditato una tradizione ri-belle…È ovvio che il nostro tempo creda nel cambiamento». Ciò che gli sembrava fosse più urgente era la situazione di in-certezza in cui sentiva di vivere, perché immerso in un mondo «disorganizzato». Nella nuova società creata dall’industria tutti gli uomini erano «spiritualmente immigrati», perché avevano perso i vecchi punti di riferimento e non erano ancora in posses-so di nuovi, in grado di sostituirli. Tornare al passato, inoltre, non era più possibile.11

La stessa legislazione antitrust, che cercava di frenare la ten-denza alla concentrazione economica per far rivivere la primiti-

10 Giovanni Dessì, Lippmann e Dewey.Opinione pubblica e democrazia, cit., p. 694. 11 Ibidem.

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va società americana fondata sulla piccola proprietà, gli sem-brava «stupida e distruttiva», perché ormai il mondo era cam-biato. Da quando la scienza e la tecnologia avevano provocato la rivoluzione industriale, il trend della crescita economica era passato da uno stadio semplice a uno complesso. Le piccole compagnie avevano lasciato il posto alle grandi corporation; la competitività aveva prodotto monopoli. Non si poteva più tor-nare alla vecchia vita dei villaggi, delle piccole fattorie e dei piccoli affari. La società agricola ormai era condannata alla scomparsa dalla crescente economia dell’età moderna.

La grande opportunità per i leader “creativi” era quella di ordinare e dirigere questo nuovo tipo di economia.12 Lippmann, infatti, criticava il programma wilsoniano della “Nuova Liber-tà”, perché esso rappresentava il «tentativo dei piccoli impren-ditori e degli agricoltori di usare il governo contro una più am-pia organizzazione collettiva dell’industria», nella speranza di tornare al passato.

Per Lippmann il presidente Wilson sapeva che «c’era un nuovo mondo che chiedeva nuovi metodi, ma sognava un mon-do superato». I vecchi ideali come l’autonomia dell’individuo, l’uguaglianza delle possibilità economiche e l’ostilità verso l’accentramento del potere economico si scontravano ormai contro una realtà che non poteva più contemplarli. Sperare di tornare indietro, per cercare di recuperare la prima forma di democrazia, era solo un’illusione. Il sogno americano del passa-to si basava sul mito di un’età che non era «né d’oro né demo-cratica» e sulla nostalgia per quell’idea che l’uomo fosse natu-ralmente buono.

12 Benjamin Fletcher Wrigth, Five Public Philosophies of Walter Lippmann, cit.,

pp. 38–57.

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1.2.1. La collaborazione come fondamento del nuovo mondo

Secondo Lippmann, il nuovo mondo si delineava come una realtà sempre più dominata da processi collettivi.13 Le nuove pratiche sociali erano nemiche dell’individualismo ed erano sempre più corporative e collettive.14 La stessa autorità era il ri-sultato di «un’immensa collaborazione».

In Drift and Mastery, considerando il movimento femmini-sta che in quegli anni iniziava la sua lotta per i diritti politici, Lippmann lo prende ad esempio di quella cooperazione che po-teva preparare «stabili fondamenta per il mondo moderno». La vecchia struttura della famiglia patriarcale stava facendo posto a un femminismo che offriva grande speranza per il futuro. La tradizionale immagine della proprietà privata e del piccolo im-prenditore teso ad accrescere il proprio guadagno non era più in grado di riscuotere l’approvazione sociale. Le figure a cui si guardava con maggiore fiducia erano i liberi professionisti, i dottori, gli ingegneri, che erano espressione di altri ideali, come ad esempio la soddisfazione nello svolgere il proprio lavoro, ol-tre a quello del guadagno individuale. Gli stessi manager dei grandi trust venivano visti come amministratori di qualcosa che non era solo una proprietà esclusiva. Le grandi corporation era-no simbolo di una gestione non individualistica e non privatisti-ca della proprietà.15 Ed è qui che si inseriva il ruolo decisivo dei sindacati, senza la cui collaborazione «una democrazia indu-striale era impossibile».

Infatti, analizzando il sistema di governo americano, il gior-nalista sosteneva che la regolamentazione dei trust era resa più difficile dal fatto che lo stato era una realtà troppo piccola per occuparsene, mentre la nazione era troppo grande. Si dovevano, quindi, armonizzare i bisogni e le procedure di governo con le necessità del presente, che richiedevano una maggiore parteci-pazione delle varie parti della società. Ciò comportava il ricono-

13 Giovanni Dessì, Lippmann e Dewey.Opinione pubblica e democrazia, cit., p. 696. 14 Edward L. Schapsmeier and Frederick H. Schapsmeier, Walter Lippmann: phi-

losopher–journalist, cit., pp. 7–12. 15 Giovanni Dessì, Lippmann e Dewey.Opinione pubblica e democrazia, cit., p. 696.

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scimento di una serie di organizzazioni, come ad esempio gli stessi sindacati, che non erano ufficiali né governative. La rego-lazione di queste sovranità non ufficiali, però, era un «compito al quale la scienza politica non era preparata».

Tutti questi nuovi problemi mettevano a dura prova la de-mocrazia, poiché essi erano aspetti di un sistema in rapida cre-scita, che non solo aveva colto gli uomini impreparati, ma che, a causa della sua estrema complessità, rendeva difficile la sua comprensione, riducendo drasticamente la possibilità di fare progetti per il futuro.

1.2.2. I progetti al posto delle tradizioni

Per realizzare un nuovo mondo in sintonia con i cambiamen-ti che avevano investito la società, le persone dovevano «sosti-tuire i progetti alle tradizioni».16 La sola alternativa al caos con-seguente alla perdita di senso dei vecchi valori era quella di im-pegnarsi in un progetto di realizzazione. Il disorientamento era riconducibile alla «persistenza con la quale gli individui segui-vano la tradizione in un mondo a essa inadatto».17 Bisognava di-re addio al vecchio mondo basato sull’autorità e sull’indivi-dualità. Era quindi necessario cambiare gli assetti ereditati, «rompere con le routine consolidate, prendere decisioni e sce-gliere i fini e gli strumenti per raggiungerli». Gli uomini dove-vano vivere la loro vita naturalmente, liberi dallo spettro del passato e dalle superstizioni.18 Essi dovevano vivere «non per la società dei padri, ma per quella dei figli».

Poiché le regole del passato avevano perso il loro significa-to, le persone avevano bisogno di una guida nella vita politica

16 «In questo periodo Lippmann era ancora sotto l’influenza del progressismo. La

sua sterminata fiducia nel progresso non era ancora stata distrutta dalla prima guerra mondiale e dal fallimento dei Trattati di Versailles, che avrebbero dovuto portare a quel-la ‘pace giusta e duratura’». In Benjamin Fletcher Wrigth, Five Public Philosophies of Walter Lippmann, cit., pp. 38–57, [T.d.A.].

17 Walter Lippmann, Drift and Mastery. An Attempt to Diagnose the Current Un-rest, Prentice Hall, Englewood Cliff, New York 1961, p. 147.

18 Benjamin Fletcher Wrigth, Five Public Philosophies of Walter Lippmann, cit., pp. 38–57.

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ed economica. Il nuovo mondo sembrava meno «confortante del vecchio, o meglio, meno confortante di ciò che la gente pensava fosse il vecchio mondo», e apriva quindi a nuove sfide.

Per il giovane filosofo, l’obiettivo della democrazia, in que-sto nuovo quadro, era quello di procurare alle persone «la vita più ricca che potevano progettare per se stesse». Il bene mag-giore non andava più cercato nella rinuncia a questo mondo, ma si doveva individuare nel «più pieno sviluppo delle potenzialità umane e delle risorse della Terra». Il compito più elementare di uno stato democratico, infatti, doveva essere quello di sollevare la gente dalla miseria, non solo perché chi non aveva nulla sof-friva, ma soprattutto perché il suo malcontento degradante era un “veleno” per la democrazia. Senza niente da perdere queste persone diventavano facilmente vittime della degradazione, del-la frode e della demagogia.19

Ciò che si doveva fare era costruire una concezione chiara del mondo reale. Un compito difficile perché gli uomini aveva-no, secondo l’autore, solo una vaga concezione di quelle che potevano essere le future possibilità aperte dalla democrazia.

1.2.3. La scienza come disciplina della democrazia

Per realizzare il nuovo assetto della società basato sulla col-laborazione tra le varie parti, era necessario adottare «lo spirito scientifico nella vita di ogni giorno, imparando a cooperare su larga scala».

Accanto alla necessità di sostituire la tradizione con il pro-getto, il laissez–faire con la regolazione del mercato, Lippmann sottolinea nel suo secondo libro la rilevanza nella vita umana del subconscio, dell’irrazionale e dell’accidentale, arrivando al-la conclusione che ogni persona non era il risultato di intenzioni chiaramente meditate. Questo offriva un nuovo motivo per pro-cedure più scientifiche.20

19 Ibidem. 20 Ibidem, pp. 26–37.

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La scienza era identificata con la capacità di pensiero, che doveva determinare la vita umana. L’intelligenza doveva rego-lare gli istinti degli uomini, non nel senso di reprimerli acriti-camente, ma nel senso di dar loro un ordine; di riconoscere quel «desiderio, disciplinato da una conoscenza di quello che è pos-sibile, e ordinato dal fine consapevole della propria vita».21

La democrazia era, dunque, indissolubilmente legata al pen-siero scientifico. Il decadere delle verità assolute ereditate dal passato coincideva per Lippmann con il sorgere della conoscen-za scientifica e con l’attività dell’intelligenza dell’individuo, che progetta la propria esistenza. «Dove il pensiero assoluto ca-de, fiorisce la scienza. Questo è l’autogoverno».

Lo spirito scientifico era «la disciplina della democrazia, la fuga dall’incertezza, l’orizzonte dell’uomo libero». L’attività dell’intelligenza coincideva con l’autogoverno e, quindi, con la democrazia.22

La scienza era il sostegno dell’attitudine all’autogoverno; era la “disciplina della democrazia”, perché il suo metodo non solo consentiva a persone diverse di arrivare alle stesse conclusioni, ma anche perché era l’unica via per affrontare il nostro mondo. Un compito che non poteva essere svolto né facendo ricorso a regole assolute, né attraverso l’anarchia dei temperamenti u-mani.

L’attività della conoscenza consisteva, anzi, nel dominio del-le passioni. Ma non tutti erano in grado di razionalizzare la loro esistenza, come dimostrato, dalla diversità e pluralità di soggetti e di livelli, che caratterizzavano la democrazia. Il rischio era che la moltitudine, incapace di pensiero scientifico, potesse frenare l’agire di coloro che erano al governo e rendere difficile il per-seguimento del bene pubblico.

I problemi della società, invece, avevano bisogno di analisi sistematiche, per questo Lippmann richiedeva un’«analisi delle risorse nazionali» a cui doveva seguire un «piano nazionale per

21 Walter Lippmann, Drift and Mastery. An Attempt to Diagnose the Current Un-

rest, cit., p. 149. 22 Giovanni Dessì, Lippmann e Dewey.Opinione pubblica e democrazia, cit., p. 698.

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il loro sviluppo». Infatti, poiché la visione della gente era «o-scura, frammentaria e distorta», per proporre riforme del siste-ma bisognava informarsi adeguatamente. Il riformatore doveva diventare uno scienziato sociale per rimodellare la società. La sua tecnica doveva consistere nell’elaborazione di piani razio-nali, al fine di dare ordine e significato alla vita.23 Per Lippmann la ricerca era importante tanto quanto la voglia di cambiare.24

Le importanti questioni affrontate in Drift and Mastery, qua-

li l’autoaffermazione dell’individuo attraverso l’intelligenza come progetto, il dominio della ragione scientifica e l’espres-sione delle pulsioni, la difesa della democrazia e l’esigenza di un’amministrazione del potere libera dagli ostacoli posti dal controllo popolare, restano irrisolte, continuando a impegnarlo anche negli anni successivi.25

23 Edward L. Schapsmeier and Frederick H. Schapsmeier, Walter Lippmann: phi-

losopher–journalist, cit., p. 7–12. 24 Ibidem. 25 Giovanni Dessì, Lippmann e Dewey.Opinione pubblica e democrazia, cit., p. 698.