ascoltare la sofferenza

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ANNO XIX NUMERO 1 GENNAIO 2014 Ascoltare la Sofferenza Tre genitori raccontano il loro quotidiano con la malattia dei figli di M.Parisi Il messaggio del Papa per la XXIII Giornata Mondiale del Malato di A. Schettino Il Servizio sanitario nazionale compie 35 anni intervista al presidente dell’A.M.C.I. di Nola di A. Lanzieri Dialogo in Cattedrale con Lina Sastri di M. Messinese Dormitorio Caritas a San Giuseppe Vesuviano di G. Nappi Pastorale giovanile: educare con lo sport di G. Iorio Dalla Terra dei Fuochi di D. De Somma

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XXIX, 1, Gennaio 2014

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014

Ascoltare la Sofferenza

Tre genitori raccontano il loro quotidiano con la malattia dei figli

di M.Parisi

Il messaggio del Papa per la XXIII Giornata Mondiale del Malato

di A. Schettino

Il Servizio sanitario nazionale compie 35 anniintervista al presidente dell’A.M.C.I. di Nola di A. Lanzieri

Dialogo in Cattedrale con Lina Sastri di M. Messinese

Dormitorio Caritas a San Giuseppe Vesuvianodi G. Nappi

Pastorale giovanile: educare con lo sportdi G. Iorio

Dalla Terra dei Fuochidi D. De Somma

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gennaio 2014 02

mensile della Chiesa di Nola

Nella sofferenza ciò che uccide di più è la solitudine. Non è il dolore fisico né l’impotenza davanti alla malattia che avanza, ma il sentirsi totalmente abbandonati e il dover chiedere come favore

il rispetto di diritti riconosciuti. Quest’abbandono io l’ho vissuto e lo vivo quotidianamente in prima persona, purtroppo non sulla mia pelle, o meglio non solo sulla mia pelle, ma su quella di mia figlia. Sei anni fa la vita di mia figlia è stata stravolta da una diagnosi terribile: atassia telangectasia; una malattia degenerativa che non lascia vie di scampo, che ha rapidamente portato mia figlia a non poter più fare a meno della sedia a rotelle. Da allora però, non dobbiamo fare i conti solo con l’atassia, non dobbiamo solo trascorrere le giornate sperando che arrivi la notizia di una cura che consenta a mia figlia di guarire, o almeno di arrestare la malattia e migliorare la sua “qualità di vita”, non dobbiamo fare i conti soltanto con il sentirci, in quanto genitori, impotenti davanti ad un mostro che rischia di portarci via nostra figlia.. …..no, perché forse a questa società della quale facciamo parte questo non basta... Ed ecco che succede, ad esempio, che la mattina, accompagnando mia figlia a scuola, mi ven-ga detto che l’assistente materiale, essendogli state assegnate solo due ore al giorno di presenza, ar-riverà alle 9:30 che, tradotto nel linguaggio materno significa che mia figlia “deve” sentire il bisogno di andare in bagno, ad esempio, solo da quell’ora e solo fino alle 11:30; ed ecco che per questo io mi lamenti e che l’unica risposta datami sia che il personale presente a scuola non è tenuto ad occuparsi di mia figlia e che la scuola, dati i tagli, date le risorse, non ha la possibilità di dotarsi del personale specializzato…..così come non ha la possibilità di garantire a mia figlia il numero completo di “ore di sostegno” che la legge le riconosce. E così, sono mesi ormai che busso a porte e pongo domande perché mi si indichi la via da seguire perché mia figlia possa esercitare, in pienezza, il suo diritto allo studio che è un diritto attraverso il quale, ritengo, mia figlia possa affermare pienamente il suo diritto alla vita. Una vita che non può non essere piena di felicità, la felicità che ogni bambino dovrebbe tro-vare nel suo semplice quotidiano fatto soprattutto di giornate a scuola con i propri coetanei. Per mia figlia diventa complicata anche una semplice uscitacon la classe, per visitare, in un giorno di festa, la chiesa del santo patrono di città: l’avviso che arriva a casa solo il venerdì, tre giorni prima della data fissata per la “gita”; l’impossibilità per mia figlia di raggiungere in carrozzella la chiesa essendo lastri-cata di sanpietrini; l’organizzarsi mio, dell’insegnante di sostegno e di mio padre per accompagnare, assistere e andare a riprendere mia figlia in chiesa.., solo il buon cuore dell’insegnate di sostegno, ri-masta accanto a mia figlia ben oltre il dovuto, ha fatto sì che mia figlia non si sentisse “ulteriormente” diversa. L’amore per mia figlia è talmente grande che nulla mia farà arrendere, nulla mi impedirà di lottare perché mia figlia veda sempre rispettati i diritti che lo sono riconosciuti, nulla mi impedirà di procedere anche legalmente perché vengano accertate eventuali inadempienze e responsabilità. Ma le norme da sole non bastano, il rispetto per il prossimo non si acquisisce perché una norma lo dice o lo impone, si impara soltanto se c’è qualcuno che te lo testimonia...

MALATI, NON INVISIBILIdi Mariangela Parisi

Difficile garantire ad un ammalato una vita “bella”: il racconto di una mamma

IL rISPeTTO Che NON C’èdi Monica

Un numero dedicato alla sofferen-za, non per dare possibilità a chi

non è affetto da alcuna malattia di potersi sentire più fortunato ricor-dando che c’è chi sta peggio, ma per ricordare a tutti noi che, anche nella sofferenza, anzi soprattutto nella sof-ferenza, la persona umana non perde la propria dignità, non può perderla. Non può perderla chi la sofferenza la vive da ammalato, non può perderla chi la sofferenza la accudisce.

Quando succede, quando ammala-ti e assistenti perdono la propria di-gnità, siamo allora di fronte ad una realtà disumanizzata, fatta di esseri

parlanti incapaci di ascoltare, chiu-si all’altro, dimentichi del fatto che quando si accantona lo sguardo so-lidale, la vita sociale non è più tale.

La vicenda Stamina ha fatto emer-gere, a mio parere, l’evidente “solitu-dine” nella quale vivono la maggior parte degli ammalati e delle loro fa-miglie. Una solitudine che toglie il re-spiro e fa perdere ogni speranza, una solitudine che non solo porta ad ac-cogliere come giusta ogni ricetta pre-sentata come cura ma che, sempli-cemente, come emerge anche dalle due storie - i cui protagonisti vivono nel territorio diocesano - raccontante

in questo numero, fa male più della stessa malattia, perché la sensazione è quella di essere invisibili.

Invisibili gli ammalati, invisibili i loro famigliari. Alla loro speranza, alle loro domanda andrebbero indirizzate tutte lo possibili modifiche del Servi-zio sanitario nazionale che lo scorso dicembre ha compiuto 35 anni. Un servizio che come ricordato anche dalla presidente dei medici cattolici di Nola, nell’intervista a pag.4, ha i suoi punti più deboli proprio nei ser-vizi dedicati all’assistenza domicilia-re, alla continuità assistenziale, alla riabilitazione.

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03gennaio 2014

La Terza Pagina

Nella ricorrenza della XXII Giorna-ta Mondiale del Malato, che come

ogni anno si celebra l’11 febbraio, memoria liturgica della B. V. M. di Lourdes, Papa Francesco ha inviato alla Chiesa un Messaggio dal titolo: “Fede e carità: «Anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli»(1 Gv3,16)”.

Il Santo Padre mette in evidenza che la sofferenza è partecipazione re-ale alla passione di Gesù Cristo, anzi nelle membra del sofferente rivive lo stesso Cristo Crocifisso, vi è un “una speciale presenza di Cristo sofferen-te”: «È così: accanto, anzi, dentro la nostra sofferenza c’è quella di Gesù, che ne porta insieme a noi il peso e ne rivela il senso».

Il Figlio di Dio, sull’altare della Cro-ce, apre un orizzonte di speranza per l’uomo che sperimenta il dolore e la solitudine. Papa Francesco afferma che Cristo, prendendo su di sé le ma-lattia e la sofferenza dell’uomo, “le ha trasformate e ridimensionate”. Infatti il dolore non è l’ultima parola, la Croce ha come fine la vita piena, inaugurata nel mistero pasquale. Inoltre la fede in Dio diventa il motore per amare i propri fratelli, fino al dono della pro-pria vita, scrive infatti il Papa: «Come il Padre ha donato il Figlio per amore, e il Figlio ha donato se stesso per lo

stesso amore, anche noi possiamo amare gli altri come Dio ha amato noi, dando la vita per i fratelli. La fede nel Dio buono diventa bontà, la fede nel Cristo Crocifisso diventa forza di amare fino alla fine e anche i nemici. La prova della fede autentica in Cristo è il dono di sé, il diffondersi dell’amore per il prossimo, special-mente per chi non lo merita, per chi soffre, per chi è emarginato». È que-sto il cuore del Messaggio del Papa, che evidentemente si rivolge non solo ai malati (infatti è un Messaggio rivolto alla Chiesa intera, come dice-vo già all’inizio). La fede e la carità sono congiunte, non possono essere mai separate. La fede non è intimi-smo ma apre al dono di sé, all’amo-re gratuito per chi soffre, per chi è emarginato e «specialmente per chi non lo merita».

La fede inoltre apre alla speranza e il cristiano è chiamato a portare «la speranza e il sorriso di Dio nelle con-traddizioni del mondo», soprattutto lì dove la malattia e la morte sembrano l’ultima parola. Infine il Papa invita a crescere nella tenerezza verso chi è nel dolore sull’esempio di Maria: «È la Madre di Gesù e Madre nostra, attenta alla voce di Dio e ai bisogni e difficoltà dei suoi figli. Maria, spin-

ta dalla divina misericordia che in lei si fa carne, dimentica se stessa e si incammina in fretta dalla Galilea alla Giudea per incontrare e aiutare la cugina Elisabetta; intercede presso il suo Figlio alle nozze di Cana, quando vede che viene a mancare il vino del-la festa; porta nel suo cuore, lungo il pellegrinaggio della vita, le parole del vecchio Simeone che le preannuncia-no una spada che trafiggerà la sua anima, e con fortezza rimane ai piedi della Croce di Gesù». Per questo Ella è, a pieno titolo, «la Madre di tutti i malati e i sofferenti». Maria, ai piedi della Croce, è unita all’offerta del sa-crificio del Figlio, insieme al discepolo che Gesù amava. Proprio San Giovan-ni ci introduce nel cuore del mistero di Dio che «è amore» (1Gv 4,8.16): «Un amore così grande che entra nel nostro peccato e lo perdona, entra nella nostra sofferenza e ci dona la forza per portarla, entra anche nella morte per vincerla e salvarci. La Cro-ce di Cristo invita anche a lasciarci contagiare da questo amore, ci in-segna a guardare sempre l’altro con misericordia e amore, soprattutto chi soffre, chi ha bisogno di aiuto». Sot-to la Croce, con Maria e Giovanni, si impara ad amare come Gesù: fino a dare la propria vita per i fratelli.

Messaggio per la XXII Giornata Mondiale del Malato

SOTTO LA CrOCe CON MArIAdi Angelo Schettino

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gennaio 2014 04

mensile della Chiesa di Nola

Poche settimane fa ha compiuto 35 anni il Servizio sanitario naziona-

le, istituito con la legge 833 del 23 dicembre 1978 (firmata dal ministro Tina Anselmi). Nel corso di questi anni il Ssn ha conosciuto varie rifor-me e interventi, quasi sempre tesi alla riduzione dell’emorragie di de-naro pubblico e alla razionalizzazione delle risorse. Il 20 gennaio scorso il Cergas (Centro di ricerche sulla ge-stione dell’assistenza sanitaria e so-ciale) ha presentato il Rapporto Oasi 2013 sul sistema nazionale sanitario dove si evidenziava una spesa pro capite pari a 2419 $PPA (dollari pa-rità di potere d’acquisto) più bassa di quella di Germania (3.318), Francia (3.133) e Regno Unito (2.747) e un disavanzo in fortissima diminuzione nel 2012 (-17,3% rispetto al 2011), pari allo 0,9% della spesa sanitaria pubblica corrente: insomma la diffe-renza tra entrate e uscite è finalmente sotto controllo. Tutto bene? Sembra di no. Accanto ad alcuni buoni indi-catori, permangono, e anzi sembra-no destinati ad un aggravarsi, certe lacune ormai strutturali del Sistema, come il gap di performance tra i di-versi sistemi sanitari regionali, tant’è che i coordinatori del Rapporto, Ele-na Cantù e Francesco Longo, hanno sottolineato come Abruzzo, Campa-nia, Calabria, Lazio, Molise, Puglia e Sicilia (tutte le regioni sottoposte al Piano di rientro negli ultimi anni) “ri-sultano inadempienti o parzialmente inadempienti” nel mantenimento dei livelli essenziali di assistenza.

Per avere un’analisi basata sull’e-sperienza sul campo, ho sentito il pa-rere della dott.ssa Antonetta Carrella, presidente della sezione diocesana di Nola “Gianna Beretta Molla” della Associazione medici cattolici italiani (A.M.C.I.). Laureata nel 1960, for-matasi alla scuola dei prof. Giovanni Maria Cataldi presso l’ospedale Asca-lesi, ha il privilegio di aver attraversa-to un bel pezzo di storia della sanità italiana, vantando 53 anni di attività medica.

Dott.ssa Carrella, il Ssn compie 35 anni. Ci può fare un quadro

della situazione?

Al contrario di quel che si potrebbe pensare, il nostro sistema sanita-rio è molto stimato all’estero per la qualità, complessivamente alta, e la sostanziale universalità del servizio. Basandomi sulla mia esperienza, nel corso degli anni - ci sono stati dei grossi miglioramenti. Oltre che il piano organizzativo, quello degli strumenti, della medicina in gene-rale, a migliorare è stata la qualità del medico. Naturalmente parlo per la mia esperienza, ma quando iniziai ad esercitare il paziente in alcuni casi era un numero, salvo le eccezioni che confermano le regole.

Nel corso del tempo c’è quindi stato un avvicinamento tra me-dico e paziente?

Sì, è accaduto questo. In verità, però, negli ultimi anni si assiste un po’, a mio giudizio, ad un ritorno all’antico. L’enorme sviluppo tecnologico ha ov-viamente innalzato la qualità di dia-gnosi e cure, contribuendo forse al ritorno di una certa distanza medico-paziente.

Torniamo alla valutazione del Si-stema sanitario nazionale.

Nel suo complesso, dicevo, c’è un livello più che dignitoso, soprattut-to nei presidi territoriali tradizionali, come la medicina di base, gli ambu-latori di specialistica e diagnostica oppure l’ospedale. I punti più deboli sono rappresentati dai servizi dedica-ti all’assistenza domiciliare, l’Adi (as-sistenza domiciliare integrata ndr), la continuità assistenziale, la riabilita-zione.

Come mai questi punti deboli?

Oltre ad un problema legato alla mala gestione delle risorse economiche, per incompetenza, negligenza, ineffi-cienze strutturali o disonestà dei sin-goli, bisogna pur dire che da un lato non sempre il paziente incontra per-sone dotate della necessaria prepa-

razione professionale, dall’altro, tal-volta, hanno usufruito e continuano a usufruire di alcuni servizi d’assistenza persone che in realtà non ne avreb-bero diritto, a scapito naturalmente di coloro i quali che ne avrebbero davvero bisogno. Pure una maggio-re attenzione alla facilità con la quale si prescrivono determinate cure può aiutare a razionalizzare le risorse, come per esempio cercare l’indirizzo diagnostico, non solo da esami stru-mentali. E ancora, la fisioterapia è naturalmente importante nella fase post-traumatica, ma in altri casi, le cure fisioterapiche possono essere sostituite dalla ginnastica o da una qualche attività motoria che sarebbe certamente di maggior aiuto alla per-sona, e rappresenterebbe una spesa in meno per il sistema.

Cosa ci dice sul rapporto tra Ssn e politica?

Devo ammettere che, purtroppo, la politica si è da sempre intromessa nella gestione della sanità. In 53 anni di attività medica posso testimonia-re in prima persona quanto sia diffi-cile nel nostro sistema fare carriera ed affermarsi volendo mantenere la schiena dritta, senza cioè entrare a far parte della cerchia di un qualche politico o area politica specifica.

Qual è il suo giudizio sulla vicen-da Stamina?

Fin dall’inizio ho sospettato che Sta-mina fosse una farsa. La cosa incredi-bile è che a quanto pare il responsa-bile principale di questa vicenda non è nè medico né biologo. Il mio pen-siero va alle persone affette da gravi malattie coinvolte in questa vicenda, sottoposte al caos mediatico e della dignità delle quali tutti pare si siano dimenticati.

Chi è l’ammalato per lei?

L’ammalato è anzitutto depositario della dignità di figlio di Dio: questo è stato sempre il cuore di tutta la mia lunga attività professionale

Intervista alla dott.ssa Antonietta Carrella, presidente dei Medici cattolici di Nola

IL SSN COMPIE 35 ANNI. LUCI ED OMBREdi Alfonso Lanzieri

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05gennaio 2014

ascoLTare La sofferenza

Due genitori e la malattia del proprio primogenito: “lottiamo per amore, ma da soli è difficile”.

OLTre LA rABBIAdi Mariangela Parisi

Atassia spinocerebellare di tipo SCA2. Questo il nome della ma-

lattia genetica ereditaria che nel 2003 è comparsa nella vita di Fabio. Una malattia non sconosciuta, dato che anche il papà di Fabio, Enzo, ne è af-fetto: aveva 38 anni quando ha sco-perto di essere affetto da quel mostro che ora sta divorando il suo primoge-nito; era già sposato con Tina da tre-dici anni e Fabio e Letizia, i loro due figli, erano già nati: «ignoravo di por-tare addosso una maledizione gene-tica che avrebbe cambiato la vita alla mia famiglia - racconta - Per questo io e mia moglie ci arrabbiamo quando ci chiedono “ma non lo sapevate?”.

Io posso dire solo che, quando è nato Fabio eravamo all’oscuro di tut-to: saperlo non credo avrebbe reso più semplice la scelta tra l’avere o meno figli; io e mia moglie però non abbiamo affatto potuto scegliere». Una risposta giusta dato che la storia non la si fa con i “se” e con i “ma”, e ciò che avrebbero potuto scegliere Tina e Enzo non lo sappiamo. Sap-piamo però quella che è stata la loro scelta davanti alle progressive e stra-zianti difficoltà di Fabio che, da ago-sto 2013 ad oggi, ha avuto un bru-sco peggioramento che lo ha portato dalla sedia a rotelle al letto. Un letto che è quello di casa solo dalla scor-sa metà di dicembre «dato che - ci racconta Tina - a novembre abbiamo dovuto ricoverare Fabio per una di-stonia». Un ricovero ottenuto per la forza e l’amore che Tina e suo marito mettono nell’accudire il figlio: «i me-dici non riuscivano a capire dalle mie descrizioni il tipo di crisi che colpiva-no Fabio e quando l’ho portato al Se-condo Policlinico le crisi non si sono verificate. Loro non potevano quindi effettuare una diagnosi ed io però, a casa, non mi davo pace. Così ho detto al medico che segue Fabio che avrei filmato mio figlio durante una delle crisi e gli avrei inviato il filmato. L’ho fatto». Entrare nella casa di Tina ed Enzo, dotata di tutto il neces-sario per superare eventuali barriere architettoniche, modificata a tempo di record per poter ospitare Fabio a piano terra, è avere la possibilità di

incontrare di persona non solo la di-gnità ma anche la bellezza della vita. Ad entrambe puoi dare un volto, anzi ne dai quattro, anzi cinque, perché in casa vive anche la mamma di Tina, Raffaela, di 82 anni: i volti di questa famiglia che, nonostante la sofferen-za ti accoglie con vita , con le risate, con la voglia di non arrendersi, «non possiamo arrenderci - continua Tina - non solo per Fabio ma anche per Leti-zia, la più piccola che vive il tutto con gli occhi di un’adolescente che non può certo crescere senza speranza. Quella speranza che spesso alcune espressioni poco felici, usate anche da “addetti ai lavori”, hanno leso. Ri-cordo ad esempio che una volta men-tre parlavo con una dottoressa e le facevo domande per capire lei mi ri-spose “Non si preoccupi, tanto con lui (Fabio) si chiude il ciclo”…come se il fatto che mio figlio non avrebbe dato vita a discendenti affetti da atassia potesse alleviare il mio dolore nel ve-derlo soffrire». Dolore e rabbia. Tanta rabbia soprattutto «perché dopo aver “accettato” la malattia di mio marito - continua Tina - è stato difficile farlo con mio figlio, per quanto sia possi-bile accettare una malattia. Un figlio voluto e avuto con sofferenza dato che solo dopo quattro anni di matri-monio Fabio è nato…».

Mentre parla con me Tina tiene la mano del figlio stretta nella sua, lo accarezza e gli parla.

Da quando Fabio si è aggravato lei - insegnante - non può più lavora-re, il marito invece è dovuto andare in pensione perché non più in grado di svolgere il suo lavoro di autista «non posso non stare a casa. Seb-bene mi abbiano detto che ciò che

non mi viene tolto ora dallo stipen-dio poi mi verrà tolto dalla pensione io non posso ritornare a lavoro. Qui a casa c’è bisogno di me. Anche se so che da sola non ce la posso fare: io e mio marito lottiamo per amore, ma da soli è difficile. Sebbene Fabio riceva le cure a casa e il personale della struttura ospedaliera che lo ha in cura - il S. Leonardo di Castella-mare di Stabia - sia sempre disponi-bile e gentile, mi rendo conto sempre più che serve qualcuno che mi aiuti a tempo pieno e che mi consenta al-meno di riposare un po’ di notte per essere in forma durante la giornata. Al momento riusciamo a pagare noi quest’aiuto».

Mamma Tina e papà Enzo non si fermano davanti a nulla. E quest’a-more, come quello dei tanti amici che durante il giorno invadono casa, fanno bene a Fabio i cui occhi si illu-minano vedendo i volti di chi gli vuol bene.

Nonostante la sofferenza il volto di Fabio trasmette felicità e, guardan-dolo si comprende il senso di queste parole di Tina: «io sono arrabbia-ta con Dio perché Fabio soffre, ma stargli vicino, accarezzarlo, guardare il suo volto sono momenti per con-tinuare a parlare con Lui: Fabio è il mio angelo».

in Dialogo mensile della Chiesa di NolaRedazione: via San Felice n.29 - 80035 Nola (Na)Autorizzazione del tribunale di Napoli n. 3393 del 7 marzo 1985Direttore responsabile: Marco IasevoliCondirettore: Luigi MucerinoIn redazione:Alfonso Lanzieri [333 20 42 148 [email protected]], Mariangela Parisi [333 38 57 085 [email protected]], Mariano Messi-nese, Antonio Averaimo, Vincenzo FormisanoStampa: Giannini Presservice via San Felice, 27 - 80035 Nola (Na)Chiuso in redazione il 24 gennaio 2014In copertina: acquerello di don Carlo Tarantini

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gennaio 2014 06

mensile della Chiesa di Nola

Il ritratto di un religioso e quello di un laico, legati alla Chiesa di Nola, che hanno servito gli ammalati

VITE SPESE PER LA SOFFERENzA

Camillo de Lellis di Mariano Messinese

Un’adolescenza tormentata e gau-dente. Come quella di tanti ragaz-

zi d’oggi. Con la differenza che non esistevano social network o console. Gli svaghi erano ben altri come i dadi e l’avventura militare. Camillo de Lel-lis, infatti, non è nato nel XX secolo, ma nel 1580, a Bucchianico in pro-vincia di Chieti e ha avuto una vita accarezzata da segni e sogni premo-nitori. Fin dalla nascita: quando sua madre, già in età avanzata, lo diede alla luce in una stalla, al ritorno dal-la messa. Qualche giorno dopo ebbe una visione: vide il figlio con un croce sul petto, seguito da una schiera di bambini. Pensò che suo figlio sareb-be diventato un condottiero di mala sorte. E infatti Camillo tentò anche la carriera militare, ma finì per fare il mercenario e la sua passione per il gioco d’azzardo lo portò all’indebi-tamento e a campare di stenti, ele-mosinando. Sull’orlo del baratro trovò però un braccio al quale aggrapparsi. Era quello di padre Angelo, il guardia-no del convento di S.Maria delle Gra-zie. Furono le sue parole “Dio è tutto, tutto il resto è niente” a provocare la crisi di coscienza che indurrà il futuro santo alla conversione. Iniziò il novi-ziato nel Convento dei Cappuccini di Trivento, ma presto fu costretto a re-carsi a Roma all’ospedale degli Incu-rabili per una vecchia piaga al piede che lo tormentava da tanto tempo. È qui che avvenne la seconda svolta nella sua vita. Il contatto con la sof-ferenza degli ammalati, indusse Ca-millo de Lellis a pensare che Dio non lo avesse voluto Cappuccino, ma al servizio degli ultimi. E così, il 15 ago-sto 1582, fondò la “Compagnia degli Uomini buoni e per bene che non per soldi ma volontariamente e per amor di Dio servissero gli ammalati”. Ma la strada non era spianata. Poteva con-tare solo sull’appoggio di 4 compa-gni e soprattutto le novità introdotte dalla sua Compagnia non piacevano a tutti. C’è chi storceva il naso e chi arrivò a distruggere il piccolo angolo in cui il futuro santo pregava davanti

al Crocifisso. Camillo era sfiduciato, ma gli apparve Gesù che, staccando le braccia dalla Croce, lo incitò a non arrendersi. Rinfrancato da queste pa-role, riprese la sua attività al servizio degli ultimi. In breve tempo si diffu-se la fama di questo pietoso servito-re degli ammalati. L’ordine prese a espandersi, reclutando altri volontari, e anche papa Sisto V decise di rice-verlo in udienza, durante la quale Ca-millo chiese e ottenne la concessione di cucire una croce sull’abito talare. Già, proprio quella croce che aveva sognato sua madre. Negli anni suc-cessivi si mise al servizio dei poveri, prostrati dalla carestia, e delle vittime della peste del 1590, proprio come una madre con il proprio figlio. Portò il suo amore ovunque ci sia sofferen-za. Anche a Nola, quando nell’agosto 1600 scoppiò un’epidemia di peste bubbonica. Il vescovo, mons. Fabrizio Gallo, lo elesse vicario della diocesi per tutto il tempo della sua perma-nenza in città.

C’è una teologia molto pratica e semplice che guida la sua azione: in

ogni ammalato c’è il volto di Cristo sofferente. È questo lo sprone che lo porta ad assistere gli infermi fino alla fine dei suoi giorni. Il 14 luglio 1614, all’età di 64 anni, Padre Camillo entrò in agonia. Alle 21:30 spirò.

Ma la Chiesa non lo dimenticò. Nel 1742, Papa Benedetto XIV lo canoniz-zò, mentre Papa Leone XIII lo dichia-rò patrono degli ospedali e degli am-malati. Ma l’elenco è lungo: Papa Pio XI lo indicò come modello per medici e infermieri, Papa Paolo VI lo elesse patrono d’Abruzzo. E dal 1975, Ca-millo de Lellis diventò anche Patrono della sanità militare.

Bernadette Soubirois ha scritto: “Io vorrei che si raccontassero anche i di-fetti dei Santi e quanto hanno fatto per correggersi. Questo sarebbe mol-to più utile dei loro miracoli e delle loro estasi”. Beh, questa è stata pro-prio la vita di San Camillo de Lellis, una storia di redenzione, caduta e conversione. La storia di quell’ ado-lescente rissoso che volle umiliarsi al cospetto degli ultimi. E che seppe re-stituire dignità ai moribondi.

Page 7: Ascoltare la Sofferenza

07gennaio 2014

Federico Pepedi Mariangela Parisi

Secondogenito di otto figli, Fede-rico Pepe, nasce a Sant’Anastasia (NA). il 15 novembre 1915. da Anto-nio, impiegato comunale. e Raffaella Liguori. A soli pochi mesi dalla nasci-ta, mostra difficoltà nella deambu-lazione. La diagnosi fatta dai medici non lascia dubbi: poliomelite, Federi-co dovrà per tutta la vita camminare aiutandosi con le stampelle. Ma con gli anni, la grande voglia di vivere di Federico impedisce alle difficoltà mo-torie di pregiudicarne l’esistenza.

Coltiva amicizie, studia, si innamo-ra, lavora come grossista della frut-ta: la sua vitalità è tale da meritarsi il soprannome di diavolo zoppo tanti erano gli scherzi che era capace di or-ganizzare per gli amici ma anche per la famiglia

Ma Federico si appassiona anche alla musica classica. Da autodidat-ta impara a suonare il pianoforte e, pur essendo anadoremico, compone una preghiera che poi musica; una preghiera alla Vergine, suo rifugio e sua stella nei momenti bui che così : «Quando il dolore bussa al tuo cuo-re,/quando la vita ti par finita,/ in-nalza allora la pia preghiera:/Vergine Santa, questa mia prece/Fa che al mio cuore,/ridia la pace./ Fammi can-tare gloria al Tuo cuore,/fammi ridire: Ave Maria».

La vita lo mette però nuovamente alla prova: è il 1950, partecipa ad un pellegrinaggio a Roma in occasione del suo primo anno giubilare. È feli-ce dell’esperienza e durante il viag-gio di ritorno parla con gli amici della maturazione della sua fede esponen-do loro i suoi progetti per il futuro. D’improvviso però, il portellone del pullman sul quale viaggia si apre e Federico cade rovinosamente sull’a-sfalto. Riporta numerose fratture che lo costringeranno in ospedale per molti anni. Interventi, riabilitazioni e ricoveri lo portano a perdere la sere-nità e la voglia di vivere e a chiudersi in un mutismo pieno di rabbia. Nes-suna proposta riesce a scuoterlo.

Un giorno però qualcuno gli pro-pone un pellegrinaggio a Lourdes: dopo molti dinieghi Federico cede e accetta di recarsi a Masabielle. Qui incontra un uomo gravemente ma-lato che improvvisamente afferra e stringe la mano di Federico. Sconvol-to da questa richiesta di aiuto, Fede-rico comincia a pregare no per sé ma

per quell’uomo…vede tutto con occhi nuovi: è l’inizio di una vita vissuta nel segno della responsabilità della fra-tellanza, è l’inizio della sua nuova vita come servo della speranza.

Raccoglie introno a sé un gruppo di amici e giovani che, rapiti dalla sua esperienza, lo affiancano nella costi-tuzione di un’associazione di volonta-riato per diffondere il culto di Nostra Signora di Lourdes e per assistere gli infermi, in particolare i poveri, gui-dandoli nella santificazione del dolo-re.

Federico si reca nelle parrocchie di tutti i paesi della Campania, della Basilicata e della Calabria, offrendo a tutti il dono che ha ricevuto e testi-moniando l’amore di Dio. Organizza giornate di raccolta per sostenere le spese di pellegrinaggio e cura perso-nalmente l’organizzazione dei gruppi territoriali: è il 1973 quando mons. Guerino Grimaldi, vescovo di Nola, benedice l’U.A.L.S.I. erigendola a Pia Unione con proprio decreto. Ma è solo l’inizio. Nel 1978, insieme ad al-tre associazioni, fonda il Segretariato

Pellegrinaggi Italiani e nel 1981 pren-de in affitto una villa dove istituisce una casa per accogliere quanti non sono amati o senza casa.

Ma l’obiettivo di Federico era co-struire un vero e proprio villaggio, il Villaggio della Fratellanza, dove ogni ammalato avrebbe potuto vivere come in famiglia ma soprattutto vi-vere in tutta l’autonomia possibile: laboratori, cappella e biblioteca sono previste nel progetto per realizzare attività di formazione e intratteni-mento. Acquista così un suolo di 14 mila mq sulle pendici del Monte Som-ma, nel Parco Nazionale del Vesuvio, dove il 19 giugno 1982 viene posata la prima pietra del Villaggio, oggi an-cora in costruzione.

Federico continua la sua attività di presidente dell’ U. A. L. S. I. per la quale esprime volontà testamentaria di trasformarla in fondazione. Deside-rio che sarà esaudito da mons. Be-niamino Depalma nell’aprile del 2000 a solo un anno dalla morte di Pepe avvenuta, dopo un acuirsi della ma-lattia, il 20 febbraio 1999.

ascoLTare La sofferenza

Page 8: Ascoltare la Sofferenza

gennaio 2014 08

mensile della Chiesa di Nola

Page 9: Ascoltare la Sofferenza

09gennaio 2014

Tra fede, arte e veritàLina Sastri protagonista del secondo appuntamento del ciclo “Dialoghi in Cattedrale”

Colui che segueCisterna: il 12 gennaio, Nicola De Sena ha ricevuto il ministero dell’accolitato

La luce della gioventùI giovani del II decanato a Tufino per una domenica con il vescovo Depalma

Una casa per la notteA San Giuseppe Vesuviano nasce il dormitorio della Caritas diocesana

Comunità a bordo campoEducare con lo sport: il progetto della Pastorale giovanile diocesana

La ricchezza del silenzio Il ricordo di Suor Carmelina Rodolico

In Diocesi

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gennaio 2014 10

mensile della Chiesa di Nola

Lina Sastri protagonista del secondo appuntamento del ciclo “Dialoghi in Cattedrale”

TRA FEDE, ARTE E VERITàdi Mariano Messinese

Il volto è sempre lo stesso: spigoloso e timbrato da quell’aria drammatica

che l’ha resa unica. Sono passati tan-ti anni dal suo debutto sulla scena, ma Lina Sastri non è cambiata affat-to. Attrice, cantante e un curriculum artistico lungo quanto la sua carrie-ra abbellita da tanti premi e ricono-scimenti. Ma all’appuntamento con “Dialoghi in Cattedrale”, organizzato dalla Diocesi di Nola nel duomo della città il 10 gennaio, Lina Sastri svela una parte di sé meno nota, forse par-chè occultata dalle tante maschere che ha indossato sul palcoscenico.

L’artista napoletana parla alla pla-tea desiderosa di ascoltarla, del suo rapporto con la fede. E non solo. I binari del suo racconto si incrociano con frammenti autobiografici, come l’affetto per sua madre Ninetta, da poco scomparsa, e i ricordi di bam-bina, quando andava a scuola dalle suore, chiamate con tono bonario “cape di pezza”. Quella è stata una tappa cruciale per la sua formazio-ne: è lì che ha scoperto la passione per il canto, per la recitazione, oltre alla ritualità della fede. Nel passaggio all’adolescenza e all’età adulta, però, qualcosa è cambiato.

Lina Sastri continua a definirsi cre-dente, ma non è più praticante: “La fede è un dono di Dio, ma non si

può credere per forza o per costrizio-ne. Entro spesso in Chiesa, ma non lo faccio a scadenze fisse. Anche se ho chiuso l’anno in chiesa e mi ritrovo all’inizio del nuovo ancora in un tem-pio consacrato”.

Quando il discorso si sposta sul rapporto tra arte e fede, l’attrice chiarisce subito il suo punto di vi-sta:” Hanno una cosa in comune. Ed è la verità, perchè se l’arte non avesse nemmeno un briciolo di verità non potrebbe più chiamarsi così”. Ma quando si recita a volte gli orpelli, l’enfasi, gli stereotipi e gli altri espe-dienti narrativi rischiano di minare la veridicità della rappresentazione. Ma c’è un segreto per aggirare l’ostacolo. E Lina Sastri lo rivela, mentre, avvolta dalla mantella rossa, ondeggia sulla sedia, mossa da un fremito incontrol-labile. Come una moderna menade si alza in piedi ed esclama:” Io recito con il corpo, perchè è più spontaneo. Il corpo, la gestualità, la mimica di-cono molto di più di un ragionamen-to o di un concetto. Sono più veri”. Le sue parole e la sua voce graffiata inchiodano la platea ai banchi della cattedrale, anche quando la tecnolo-gia gioca a farle un piccolo dispetto scaricando le pile del suo microfono.

La chiosa finale al suo intervento è sull’amore. E sembra quasi un inno,

perchè quasi in un’estasi mistica Lina Sastri grida: “Non potrei vivere senza amore. L’amore è qualcosa che si re-gala senza ricevere niente in cambio. Ne esistono di tutti i tipi, c’è l’amore di un uomo per una donna e vicever-sa, quello per Dio, o per gli altri esseri umani. Ma nessuno ama come le don-ne e niente è paragonabile all’amore di una mamma che porta in grembo per nove mesi, una nuova vita e la dà alla luce. Anche per questo ho voluto dedicare a mia madre Ninetta questo libro che ho scritto. Lei si era ammalata di Alzheimer, una malattia che porta alla perdita della memoria. Eppure nonostante la sofferenza, mia madre non ha mai perso la voglia di cantare”. Ma l’ultimo pensiero è rivol-to agli uomini: ”Amano anche loro, ma lo fanno in maniera più superfi-ciale”. E sorridendo aggiunge:” Dia-mogli un po’ di tempo, comunque”.

Dal pathos, alla gioia, passando per la commozione, il sorriso e quel brivido che sale piano piano lungo la schiena: ascoltare il monologo dell’attrice napoletana significa esse-re travolti da una tempesta di stati d’animo spesso contrastanti tra loro. Un’altalena di sentimenti che nessu-no riesce a trasmettere.

Ad eccezione dei grandi artisti. E Lina Sastri lo è. Senza dubbio.

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11gennaio 2014

in DiocesiCisterna: il 12 gennaio, Nicola De Sena ha ricevuto il ministero dell’accolitato

COLUI CHE SEGUEdi Nicola De Sena

D’acqua e di Spirito. È così che rina-sciamo…da questi due elementi:

l’acqua del nostro primo e definitivo lavacro battesimale e l’unzione dello Spirito Santo, entrambi protagonisti nella domenica del Battesimo di Gesù che, giovane galileo, si mette in fila come tutti i poveri peccatori, per rice-vere un battesimo di penitenza e con-versione: si immerge nelle acque del Giordano, si “corrompe” con gli ultimi della terra. Giovanni, il Battezzatore, sconvolto, non comprende, cerca di fermarlo: ma è bene che si compia “ogni giustizia”. Dopo l’immersione purificatrice di Colui che è grazia san-tificante, lo Spirito scende su di Lui, lo unge di potenza divina e si compene-tra con la sua persona. Il figlio di Ma-ria e di Giuseppe, uomo nello Spirito, inaugura il mandato che è costitutivo del suo stesso nome: Dio salva! Da carpentiere di una sconosciuta Naza-reth, diventa il profeta della Galilea, anzi, da quell’adombramento dello Spirito, ora è lui il Messia. In questa cornice celebrativa, che termina il tempo di Natale, accade per me un ulteriore passo decisivo del cammino, si realizza ancor di più la mia vocazio-ne e percepisco in me la spinta a im-pegnarmi sempre più in scelte defini-tive. Abbracciato dal calore della mie comunità parrocchiali di Castello di Cisterna e di Mariglianella, sono stato

istituito accolito dal nostro vescovo Beniamino. Nel giorno della scelta definitiva della missione profetica di Gesù, anch’io ho confermato l’impe-gno di scelte definitive per il Regno, che Cristo ha annunciato e compiuto. “Essere prete o uomo di Dio?” Questa è la domanda che P.Beniamino mi ha rivolto per ben due volte, ed io ho tentennato nella risposta…poi timi-damente ho risposto: “Vorrei essere entrambi!”. Ed il vescovo mi ha esor-tato ad essere innanzitutto uomo di Dio, perché solo essendo pienamente coinvolto nella dinamica redentiva del Signore, posso essere ministro suo, nella Chiesa di Nola…”prete DOC!”, come ha esclamato P.Beniamino col consenso unanime dell’assemblea li-turgica: che attese grandi sulla mia insignificanza! Eppure il ministero ricevuto è già un compito impegna-tivo: non tanto l’essere chierichetto qualificato, ma essere seguace del Cristo (accolito = colui che segue), mettermi dietro di Lui, imparare i suoi gesti, le sue parole, carpire la profondità dei suoi sguardi d’amore ed essere suo discepolo! Per questo, un anno fa mi è stata consegnata la Parola, perché io la potessi custodi-re nel cuore; in quest’occasione mi è consegnata l’Eucaristia, perché io conformi tutto il mio esistere nell’a-more oblativo di Gesù, che si è fatto

pane e vino perché la grazia della sua presenza non ci lasci mai soli e scon-fortati. Al termine di tutta la celebra-zione, dopo gli abbracci e gli auguri, nell’uscire dalla mia splendida chiesa parrocchiale di Cisterna, vedo il bat-tistero, dove fui un giorno presenta-to anch’io, e la splendida tela del De Mita raffigurante l’episodio del Bat-tesimo di Gesù e penso ancora alle parole del vescovo nell’omelia: “Che fine ha fatto il nostro battesimo?” In che modo mi impegno a far fruttifi-care i “talenti” che il buon Dio mi ha affidato? E le strade sono due, come quelle aperte davanti a Gesù dopo il Battesimo: una vita nascosta, vissuta dignitosamente, ma all’ombra della casa paterna in attesa che il mon-do cambi, oppure la strada percorsa verso il Regno: difficile, angusta, ma bella, ricca di avventura e di passio-ne per la vita, soprattutto ricca della Presenza di un Dio che mi compren-de, perché si è confuso in mezzo a peccatori come me e pretende da me l’abnegazione, il servizio umile alla Chiesa, senza surrogati frutto di va-nità, di potere economico e politico. Mi è chiesto di conformarmi al Cristo: perché chiamato un giorno ad essere suo ministro, ma soprattutto perché viva oggi e sempre quel giorno in cui sono stato immerso in quell’acqua e unto di quello Spirito.

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gennaio 2014 12

mensile della Chiesa di Nola

I giovani del II decanato a Tufino per una domenica con il vescovo Depalma

LA LUCE DELLA GIOVENTùdi Maria Martina Cucchi

Non tutte le domeniche hanno il sa-pore del sugo preparato in casa,

ce ne sono alcune che hanno il sa-pore dell’amicizia, della gioia e della felicità, come quella del 22 dicembre che ha visto uniti i giovani del II de-canato della diocesi di Nola.

Alle ore 15 del pomeriggio i ragaz-zi, guidati dai loro parroci, si sono radunati nella palestra di Tufino per vivere la giornata del “ Accendiamo una luce” e lì, guidati da musiche e coreografie hanno imparato un nuo-vo modo di vivere la propria fede.

La fede, infatti, non si esprime solo con un simbolo, la si vive nella quo-tidianità e la si scopre nei momenti di gioia, fatti di balli, canti e battiti di mani che ci permettono di riscoprirci cristiani.E così, circondato da sorrisi ed allegria, il nostro vescovo ha po-tuto assaporare tutta la genuinità e volontà dei nostri giovani, per i quali

ha avuto parole di grande speranza e di grande responsabilità, affidando alla loro vita la custodia del mondo e la giustizia, perché se vogliamo che il mondo cambi, se vogliamo coeren-za, tutto deve partire da noi stessi. Il nostro Pastore non si è limitato a parlare ai ragazzi presenti, ma ha an-che voluto far loro dono di un brac-ciale fluorescente, simbolo della luce che ciascun ragazzo deve sempre far riflettere, così che tutti possano rico-noscere in loro i figli di Dio.

La giornata, organizzata dalla Con-sulta di Pastorale Giovanile del II decanato, è poi proseguita con l’ani-mazione in ciascun paese a cura dei ragazzi che, nelle loro piazze, hanno intrattenuto giovani e meno giovani a suon di canzoni e passi da imparare e insegnare ad altri.

La preghiera al Signore è fatta, poi, dalla centralità della comunione, e

così la domenica si è conclusa con la celebrazione della Santa Messa gra-zie alla quale ciascuno ha potuto rie-laborare le emozioni della giornata, e ha potuto far dono della propria gioia a chi gli stava attorno.

Siamo sempre tutti molto scetti-ci sulle generazioni emergenti, molti credono che siano perse , altre cre-dono che ormai non ci sia nulla da potergli offrire, ma quella domenica ha testimoniato quanto ancora questi giovani possano fare per le loro co-munità, quanta speranza siano an-cora in grado di trasmettere, o per meglio dire condividere.

Per chiunque volesse rivivere quel-la giornata, è stato creato un account di facebook - Consulta pastorale II decanato - dove sono state raccolte le foto della giornata e dove verranno aggiunte tutte le notizie per i prossi-mi appuntamenti.

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13gennaio 2014

in DiocesiA San Giuseppe Vesuviano nasce il dormitorio della Caritas diocesana

UNA CASA Per LA NOTTedi Giulia Nappi

Con l’avvio dell’ultimo servizio se-gno della Caritas Diocesana di Nola, previsto per il prossimo mese di feb-braio, si estendono alla notte le atti-vità caritative del centro don Tonino Bello di San Giuseppe Vesuviano. Un ricovero notturno per i poveri sarà infatti ospitato nella struttura zonale Caritas, proprietà della Congregazio-ne delle Povere Figlie della Visitazione e già sede di numerose opere segno.

Il progetto, nato dall’impegno del-lo staff nolano e dalla consulenza di Antonino Ruggiero della Caritas di Pescia, prevede la partecipazione del comune di San Giuseppe Vesuviano, che con la sigla di una convenzio-ne della durata di un anno si è fatto promotore di questa opportunità per quindici ospiti indigenti della città.

l dormitorio di San Giuseppe Vesu-viano costituirà il primo passo di un ampio percorso, teso ad impostare

nuove forme di integrazione e convi-vialità tra i poveri, come spiega Don Arcangelo Iovino, direttore di Caritas Diocesana Nola: “A parte la positiva esperienza del dormitorio di Nola, tenutasi lo scorso inverno e ripro-grammata in accordo al piano di zona dell’area nolana, mancava un servizio indispensabile come quello del rico-vero notturno, per il quale le richie-ste sono sempre superiori alle nostre possibilità.

La nostra intenzione è di non fer-marci al dormitorio. Stiamo lavorando per mettere a punto un vero e proprio sistema di accoglienza, prevedendo tra gli ospiti occasioni di incontro e di dialogo ed anche momenti di ani-mazione.

Ci auguriamo che all’interno di questa “cattedra dei poveri” possa esser coltivata una dimensione cultu-rale: vogliamo che le persone che la-

sciano il dormitorio se ne vadano con una possibilità in più”.

Secondo questa visione si inserisce la scelta di ospitare nel ricovero del don Tonino Bello anche una famiglia: “ci sarà un’area appositamente dedi-cata all’alloggio di un nucleo familiare e speriamo di poter accoglierne altre ancora” continua don Arcangelo.

Da quando è stato annunciato qualche settimana fa, il dormitorio è subito diventato un progetto da condividere e sostenere e la Caritas diocesana ha infatti promosso una campagna di raccolta fondi finalizzata alla costituzione del dormitorio stesso e all’acquisto di letti, materassi e di tutto quello che serve a un ricovero notturno e può, allo stesso tempo, dare un’idea di casa a chi non sa più cosa significhi abitare un luogo.

Basta un contributo di 100 euro per dotare il dormitorio di elementi indispensabili come lenzuola, coperte e cuscini o un piccolo armadio per cu-stodire i propri oggetti, 50 euro per una rete o una sedia, 60 per un ma-terasso ignifugo.

Con 200 euro, invece, si renderà possibile l’acquisto di un letto a ca-stello o di un divano, 500 per arre-dare la sala destinata ad accogliere i momenti di vita in comune: cifre indicative per realizzare quanto siano utili i gesti di solidarietà in favore del dormitorio.

Si può donare tramite bonifico bancario - IBAN IT36 A010 1040 0220 0002 7000 353 - o sul con-to corrente postale 20611802 intestato a Caritas Diocesana Nola.

“In questi anni l’esperienza di Emergenza Freddo ci ha dimostrato quanto sia urgente la necessità di un ricovero notturno per i poveri della nostra diocesi” – dichiara Raffaele Cerciello, volontario e vicedirettore della Caritas Diocesana Nola - “sia-mo grati a tutti coloro che ci permet-teranno di portare a termine questa significativa opera. Un ringraziamen-to è dovuto anche al comune di San Giuseppe Vesuviano, che ha appog-giato la missione di Caritas con la giusta sensibilità”.

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gennaio 2014 14

mensile della Chiesa di Nola

Educare con lo sport: il progetto della Pastorale giovanile diocesana

COMUNITà A BORDO CAMPOdi Giuseppe Iorio

Lo scorso 29 dicembre, in Piazza Duomo a Nola, si è svolto l’evento

“Villaggio dello sport” promosso dall’ Ufficio per la Pastorale giovanile della diocesi di Nola, dal Centro Sportivo Italiano – Nola, dall’associazione “Il Portico di Paolino”e dall’associazione sportiva “MerlianoTansillo “ Rugby Nola” in collaborazione con il Co-mune di Nola.La preparazione per l’evento nei giorni precedenti, la rete associativa che si è creata in pochi giorni, l’entusiasmo che ha suscitato ci hanno fatto gustare la bellezza di un cammino educativo fondato sul-la comunione fra le generazioni, che proseguirà. È stato un primo passo che ci ha dato fiducia per il futuro non solo per la partecipazione ma per il clima che si sta creando intorno a queste idee.

“La speranza – ha dichiarato don Mariano Amato, responsabile per la Pastorale giovanile della diocesi di Nola – è che questa manifestazione di domenica sia solo il primo passo per iniziare, su tutto il territorio diocesa-no, un percorso educativo attraverso il gioco e lo sport. Il nostro desiderio

è coinvolgere nel progetto non solo le realtà oratoriali e associative che, proprio attraverso le attività sportive, incontrano i più giovani, ma anche e soprattutto i genitori dei ragazzi ai quali sarà offerta la possibilità di di-venire, da accompagnatori, educato-ri. La Chiesa di Nola ha sempre avuto a cuore l’educazione e ha più volte ri-chiamato, attraverso la voce del pro-prio vescovo, mons. Beniamino Depalma, l’attenzione sulla ne-cessità di curare il ruolo educativo degli adulti e recuperare la loro presenza nella vita dei giovanissimi, non solo in qualità di maestri ma di testi-moni di vita”.

Per questo, a bre-ve, partirà un corso per formatore Sportivo dal titolo “COMUNITà A BORDO CAMPO”, un percorso a tap-pe per fornire strumenti, competenze e conoscenze utili per promuovere dinamiche positive di relazione, la collaborazione, la sana competizione,

l’importanza della squadra, del grup-po, della comunità. Una comunità che occupa un ruolo importante intorno al campo da gioco, una comunità che si responsabilizza nella formazione del-la nuova generazione; una respon-sabilità che è data principalmente all’allenatore che diventa il life-coach, non un semplice addestratore di mu-scoli ma un adulto che abbia attitu-

dini all’ascolto attivo, che sappia motivare, supportare, diventare un punto di riferimen-to, un esempio per il passaggio di valori, che sappia utilizzare una comunicazione che rafforzi l’autosti-ma. L’allenatore ha la necessità di essere aiutato, supportato da

tutta la comunità, che riconosceremo nella identità del genitore, dell’arbi-tro, del tifoso, del catechista ...

Karl Kraus, uno scrittore satirico austriaco dell’inizio del secolo scor-so, scrisse: “Lo sport è un figlio del progresso e contribuisce già per

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il po-tere di suscitare emozioni.

Ha il potere di ricongiungere le persone come poche altre

cose. Ha il potere di risveglia-re la speranza , dove prima

c’era solo disperazione”.Nelson Mandela

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15gennaio 2014

in Diocesiconto suo all’istupidimento della fa-miglia.” Le sue parole non ci scorag-giano perché siamo tra quanti sono convinti che nello sport, come nella vita, conta il “come” si fanno le cose. Ci incoraggia lo spirito, la passione genuina, la competenza di quanti vi-vono per offrire alle persone, nello sport ed attraverso lo sport, un per-corso che sia gioiosa scoperta di sè e degli altri, quotidiano miglioramento dei propri talenti, che aiuti a crescere come sportivi crescendo anche come cittadini.

Gabriella Dorio, campionessa di mezzofondo, oro nei 1.500 alle Olim-piadi di Los Angeles, ha detto: “L’im-pegno in un’attività sportiva insegna a socializzare. Il contatto e lo scam-bio di opinioni aprono una persona al dialogo ed alla tolleranza, arricchen-dola di senso civile e di esperienze preziose.” Nel contesto della relazio-ne tra istituzioni, scuola, oratori, fa-miglie, città e territorio, quale signifi-cato hanno attività fisica e sportiva? Possono offrire occasioni di incontro e di confronto con se stessi e con gli altri? Nel percorso educativo e so-ciale, la pratica dell’attività motoria e sportiva ha un proprio contributo specifico significativo?

«L’Unione - sancisce il Trattato di Lisbona firmato nel dicembre 2007 dai primi ministri degli Stati membri dell’Unione Europea conferendo allo sport una precisa funzione educativa e sociale - contribuisce alla promo-zione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volon-tariato e della sua funzione sociale e educativa». Allo sport, in effetti, a quello svolto con criterio, con l’aiuto di tecnici/educatori preparati, a livello scolastico, a livello di gruppi, di as-sociazioni ricreative e sportive, di fe-derazioni ecc. – viene universalmente assegnata un’influenza insostituibile sulla crescita dei più giovani, sulla costruzione della personalità, sulla formazione di cittadini attivi.

Dobbiamo però riconoscere che lo sport è percorso educativo solo quando esiste alle sue spalle un ben preciso progetto: concorrono a que-sto obiettivo l’efficacia dell’esempio di persone significative che credono ai valori e li incarnano e l’immissione del soggetto in esperienze sociali aperte e felici nelle quali fare l’esperienza di questi valori. In questo modo chi vive un’esperienza sportiva significativa (crescita fisica ed integrale, incontro,

confronto, rispetto, stima…) cresce, consapevolmente, come cittadino del mondo.

“Lo sport è cultura, speriamo che continui ad esserlo” affermava Livio Berruti, oro olimpico nei 200 a Roma nel ’60. Ma dobbiamo ammettere che è cultura trasmessa in un modo ori-ginale, semplice, con la vita, con l’e-sperienza quotidiana, con il supporto di tecnici consapevoli di essere anche educatori. Perché lo sport sia sempre un’esperienza di questo tipo e non una fabbrica di talenti assoluti con un tragico magazzino di scarti, occorre riscoprire il valore sociale di uno sport inteso, prima di tutto, come gioco. Il gioco, come l’arte, ha una funzione morale: mantiene l’equilibrio fra la vitalità impulsiva e l’azione regolata, espressa dal lavoro. È importante re-cuperare le motivazioni intrinseche allo sport (il divertimento, il gioco, il confronto, la sfida con se stessi e con gli altri) rispetto a quelle estrinseche (denaro, prestigio, successo) perché lo sport è un’attività umana eminen-

temente relazionale. Qualche migliaio di anni fa, Plato-

ne affermava: “Puoi scoprire di più riguardo a una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazio-ne.” Ed il drammaturgo George Ber-nard Shaw confermava: “Le persone, invecchiando, non smettono di gio-care. Invecchiano quando smettono di giocare.” In questo orizzonte lo sport può essere linguaggio effica-ce per favorire un dialogo e percorsi comuni fra istituzioni preposte alla educazione per creare una comunità educante. La cultura sportiva ha oggi bisogno di testimoni, deve incarnarsi nella vita, deve essere profondamen-te legata al vissuto. Cultura e vita possono rendere il gioco e lo sport luogo di sperimentazione della felici-tà. Come affermava efficacemente la sociologa e teologa Dorothee Sölle: “Come spiegherei a un bambino che cosa è la felicità? Non glielo spieghe-rei: gli darei un pallone per farlo gio-care.”

ASSOCIAzIONE CENTRO STUDENTESCO “MERLIANO TANSILLO ” SPORTMEET AzIONE CATTOLICA “PAOLINO IORIO”

CENTRO SPORTIVO ITALIANO zONALE NOLA “IL PORTICO DI PAOLINO ” PASTORALE GIOVANILE DIOCESI NOLA

Promuovono

“ COMUNITA’ A BORDO CAMPO”

Formazione pratica Un percorso di 10 incontri a tappe quindicinali, per fornire strumenti competenze e conoscenze utili per promuovere dinamiche positive di relazione, l’importanza della squa-dra e della comunità la collaborazione, la sana competizione ,sana ali-mentazione, i benefici dello sportUn progetto finalizzato alla conoscenza di se stessi per acquisire consapevolezza Padronanza personale per essere coach /guida per se stessi e per la comunità

Prima tappa introduttiva VENERDI 31 GENNAIO DALLE 18,15 ALLE 20,15

PreSSO IL SALONe DeLLA PArrOCChIA STeLLA DI NOLA

INTERVERRANNO: DON MArIANO AMATO

parroco e responsabile per la Pastorale Giovanile della Diocesi di Nola PePPe IOrIO

formatore referente CSI zonale Nola SABrINA DI BArI

Ludotecaria Counselor, formatrice esperta in ludica e percorsi sull’autostima

Per informazioni e prenotazioni contattare :Don Mariano Amato presso la parrocchia Maria SS. della Stella –NolaPeppe Iorio infotel :3319962199 via mail [email protected]

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mensile della Chiesa di Nola

Il ricordo di Suor Carmelina Rodolico

LA RICCHEzzA DEL SILENzIO di Giulia Nappi

Tutte le mattine dal convento di Santa Chiara con le sue piccole

gambe attraversava la grande piazza di Nola, piena di voci e di sguardi, e si recava in Caritas, negli uffici di cui si prendeva cura con la stessa amo-revolezza che era solita dedicare alle persone. Lì cominciava la sua giorna-ta, per i poveri.

Suor Carmelina Rodolico, scompar-sa all’età di 80 anni lo scorso 3 genna-io, era un pezzo, cuore e mano, della Caritas Diocesana di Nola. Referente del Centro d’Ascolto, aveva fatto del suo talento la sua missione: ascolta-re. Nativa di Tropea, dal 2001 aveva raggiunto le consorelle della Carità di Santa Giovanna Antida a Nola pro-prio per essere d’aiuto alla Caritas diocesana, mettendo a frutto la sua esperienza accanto ai meno fortunati maturata negli anni trascorsi prima a Polistena, nella sua Calabria, in una casa di accoglienza per giovani don-ne, poi a Cava de’ Tirreni e Napoli.

Dolce, tranquilla, premurosa come una mamma, scrupolosa nelle sue faccende ma sempre con un sorriso ad illuminarle il volto; le parole di chi le stava accanto si ritrovano nel rac-contarla come una donna a cui era facile volere bene. Lei, invece, non aveva molte parole da dire. Nell’u-miltà e nella generosità che le erano proprie, era solita ascoltare piuttosto che dire, tenere per sé pensieri e pre-occupazioni e fare posto all’altro. No-nostante ciò riusciva a darsi, riusciva a trasmettere la ricchezza che porta-va dentro. Suor Carmelina comunica-va con i gesti la grandezza della fede, l’inviolabile serenità, il benessere che può dare anche una vita semplice, modesta.

Tra tutti il dono forse più bello che aveva era la capacità di regalare una carezza con uno dei suoi timidi sorri-si, senza farsi notare. “Suor Carmeli-na era una persona di poche parole, molto riservata, tuttavia era una pre-

senza significativa per la nostra Cari-tas. Si è sempre dedicata con molta attenzione all’opera di ascolto alle persone che esercitava per il Centro d’Ascolto e ha spesso rivolto queste sue premure anche a noi membri del-la Caritas, ascoltandoci e prendendo-si molta cura di noi. Ha offerto la sua vita ai poveri, da sempre”, ricorda don Arcangelo Iovino, direttore della Caritas Diocesana di Nola.

Da qualche tempo Suor Carmeli-na soffriva i disturbi tipici della sua età, non aveva grossi problemi fisici, tant’è che non cedeva alle sue man-sioni quotidiane, sorprendendo tutti con la sua improvvisa morte. Se ne è andata un pomeriggio d’inverno, nella confusione delle festività natali-zie; colta da un arresto cardiaco poco dopo pranzo, è stata soccorsa dalle sorelle di Santa Chiara e, accompa-gnata dalle loro preghiere, si è ricon-giunta al suo Sposo. Anche questa volta senza farsi notare.

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17gennaio 2014

Una comunità in camminoSeconda edizione del libro di Don Carmine Coppola

Un fiume di grazia25° di parrocato di Don Franco Gallo a Torre Annunziata

In Parrocchia

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mensile della Chiesa di Nola

Seconda edizione del libro di Don Carmine Coppola

UNA COMUNITà IN CAMMINOdi Marco Iasevoli

É una vera impresa tradurre l’espe-rienza, la vita vissuta “giorno per

giorno”, in parole e concetti che pos-sano essere da tutti compresi e dige-riti. Con la seconda edizione del suo “Una comunitá in cammino” (edizioni Ler), don Carmine Coppola, parroco da quasi 50 anni del quartiere Pacia-no di Pomigliano d’Arco, aggiunge al testo (composto dalle sue famose “lettere alla comunitá”) alcuni capitoli relativi alla catechesi, alla vita cristia-na ordinaria e all’accompagnamento di esistenze “periferiche” come quelle dei malati. Con la sua scrittura scor-revole ed elegante, don Carmine non si lascia mai andare ad autocompiaci-menti. La vita é quella che gli é pas-sata sotto gli occhi, non quella letta sui libri. I vizi e le virtú dei singoli e della comunitá sono elencati con una delicata crudezza che odora di terra bagnata dopo la pioggia. Certo, leg-gendo ci si puó “sporcare le scarpe della festa”, ma il rischio é ampia-mente compensato dalla soddisfazio-ne di esserti immerso in cose concre-te, vere. “Ha ragione don Carmine”, ti viene da dire leggendo. Quando, con la sua nettezza, raccomanda di esse-re sobri sia nella gioia sia nella soffe-renza, quando dice che la palla al pie-de della comunitá é la folta schiera di chi ha rinunciato a formarsi, quando si lancia in un commosso elogio dei “santi inconsapevoli”, ovvero i laici impegnati. Chi conosce don Carmine sa che le sue lettere sono lo specchio del suo atteggiamento ordinario nella vita. Molti si rifugiano nella scrittura per esprimere parti di sé sconosciute. Non cosí lui. Don Carmine é e resta una persona trasparente, qualsiasi sia il medium con cui si rapporta alle persone. Faccia a faccia, lettere, tele-fonate di buon mattino... non ci gira mai intorno, arriva presto al punto, argomenta in modo solido, asciutto e razionale le sue motivazioni. Una lezione per tanti, sacerdoti e laici, che ci mettono mezzora per dire una cosa semplice, oppure ritengono piú accattivante mettere la forma davan-ti alla sostanza. Di certo chi leggerá noterá una apparente contraddizio-ne. Tanta concretezza é riequilibrata da un desiderio finale sorprendente.

Don Carmine vuole vivere gli ultimi suoi anni di sacerdozio in silenzio e meditazione. Un vulcano che deside-ra accovacciarsi sotto una piantina. Noi, suoi parrocchiani, sappiamo che non é un desiderio di maniera. Gli

L’autore

Qual è la finalità dì questo libro? Non è certo l’esibizionismo: me ne guarderei bene perché è una bieca e miope intenzione Il pri-mo motivo sta in un sereno colloquio con gli operatori pastorali delle parrocchie nostrane. Ho speranza che gli operatori pastorali possano trovare pascolo per una riflessione sul modo di condurre l’attività pastorale, possano intravedere spiragli di soluzione per tante situazioni intricate della parrocchia, possano tentare le stes-se sperimentazioni da noi fatte. Un altro motivo risiede in una ri-chiesta esplicita o implicita. In più dì un passaggio dei libro (pag. 57, 70, 82) si fa appello ad altri, come per esempio ai parroci, af-finché ci porgano dei consigli su problemi difficili insolubili inediti della parrocchia. Un terzo motivo scaturisce dal desiderio di un equilibrato ottimismo. Alcuni operatori pastorali sono purtroppo dei rassegnati poiché sono convinti che in tanti settori dell’apo-stolato, dopo anni di esperienza, non c’è più nulla da fare. Per con-verso, pur essendo consapevole che la realtà delle parrocchie non raramente è tragica e trista, giro gli occhi alla redenzione operata da Gesù, che non è affatto fallita ma lungo gli anni sì rivela frut-tuosa, vincitrice, dai mille riflessi positivi

chiediamo solo il permesso, quando sará quel tempo, di poterlo disturba-re pochi minuti. Il tempo per ricor-dargli che noi, a quel modo di essere e di fare, abbiamo imparato a volere bene.

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19gennaio 2014

25° di parrocato di Don Franco Gallo a Torre Annunziata

UN FIUME DI GRAzIAdi Alfonso Lanzieri

Il 6 e l’8 gennaio scorsi, una gran-de gioia ha attraversato la comunità parrocchiale di Sant’Alfonso Maria dei Liguori di Torre Annunziata. Venticin-que anni prima, infatti, era l’8 gen-naio del 1989, l’attuale parroco Don Franco Gallo faceva il suo ingresso in parrocchia, iniziando così il suo mi-nistero pastorale, tuttora in corso, nella periferia della città oplontina. Una festa divisa in due giorni: il 6 gennaio, festa dell’Epifania, la cele-brazione eucaristica della comunità convocata attorno al vescovo di Nola, mons. Beniamino Depalma; e poi l’8, il giorno dell’anniversario, Don Fran-co e la famiglia parrocchiale, ancora insieme per la liturgia eucaristica. I tanti fedeli accorsi per l’occasione hanno potuto stringersi al parroco e ricordare con gratitudine, dinanzi a Dio, tutti i doni – piccoli e grandi – di questi ultimi venticinque anni: la fatica e la bellezza di annunciare il Vangelo in un territorio difficile, la felicità nel veder germogliare frutti di vita nuova nel cuore delle persone, i fiumi di grazia di un quarto di secolo di celebrazioni eucaristiche, confes-sioni, momenti di preghiera, direzioni spirituali; fiumi reali ma per lo più in-visibili, dei quali un giorno – quando Dio ci presterà finalmente i suoi oc-chi – si saprà pesare per intero la ric-chezza, l’efficacia. Realtà invisibili che però già qui ed ora l’occhio della fede sa scorgere e intuire, come lo stesso Don Franco ha suggerito rivolgendosi alla comunità in apertura del suo di-scorso commemorativo la sera del 6 gennaio: «Fratelli e sorelle, è questo un giorno di rendimento di grazie a Dio per i doni ricevuti e per il bene operato. Faremo evidentemente tut-to questo come gente di fede che giudica e valuta ogni cosa dal pun-to di vista di Dio, secondo lo Spirito. Venticinque anni rappresentano una considerevole quantità di tempo della propria vita – ha proseguito il parro-co, alla presenza anche del sindaco di Torre Annunziata Avv. Giosuè Starita - vissuto in un determinato modo, in un determinato luogo e con determi-nate persone: amici, fratelli e sorelle che il Signore stesso nella sua infinita bontà e sapienza ha messo sulla tua

strada. Di tutto questo, nello sguar-do di fede, non cesso di rendere gra-zie a Dio». Se Dio è il cuore di tutto, se “tutto è grazia”, come esclama il protagonista del celebre romanzo di Bernanos “Diario di un curato di campagna” allora «non si tratta – ha aggiunto Don Franco – di festeggiare qualcuno, metterlo al centro dell’at-tenzione magari esaltandone le qua-lità, bensì aggiungere un tassello molto importante nel mai interrotto cammino di consolidamento della ne-cessaria e consapevole acquisizione di una forte identità comunitaria in cui consiste buona parte dell’esse-re Chiesa». Il centro dell’attenzione della festa, insomma, ha tenuto a precisare il parroco, non era la sua persona, ma il dono del sacerdozio e quindi dell’eucaristia, realtà inscindi-bili e costitutive della Corpo di Cristo che è la Chiesa, a servizio dell’unità del popolo di Dio.

In un corso di teologia del 1990, il card. Joseph Ratzinger – il futuro Papa Benedetto XVI – parlando a un centinaio di vescovi brasiliani, ricor-dava che “il sacerdote deve impara-re da Cristo che nella sua vita non contano l’autorealizzazione e il suc-cesso. Il suo scopo non è di costru-irsi un’esistenza interessante o una

in Parrocchia

vita comoda, ma si tratta di agire in favore dell’altro”, in sostanza di vi-vere amando, in perfetta dedizione, ad imitazione di Gesù. Una richie-sta estremamente esigente, cui non sempre si è all’altezza, e infatti Don Franco, ancora nel suo discorso com-memorativo, ha esclamato: “consen-titemi fratelli e sorelle che io esprima in questo momento il mio rammarico e il mio disagio per tutte le volte che, assecondando i miei egoismi, ho ser-vito e amato poco e male. Per tutto questo chiedo perdono al Signore”. Solo con la forza di Dio è possibile adempiere al ministero sacerdotale ed è per questo che Don Franco ha tenuto a ringraziare tutti i laici che hanno collaborato con lui in questo quarto di secolo speso a Torre An-nunziata, i quali sono stati in un certo senso la concretizzazione dell’aiuto e della grazia del Signore, spenden-do in particolare un ricordo grato e commosso per il prof. Alfonso Mon-surrò, testimone luminoso del Vange-lo, tornato pochi mesi fa alla casa del Padre. Nella sera dell’anniversario, al termine della solenne celebrazione eucaristica, la comunità parrocchiale ha potuto poi proseguire i festeggia-menti, com’era doveroso, con una gioiosa condivisione fraterna

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mensile della Chiesa di Nola

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In Rubrica

Tutti in filaA Pomigliano una manifestazione per tenere alta l’attenzione sulla Terra dei Fuochi

Come fragili cristalliLa Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: tempo di comunione

Il cognome come motore di ricercaPresentato il sesto volume di interesse storico-culturale intorno ai cognomi del territorio

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mensile della Chiesa di Nola

A Pomigliano una manifestazione per tenere alta l’attenzione sulla Terra dei Fuochi

TUTTI IN FILAdi Daniele De Somma

«L’uomo è stato creato nell’Eden, al centro della natura. Distruggere l’ambiente significa quindi non avere rispetto del Creato. Non ci possiamo definire cristiani se non ci interessia-mo attivamente a quello che avviene fuori le mura della chiesa». Parole pronunciate da don Peppino Gam-bardella, parroco della parrocchia di San Felice, durante la manifestazio-ne “Tutti in Fila” di Pomigliano d’Ar-co, nata per puntare i riflettori sulle problematiche legate alla “Terra dei Fuochi”. Presente anche don Aniello Manganiello, parroco antimafia di Se-condigliano: «Si parla poco del “trian-golo della morte Pomigliano, Acerra, Nola”, ma in quest’area l’incidenza di tumori è aumentata di circa l’80%. Vogliamo sapere cosa c’è sotto il polo industriale dismesso di Boscofagone,

sotto il Cis e sotto la superstrada No-la-Villa Literno».

Erano circa un migliaio, per lo più studenti, i manifestanti che hanno sfilato per le strade della città. Il cor-teo si è riunito nel luogo che in questi ultimi mesi è diventato il simbolo del-la lotta contro l’abbandono ambien-tale: il piazzale dell’ex stazione della Circumvesuviana, che l’estate scorsa un gruppo di volontari ha bonificato e reso di nuovo fruibile alla collettività. Un fiume di giovani che, tra striscioni e canti, si è articolato su via Roma e Corso Umberto, per poi terminare in Piazza Municipio. «Sono tantissime le aree di questo territorio da boni-ficare, anche se qui il fenomeno dei roghi è meno evidente, – commenta Roberto Dei, attivista del M5s e refe-rente del “Comitato 18 gennaio”, che

ha organizzato l’iniziativa – L’Enam, la società municipale che gestisce la raccolta dei rifiuti, stima che per bo-nificare il solo territorio pomiglianese occorre circa un milione di euro. La beffa è che, tra le aree più inquinate, c’è anche quella intorno alla pista ci-clabile che collega la città ad Acerra».

Daniela Scodellaro, giornalista e attivista ambientale, durante la mani-festazione ha letto i dati del “Rappor-to ecomafie 2012” di Legambiente: «La Campania conta 4777 infrazioni accertate, 3394 persone denunciate, 34 persone arrestate, 1153 sequestri, 6034 roghi di rifiuti speciali e 44 siti tra i più inquinanti d’Italia. Sono 10 milioni di tonnellate i veleni sversa-ti nella Terra dei Fuochi in 22 anni, provenienti da 443 aziende coinvolte, la maggior parte dei quali del centro-

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nord». Hanno aderito all’iniziativa tantissime associazioni del territorio tra cui i commerciati della Caip, che, insieme ad altri negozianti non asso-ciati, hanno abbassato le serrande al passaggio del corteo. Presenti anche, tra i tanti, le “Mamme Vulcaniche”, “Libera” e la “Fiom”. Nelle stesse ore il ministro per L’Ambiente e il Terri-torio Andrea Orlando era a Napoli a rispondere dell’emergenza sanitaria: «Le risorse per uno screening sanita-rio diffuso ci sono. Sarà compito del Ministero della Salute e dell’Istituto superiore di Sanità, in rapporto con la Regione, definire l’utilizzo di queste risorse».

«In questi giorni, - ha raccontato il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio ai ragazzi dell’istituto Torricelli di Somma Vesuviana – in Parlamen-to non si discute di legge elettorale, come si potrebbe pensare leggendo i giornali, ma di Terra dei Fuochi, per la quale il M5s ha una serie di pro-poste operative che saranno vagliate dagli altri parlamentari. È la voglia di salvaguardare l’ambiente che mi ha spinto a diventare attivista, poi a can-didarmi per diventare parlamentare. Mi impegnerò personalmente per far sì che quanto prima partano le boni-fiche che il territorio dove sono nato aspetta da almeno 20 anni». (Foto: Pamela Orrico)

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La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: tempo di comunione

COME FRAGILI CRISTALLIdi Paolo Di Paolo

mi sistolici e diastolici dell’impegno ecumenico per sintonizzare i cuori, in quanto «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7). È così tratteggiato e fissato il dinamismo dell’annuncio della salvezza: il gran-de evento di Cristo, Verbo fatto car-ne, che patisce, muore e risorge, che riconcilia con il Padre. I vasi di creta sono coloro che accolgono il dono di un compito: annunciare la lieta no-tizia all’umanità, sono i credenti in Cristo che oggi vivono l’esperienza della separazione. I vasi sono di creta perché hanno anche la capacità di la-sciarsi plasmare da ciò che dà vigore e sostanza all’annuncio, riflettendo il dono di Colui che plasma. Vivono, nel contempo, la fragilità e la rottura, il cui rischio è quello di disperdere la preziosità del tesoro confondendolo con i cocci. Ed è proprio questa im-magine che occorre avere come rife-rimento. Cristo Risorto annunciato, confessato, celebrato, testimoniato da cristiani fragili, deboli nel trasmet-tere la ricchezza in modo cristallino e determinante diventa meno credi-

bile a causa della divisione. Il gran-de tesoro risulta poco incisivo, svili-to, depauperato per l’assenza della esperienza comunionale delle diverse confessioni.

La lieta notizia della riconciliazio-ne diventa una realtà deformata in cocente contraddizione se non è an-nunciata da persone e comunità non unite, divise persino sul senso stesso dell’essere credenti. Una divisione che ferisce il corpo di Cristo, la cui causa è spesso il contrasto atavico e le diffidenze che nascono dalle ferite dell’umano. Da questo, il senso del risveglio nella coscienza ecclesiale della preghiera di Cristo: «Che tut-ti siano una sola cosa […] perché il mondo creda» (Gv 17,21).

Oggi tale consapevolezza siamo chiamati a viverla nella Settimana di preghiera. Attraverso la sua cele-brazione, il paradosso della divisio-ne, al di là della responsabilità della testimonianza a livello umano, rivela una verità che è vita: Dio ha creato l’uomo e la donna a «sua immagine» (Gen 1,27), perché essi possano ri-

“Ecumenismo” è un vocabolo cono-sciuto dalle comunità cristiane, è

una realtà che sta entrando, seppur lentamente, in circolo, nutrendo e fa-cendo crescere la consapevolezza e l’impegno per questa dimensione im-portante della vita credente.

In questo ambito sono tanti gli sforzi, i progetti, gli scambi affinché il lavoro di costruzione dell’unità, dell’unica Chiesa del Cristo, viaggi più veloce di ogni divisione, sempre pos-sibile nelle opere dell’uomo. L’unità è un dono di Dio, che si può e si deve invocare; ed è la forza della speranza che guida e sostiene il compito ecu-menico.

Il cammino, non è esente da im-previsti, ostacoli e difficoltà che de-terminano delle pause, interrompono un ritmo, dando adito a un senso di fallimento; dall’altro fa emergere anche la coscienza che l’unità della Chiesa è una realtà intrinseca alla vita credente. Per questo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che viene celebrata ogni anno dal 18 al 25 gennaio, desidera coniugare i rit-

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Arte e Spiritualità nel Presepe Napoletanodi Salvatore Feola

Lo scorso 20 dicembre, si è tenuto a Cicciano un incontro cultu-rale sull’arte e la spiritualità del presepe napoletano, organizzato dalla Biblioteca diocesana di Nola, coinvolgendo alcuni rappre-sentati di gruppi locali appassionati di arte presepiale.

In tal modo la Biblioteca incomincia a muoversi dalla propria sede per cogliere e stimolare alcune sensibilità culturali presenti sul nostro territorio. L’incontro si è presentato come un evento davvero significativo, mettendo in rilievo alcuni elementi che il più delle volte sfuggono alla nostra attenzione.

Dapprima c’è stata una presentazione di don Luigi Vitale, spe-cialista in Beni Culturali, il quale ha cercato di focalizzare tutta la spiritualità emergente dall’arte presepiale. Attraverso il presepe si vuole rendere visibile, mediante particolari singolari, il mes-saggio della redenzione, per mezzo della Incarnazione, così come emerge dai Vangeli. L’arte del presepe sembra ricollegarsi, in un certo senso, alla famosa Bibbia dei poveri, che grande rilievo ha avuto in passato nella vita della Chiesa.

C’è stato poi un intervento del Prof. Luigi Sena, professore eme-rito presso l’Università di Torino e socio ordinario dell’Accademia di Medicina di Torino, autore di diversi testi tra cui “Arte e tiroide. I gozzuti nelle scene di natività e nei presepi”, che ha cercato di evidenziare il significato di alcuni limiti fisici con cui sono rappre-sentati molti personaggi nelle scene di natività e presepi (gozzuti, gobbi, ciechi), chiarendo che si tratta della presentazione di limiti umani, fisici e spirituali, che vengono portati davanti al Salvatore per ottenere guarigione e liberazione.

Poveri e malati si portano davanti alla grotta di Betlemme per ottenere riscatto, speranza e sollievo. L’incontro è riuscito a rac-cordare curiosità e scienza, arte e religiosità, destando attenzione ed entusiasmo in tutti i presenti.

specchiarsi in lui, essere comunione e comunità, segno visibile dell’amore col quale ci ha creati e di quella co-munione trinitaria che siamo chiama-ti a condividere. Questo disegno del Padre viene sfregiato dalla debolez-za umana: si spezza la comunione, la divisione segna la storia. Il solco della divisione viene sanato dalla ve-nuta del Figlio unigenito, il quale ri-stabilisce la comunione restituendo la possibilità di vivere «come figli della luce e figli del giorno» (1 Ts 5,5). La comunità ecclesiale è il segno visibile della sua presenza, il suo compito è quello di essere dimora di Dio tra gli uomini, pegno e primizia del Regno. Ma la debolezza sembra segnare le pagine della vita umana, permette ancora la divisione dell’Una Sancta, che diviene moltitudine di chiese se-parate. Si rinnega così la propria na-tura e la propria missione.

La coscienza della divisione, diven-tata pietra d’inciampo e di scandalo, ha spinto a unire gli sforzi per cercare di ristabilire l’unità, che non è persa, ma deve essere reintegrata in pie-nezza. Questo è il senso, il compito del dialogo ecumenico, il cui obiettivo è ritrovare l’unità visibile per divenire autentico segno di comunione e of-frire un annuncio credibile al mondo affinché faccia l’esperienza della sal-vezza e creda e il disegno del Padre di ricapitolare tutto in Cristo abbia il suo compimento.

Una missione che scaturisce dalle parole di Cristo, che si alimenta al vocabolario della comunione, il cui fondamento è la verità di Dio che è amore. È la vita stessa di Dio comu-nicata a noi in quanto «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è sta-to dato» (Rm 5,5). Amore e comunio-ne sono pilastri della testimonianza, provengono da Dio Trinità, sorgente e modello. La divisione non è un’op-portunità mancata, ma una ferita profonda, un’omissione grave. Cele-brare, dunque, la Settimana di pre-ghiera per l’unità dei cristiani significa dare ascolto all’esigenza e all’urgen-za di recuperare il disegno originario di Dio per la comunità ecclesiale. È da considerare un imperativo comu-ne, un fronte che vede impegnate le risorse cristiane per recuperare una cultura e uno stile di comunione per il dialogo.

L’ecumenismo rimane una realtà a più velocità, in cui e per cui occorre lavorare e pregare incessantemente.

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Presentato il sesto volume di interesse storico-culturale intorno ai cognomi del territorio

IL COGNOME COME MOTORE DI RICERCAdi Antonio Mucerino

le Americhe tra fine ‘800 ed i primi decenni del ‘900, i giochi dell’infanzia di una volta, alcuni simpatici quadret-ti della vita contadina di un tempo e della vita associativa dei cortili che affratellava e cementava i rapporti umani. Molto interessante è lo spazio che il sottoscritto dedica ad una figu-ra caratteristica del passato, l’ostetri-ca ( “‘a vammana”).

La collana “La storia di Scisciano attraverso le sue famiglie” annovera la pubblicazione di altri cinque volu-mi.

Si comincia nel 2010 con un mio lavoro sul Casato Mucerino. A par-tire dal 1674, ho delineato la storia della mia famiglia, partendo dal ca-postipite proveniente dalla Parrocchia Santa Croce di Somma Vesuviana (oggi soppressa) nei pressi dell’attua-le Santa Maria del Pozzo, che nasce con il cognome Nocerino a Somma nel 1728 per finire poi nel 1790 a Sci-sciano con il cognome Mucerino, da cui poi traggono origine i Mucerino di Scisciano. Se ci riferiamo all’oggi, l’epicentro del cognome si può collo-care nella masseria Feudo di Sciscia-no, attestata su caratteristiche relati-

vamente statiche, proprie del mondo agricolo.

La ricerca intorno alla Famiglia Iovane di Vincenzo Valletta, riferisce che il cognome Iovane apparteneva a una famiglia stanziatasi nel Mezzo-giorno, le cui prime notizie risalgono al 1006. Durante i secoli successivi i discendenti si sono stabiliti un po’ in tutto il Sud Italia. L’autore identi-fica il capostipite della sua famiglia in un certo Paolo, nato a Mercoglia-no in provincia di Avellino nel 1616 e trasferitosi per motivi di lavoro a San Vitaliano; di qui la famiglia, passando anche per Faibano di Marigliano, si è estesa a San Martino di Scisciano.

Per il Casato Ariola l’autore, Fer-dinando Ariola, propende per l’ipo-tesi di un’origine spagnola del cogno-me, richiamando a sostegno della sua affermazione il fatto che gli Ariola comparvero a Scisciano ai tempi del-la dominazione spagnola nel meridio-ne d’Italia e soprattutto perchè il co-gnome in principio era “de Ayrola” e successivamente “d’Ayrola”, “Ayrola”, “Airola”, per poi arrivare alla forma attuale, Ariola, per normale evoluzio-ne lessicale. Tuttavia l’affermazione che il cognome Ariola possa derivare dal toponimo Airola (BN) attraverso la metatesi del gruppo <ir> in <ri>, rimane un’ipotesi da verificare, anche se allo stato attuale delle ricerche ri-sulta essere la più probabile.

Circa la Gens Sena, io poi, sono risalito, con un lavoro interessante e certosino, fino al 1580 circa. Interes-santi e suggestive sono le ipotesi che egli formula per chiarire l’origine del cognome Sena, passando da quella africano - cartaginese a quella ebrai-ca, ma sicuramente la più accreditata è la derivazione da Siena.Nella sezio-ne “zumata… tra i Sena”, particola-re è la storia di uomo e di eroe del Capitano Mario Sena, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria, morto in azione di guerra sul fronte greco -albanese nel 1940.

Per il Casato Catanese, infine, suggestiva ed interessante è l’ipotesi che l’autore, Prof. Amedeo Catanese Napolitano, fa sull’origine del cogno-me Catanese che ci riconduce lonta-

Sabato 28 Dicembre 2013 presso il Teatro Comunale di Scisciano è

stato presentato il libro Casato Stroc-chia , 6° volume della collana “La storia di Scisciano attraverso le sue famiglie”. L’autore, il dott. Francesco Strocchia, cerca di dare una sua in-terpretazione sulle origini del casato con le varianti Trocchia, di Trocchia e de Trocchia nel corso dei secoli, sul significato etimologico del cognome e sull’insediamento dei primi nuclei, provenienti da Pollena Trocchia, nella nostra zona, e precisamente tra Sa-viano (Sirico e S. Erasmo) e Scisciano e S. Martino. Il trasferimento è stato un fenomeno graduale e non docu-mentabile, dovuto forse alle continue eruzioni del Vesuvio o alle alluvioni e molto probabilmente alla ricerca di terreni più fertili ed arabili.

Nell’autore confluiscono la ricchez-za e la profondità dei sentimenti, l’origine e la nostalgia del passato, l’esperienza di medico (ginecologo) e soprattutto il fervore e la precisione della documentazione. Interessanti sono le “curiosità”: i mestieri di una volta ormai scomparsi, l’alto tasso di mortalità infantile, l’emigrazione nel-

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27gennaio 2014

in rubricano, nell’epoca in cui il nostro Paese è stato teatro di invasioni e conquiste da parte di popoli stranieri, risalendo a Madama Fileppa, detta “‘a catane-se”, uno dei personaggi famosi del Medioevo napoletano, celebrato an-che dal Boccaccio. Da bella e povera lavandaia, Filippa, divenuta nutrice dei figli di Roberto d’Angiò, ascese ai vertici del potere alla corte degli An-gioini a Napoli, ma poi andò incontro ad una triste e misera fine. Per i suoi servizi le furono concessi vari bene-fici, tra cui una masseria con molte moggia di terreno nel territorio di Somma Vesuviana, che da lei prese nome e ancora oggi è indicata come masseria “Madama Fileppa”.

Ciascun volume consta di due par-ti: la prima presenta gli schemi (cioè lo snodarsi di tutti i nuclei e deriva-zioni della famiglia); una guida alla lettura dei prospetti; statistiche e cu-riosità ed un indice dei nomi, utile a riconoscersi nel prospetto della pro-pria famiglia. La seconda parte arric-chisce il volume di foto e documenti vari con interessanti caratteristiche del passato. Il cognome fa da gui-da per disegnare una pista, sicché la storia si raccoglie e si snoda seguen-

Cifre distintiveStralcio dell’intervento di d.Luigi Mucerino.

Dirimpetto alle cose che non hanno nome proprio, la persona rivendica il diritto primario al nome per motivi di identità, con esclusione di qualsiasi intercambiabilità e di duplicazione.

Il cognome invece è il pri-mo segmento della storia di ognuno, presenta la persona in situazione di avvio, indica con chi e da chi noi siamo. Il nome esprime l’unicità, il co-gnome la relazione.

In nuce rintracciamo qui le radici del personalismo filosofico. Il nome viene da una scelta, si collega ad altre persone, ha talora motivi di tradizione o di famiglia o di gusto soggettivo, può rive-stire anche un carattere ine-dito; è soggetto a variazioni con tendenza eventuale al vezzeggiativo, all’accresciti-vo o a qualche colorazione di ordine locale.

Il cognome invece si ere-dita, è intangibile e, se an-che nel tempo va soggetto a qualche mutazione, si tra-smette come ci è stato con-segnato. Il nome non man-ca di qualche riferimento di partenza, ma con il tempo è semplicemente un dato, non richiede e non dà spiegazio-ne di sé.

Ognuno rimane comun-que per conto proprio, an-che quando lo stesso nome si moltiplica molte volte. Il cognome invece ha capacità di compattare le persone, è motivo di interesse ricorren-te se l’origine riporta a cau-se significative, se nel suo ambito comprende luoghi o persone di prestigio o evoca addirittura caratteristiche ed episodi di rilievo. Diventa ta-lora il cognome una cifra di-stintiva, una sezione in sen-so lato della comunità, come le vie concorrono a comporre la topografia urbana.

Siamo pertanto nell’area della storia e non della curio-sità effimera.

do la sua spia. Non è un’elencazione pura e semplice, perché il cognome ha una sua derivazione, talora un suo cammino geografico. Non è sempre un cammino lineare, spesso si tratta di collegamenti difficili e di intersezio-ni che sfuggono.

Il cognome ha una sua intrinseca ragione; la sua etimologia rimanda a luoghi o caratteristiche o fenome-ni che ne spiegano il sorgere e il di-venire. L’Archivio Vescovile si rivela una miniera preziosa ed inesauribi-le di notizie, curiosità,dati statistici, ponendosi come punto nevralgico ed imprescindibile per la ricerca. Se ci si ferma solo ai prospetti, il lavoro può apparire arido e freddo, invece dietro a ciascun nome, dietro ad una semplice data si cela una storia, una vicenda di amore, di gioia e qualche volta di dolore. È necessario, pertan-to, superare la fitta sequenza dei dati e scoprire l’anima che respira nel-le pagine. Sapere e approfondire se stessi, cominciando dalla preistoria di sé, oltrepassare una individuali-tà irrelata e situarsi nel contesto di una vasta famiglia: ecco il senso del-la storia sociale dei cognomi presi in esame.

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