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articoli di: Tiziano Terzani prelevati da internet sito www.tizianoterzani.it 1

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Tiziano Terzani

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2001 8/10 L'articolo di Terzani in risposta a O. Fallaci 2000 09/10 Le illusioni perdute della guerra di popolo 1999 19/12 Il ritorno alla Cina Io, in fuga da Macao 08/11 Le ragioni degli altri 04/07 Io, senza nome a scuola dal guru 04/07 Uno straniero nella famiglia del guru 17/01 Nomadi in fuga dal mercato globale 1998 29/05 I pacifisti armati 1997 24/08 La Selva oscura nella Valle dell'Orsigna 27/07 Affari come prima 02/07 Quelle facce di cera 01/07 Il seme della colonia bianca 30/06 L'ultima messa 29/06 Arrivano i comunisti come a Saigon… 27/06 Lacrime inglesi per le ultime cornamuse... 23/06 Ma uno strano silenzio aspetta i fuochi.. 23/06 Hong Kong e il fantasma del Politburo 20/06 Hong Kong addio per sempre 20/02 Il piccolo timoniere 1996 16/12 Quelle tigri senza artigli 07/06 Uno spettro per la sinistra 05/05 «Stanno distruggendo la nostra spiritualità» 1995 27/12 BATTICALOA (Sri Lanka) 03/12 Svolta nella guerra in Sri Lanka…. 05/09 Anno 1993 28/05 Kashmir, nel tempio dell'odio 21/05 Sette e terrorismo. E il Giappone … 30/04 Vent' anni fa la fine della guerra.... 30/03 L' universita dei soldati di Allah 15/03 Nel labirinto di Karachi, fabbrica di morte 10/02 Sonia, sfinge nel destino dell' India 24/01 Dolore senza lacrime tra le macerie di Kobe

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1994 04/10 La peste? c' e solo sulla carta 25/09 Su Bombay l' incubo della peste 24/09 La morte nera nel cuore dell' India 08/08 Cambogia, le radici dell' orrore 13/02 Birmania addio 05/02 Clinton il " pacifista " e il capitalismo rosso 04/02 Thailandia: cosi la polizia uccideva i turisti 30/01 Alla festa del re dell' oppio 1993 21/11 Cambogia, la pace senza gioia 08/06 le nozze del principe ereditario 24/05 I cambogiani sfidano le bombe khmer 14/05 Sciagura: l' incendio nella fabbrica di bambole 23/05 "Votiamo e poi sara guerra a Pol Pot" 28/04 Le due Cine in marcia verso l' unita 06/03 Negli inferi del Triangolo d'oro 06/02 Cambogia, macchia per l' Onu 1992 22/12 E Bangkok celebra Silpa il fiorentino 19/12 L'Asia a lezione di democrazia 11/12 Il risveglio del dragone unito 23/10 Akihito s' inchina alla corte di Deng 21/10 E il Golpe arrivo sul placido Amur 21/09 Intanto il Giappone conquista l'Asia 15/09 Entusiasmo post elettorale, boom in borsa 13/09 Elezioni politiche Bangkok e i suoi fantasmi 02/07 Cambogia, fantasmi sulla pace 20/06 cronaca di un viaggio a Phnom Penh [..] 18/06 I sogni armati di Tokio 21/05 Parla il re, tregua a Bangkok 20/05 Bangkok, il terrore sulla citta 19/05 A Bangkok esplode una Tienanmen 23/04 Il disperato viaggio dei Rohingya… 09/04 Bangkok: i militari s' impossessano del… 22/03 Bangkok, voto all' ombra dei militari

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Il Sultano e San Francesco lunedì , 08 ottobre 2001 VARIE Il Sultano e San Francesco Non possiamo rinunciare alla speranza Terzani Tiziano Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano l e Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri gi à grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell' immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall' America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non c erto per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti. Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l' impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche - e pubblicamente per questo - per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana - la ragione; il meglio del cuore - la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito

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e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all' indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere Gli ultimi giorni dell' umanità, un' opera che sembra essere ancora di un' inquietante attualità. Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L' orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell' odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l' uccidere. «Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell' anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l' uomo non si metterà di sua volontà all' ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza? La salvezza non è nella tua

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rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c' è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d' aver davanti prima dell' 11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all' inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza - ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un' altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia i l mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo

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a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice - Stati Uniti in testa - d' impegnarsi solennemente con tutta l' umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale - di per sé un' arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l' orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta. In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L' arte di non essere governati: l' etica politica da Socrate a Mozart). L' autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all' Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all' uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino - un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all' esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell' uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suo i ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e

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sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine. Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po' di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappo ne, sull' isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l' Imperatore. I kamikaze mi interessano perché orrei capire che cosa li rende così disposti a quell' innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli. Quelli di noi a cui i figli - fortunatamente - sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo,dilagante tipo di violenza di cui l' ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c' è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell' evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L' attacco alle Torri Gemelle è uno di

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questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l' atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell' Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell' 11 settembre non hanno attaccato l' America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di var i libri - l' ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l' anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico - si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell' Un ione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson f a l' elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi. Il «contraccolpo» dell' attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall'installazione dello Shah in Iran, alla

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Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l' Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell' Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l' analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c' è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione. Questa è stata la trappola. L' occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d' anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d' essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l' Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche - tutti lo sanno - sono fra i petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull' Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d' essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura

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intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell' Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l' India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall' Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera a mericana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell' oleodotto attraverso l' Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l' imminente attacco contro l' Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti. È per questo che nell' America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell' industria petrolifera con quelli dell' industria bellica - combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington - finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all' interno del paese, in ragione dell' emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l' America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpit o della Casa Bianca per essersi chiesto se l' aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l'allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni. L' aver diviso

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il mondo in maniera - mi pare - «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l' America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana - anche a colpi di sputo - alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l' aria ai nostri polmoni. Io non pretendo affatto d' aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell' establishment mediatico, c' è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l' America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell' America che per due volte ci ha salvato. Ma non c' era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici - me ne rendo conto - è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l' angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah.

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No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi , Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi. Le tue rgomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l' Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l' arabo, oltre ai tanti che già studiano l' inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi

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assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l' assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c' era ancora la Cnn - era il 1219 - perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell' incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all' accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l' uno disse all' altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d' accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all' orrore dell' olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l' alternativa fra

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essere e non essere, hanno fatto diventare l' uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l' uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l' evoluzione psichica dell' uomo in m odo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell' odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c' era da sperare: l' influsso di due fattori - un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all' umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto». Per difendersi, Oriana, non c' è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c' è bisogno d' ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M' è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell' acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di

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certe regole che sono il frutto dell'incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall' India agli americani, ovviamente a mo' di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata. Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell' esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L' immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell' Afghanistan, ordina l' attacco alle Torri Gemelle; è l' ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l' uomo d' affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese

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ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame? Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare . I governi occidentali oggi sono uniti nell' essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c'era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui c hi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po' più di moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l' ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il

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terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti , per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote a l Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche. L' interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l' utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l' etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell' Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s' è «globalizzata», perché non ha resistito all' assalto di quella

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forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica , un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch' io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch' io ritirato, in una sorta di baita nell' Himalaya indiana dinanzi al le più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d' erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la r abbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. BIOGRAFIA DI UN INVIATO DA FIRENZE ALL' ASIA Tiziano Terzani (nella foto) è nato a Firenze nel 1938, scrive sul « Corriere» dal ' 71. Prima di arrivare al giornalismo, ha confessato Terzani, «le avevo provate tutte: avvocato, università, manager all' Olivetti. Ma dovevo seguire la mia vocazione». Terzani ha viaggiato in tutta l'Asia. E' vissuto a Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokio, Bangkok. Dal 1994 si è stabilito in India con la moglie, Angela Staude, scrittrice, e i loro due figli I LIBRI Terzani ha pubblicato «Pelle di leopardo»

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(1973), dedicato alla guerra in Vietnam. Nel 1975 è uno dei pochi giornalisti che resta a Saigon per assistere alla presa di potere da parte dei comunisti. Da questa esperienza nasce «Giai Phong! La liberazione di Saigon» (1976). Fra i primi corrispondenti a tornare a Phnom Penh dopo l' intervento vietnamita in Cambogia, racconta il suo viaggio in «Holocaust in Kambodscha» (1981). Tra gli altri libri ricordiamo: «Buonanotte, Signor Lenin» (1992); «Un indovino mi disse» (1995); «In Asia» (1998) SU INTERNET Digitando l' indirizzo www.tizianoterzani.com si può visitare il sito del «Tiziano Terzani Fan Club» dedicato allo scrittore-giornalista LA RABBIA E L' ORGOGLIO IL RITORNO DI ORIANA La «Lettera da Firenze» di Tiziano Terzani è una risposta alla «Lettera da New York» di Oriana Fallaci (nella foto), pubblicata da l «Corriere della Sera», sabato 29 settembre, con il titolo «La Rabbia e l' Orgoglio». Un intervento,quello della Fallaci, che ha rotto un silenzio durato oltre dieci anni (l' ultimo reportage risaliva alla Guerra del Golfo). E che ha scatenato, com' era prevedibile, dibatti e discussioni in tutto il mondo ALL' ESTERO L' articolo di Oriana Fallaci è stato acquistato negli Stati Uniti, in Europa, in America Latina e numerosi altri Paesi UN LIBRO DA RIZZOLI Il pamphlet di Oriana Fallaci, «La Rabbia e l' Orgoglio» si trasformerà presto in un libro. Sarà pubblicato dalla Rizzoli www.corriere.it Sul sito del «Corriere» il testo integrale della «Lettera da New York» di Oriana Fallaci, la risposta di Dacia Maraini, pubblicata il 5 ottobre, «La bandiera italiana» di Sergio Romano, apparso ieri sul «Corriere della Sera», da oggi l' articolo di Terzani, e il forum con i commenti dei lettori

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lunedi , 09 ottobre 2000 STORIA VIETNAM Le illusioni perdute della guerra di popolo Terzani Tiziano

TESTIMONI A 25 anni dalla caduta di Saigon, Terzani ripropone con una nuova prefazione, che anticipiamo, i suoi libri «Pelle di leopardo» e «Giai Phong!» VIETNAM Le illusioni perdute della guerra di popolo di TIZIANO TERZANI Tiziano Terzani, cronista della guerra del Vietnam, che documentò nel libro «Pelle di leopardo», uscito nel 1973, e testimone nel 1975 della conquista di Saigon da parte dei vietcong, che descrisse nel bestseller internazionale «Giai Phong!» (1976), ripropone oggi quei due t esti con una nuova prefazione che qui anticipiamo in gran parte. Il nuovo volume, che Longanesi manderà in libreria il 20 ottobre con il titolo «Pelle di leopardo» (pagine 500, lire 32.000), è rivolto soprattutto alle nuove generazioni, come spiega l o stesso Terzani, 62 anni, corrispondente per l' Asia di «Der Spiegel» e collaboratore del «Corriere della sera». Dello stesso autore Longanesi ha pubblicato «La porta proibita», «Buonanotte, signor Lenin», «Un indovino mi disse» e «In Asia». Nel 197 5 mi capitò d' essere uno dei pochissimi testimoni occidentali d' un avvenimento storico che segnò la vita della mia generazione: la fine della guerra in Vietnam. Su quella esperienza, a caldo, con le emozioni ancora a fior di pelle, scrissi un libro che uscì col titolo Giai Phong! La liberazione di Saigon. Il volume che il lettore ha ora fra le mani è la ristampa di quel libro preceduto dal mio diario di corrispondente al fronte pubblicato per la prima volta col titolo Pelle di Leopardo nel nov embre 1973. È passato più d' un quarto di secolo da quando quei due volumi videro la luce e il tempo non ha fatto uno dei suoi soliti, strani scherzi: ha cambiato me, ma non i libri. Come una immagine fotografica congelata nell' immobilità dell' ista ntanea, Giai Phong! in particolare riflette ancora l' entusiasmo di quei giorni, è pieno delle speranze che la rivoluzione aveva suscitato. Io invece, avendo vissuto il resto di quella e altre storie, sono diventato, com' è naturale e giusto, un' alt ra persona: scettica di tutte le promesse politiche e sospettosa di ogni tipo di rivoluzione. «Allora ti eri sbagliato?» mi si chiede spesso. Al fondo di questa domanda c' è una provocazione che merita una risposta, e la risposta è sostanzialmente: « No». I fatti di poi non possono mutare i fatti di prima e quel che è successo in Vietnam dopo la fine della guerra non può cambiare il giudizio sul significato del conflitto in sé. Per la mia generazione fu soprattutto una questione di moralità. Da u na parte c' erano i vietnamiti che combattevano una guerra di indipendenza, la stessa che avevano combattuto da quando, un secolo prima, i francesi erano

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sbarcati sulle loro coste ed avevano fatto dell' Indocina una colonia; dall' altra c' erano gli americani che avevano rimpiazzato i francesi nel loro tentativo neocolonialista, che non avevano alcuna ragione di immischiarsi negli affari di un Paese così lontano dal loro e che non avevano perciò alcun diritto «di distruggerlo per poterlo salvare ». Ogni generazione cerca degli eroi con cui identificarsi, degli eroi a cui ispirarsi. Per la mia furono i vietcong. Fra gli americani con la loro sofisticata, tecnologicissima macchina da guerra e i contadini-guerriglieri, la scelta era fin troppo facile. I princìpi nei quali credevamo erano semplici: ogni popolo doveva scegliere il proprio destino, ogni società doveva essere soprattutto umana e giusta. La rivoluzione vietnamita prometteva questo. Il Vietnam era esattamente così: da un lato c' era un reale, presentissimo, visibile, oppressivo regime appoggiato dalla potenza militare americana; dall' altro c' era una dura, spartana e moralissima rivoluzione che prometteva pace e una vita migliore per tutti. Per questo lo slogan «Uno, dieci , mille Vietnam» fu per anni sulla bocca di milioni e milioni di giovani che in tutto il mondo manifestavano contro ogni fase della «sporca guerra» americana. La rivoluzione non faceva paura. Anzi. Per giunta, quando arrivò a Saigon e finalmente mise fine alla guerra, la rivoluzione si presentò esattamente con la faccia che molti avevano sognato: era gentile, comprensiva, compassionevole. Alcuni avevano temuto che i guerriglieri, una volta presa Saigon, avrebbero scatenato un bagno di sangue, av rebbero allineato i loro nemici davanti ai plotoni di esecuzione. Non avvenne niente del genere. Invece di chiedere vendetta i nuovi detentori del potere parlarono di fratellanza e di riconciliazione nazionale. I primi rivoluzionari che entrarono a S aigon avevano l' aria di onesti, sinceri combattenti di una causa che improvvisamente sembrò giusta persino ad alcuni dei loro più accaniti avversari. Nei tre mesi in cui mi fu permesso di restare in Vietnam l' esperienza quotidiana della rivoluzione fu incoraggiante, a volte persino esaltante. Avevo l' impressione di qualcosa di nuovo e affascinante che veniva alla luce, qualcosa di magico come la vita di un neonato. C' era nella rivoluzione un aspetto catartico, purificante, che non poteva las ciare indifferente un osservatore. C' era un senso di «giustizia è fatta» nel vedere una società marcia e corrotta messa sotto sopra, nel vedere i prepotenti di ieri esautorati e la parola data alle vittime. Giai Phong! è il resoconto di quel periodo . Riflette l' atmosfera, lo spirito di quel tempo. Un anno dopo la edizione originale, in Italia il libro venne ristampato in una versione abbreviata da adottare nelle scuole. In Vietnam Giai Phong! venne prima pubblicato a puntate da un quotidiano e poi distribuito come libro fra i quadri del partito comunista e dell' esercito. Una volta, nelle Filippine, telefonai alla famiglia di Ninoy Aquino che era ancora in prigione. Cercavo di presentarmi quando venni interrotto: «La conosciamo. Ninoy non fa che citare il suo libro». Lui stesso, prima di essere assassinato, mi scrisse una nota per dirmi quanto Giai Phong! l' aveva aiutato nel fargli

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credere nella possibilità di una rivoluzione dal volto umano. Anni dopo, alcuni amici thailandesi mi h an raccontato che molti degli studenti di Bang kok andati a raggiungere la guerriglia comunista avevano il mio libro fra le poche cose che si eran portati nella giungla. Dinanzi alla realtà di ciò che è successo in Vietnam dopo il 1975, mi sono senti to spesso un gran peso sulla coscienza all' idea che Giai Phong! venisse utilizzato per propagare un mito che s' era sgonfiato e che continuasse ad alimentare speranze che s' erano rivelate penose illusioni. La sola cosa che potevo fare era continuar e a scrivere: scrivere su ciò che succedeva in Vietnam, scrivere su come i rivoluzionari si comportano quando sono al potere. L' ho fatto ogni volta che mi si è presentata l' occasione: in Vietnam e altrove. È così che l' essere stato l' autore di Gi ai Phong! non mi impedì di descrivere come la gente, che avevo pensato avesse una sorta di superiorità morale, l' aveva perduta e come i «liberatori» si erano trasformati in oppressori. Nel 1976 le autorità comuniste di Hanoi mi permisero di tornare in Vietnam in occasione del primo anniversario della loro vittoria. Per due settimane viaggiai in macchina da nord a sud attraverso un Paese dove la gente, nonostante la propaganda sulla riunificazione, era ancora profondamente divisa, dove non c' er a stata alcuna riconciliazione nazionale, e dove i «perdenti» venivano trattati come paria, mentre i «vincitori» avevano assunto i privilegi, l' arroganza e tutti gli altri difetti di quelli che avevano spodestato. Le così dette «nuove zone economiche» altro non erano che campi di concentramento, mentre la tanto vantata rieducazione s' era rivelata una trappola in cui centinaia di migliaia di potenziali oppositori politici erano stati abilmente attirati. Quando, in visita ufficiale in una prigione, fui messo dinanzi a una orchestrina composta da violinisti ex ufficiali dell' esercito di Thieu che per dimostrare la loro gioia di essere rieducati avrebbero suonato per me un quartetto di Mozart, mi rifiutai di prender parte a quelle farsa e ne l libro dei visitatori scrissi che dovunque ci fossero delle sbarre la mia simpatia andava sempre a quelli che ci stavano dietro. Tornai in Vietnam ancora due volte e ogni volta trovai il Paese in condizioni peggiori. Andando a far visita agli amici e ai conoscenti di un tempo - con tutti che si guardavano costantemente alle spalle per vedere se venivano pedinati o spiati - mi fu facile rendermi conto di tutto quello che non era stato fatto, di tutto quel che era stato sprecato, di tutto quello che era andato storto. I rivoluzionari non avevano portato alcuna giustizia, a meno che questa significasse semplicemente mettere in basso ciò che era in alto e rimpiazzare una dittatura con un' altra. La qualità della vita sembrava peggiorare di vo lta in volta: povertà, corruzione, inefficienza dilagavano. Su ogni argomento che cercavo di affrontare, dalla Cambogia al numero della gente che arbitrariamente era ancora detenuta, le autorità mentivano con una spudoratezza che rasentava il ridicol o. Il mio migliore amico, Cao Giao, venne arrestato e tenuto per mesi in isolamento in una cella senza luce dove ogni giorno gli veniva data una ciotola di riso piena di formiche che lui si

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accorgeva di mangiare solo quando nel buio le sentiva correr gli sulla faccia. Il Pen Club internazionale condusse una campagna per la sua liberazione, ma le autorità comuniste lo rilasciarono solo quando era chiaro che stava morendo di cancro e aveva ormai pochissimo da vivere. Cao Giao era uno di quelli che la rivoluzione aveva fatto sognare; ma per lui come per tantissimi altri vietnamiti la polizia rivoluzionaria con le sue tattiche di terrore era diventata un incubo come la polizia del vecchio regime. La rivoluzione non aveva mantenuto nessuna delle sue promesse e governava la gente con una crudeltà che divenne spaventosamente apparente quando migliaia di vietnamiti si buttarono, o vennero buttati, in balia del mare su barche pericolanti in cerca di un rifugio. Scrissi di tutto questo e presto, come era già avvenuto ai tempi di Thieu, venni dichiarato persona non grata e messo sulla lista di quelli a cui venne impedito di entrare nel Paese. Non me ne dispiacque. In Cina, per aver scritto cose simili sul regime comunista, nel 1984 venni arre stato, rieducato per un mese e alla fine espulso. Anche lì la rivoluzione aveva avuto un diverso inizio e giornalisti come l' americano Edgar Snow avevano scritto con grande simpatia di Mao e della presa di potere da parte dei comunisti. Eppure in Ci na - come in Vietnam e in verità come ovunque - la rivoluzione era presto andata a male, s' era rivoltata contro la gente, e il bambino che sul nascere era apparso così bello e attraente s' era presto rivelato un mostro dal cuore di pietra. Che libro scriverei oggi se mi capitasse di assistere a quello che vidi nel 1975? Certo non lo stesso libro, visto che oggi non sono più la stessa persona di allora, non sono più quel giovane ottimista, sorridente e speranzoso raffigurato coi sandali di gomma dei vietcong nella foto sul retro della copertina. E come potrei essere lo stesso dopo essere passato - e solo da testimone, fortunatamente - attraverso tutte le disgrazie, i massacri, i tradimenti degli ultimi venticinque anni di storia asiatica, d ai killing fields di Pol Pot, ai giovani cinesi assassinati inermi sulla piazza del Tienanmen, alla delusione della people' s power revolution di Cory Aquino nelle Filippine, allo strangolamento della democrazia in Birmania e ora all' ondata di mater ialismo che spazza via quello che non era ancora stato distrutto dalle bombe e dagli iconoclasti? Io non sono lo stesso uomo di venticinque anni fa, così come il mondo non è lo stesso di allora. La vita di oggi non è più dominata dai conflitti ideolo gici, non ci sono più contrastanti visioni del futuro e non più diverse interpretazioni della storia. La sola voce che oggi si sente rintronare è quella autoincensantesi dei vincitori della Guerra Fredda. Nessuno marcia più per nulla e niente sembra più rivoltare la coscienza della gente. In questo senso mi fa piacere che Giai Phong! e Pelle di Leopardo, da tempo esauriti e introvabili, tornino a vedere la luce grazie al mio editore Mario Spagnol, che poco prima di morire decise di ristamparli.

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domenica , 19 dicembre 1999 POLITICA INTERNA Il ritorno alla Cina Io, in fuga dall' orrore di Macao

Terzani Tiziano

Il ritorno alla Cina Io, in fuga dall' orrore di Macao Oggi Macao torna sotto la sovranita' della Cina: dopo 442 anni il Portogallo cede l' ultimo lembo del suo impero coloniale. MACAO - La nostalgia e' come un usignolo: canta meglio se tenuta in gabbia. Ho fatto l' errore di liberare la mia, di farla volare qui, dove voleva, e ora me ne pento. Tutto quello che sognavo di ritrovare e' scomparso, Macao non e' all' appuntamento e il cinguettare di emozioni che provavo ogni volta, approdando in questa minuscola lingua di terra occidentale sulla costa della Cina, oggi s' e' ammutolito. In cinese nostalgia si dice xiang jia, “pensare a casa", e per tre decenni questa commovente ci tta' , visitata irregolarmente, a volte solo per qualche giorno, a volte per settimane, e' stata una sorta di casa. Non ci avevo i miei libri, non i miei mobili, ma qui, come tanti altri occidentali che han messo l' Asia nel cesto del proprio destino , sentivo di avere una radice, qualcosa in comune con le pietre delle strade che qui a ogni passo riflettevano quel sogno tutto occidentale di capire e carpire qualcosa dell' Oriente. Perche' e' da qui, da questi quindici chilometri quadrati di terra che, per piu' di quattro secoli, sono passate le idee e le merci, le speranze e le delusioni di tutti i malati d' Asia: avventurieri e studiosi, missionari e banditi, santi, eroi e mercanti. A Macao la storia di questo strano, complicato rapporto fr a Oriente e Occidente (due mondi e due modi di essere diversissimi) era riassunta non soltanto nei palazzi, nelle chiese, nei monumenti, ma nella vita stessa della citta' : perche' qui, piu' che in ogni altro posto al mondo, passato e presente coesis tevano; a volte sembravano persino confondersi, e le antiche statue di pietra coi loro crocefissi occidentali branditi allo stesso modo delle spade contro il cielo d' Asia parevano avere una loro presentissima, magica forza. REPORTAGE Viaggio nella p rovincia portoghese che oggi torna alla Cina, un lembo di terra dove l' Oriente ha incontrato l' Occidente Ma il fascino della vecchia colonia non esiste piu' : la citta' e' ormai un souvenir in vendita per i turisti La mia lettera d' amore a Macao u na scheggia di eternita' perduta Le strade con l' antico acciottolato sono state ormai sostituite quasi ovunque da colate di cemento Tutto e' stato ripulito, lucidato Anche l' odore della muffa e dell' incenso ormai non si sente piu' Era impossibile guardare dalla veranda dell' Hotel Bela Vista il mare limaccioso che batteva giu' contro i muri della Praia Grande, senza immaginare, sentire, a volte persino credere di intravedere le sagome dei vascelli che, secoli fa, sfidando tempeste e ragione, partiti

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da qualche porto d' Europa, dopo mesi e mesi di navigazione, arrivavano finalmente in questo porto agognato, nella foce del Fiume delle Perle. Ed il viaggio era appena incominciato perche' da li' si trattava di andare in quell' immenso contin ente che era, ed ancor oggi e' , la Cina. A Macao davvero il tempo aveva un ritmo diverso da quello degli orologi. A volte pareva proprio fermarsi: come nei casino' dove le ruote della roulette giravano in continuazione, ma dove era impossibile, una volta entrati, sapere se fuori era giorno o notte, se il sole stava tramontando o sorgendo. Cogliendo l' occasione del fatto che oggi, allo scoccare della mezzanotte, Macao tornera' nell' abbraccio della madrepatria, che questo primo lembo di terra o ccidentale in Cina sara' anche l' ultimo ad ammainare una bandiera europea, ho ceduto al “desiderio di casa". Son voluto tornare a fare una passeggiata a Macao, ho voluto respirare un' ultima volta la sua aria, il suo odore: allo stesso modo di quell a giovane, sconosciuta ragazza vietnamita che nel maggio del 1975 nella Saigon appena presa dai comunisti mi si paro' dinanzi per strada, mi abbraccio' e volle risentire ancora una volta nel mio collo l' odore d' una pelle bianca come quella del suo amante americano che era scappato con uno degli ultimi elicotteri e l' aveva lasciata li' . Ma a Macao quell' odore di muffa, di incenso, di vecchio, di morte che in fondo era la sua vita, oggi non c' e' piu' . Tutto e' stato ripulito, cambiato, risa nato, lucidato, distrutto. L' Hotel Bela Vista non esiste piu' : e' stato adibito a residenza del futuro console portoghese. Il magnifico tempio cinese di Ama non e' piu' sul mare perche' davanti gli hanno costruito un grande parcheggio per gli autob us dei turisti che vengono a migliaia e migliaia dall' altra parte della frontiera. Come il resto di Macao, il tempio stesso, il piu' vecchio, il piu' sacro della penisola - era gia' li' quando i portoghesi si installarono a meta' del Cinquecento - e ' diventato la prosaica rappresentazione di se stesso: falso, senza vita, privato della sua anima. Dovunque, invece delle vecchie strade con l' antico acciottolato, ci sono ora distese di cemento. Dalla veranda della vecchia Pusada de Santiago non si sente piu' il rassicurante respiro delle onde. Sotto ormai ci passa un' autostrada. Alcuni monumenti sono stati cosi' restaurati da parere finti, altri sono stati semplicemente rimossi come quello al governatore Amaral, tolto dal suo piedistallo “pe r rispetto ai cinesi" che, pur avendolo ucciso ed avendogli mozzato la testa un secolo e mezzo fa, lo hanno sempre considerato - forse anche a ragione - il simbolo della prevaricazione europea nei loro confronti. Ma la storia e' storia! L' intero pae saggio di Macao, dove un tempo gli alberi eran piu' alti delle case e le chiese dominavano ogni panorama, e' stato messo sottosopra da una orribile fungaia di casermoni e grattacieli che offuscano tutto, coprono ogni vista. Della vecchia Macao che un o scrittore portoghese negli Anni Venti aveva proposto venisse presa in gestione e conservata dalla Lega delle Nazioni, come eredita' comune dell' umanita' , non rimane intatto che il nome. Macao e' diventata una sorta di souvenir da comprare al Free duty Shop. E'

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disperante. Mi viene da pensare a Stefan Zweig che, gia' distrutto per la fine del suo mondo europeo, il “mondo di ieri", per mano dei nazisti, non resistette alla notizia che Singapore era caduta in mano ai giapponesi. Fortunatamente non sono venuto a Macao da solo ed ho con me quel che da tempo so essere il migliore compagno di viaggio: un libro. Quello che mi accompagna e' di un amico, Philippe Pons, corrispondente di “Le Monde" da Tokyo, anche lui malato d' Asia. “Macao: un ec lat d' eternite", una scheggia di eternita' , piccolo, elegante, appena stampato da Gallimard, e' una lettera d' amore di uno che non ha ceduto alla tentazione di tornare per le cerimonie, le dichiarazioni, le parate ed ha preferito scrivere da lonta no, coi soli riferimenti della memoria, il suo poetico addio. Comincio a leggerlo seduto nel Turbojet che fa la spola da Hong Kong, gelido d' aria condizionata come un obitorio pieno di cadaveri non reclamati. Philippe solleva una giusta domanda. Che cosa e' una citta' ? E la sua realta' fisica? Sono le sue case, le strade, o e' anche quello che la citta' reale evoca, facendo sorgere cosi' un' altra citta' , una citta' della fantasia, una in cui si senton le vite di quelli passati prima di noi, in cui si riflettono le proprie memorie, il ricordo delle emozioni che si sono provate lungo i percorsi che ci si son fatti? “Macao era parte di quelle citta' immaginarie che uno si porta dentro ancor prima di esserci andati", dice. Certo che per me era diventata cosi' , parte della mia vita, dalla prima visita nel 1967, quando in Cina imperversava la Rivoluzione Culturale, le guardie rosse locali avevano preso il controllo della citta' ed ai lampioni delle strade deserte pendevano, impiccati, i fantocci di paglia del governatore portoghese. Durante una dimostrazione popolare la polizia sparo' sulla folla e ci furono dei morti. I portoghesi dovettero scusarsi con Pechino e promettere che non avrebbero mai piu' usato la forza. Da allora Maca o fu praticamente gestita dalla Cina attraverso suoi rappresentanti locali, ma la vita di Macao non cambio' e la citta resto' quella che era sempre stata. Solo negli ultimi anni con l' apertura economica della Cina e con l' afflusso di enormi capital i cinesi Macao e' stata oggetto di enormi speculazioni edilizie, e' stata aggredita ed ha cambiato faccia. Mi pregustavo di continuare a leggere il libro di Pons sulle panchine un tempo affacciate sul lungomare, ma arrivandoci mi accorgo che il mare, il mare limaccioso dei vascelli immaginati, il mare delle giunche dalle vele incerate, dei pescherecci col loro vecchio ansimare, il mare non c' e' piu' . Il mare li' e' stato portato via, prosciugato con montagne di spazzatura e di detriti su cui s on cresciuti giardinetti, grattacieli e ora e' in costruzione una gigantesca torre che non so se servira' per i lanci di paracadutisti o per metterci in cima un ristorante panoramico. Non l' ho voluto sapere e certo non sono andato a chiederlo ai por tavoce del governo. Il solo con cui son riuscito a parlare e' stato un vecchissimo amico, uno che ad ogni visita qui sono andato a trovare: Padre Luigi Minella. “S.J. nato in Italia il 27.9.1911, morto a Macao il 31.1.1999 R.I.P.", come dice la sempl icissima iscrizione sulla sua tomba. L' ho

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trovato in un angolo del cimitero di San Michele Arcangelo. Ci sono arrivato passando dinanzi alla rovina della Chiesa di San Paolo, concepita da un altro gesuita italiano nel 1602, bruciata nel secolo scors o e da allora rimasta con la sola facciata a fare da simbolo a quella straordinaria aspirazione missionaria di conquistare l' anima della Cina. Anche quella spettrale, suggestiva presenza - “come un volto dalla pelle rugosa" dice Pons - e' stata viol ata. Con i lavori di restauro sono state costruite all' interno delle scaffalature in ferro che ora permettono ai turisti, quasi tutti ormai della Cina comunista, di salire all' altezza delle grandi finestre vuote e di farsi fotografare dai loro amic i in basso, come fossero dei santi fra quelli di pietra che restano nelle vecchie nicchie. In quella centrale c' e' ancora la particolarissima statua della Madonna che qui non tiene a bada sotto il suo piede un serpente, simbolo del peccato, bensi' u n drago, simbolo della Cina che tutti i Gesuiti da Matteo Ricci a Padre Minella han sognato, un giorno, di cristianizzare. E' un sogno quello che non si e' avverato. “Non c' e' da disperarsi di nulla. La storia continua", sento Padre Minella dirmi co n l' ottimismo di quelli che hanno la fede. “Tutto cambia, ma noi restiamo". E' vero: attorno alla sua tomba ci sono, ancora intoccate dalla speculazione edilizia, le lapidi di altri missionari. Su un grande marmo sotto la intestazione “Societas Jesu , Societas amori" sono elencati i nomi dei gesuiti, su un altro marmo, con una scritta in portoghese che dice “Qui aspettano la resurrezione", ci sono i nomi dei salesiani, molti di loro italiani. Padre Minella forse non ha torto. Per quattro secoli e mezzo in questa striscia di terra Occidente ed Oriente si sono incontrati, frequentati, amati, accoppiati, combattuti, disprezzati, ammirati ed in fondo mai capiti. Ma l' ultima parola non e' detta. Nonostante gli sforzi missionari fatti dal trampo lino di questa citta' dove ci sono piu' chiese per chilometro quadrato che in qualsiasi altra parte del mondo, la Cina non e' diventata cristiana, ma i cinesi che stanotte verranno a riprendersi Macao, come una conchiglia vuota da cui han gia' succhi ato via la polpa della sua storia, sono ormai piu' occidentalizzati di quanto i loro predecessori siano mai stati. La loro anima non e' stata conquistata dal crocefisso, ma la loro testa e' certo stata espugnata dal nostro modo di essere, dal modello occidentale di modernita' , dalla nostra concezione di “progresso" e dall' idea di come gli uomini debbono presentarsi per essere rispettabili. Per questo i dirigenti di Pechino stasera avranno tutti la cravatta, dimentichi del fatto che, proprio in cinese, cravatta originariamente voleva dire la corda con cui i loro antenati mongoli tenevano legati per il collo ed attaccati alle selle dei cavalli i loro prigionieri. La recente distruzione di Macao nasce dalla invasata fede nella modernita' “al la occidentale" che solo dei neoconvertiti possono avere. Quel che e' successo a Macao e' parte del progressivo scempio che i cinesi, in nome dello “sviluppo", stanno facendo delle loro citta' e delle loro stesse radici storiche: un processo pericolo so in quanto elimina i punti di riferimento che sono alla base della identita' di qualsiasi popolo, ma un processo

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di cui oggi nessuno, specie in Cina, sembra preoccuparsi. “Macao e' ormai un vecchio libro da cui sono state strappate le pagine piu' b elle", scrive Pons. Nessuno dei dirigenti di Pechino che stanno arrivando per le cerimonie di stanotte e nessuno dei turisti cinesi, con le loro coccarde colorate al petto per non perdersi fra i tanti gruppi che sbarcano qui, capirebbe. Macao e' per loro la Disneyland dei loro sogni. Per me e' un incubo. Dovunque guardo mi sento ferire. Troppo mondo viene distrutto, e troppo in fretta e Macao mi appare ora come l' esempio piu' bruciante di questo continuo massacro. Vorrei solo non vedere, non se ntire, non avere olfatto. Ero partito per stare un paio di giorni nella Macao, “la felice" come veniva chiamata, ma ormai ho solo voglia di scappare. Corro all' imbarcadero, anche quello, senza piu' poesia, diventato una sorta di stazione spaziale. N el gelo mortale del Turbojet leggo le ultime righe di Pons: “Bisogna dimenticarsi Macao, bisogna dimenticarla con tenerezza come si stempera il ricordo di un amore passato le cui vampate di felicita' sorgono a volte ancora, impreviste, dal mormorio d ella memoria". No. Mi e' impossibile. Preferisco azzerare il ricordo di questo viaggio, convincermi di non averlo mai fatto. Non voglio affatto dimenticare, anzi voglio continuare a portare la mia, immaginaria, Macao nel petto e la nostalgia di quell a casa per sempre in gabbia. Cosi' che continui a gorgheggiare. Segue dalla prima di TIZIANO TERZANI

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lunedi , 08 novembre 1999 RELIGIONE, CATTOLICA, INDUISTA Il viaggio del Papa, le paure dell' India LE RAGIONI DEGLI ALTRI

Terzani Tiziano

Il viaggio del Papa, le paure dell' India LE RAGIONI DEGLI ALTRI Una delle principali ragioni dei conflitti e, al limite, delle guerre e' che chi si trova da una parte non capisce le r agioni di quelli che sono dall' altra. La situazione si aggrava quando chi, trovandosi a raccontare quei conflitti o quelle guerre, si schiera con gli uni o con gli altri, ne rinforza cosi' i pregiudizi e con cio' contribuisce a rendere ancor piu' ir riconciliabili le due posizioni. La visita del Papa in India, col seguito di giornalisti che parlano solo con i suoi portavoce o con alcuni rappresentanti dei cristiani di qui, e' un caso tipico di rappresentazione parziale della situazione: da un la to ci sarebbero le vittime, le suore, i sacerdoti e i missionari, dall' altro i boia, le masse urlanti dei “fondamentalisti indu", per l' occasione stranamente messi nello stesso fascio dei loro piu' acerrimi nemici, i fondamentalisti islamici. Le ra gioni per cui i cristiani qui si sentono ora minacciati e perseguitati sono ben descritte. Ma le ragioni degli altri? Nessuno sembra troppo preoccuparsene. Forse e' perche' da cinque anni vivo in India e faccio un punto di stabilire dei rapporti con “gli altri", che mi e' stata recapitata una lettera originariamente indirizzata al Papa, ma molto probabilmente persasi per strada e non fatta arrivare nelle mani del destinatario. La lettera e' scritta da Swami Dayananda Saraswati, un noto monaco in diano, rifondatore dell' insegnamento vedantico ed uno degli ideologi - il piu' moderato - del movimento di rinascita induista. La lettera in due paginette rispettose e concilianti spiega appunto le “ragioni" degli altri e cerca di attirare l' attenz ione del Pontefice sul nocciolo del conflitto cosi' come esso e' visto dagli induisti. I punti della lettera sono questi: - l' India e' un Paese di antica civilta' e con una cultura religiosa che non ha difficolta' ad accettare le varie tradizioni religiose arrivate qui attraverso i secoli; - la Chiesa con il Vaticano Secondo ha si' riconosciuto il valore delle varie religioni, ma solo come mezzi per preparare al Cristo, e questo preoccupa milioni di indu' perche' implica una teologia di convers ione; - le religioni si distinguono fra quelle che convertono, come il Cristianesimo e l' Islam, e quelle che non convertono, come l' Induismo, l' Ebraismo e lo Zoroastrismo. Le prime sono necessariamente “aggressive", le seconde no; - le conversioni sono una intrusione nel profondo di una persona e tendono a distruggere comunita' e culture vecchie di secoli. Le conversioni sono una forma di violenza e come tali generano violenza;

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- la liberta' di praticare la propria religione e' un diritto nat urale di tutti, ma liberta' di religione non puo' significare aver un programma di conversioni, perche' un tale programma e' un' aggressione nei confronti della liberta' religiosa altrui; - ogni religione ha una sua bellezza ed il mosaico delle diver se religioni non fa che arricchire l' insieme dell' umanita' . La lettera al Papa conclude: “Durante gli anni del Suo pontificato, Lei ha notevolmente contribuito a cambiare certi atteggiamenti della Chiesa. In nome delle religioni non aggressive del mondo e delle religioni locali dei vari Paesi, io Le chiedo di bloccare le conversioni e di creare le condizioni in cui tutte le culture religiose possano vivere e lasciar vivere". L' appello, gia' formulato due anni fa in occasione di una conferenz a interreligiosa organizzata dalle Nazioni Unite, alle quali si chiedeva ugualmente di intervenire in questo senso per evitare l' acuirsi dei conflitti religiosi nel mondo, e' chiaro e deve essere capito nel contesto di una cultura, come quella india na, che, pur non volendo isolarsi dal resto del mondo, cerca a suo modo di mantenere, ed oggi - con il Bjp (Partito nazionalista indiano) al governo - di rafforzare, la sua identita' . La religione ne e' una parte fondamentale e la parola “conversion e" e' un anatema perche' suscita ricordi di umiliazioni e sconfitte subite dagli indiani secoli fa quando gran parte del Paese venne sopraffatto dagli invasori musulmani. Centinaia di migliaia di indu' vennero allora convertiti a fil di spada all' Is lam e centinaia di templi indu' vennero abbattuti per essere rimpiazzati da moschee. Furono quelle conversioni a creare le condizioni per cui al momento dell' indipendenza dall' Inghilterra il Paese venne arbitrariamente spaccato in due tronconi: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l' India, a maggioranza indu' . Sono state quelle conversioni di quasi 500 anni fa e quella spaccatura del 1947 a dare origine al piu' grande conflitto interno che ancor oggi indebolisce e di tanto in tanto insang uina il Paese. Il Cristianesimo non e' mai stato in questo senso una minaccia paragonabile a quella musulmana: non solo perche' la percentuale di cristiani sull' intera popolazione e' insignificante, ma perche' il Cristianesimo, con la sua presenza q ui di quasi duemila anni, e' diventato a suo modo una delle tante religioni indiane ed una in cui gli indiani riconoscono vari aspetti della loro. Il fatto che quella religione sia poi stata complice del colonialismo non la rende particolarmente invi sa in un Paese in cui le tracce di quel tempo sono ancora dovunque e dove i “colonizzatori" sono generosamente ricordati come “parte della nostra storia". La preoccupazione nei confronti delle conversioni cristiane ha a che fare con la progressiva in troduzione nel Paese di tutto cio' che la modernizzazione, vista soprattutto come occidentalizzazione, comporta. Nuovi prodotti, nuove idee, nuovi valori stanno lentamente mutando il modo di vivere e di pensare degli indiani, specie quelli urbanizzat i. Da qui la reazione di quelli - e sono ancora tantissimi - che cercano di impedire all' India di diventare un Paese “globalizzato", un Paese come tutti gli altri. Per questo i politici di qui simbolicamente non si vestono, come ormai

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fanno i dirige nti cinesi, con giacca e cravatta. Per questo qualcuno si chiede giustamente perche' si debba presto celebrare anche qui la fine di un secondo millennio, calcolato secondo un calendario fondato sulla nascita di Cristo, il cui nome non sarebbe che una variazione del dio Krishna nato in India molto prima e la cui capitale, ora sotto il mare, e' appunto oggetto di grandi scavi archeologici per essere riportata alla luce. Tiziano Terzani

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domenica , 04 luglio 1999 COMMENTI Lettera dall'India Io, senza nome a scuola dal guru

di Tiziano Terzani

CONTINUA A PAGINA 31 ANAIKATTI HILLS (Tamil Nadu), giugno 1999 - Scrivo queste righe da uno strano posto. Strano, almeno per chi, come me, abituato da una vita a stare in mezzo alla gente e a scorrazzare per il mondo a raccontarne le storie e i mil le problemi, improvvisamente si ritrova isolato da tutto, senza radio, senza televisione, senza giornali e con un unico problema su cui riflettere, ora per ora, giorno per giorno, settimana dopo settimana: «Chi sono io?». Da più di due mesi vivo, d a «sisha» (colui che merita di studiare), in un «gurukulam» (famiglia del guru) nel Sud dell'India. Ho una mia spartanissima cameretta, mangio assieme a un centinaio di altri «sisha» seduto per terra, con le mani, da un piatto di metallo in cui, da d ei gran calderoni, mi viene messo del cibo esclusivamente vegetariano - per cui mai uova o formaggio -, studio Vedanta, la parte finale dei Veda, i testi sacri indiani in traduzione inglese, e prendo lezioni di sanscrito, la lingua originale in cui q uesti testi sono stati tramandati, prima oralmente e poi per iscritto da tre, quattro millenni; forse da più. Le ragioni che portano una persona in un posto come questo, un «ashram» (eremitaggio), sono le più svariate. Fra i miei compagni di corso, tutti indiani, ci sono giovani sui trent'anni di buona famiglia e di ottima educazione che han fatto voto di celibato, si dicono liberati d'ogni possesso e desiderio materiale e si apprestano a indossare l'abito arancione dei «sannyasin», i rinuncia tari, i mendicanti spirituali; ci sono vecchi con alle spalle vite di successo, venuti qui per familiarizzarsi con l'idea della morte, convinti come sono che dopo di quella torneranno a vivere in un altro corpo, non necessariamente uno umano, ognuno con un suo bagaglio di meriti e demeriti, karma, con cui dovranno fare i conti. Altri, specie le donne, son qui per dare un senso alla propria esistenza spesa, in India più che altrove, in un labirinto di riti e doveri familiari e sociali. Alcuni son qui invece che essere sul divano di uno psicanalista; altri ancora perché questo splendido isolamento dai rumori e dalle tensioni del mondo non costa nulla, o al massimo una piccola, discrezionalissima offerta: i ricchi seguaci del guru, fra cui alc uni dei grandi industriali del Paese, pagano per tutti.

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domenica , 04 luglio 1999 CULTURA Terzani racconta la sua esperienza ascetica in una comunita hinduista: i rituali di lavaggio e vestizione, le formule sacre, la meditazione INDIA Uno straniero nella famiglia del guru

Ci sono giovani che rinunciano a tutto, vecchi che si abituano all'idea della morte. La sveglia e alle cinque, i pasti a base di ceci lessi Alle dieci l'ashram dorme.

di Tiziano Terzani

SEGUE DALLA PRIMA Fra le mie ragioni - quelle coscienti almeno - del venir qui ce n'è una semplicissima: dopo essere vissuto per quasi cinque anni in India, m'era parso di non far più progressi nella comprensione del Paese, e questo perché non mi e ro mai seriamente impegnato a studiare il fondo di tutto ciò che è indiano: la religione. Ero come un marziano che fosse arrivato nella Firenze di Dante e avesse preteso di capirla visitando ogni tanto qualche chiesa e ignorando i Vangeli. Da qui l a decisione di affrontare i loro. In India la religione è una componente fondamentale della storia: la sola vera grande rivoluzione che il Paese abbia mai conosciuto fu una rivoluzione religiosa, il buddhismo, cinque secoli prima della nascita di Cri sto. Uno dei grandi valori religiosi, ahimsa, la non-violenza, ha così determinato il carattere della gente di qui che per almeno tremila anni gli indiani non hanno invaso un altro Paese, non sono mai entrati da conquistatori nelle terre altrui. Hann o esportato sì la loro civiltà, la loro arte, i loro dei, ma solo mandando architetti, scultori e sacerdoti a costruire templi come Angkor in Cambogia o Borobudur nel centro di Giava. Quella non-violenza li ha resi docili a quattro secoli di dominazi one musulmana e a un secolo e mezzo di colonizzazione inglese; ma quella stessa non-violenza, nelle abilissime mani di Gandhi, è stata poi anche lo strumento della loro liberazione. Ancora oggi nell'India, pur modernizzata e in parte occidentalizza ta, il divino è presente nella quotidianità della gente come in nessun altro Paese. E' nel contadino che automaticamente tocca la terra prima di uscire di casa al mattino, è nel gesto di versare alcune gocce d'acqua sul cibo prima di mangiarlo; è nel modo stesso con cui la gente qui si saluta. Noi ci stringiamo la mano dopo averla aperta per mostrare che non ci nascondiamo delle armi; qui la gente unisce le mani al petto e si dice reciprocamente, «Namaste», saluto la divinità che è in te. Le t re guerre che l'India ha combattuto con il Pakistan dal 1947, così come il conflitto che minaccia continuamente di scatenarsi in Kashmir, hanno origini religiose, essendo il Pakistan nato dalla spartizione secondo linee religiose dell'India inglese. La religione è l'unica vera ragione della esplosiva tensione che ancora separa all'interno del Paese la

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popolazione musulmana (120 milioni) da quella hindu. Ugualmente religiose sono le motivazioni della recente campagna - a mio parere solo agli iniz i - che alcuni gruppi fondamentalisti hindu stanno conducendo contro la minoranza cristiana. Religione, religione, religione. Forse la più antica sistematizzata religione del mondo; quella col più vecchio e più completo capitale di saggezza dell'uman ità; la religione che ha fornito miti e concetti - tipico quello del Paradiso - ripresi poi da tutte le successive religioni, eppure una religione, questa dell'India, senza una sua struttura istituzionale, senza una Chiesa: una religione in fondo sen za neppure un nome, visto che quello con cui è conosciuta nel mondo, Hinduismo, è uno che le venne affibbiato da uno studioso inglese nel secolo scorso e che gli indiani stessi evitano di usare. Basta visitare alcuni templi indiani per confondersi ancora di più sull'essenza di questa fede: in alcuni si venerano parti del corpo umano, in altri si venerano animali come i topi, nei più la gente si prostra e prega dinanzi a una varietà di figure metà bestie metà uomini. Il numero delle divinità og getto di devozione appare infinito, eppure tutte - ci vien detto - sono espressione di un unico dio, lui stesso però portatore di... tanti nomi. Tanto valeva che cercassi di avvicinarmici, e non studiandolo sui libri, non leggendone le definizioni fo rnite da accademici occidentali, ma alla maniera tipicamente indiana: andando a cercarmi un guru. Guru è una bella, antica parola purtroppo avvilita dall'uso che se ne è fatto in Occidente: gu significa «tenebra», ru vuol dire «cacciare»; per cui i l guru è colui che scaccia la tenebra, colui che porta luce nel buio dell'ignoranza. Quello che mi sono scelto non è uno dei tanti, famosi santoni alla moda a cui accorrono frotte di occidentali, uno di quelli che fanno «miracoli» o li promettono. Il mio guru è un intellettualissimo studioso, un uomo di notevole cultura, uno che molti in India considerano già come il successore di Shankara, il grande commentatore delle scritture sacre dell'VIII secolo d.C., perché ha reintrodotto con successo la tradizione classica d'insegnamento e ha già formato alcune centinaia di nuovi swami, maestri, che ora ripropongono la versione originaria del Vedanta in tutto il Paese. Il mio guru è anche uno degli ideologi, uno dei più moderati, di quel movimento di rinascita nazional-hinduista che ha la sua espressione politica nel partito del Bjp, oggi al potere. Si chiama Swami Dyananda Saraswati, ha 70 anni, da giovane fu giornalista, il suo gurukulam è isolato, nelle colline a nord di Coimbatore, sulla v ia di una delle ultime foreste tropicali d'Asia, la Valle Silenziosa. Entrandoci in aprile ho avuto l'impressione d'approdare finalmente in India, di non essere più un semplice visitatore. Mi sveglio alle cinque del mattino al suono di un campanacc io, per un'ora osservo nel tempio il rituale lavaggio degli idoli e la loro vestizione godendo del magnifico salmodiare dei mantra, i suoni sacri; per mezz'ora partecipo alla meditazione di gruppo, poi dopo colazione - di solito a base di ceci lessi - seguo le lezioni interrotte dal pranzo - riso e ceci lessi - e dalle varie pause per il tè. Al tramonto vado al

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tempio per la cerimonia del fuoco, o da solo su una delle colline per il glorioso calare del sole. Dopo cena - per lo più ceci lessi e r iso, questa volta però con l'aggiunta di yogurt! - c'è una conversazione di gruppo su un tema che ognuno può proporre. Alle dieci l'intero ashram dorme. Il succo di tutto l'insegnamento è più o meno questo: l'esperienza che ognuno fa di se stesso e del mondo è fondata sulla divisione fra soggetto e oggetto, fra chi conosce e ciò che viene conosciuto. L'Io percepisce l'intero universo come qualcosa fuori da sé e si sente perciò come una limitata, insignificante esistenza sulla scala del mondo. Da questa dualità scaturiscono tutti i problemi: innanzitutto quello della ricerca del Creatore di questo universo che l'Io si trova dinanzi, di cui si accorge che è così intelligentemente messo assieme, e di cui sa di non poter essere l'autore. Comi ncia così quella ricerca di un Dio esterno all'Io che è di tutte le religioni. Ecco che entrano di scena le scritture sacre, i Veda, o meglio la parte finale di questi, il Vedanta. Con una serie di ragionamenti logici che nascono dall'esperienza che uno fa di sé e del mondo, le scritture dimostrano, allo stesso modo con cui gli occhi vedono e gli orecchi sentono, che partendo dall'analisi dell'Io questa dualità fra conoscitore e conosciuto è falsa, non esiste e che tutto, tutto è semplicemente c oscienza, che quella coscienza è dovunque, è fuori dal tempo e dallo spazio, che quella coscienza è atma, è Brahman, è Ishavara e che la risposta alla domanda «Chi son io?» è semplicemente: «Tat tuom asi», tu sei questo. Tu sei dio, tu sei il Creator e dell'intero universo. Da qui l'idea tutta indiana che dio è in ogni forma, in ogni cosa perché non ci sono vari dei, perché non c'è un solo dio, ma perché tutto è dio. «Allora come va chiamata questa religione?», ho chiesto al swami in una dell e nostre conversazioni in cui ho voluto registrare come un religioso d'Oriente vede il mondo d'oggi e i suoi problemi. «Vedanta non è una religione, è una cosa più spirituale... Vedanta è conoscenza, la conoscenza...». «Ma lei come si definisce?» . «Io? Sono... un barbone spirituale», ha detto divertito. «Sono un sannyasin. Questi abiti arancioni indicano che seguo la tradizione vedica, ma questo non mi fa un hindu... l'hinduismo non esiste. Quel che perseguo è comune a tutti gli uomini, è universale. Questo è il grande pregio del Vedanta. Per questo nella nostra visione ognuno è libero di adorare dio come vuole, di chiamarlo con il nome che preferisce, Gesù, Allah, Jehowa. Per questo noi rispettiamo tutte le religioni e non abbiamo co nflitti con nessuno». «Non è vero. Il conflitto c'è già. I cristiani vengono aggrediti da bande di ultrà hindu, ci sono già stati dei morti; delle chiese sono state messe a fuoco... e lei stesso non fa mistero della necessità di bloccare l'espansio ne cristiana in India», rispondo sapendo che Swami Dyananda è coinvolto con varie iniziative, compresa l'organizzazione di un convegno e di una grande manifestazione a Madras a metà luglio, per pubblicizzare un'idea che il swami ha già presentato rec entemente in un discorso a una commissione delle Nazioni Unite: il congelamento delle conversioni cristiane in India. «Il

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problema delle conversioni è diventato estremamente serio in questo Paese, specie qui nel Sud. Le conversioni sono una forma d i violenza. La Chiesa cattolica e le varie sette protestanti stanno facendo un grande sforzo e investendo montagne di soldi per convertire la nostra gente. Questo è diventato inaccettabile perché cambia la nostra cultura, crea conflitti e tensioni ch e sarebbe invece bene evitare. Non abbiamo niente da obiettare contro gli ebrei, contro i parsi: quelli sono come noi hindu, non vanno in giro per il mondo a convertire la gente. Queste, come la nostra, sono fedi non aggressive. Diverso invece è il c aso dell'Islam e del cristianesimo. Quelle sono religioni missionarie, aggressive. E non si possono mettere a confronto queste con quelle perché una religione come la nostra è subito in svantaggio». «Ma questa è l'epoca del mercato libero, mercato di beni, mercato di idee, di religioni. Come si può andare contro questo?», chiedo. «Questo mercato non è libero perché il debole non è libero dinanzi al forte e le religioni non aggressive, non combattive non possono competere con quelle aggressiv e. Per questo debbono essere protette. Noi siamo vittime di una aggressione. Qualcuno deve intervenire, le Nazioni Unite eventualmente, ma innanzitutto la Chiesa deve bloccare le sue conversioni. Se questo non succede qui si creano le condizioni per una violenta reazione. I cristiani vogliono un dialogo? Siamo prontissimi, ma innanzitutto debbono smettere di pestarci i piedi», dice il swami. Vivekanda, il grande filosofo, propagandista hindu, all'inizio del secolo predisse che Vedanta sarebbe pr esto diventata la religione del mondo. Swami Dyananda la pensa allo stesso modo. Dubito che i fatti daranno loro ragione, ma almeno per quanto riguarda l'India l'attuale rinascita della tradizione classica del Vedanta è un fenomeno che non va sottova lutato e, dati i suoi connotati nazionalisti, è un fenomeno con cui le altre religioni, specie quella cristiana, qui da quasi duemila anni, dovranno fare i conti. «Già... duemila anni, cosa sono nella storia dell'India? Comunque nessuno mette in disc ussione il diritto dei cristiani a essere in India. Ci stiano pure altri duemila anni! Chiediamo solo che non continuino a distruggere la nostra cultura come hanno fatto con tante altre antiche culture in America Latina e in Africa. Anche questa è un a forma di globalizzazione contro cui dobbiamo resistere. Lasciamo che il mondo mantenga le sue diversità». Così parla oggi in uno strano posto nell'India del Sud un influente «barbone spirituale» che vorrebbe tanto aprire un dialogo con la Chiesa e convincere magari il Papa in persona a bloccare le conversioni: un messaggio questo che, visto il mittente, mi pare valga la pena registrare, mentre io continuo, solo per qualche giorno ancora, nel mio quotidiano arrovellarmi su... chi sono. P. S. Nel caso queste righe dovessero cadere sotto gli occhi di un cardinale, mi sia concessa una postilla: «Eminenza, non le pare che anche la Chiesa potrebbe fare da noi qualcosa di simile a questi ashram? Non sarebbe una buona idea prendere qualche v ecchio convento vuoto, qualche proprietà in disuso e metterla a disposizione di tanti che potrebbero andare lì a riflettere

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sulle proprie frustrazioni e sul senso della vita invece che andare a cercare risposte consumistiche nelle vacanze al mare... o risposte più spirituali, ma sempre da vacanza, negli ashram dell'India o nei monasteri tibetani?».

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domenica , 17 gennaio 1999 CULTURA Popoli di civilta e religioni diverse vivono nello stesso Paese, straordinaria cassaforte dell'umanita. Ma il modello occidentale di sviluppo minaccia la loro identita, condannandoli all'estinzione. E' il caso dei Rabari INDIA Nomadi in fuga dal mercato globale

Un'esistenza primitiva ma per molti versi migliore di quella condotta da chi vive nella societa del benessere di TIZIANO TERZANI

Pubblichiamo un brano della prefazione di Tiziano Terzani al libro fotografico «Rabari», di Francesco d'Orazi Flavoni, edito da «Stampa Alternativa» (pagine 148, lire 45.000).Ero arrivato in India da poco ed una sera, a cena in casa di amici, la signora che mi sedeva accanto, sentendo che ero italiano, mi sorprese chiedendomi che cosa sapevo di Giove: «Poco», risposi imbarazzato. Ma lei insistette: «Quanti sono oggi i suoi seguaci a Roma?». Solo col tempo, viaggiando ed imparando a conoscere il Paese, mi resi conto che quella domanda non era così assurda come m'era apparsa allora. In India la storia non è un susseguirsi, ma un affiancarsi di fatti; il medioevo coabita con la modernità, i computer - ed ora le bombe atomiche - nascono in u na società che nella quotidianità usa ancora strumenti che sono dell'età della pietra, ed una nuova verità - o una credenza - non ne soppianta necessariamente una precedente. Così, siccome in India accanto agli hindu ed ai musulmani, ai cristiani ed ai buddisti, sopravvivono ad esempio gli zoroastriani adoratori del fuoco ed i jain i cui sacerdoti portano delle garze sulla bocca e sul naso per non uccidere, respirandoli, i microbi, per la mia signora indiana era inconcepibile che una fede come q uella seguita dai Romani [...]non avesse più i suoi devoti. Questa è una delle meraviglie dell'India: la gente vive nella stessa geografia, ma in una storia che varia; lo spazio è lo stesso per tutti, ma il tempo è diverso. Ognuno sta nel suo. A vo lte, per accorgersene, basta voltare un angolo o solo osservare una folla. Un giorno stavo seduto in una casa da tè nel mercato di Ahmedabad perso a guardare il solito, vario scorrere della vita sulla strada, quando dal coloratissimo andirivieni di q uella straordinaria collezione di umanità che l'India è sempre, vidi spuntare due particolarissimi personaggi: un uomo alto e maestoso, dai grandi baffi neri, gli orecchini d'argento, un corpetto ed un turbante bianco, seguito da una donna snella e d ritta come un fuso, vestita di nero, avvolta in uno scialle di intricati ricami colorati. La loro primitiva bellezza mi folgorò. Si sedettero davanti a me e io non riuscii più a togliergli gli occhi di dosso. Osservavo le loro dita lunghe e forti, i loro capelli corvini, i sorrisi

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bianchissimi, gli occhi di fuoco, le ciglia folte, i nasi dritti, i corpi asciutti. Nel mio calendario era il 1995, ma quelli venivano come da un altro tempo, dall'anno zero forse; quelli erano esemplari di un'umanit à primordiale, come doveva essere l'umanità alla creazione, un'umanità ancora in comunione con la natura, un'umanità non ancora indebolita dal comodo, non ingrassata dal «benessere», non intristita dal «progresso». I due mi parevano la rappresentazio ne olografica dell'uomo dell'Eden prima della cacciata: regale, sereno, in controllo di sé e del mondo [...]. Poi una domenica pomeriggio, Francesco d'Orazi Flavoni che passava parte del suo tempo libero nel deserto del Kutch sulle tracce di una pa rticolare razza di allevatori di cammelli, venne a farmi vedere una sua emozionante collezione di fotografie e quegli straordinari personaggi d'altro tempo, finalmente, ebbero anche per me un nome, una identità: i Rabari [...]. Le immagini che d'Oraz i Flavoni faceva scorrere sotto i miei occhi erano più che un ricordo: illustrando la vita di un piccolo gruppo di persone raccontava una grande storia, la storia di una umanità che, ancora incontaminata dal moderno, cerca di restare se stessa, di ma ntenere le proprie tradizioni e con ciò la propria identità dinanzi alla prospettiva ormai comune a tutti i diversi, di estinguersi per assimilazione. A loro modo i Rabari sono un ottimo esempio di quel problema che pochi osano ormai porre, ma su c ui è sempre più urgente riflettere: che cosa è progresso, che cosa è felicità, che cosa è giusto, che cosa è bello, che cosa è saggio? Che cosa stiamo facendo della terra e di noi stessi affidandoci completamente alla tecnologia di cui certo sappiamo che può salvare e prolungare la vita, ma che anche la avvelena e la svuota di gioie e di pace? I Rabari sono un ottimo esempio di una comunità che attraverso i secoli ha raggiunto un suo equilibrio ed ha sedimentato, col suo sperimentato modo di viv ere, un'etica, un'estetica ed una saggezza che non è possibile giudicare dall'esterno con metodi e valori cresciuti in altri contesti. Tutto quel che i Rabari sono può essere visto da un disattento occhio occidentale come misero, retrogrado e al li mite persino come orribile, riprovevole. I bambini messi a ricamare o a badare i cammelli fin da piccoli e promessi in matrimonio ben prima della pubertà sono un anatema per chi pensa in astratto alla protezione dei diritti umani. Le donne che filano , tessono e fanno duri lavori manuali, mentre gli uomini badano le greggi e fumano sono per il fontamentalismo femminista un esempio di sciovinismo maschilista, di sfruttamento e di repressione, eppure queste pratiche «barbare e incivili» son lì da s ecoli, in una società che funziona, che ha trovato un suo ordine. Le condizioni di vita dei Rabari appaiono primitive, ma la qualità del loro esistere è per tanti versi migliore di quella di tanta gente che vive nel preteso benessere della modernit à [...]. I Rabari hanno origini nomadi e come nomadi vivono vicini alla terra; come i loro cammelli han bisogno di poco per sopravvivere a lungo. Come i loro cammelli, ora minacciati dall'avanzare inarrestabile di altri mezzi di locomozione, anche i Rabari vivono sotto la minaccia di cambiare irrimediabilmente

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[...]. Bisogna averli visti i cammelli caracollare eleganti e leggeri nel fetore soffocante del traffico di Jaipur inquinata, o all'alba a migliaia nella piana polverosa di Pushkar per la fiera annuale, per capire come l'identità dei Rabari sia legata a quelli e come, essendo i cammelli sentiti come creature semidivine, loro che se ne occupano si sentano esseri superiori, discendenti d'un unione fatta in cielo. Eppure il loro stato semi-divino non salverà i cammelli ed i Rabari finiranno per perdere con questo la loro identità come gli aborigeni australiani persero la loro: avevano fondato tutte le loro certezze sul credersi i soli al mondo e la semplice vista di un uomo bianco li distrusse. Come tanti altri indiani i Rabari potrebbero presto finire per bere Coca-Cola invece che latte e per mangiare le patatine sintetiche [...]. C'è qualcosa di ripugnante, di sacrilego in tutto questo sovversivo tentativo di mettere in d iscussione, in nome del progresso e della libertà di informazione, ciò che è stato in piedi per secoli, nello sforzo di omogeneizzare e di globalizzare tutto e tutti, non certo con l'intento sincero di migliorare la vita della gente, ma con quello di aprire nuovi mercati, di vendere idee, modelli e con ciò prodotti d'importazione [...]. Se ci deve essere una globalizzazione deve essere quella della presa di coscienza che la distruzione della vecchia Pechino o della cultura tibetana non è solo un affare dei cinesi, ma riguarda anche gli altri popoli e che la assimilazione di un piccolo gruppo di bella, antica gente come i Rabari impoverisce tutti. L'India è una straordinaria cassaforte di umanità, una gigantesca arca di Noè stivata di uomi ni di tutte le epoche, di tutte le civiltà, di creature ancora non addomesticate e deformate dal progresso, ancora non indebolite dal vivere urbano e fra cui potrebbero essere sopravvissuti anche dei seguaci di Giove. Eppure proprio oggi anche quella immensa riserva sta per appiattirsi, per eliminare le sue interne diversità. Le cause ultime sono sempre le stesse: la razionalizzazione, le regole di mercato, la logica dei commercianti. Le antiche società sapevano che non si poteva lasciare a cost oro la gestione del mondo e non a caso Confucio, sistematizzando la struttura piramidale della società cinese relegò i mercanti al livello più basso, dopo i sapienti, i militari e i contadini. Oggi le società moderne hanno rovesciato quella piramide ed i mercanti con la loro etica, la loro estetica sono in testa a tutti.

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venerdi , 29 maggio 1998 PRIMA PAGINA I PACIFISTI ARMATI

di TIZIANO TERZANI

CONTINUA A PAGINA 2 NEW DELHI - Quarantasei gradi e mezzo all'ombra. Il caldo è soffocante. Il condizionatore d'aria non funziona perché da giorni l'elettricità va e viene. Apro il rubinetto dell'acqua, sperando di rinfrescarmi sotto la doccia, ma dopo un promettente gorgogliare d'aria, non esce nulla. Cerco di telefonare all'amministratore del mio condominio, ma il telefono è muto. In mia assenza qualcuno ha dato una manciata di rupie al locale funzionario dei telefoni e quello ha attaccato l a mia linea all'apparecchio di qualcun altro. Sono stato via dall'India per alcuni mesi e tornare a casa è il solito sofferto piacere. «Di questa stagione è sempre così: né luce né acqua. Ma almeno ora abbiamo la bomba», viene a consolarmi, con la su a saggia ironia, il mio vicino. Ha fatto la sua passeggiata nei giardini di Lodhi dove gli avvoltoi son venuti, come ogni anno, ad affollare le cupole delle vecchie tombe Mogul, ha acceso le bacchette d'incenso, ha pregato davanti ai suoi dei e ha tutto il tempo per darmi una delle sue solite lezioni d'indianità. «Siamo come quei poveri che a casa mangiano solo riso, ma quando escono si ungono le labbra di burro per far credere alla gente d'aver mangiato anche del buon condimento». LETTERA DALL'INDIA * *

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domenica , 24 agosto 1997 CULTURA Avvincenti storie di streghe, fantasmi e spiriti fra rocce, boschi e vecchie case in un incantevole piccolo borgo sull'Appennino toscano, senza storia e senza eroi. Pochi gli abitanti, ma tanta l'umanita e la saggezza La Selva oscura nella Valle dell'Orsigna

Le pecore coi ragazzi della mia eta, a cercare funghi, a raccoglier mirtilli, a guardare la levata del sole. E’ stata la mia scuola di vita. Qui ho fatto il mio primo ballo. Dopo tante avventure intorno al mondo e tanti amori per il Vietnam, la Cina, il Giappone ed ora per l'India, mi domando se questo luogo non sia il mio vero, ultimo amore

TIZIANO TERZANI

Le streghe erano tre. Stavano sedute sui rami alti del noce accanto alla fontana. Confabulavano e ridevano. Dapprima Ettore sentì solo le loro voci, poi, aguzzando gli occhi già abituati al buio della notte perché tornava a casa dopo aver giocato a carte con gli amici, le riconobbe. Volle scappare, ma anche le streghe avevano riconosciuto lui e la più vecchia lo bloccò con la sua maledizione: «Ettore, quel che hai visto scordatelo. Se mai ti esce una sola parola di bocca, subito morirai». Passa rono gli anni ed Ettore non disse mai nulla a nessuno. Poi un giorno che era in Calabria a fare il carbone con dei compaesani e che il discorso, durante la cena, cadde sulle streghe, e che il noce, la fontana e il bar gli parevano lontanissimi, gli v enne da aprirsi il cuore. «Io le streghe le ho viste...». E fece i nomi. La mattina dopo, mentre era al lavoro, una carica di legna gli venne inspiegabilmente addosso ed Ettore ci rimase secco. Questa fu una delle prime storie che mi raccontarono q uando arrivai ad Orsigna. Ero bambino, venivo dalla città a villeggiare e volevano che imparassi a comportarmi ed a rispettare i tabù della montagna. Ogni bosco, ogni forra, ogni roccia sembrava averne uno e i loro nomi parevano fatti apposta per n on far perdere alla gente la memoria delle loro origini, così come le croci e le madonnine messe lungo i sentieri e per le selve. La Tomba era un piano che una donna, per sfidare la credenza che lì ci si aggirava uno spirito, una notte d'inverno avev a voluto attraversare. Dal grembo le era caduto il fuso con cui filava la lana, quello s'era piantato nella neve bloccandole la gonna, lei s'era sentita come tirata da una mano invisibile e al mattino l'avevano ritrovata stecchita, morta di paura. Il Fosso dello Scaraventa era dove uno che diceva di non credere ai fantasmi era stato da quelli buttato giù per le balze. La Pedata del Diavolo era dove il demonio, che abitava nella valle dell'Orsigna -

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chiamata ai vecchi tempi «La Selva oscura» -, a veva appoggiato per l'ultima volta il piede, scappando dinanzi alla Madonna, venuta a liberare gli abitanti dalla dannazione eterne. Su quel pezzo di terra ancora oggi non cresce un solo filo d'erba. Quei posti, con le loro leggende raccontate dai ve cchi, m'incantarono. Sono passati cinquant'anni, sono stato nel frattempo negli angoli più strani e lontani del mondo, ma da quell'incanto non mi sono liberato e l'Orsigna, con le sue duecento «anime», come qui chiamano ancora gli abitanti, resta il mio ombelico sulla terra. «Orsigna, 806 metri sul livello del mare», dice il cartello all'inizio del paese. Firenze è a soli 75 chilometri di distanza, ma la strada che oggi ci arriva non va da nessun'altra parte e bisogna conoscere il segreto di una curva sulla vecchia, ottusa Porrettana per vedersi aprire, inaspettata, ogni volta come riscoperta, questa valle ariosa in un semicerchio di monti i cui colori marcano il passar delle stagioni. Al contrario dell'Abetone, Maresca, Gavinana o San Marcello, paesi noti dell'Appennino toscano, Orsigna non ha mai avuto una sua ragione di vanto. Non c'è mai successo nulla di storico, non ci si è fermato mai nessuno di famoso. L'unica lapide del paese è quella sulla facciata della chiesa, coi nomi e le fotografie smaltate di una ventina di ragazzi di qui, morti nella Grande guerra. Il più vicino che un «grande» sia mai arrivato fu a cinque chilometri: quando il Carducci dovette fermarsi alla stazione di Pracchia a causa di un guasto alla locom otiva del treno che lo portava alle Terme di Porretta. Io ad Orsigna ci venni per la prima volta nel 1945, portato da mio padre, che c'era stato da giovane, quando, per sciare, si legavano le palanche delle staccionate alle scarpe. Ci arrivammo a piedi, lungo la mulattiera. Non era un vero posto di villeggiatura e trovammo facilmente una camera da affittare. Per alcuni anni stemmo dall'Azelia, la postina, poi dalla Filide, una pastora che da ogni marito che le era morto aveva ereditato qua lcosa e la cui casa era per questo una delle migliori del paese. Ogni estate ero lì a badar le pecore coi ragazzi della mia età, a cercar funghi, a raccoglier mirtilli, a guardare la levata del sole da una delle cime, tutte sotto i duemila metri, m a tutte - per me - altissime. L'Orsigna è stata la mia scuola di vita. Qui ho fatto il primo ballo, ho avuto il primo amore, le prime paure, i primi sogni. Coi miei primi risparmi comprai il prato dove avevo mandato l'aquilone e con le pietre del f iume ci feci una casa come quelle degli altri, solo con la porta e le finestre più grandi. Il pensiero di quel posto m'è servito da bussola nei miei vagabondaggi nel mondo e quando ai miei figli, cresciuti sempre in paesi d'altri, ho voluto dare dell e radici e mettere nella memoria l'odore di una casa a cui legare poi la nostalgia dell'infanzia, ho imposto loro, come regola di famiglia, di passare ogni anno due mesi ad Orsigna. C'era in questa valle selvaggia con la sua gente senza storia - tr anne quella d'una gran miseria - senza gloria - tranne quella delle leggende di cui si sentivano protagonisti - una misura di umanità che volevo i figli imparassero e si portassero dentro. Strana gente quella dell'Orsigna! Già i loro nomi mi impres sionarono quando arrivai. Gli uomini si

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chiamavano Assuero, Smeraldo, Antimo, Elio; le donne Sedomia, Elide, Fortunata. A me, fiorentino, pareva strano che loro non sapessero bene chi fossero i loro antenati. Alcuni dicevano che venivano da una compa gnia di ventura a cui un signore, non potendoli pagare, aveva dato in feudo la valle. Da qui i loro nomi di famiglia: Venturi, Caporali e quello d'un caseggiato chiamato il Vizzero. Altri dicevano che all'origine erano dei contrabbandieri che in ques ta valle inaccessibile e zona di confine fra le terre del Papa e quelle del Granduca di Toscana, evitavano di pagare il dazio alle Gabbellette (un posto si chiama appunto così) e varcavano la montagna in un punto impervio chiamato, non a caso, Porta Franca. Certo è che in questa valle, scura di boschi di castagni e faggi, gli orsignani, lontani dalle città - Firenze e Pistoia - di cui diffidavano, erano cresciuti liberi e pieni d'orgoglio. Abitavano nei loro piccoli borghi sparsi lungo le cost e dei monti; ed anche alla Chiesa, come si chiama ancora oggi il paese vero e proprio, ci andavano solo per la Messa, per giocare a carte, per bere e per comprare il sale ed i fiammiferi. Il resto lo facevan da sé. Eran pastori e dalle pecore e dai c astagni tiravano tutto quello di cui avevano bisogno. Anche dal medico ci andavano solo in punto di morte. Alighiero sapeva bloccare il sangue di una ferita recitando una formula misteriosa; Ubaldo - quello vive ancora - con una sua formula segnava il fuoco di Sant'Antonio. Gli orsignani era gente che aveva tempo. Con un filo d'erba in bocca, stavano per ore ed ore in cima ad un colle a guardare il gregge con tutto l'agio di pensare e di tacere. Mi parevano conoscere l'animo umano come pochi . Da ogni piccola vicenda mi sembravano capaci di tirar fuori l'archetipo con quella semplicità in cui, piano piano, ho imparato a riconoscere la grandezza. Erano, per necessità, grandi osservatori della natura e da quella tiravano sempre grandi le zioni ed il senso di un equilibrio che si rifletteva nel dar vita, a volte solo con un nome e una leggenda, ad ogni sasso, ad ogni forra. Crescendo imparai ad apprezzarli sempre di più. Io andavo in capo al mondo a cercar di capire qualcosa; loro, senza saper né leggere né scrivere, restando sempre lì, ma facendo d'ogni piccolezza un capitale, s'eran costruiti un gran sapere, mi pareva. Tornavo dal Vietnam e Alighiero, che la guerra l'aveva vista solo una volta quando i tedeschi eran venuti a bruciare una borgata nella valle per rappresaglia d'un attacco partigiano, sembrava saperne tanto più di me. E forse era così. Io avevo visto per un attimo un grande bagliore, lui aveva visto il lento scorrere delle cose nella loro interezza. I cin esi hanno una bella espressione per descrivere come io vivevo - ed ancora vivo. - «Guardare i fiori dal dorso di un cavallo». Proprio così: in 25 anni d'Asia ho visto tanti fiori, a volte straordinari, grandi, ma dall'alto di un cavallo, sempre di co rsa, sempre a distanza, senza troppo tempo per soffermarmici. Gli orsignani hanno visto pochi fiori, forse piccoli, ma ci sono stati accanto, li hanno visti sbocciare, crescere, morire. E di quello straordinario ciclo della vita son diventati esperti . E liberi, anche dalla morte. Questo è un posto in cui tanta

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gente s'è suicidata come non volesse dipendere dai disegni di nessuno, neanche da quelli, all'ultimo, del loro Creatore. La Nunziatina, mia vicina, qualche anno fa, si buttò dalla fi nestra per poter andare ad occupare al cimitero la tomba che s'era resa libera accanto a quella del marito. Aveva sentito che un'altra donna del paese era stata portata all'ospedale e sapeva che, se quella moriva prima di lei, lei avrebbe perso il po sto in cui voleva esser sepolta. Gli orsignani vivevano in un mondo tutto loro, con regole loro, e della città rifiutavano tutto. Persino la spiegazione del nome del loro posto. Orsigna, stando agli storici, veniva dal fatto che la valle, menzionat a già in documenti dell'anno Mille, era piena di orsi (da qui i due che sono nello stemma di Pistoia), ma secondo gli orsignani il nome avrebbe a che fare con una principessa Orsinia (degli Orsini?) esiliata qui ad espiare un «fallo d'amore». Le sue guardie erano protette da grandi armature e solo quando si spogliavano per prendere il sole su uno dei colli si vedeva che erano delle magnifiche ragazze. Quel posto si chiama ancora Le Ignude. «Lì ci si sente», mi dicevano gli orsignani, indic andomi i ruderi di un posto che sia chiama Il Castello (quello della principessa?), ma che tutt'al più poteva essere stato un gruppo di misere casupole di pietra. Io stavo in silenzio a cercare di sentire i lamenti antichi della Orsinia, ma non ci ri uscivo. «Ci vuole che tu abbia il secondo udito e la seconda vista», diceva Guidino, un vecchio piccolo piccolo che mi era amico. Lui quei secondi sensi li aveva tutti. Viveva in una casa tutta nera di fumo, ma era un poeta nato, e vinceva regolarm ente le gare di contrasto in cui, davanti ad una damigiana di vino, i vari poeti del paese si sfidavano a cantare, a rime alterne, uno difendendo le virtù della donna mora, l'altro quelle della bionda; uno i pregi del sole, l'altro quelli della luna. Oggi nessuno canta più di contrasto ad Orsigna. Col passare degli anni tante cose anche qui sono cambiate. È arrivata la televisione ed attorno al camino, la sera, la gente non ci sta più a conversare. La maggioranza dei pastori sono scesi in pian o e i loro figli son diventati cittadini. Eppure molti di loro tornano, rifanno le vecchie case, tornano per andare a funghi, per vedere sorgere il sole dalle cime e per ballare in piazza sotto l'unico monumento del paese, un piccolo Cristo di marmo a braccia aperte. Torno sempre anch'io e sempre più mi domando se, dopo tanta strada fatta altrove, in mezzo a tante genti diverse, sempre in cerca d'altro, in cerca d'esotico, in cerca d'un senso all'insensata cosa che è la vita, questa valle non sia dopotutto il posto più altro, il posto più esotico e più sensato, e se, dopo tante avventure e tanti amori, per il Vietnam, la Cina, il Giappone ed ora per l'India, l'Orsigna non sia - se ho fortuna - il mio vero, ultimo amore.

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domenica , 27 luglio 1997 ESTERI Affari come prima

di Tiziano Terzani

Il sole. Finalmente, il sole. Dopo un intero mese di pioggia («anche gli dei piangono», diceva la gente), il cielo è tornato a essere alto e chiaro. Il mare della baia è luccicante e i grattacieli, riflettendo l'azzurro, sono come eterei, trasparenti . A volte pare che una polvere dorata aleggi sulla città. Hong Kong è davvero una meraviglia: la solita meraviglia di sempre. «Allora? Hai visto? Non è cambiato nulla!», mi apostrofa il portiere dello stabile-dormitorio di 26 piani in cui ho abitato da metà giugno, come volesse rimproverarmi di non averlo rassicurato abbastanza nel nostro quotidiano scambio d'impressioni sullo stato dell'isola. Il fatto che finora niente, assolutamente niente, sia mutato nella sua vita, tutta spesa in un bugigat tolo con una mini-televisione sempre accesa, una sedia scomoda e una branda pieghevole su cui dorme la notte, a lui pare rassicurante. E in fondo non ha torto. Son passate esattamente quattro settimane da quando la bandiera rossa della Cina Popolar e venne issata nel Convention Center e fatta sventolare da un apposito soffione d'aria nascosto in cima al pennone, ma il «ritorno di Hong Kong nell'abbraccio della madrepatria» non sembra avere avuto visibili conseguenze. I dirigenti cinesi, venuti a presenziare alla «storica vittoria», son ripartiti per Pechino, distanti e intirizziti com'erano arrivati (ora si sa che quella loro rigidità era dovuta in parte ai giubbotti anti-pallottole che s'erano messi sotto le camicie perché non si fidavano delle misure di sicurezza prese dagli inglesi e temevano un qualche complotto dell'ultimo minuto); il reclamizzatissimo circo degli 8 mila giornalisti (in verità erano molti di meno) ha fatto le sue tende per andare al prossimo avvenimento-spettacol o e Hong Kong, non più nell'occhio del mondo, è tornata alla sua affrettata, materialistissima esistenza. Nessuno dei disastrosi scenari previsti dalle varie Cassandre s'è realizzato. Le annunciate dimostrazioni dei democratici si sono risolte senz a neppure un arresto e il nuovo, provvisorio parlamento - tutto composto da gente scelta da Pechino che ha preso il posto dei deputati eletti in libere elezioni - ha passato disposizioni e regolamenti voluti dal nuovo padrone di casa: il Partito comu nista cinese. In quattro e quattr'otto sono state abrogate le leggi che permettevano agli operai la trattativa collettiva e proteggevano i sindacalisti; è stata rivista la legge elettorale in modo che i democratici, alle elezioni del prossimo anno, o ttengano il minimo dei seggi; al capo della polizia è stata data discrezione perché impedisca qualsiasi manifestazione che metta in pericolo la «sicurezza nazionale» o che propaghi l'idea dell'indipendenza di Taiwan, del Tibet o di Hong Kong stessa. A pensarci bene questi sono grandi mutamenti, ma son di quelli che non danno nell'occhio e non hanno,

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per ora, cambiato né la vita del portiere, né la mia. Ogni mattina esco all'alba a fare un po' di ginnastica nel Giardino botanico, a un passo da casa, e lì, esattamente come prima, centinaia d'anziani cinesi fanno la «lotta contro le ombre», muovendo lentamente i loro arti o le loro spade di legno, davanti alle gabbie degli orang utan, tra gli strilli dei babbuini e sotto lo sguardo benevolo di «Sua maestà graziosissima, Re Giorgio Sesto» in bronzo che ancora domina la bella collezione di piante e di animali. Tutte le statue del passato, messe alla gloria del potere coloniale, sono rimaste ai loro posti, così come tutte le lapidi, compre sa quella al primo ufficiale inglese caduto nella Guerra dell'Oppio, ancora murata sulla parte esterna della Cattedrale di St.John, costruita nel 1842, un anno dopo la fondazione della colonia. Avevo sentito dire che la statua della regina Vittoria era sparita dal grande parco che porta ancora il suo nome a Causeway Bay, e son corso a vedere. «Per il momento non ci sono piani per rimuoverla», m'ha detto il giardiniere cinese. Persino il nome della caserma in cui sono andati ad installarsi, n el cuore di Hong Kong, i soldati dell'Esercito di liberazione è rimasto lo stesso: Prince of Wales, Principe del Galles. L'immagine della bandiera rossa che ora sventola contro quel colonialissimo nome sembra riassumere quel che Pechino ha deciso che qui debba succedere: niente. Tutto deve rimanere come prima e tutti debbono solo pensare a far soldi. Tutti, anche l'Esercito di liberazione. Si dice che i generali, venuti dalla madrepatria, trovino quella caserma Principe del Galles un po' sprecat a, così com'è nel centro della città, e che stiano pensando di trasformare quel preziosissimo pezzo di terra in un grande centro commerciale con tanti bei nuovi grattacieli! Anche la proverbiale efficienza di Hong Kong e dei suoi servizi pubblici n on è cambiata. Il ramo d'un albero disturbava la vista dei miei vicini; il portiere ha fatto una telefonata e nel giro di poche ore è arrivata una squadra di operai con una gru; un ramo è stato tagliato e tutte le frasche portate via. Le grandi merav iglie lasciate dagli inglesi, i tre tunnel sottomarini, la scala mobile che dal centro porta sino a metà del Picco, la metropolitana - l'unica al mondo in cui i telefoni cellulari funzionano anche quando il treno è sotto decine di metri di terra e di mare - continuano a essere esempi di perfezione. Niente è cambiato: giorni fa ho visto una suora buddista che entrava a fare spese in un negozio di biancheria intima. Tutti i giorni vedo file di signore che aspettano pazienti il loro turno davanti ai negozi che continuano ad annunciare le svendite delle loro comunque carissime scarpe, borse e foulards. All'ora di pranzo gli uffici riversano per le strade e nei ristoranti la solita bella folla di giovani, tutti firmatissimi con vestiti di moda , gli uomini in giacche e pantaloni scuri, nonostante la calura, perché questa è la moda che gli inglesi della City si sono lasciati dietro. Tutto normale? Sì, se non fosse per la Cina. «Non ci vada, è pericoloso», m'avverte una vecchia venditrice del Chinese Emporium, che conosco da anni. «La Cina è ormai piena di banditi e uno può sparire senza lasciar traccia». Dalla bocca di una

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che lavora in un posto che gli stranieri chiamavano «il negozio di Mao» è sorprendente, ma le storie sulla Cina che circolano fra la gente di qui fanno rizzare i capelli. Siccome di là della frontiera la legge è praticamente inesistente e nessuno può fidarsi della polizia e dei giudici, l'applicazione dei contratti viene spesso affidata a dei privati che a mo' di punizione o di avvertimento tagliano orecchie, rompono gambe o braccia, quando non uccidono. Il prezzo da pagare varia a seconda dell'intervento richiesto. Neppure i leggendari soldati e ufficiali dell'Esercito di liberazione, «servitori del po polo», danno affidamento. È di pochi giorni fa l'insolita direttiva del presidente cinese e segretario del Partito comunista, Jiang Zemin, che denunciava la «complicata situazione» all'interno delle forze armate (tre milioni di uomini oggi), accusate di vari atti di criminalità, tra cui stupri, rapine, assassinii e corruzione. Eppure è in questo clima d'incontrollata «libertà» che enormi fortune vengono ammassate in Cina e riciclate a Hong Kong. Alcune sere fa ero a cena da un diplomatico euro peo in un appartamento stupefacente, in una delle zone più esclusive dell'isola. La vista era da capogiro, così come il prezzo per il quale quella proprietà era recentemente passata di mano. L'acquirente? Un cinese di Pechino che l'ha comprata per te lefono, senza neppure vederla e senza trattare la cifra richiesta. Di solito questi nuovi multimiliardari sono familiari o parenti dei grandi dirigenti politici e militari che grazie alle loro relazioni ottengono concessioni, privilegi, monopoli con cui accumulano ricchezze un tempo inimmaginabili. «Son loro - dice il mio amico storico - che presto domineranno Hong Kong. I ricchi di qui son condannati a diventare insignificanti». Un'indicazione di come questo modo di operare potrebbe presto mett er piede anche a Hong Kong è venuta quando il nuovo «governatore», Tung Chee-hwa, ha incontrato per la prima volta il comandante della guarnigione: nessun giornalista di qui era presente; l'esclusiva della storia era stata data a una tv di Pechino. Ma per ora non c'è notizia o voce che scoraggi i circoli di affari. Neppure quella che nel giro dei prossimi anni Hong Kong, che non controlla più l'immigrazione dalla Cina, potrebbe vedere altri quattro milioni di cinesi aggiungersi ai sei di oggi. «Ci vorranno più case, più negozi e ci saranno più occasioni di far soldi», dice l'amico che si occupa di finanza. E la Borsa continua a salire. «La Borsa di Hong Kong - dice l'amico - è una delle priorità all'ordine del giorno del Politburo. Quelli hanno capito che tutto il mondo li giudicherà qui e che qui possono avere accesso a tutti i soldi che vogliono a prezzo zero. Il mondo intero vuole investire in Cina. Hong Kong resta il miglior casinò della Terra». Per quanto ancora? Due anni, si sente dire con sempre più insistenza. Due anni di «tutto come prima». Due anni è anche il termine che i cinesi di qui hanno per registrare i loro eventuali passaporti stranieri. Se non lo fanno verranno automaticamente considerati cinesi e perderanno ogni protezione consolare. Se lo fanno potranno essere considerati poco «patrioti» e, come stranieri, sottoposti a speciali regolamenti e tasse. Per molti è un dilemma.

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«Allora due anni, ho sentito», dice ridendo il mio portiere, felice perché qui , dove la gente è sempre vissuta come se la terra ed il tempo fossero presi in prestito, due anni paiono ancora un'eternità. «Ritorni!». Magari. Ho già fatto le valigie e scrivo guardando per l'ultima volta dalla finestra il solito taglio di Hong K ong che ho visto per sei settimane: il tetto dipinto di azzurro della Chiesa anglicana di St.Paul, la straordinaria sagoma di vetro della Bank of China, la fila di taxi che scendono giù dal Picco e la fila dei bambini che escono dall'asilo. Il carill on della chiesa batte le ore con le note dei soliti inni religiosi in onore del Signore. Davvero nulla è cambiato. Eppure niente è più come prima. Sì, il sole. Fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 23, 25, 27, 29 e 30 giugno; 1 e 2 luglio

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mercoledi, 02 luglio 1997 PRIMA PAGINA Diario da Hong Kong QUELLE FACCE DI CERA

di Tiziano Terzani

Non riuscivo a dormire. Le immagini della cerimonia di mezzanotte continuavano a frullarmi nella testa. Rivedevo le facce di cera di Jang Zemin e Li Peng, venuti da Pechino a riprendersi formalmente Hong Kong dagli inglesi, i loro corpi come imbal samati negli abiti di foggia occidentale, i loro capelli fintamente neri, i loro applausi rituali, senza che mai una mano toccasse l'altra, e non riuscivo a credere che tutto quello fosse davvero successo qui, in questa città che conosco da trent'ann i ed in cui ho vissuto per sette. Non è facile prendere coscienza di un fatto storico, specie se questo è rivoluzionario e cambia la prospettiva con cui bisogna guardare a quel che ci circonda. Son giorni che seguo gli avvenimenti, che ne discuto, che ne scrivo, ma il fatto che Hong Kong non è più Hong Kong ma parte della Cina non mi era davvero entrato dentro. Ho deciso così di non stare a rigirarmi nel letto e d'andare a vedere le truppe di Pechino che stavano per arrivare. Albeggiava appe na e la città, ancora battuta da raffiche di pioggia, era come il palcoscenico di un teatro su cui è appena finita una commedia ed un'altra sta cominciando. Per le strade c'erano i resti bagnati dei cartelloni dei democratici che avevano dimostrato c ontro il nuovo governo ed i vuoti delle bottiglie consumate da migliaia di giovani - per lo più occidentali - che avevano approfittato della «riunificazione» per far baldoria. Dagli alberghi e dagli eleganti club del centro uscivano gli ultimi fest aioli inglesi: gli uomini in smoking, con le cravatte in mano, le signore con le lunghe gonne leggermente tirate su. Degli occidentali ubriachi si disputavano i pochi taxi in giro. Al riparo dei tetti, gruppi di cinesi, in calzoncini e maglietta, acc ucciati per terra, preparavano le pile dei giornali, inserendo, sveltissimi, in ognuno gli inserti speciali con le ultime foto della grande cerimonia. Gli uni non facevano caso agli altri. La sera prima ero stato in una delle belle, grandi case col oniali sul Picco dell'isola. Era una cena tutta inglese: per «piangere». Ho sentito una signora che diceva: «Hong Kong era perfetta, era il paradiso. Non poteva durare per sempre. I cinesi ci hanno servito così bene!». Alle sei, puntualissime, le t ruppe cinesi hanno varcato la frontiera, ma l'autista dell'amico miliardario con cui viaggiavo aveva paura d'andare fin là e ci siamo fermati a qualche chilometro di distanza. Sotto una pioggia scrosciante, assieme ad un gruppo di 40 persone del loca le «Comitato di accoglienza», ognuna con un fischietto ed una bandierina di plastica, ho visto la lunga colonna dei mezzi militari entrare ad Hong Kong: prima i camion coperti dai teloni, poi i camion coi soldati, rigidi, seduti in fila sulle panche di legno ed i fucili appoggiati alle ginocchia, poi,

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impressionanti, i blindati, ognuno con un soldato che sbucava dalla torretta, la mano sulla mitragliatrice. «Benvenuti. Benvenuti», gridavano i miei vicini senza tanto entusiasmo, Gli ufficiali n elle macchine chiuse ed i soldati nelle loro uniformi nuove intrise di pioggia, rispondevano con un gesto meccanico delle loro mani guantate di bianco. Era una sinistra sfilata per chi aveva in mente le immagini di quegli stessi camion, con gli ste ssi soldati seduti in file parallele, sulla Tien An Men nel giugno del 1989, a Lasa in Tibet nel 1993, o sempre più regolarmente nei vari stadi della Cina con i condannati a morte da giustiziare. I cinesi hanno preparato da tempo questa «liberazion e» di Hong Kong. Le limousine degli ufficiali ed i camion erano nuovi di zecca e tutti avevano la guida a destra come è la regola - inglese - di Hong Kong, ma non della Cina. Alle otto in punto la colonna diretta al centro della città è entrata nel la caserma «Principe di Galles» e tre soldati in alta uniforme, un marinaio, un fante e un aviatore, si sono messi di guardia all'ingresso. Solo poche ore prima, lì davanti era attraccato lo yacht Britannia e gli ultimi soldati inglesi si facevano ab bracciare e fotografare dalle ragazzine di Hong Kong a caccia di ricordi. «Da quale parte della Cina venite?», ho chiesto ad un giovane ufficiale. M'ha guardato con sospetto. «Da tutte le parti», ha risposto. «Ma tu, tu da dove vieni?». «Non lo so» , ha tagliato corto. I soldati sono stati ancora per una mezz'ora immobili sul camion, sotto il diluvio, poi in formazione, preceduti dalle loro bandiere rosse ed i loro gagliardetti, hanno marciato nell'edificio su cui ancora stava scritto: «Quartie r Generale delle Forze Inglesi». Era una immagine che aveva dell'irreale. Le uniformi, i colori, le falci e martello parevano assolutamente fuori luogo lì, nel cuore di Hong Kong, sullo sfondo dei grattacieli, delle banche, delle compagnie di assic urazione e degli alberghi di lusso. Ma quella era l'immagine della nuova Hong Kong e l'immagine che mi ha tolto ogni dubbio. L'ha tolto anche all'amico cinese che mi accompagnava e che s'era sempre detto felice di quel che succedeva. «È strano, ma so lo ora mi rendo conto che questi sono gli stessi soldati che espropriarono la mia famiglia a Shangai e che ci fecero venir qui da rifugiati». Dalle finestre della caserma è comparso un lungo striscione rosso con su scritto, in cinese, coi caratteri semplificati di Pechino che Hong Kong, come Taiwan, si è sempre rifiutata finora di adottare: «Celebriamo la riunificazione di Hong Kong con la madrepatria». Le celebrazioni dureranno ancora due giorni. Per tanti, alle feste seguirà la depressione. Son tornato a casa a piedi. Dalla residenza del governatore inglese erano già scomparse le iniziali di Elisabetta Regina, sul palazzo del governo era già stata messa l'insegna della Repubblica Popolare, la stessa che è su tutti i palazzi pubblici d ella Cina; i poliziotti avevano già cambiato le spalline ed i bottoni delle loro uniformi. Quando, bagnato come un pulcino, sono arrivato davanti alla porta di casa, mi sono accorto che anche sul mio ingresso penzolava una bandiera rossa con le cin que

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stelle. L'aveva messa il portiere. Non ho più bisogno di chiedermi che cosa è davvero successo.

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martedi , 01 luglio 1997 PRIMA PAGINA IL SEME DELLA COLONIA BIANCA

Blair e il principe Carlo faccia a faccia con i gerarchi comunisti. Sulla baia i valori occidentali han messo radici.

di TIZIANO TERZANI

CONTINUA A PAGINA 7 SEGUE DALLA PRIMA La storia è fatta. E la storia continua. L'Inghilterra ha restituito Hong Kong alla Cina ed ha chiuso con questo il capitolo della prevaricazione occidentale in Asia. Il governatore «straniero» è partito co n la sua bandiera, coi suoi soldati, ed i cinesi, umiliati dalle sconfitte del secolo scorso, festeggiano ora, quasi con isteria, questa grandissima, pacifica vittoria. L'onore ferito è ristabilito. L'orgoglio di razza risorge. L'esistenza di una colonia «bianca» nel corpo di un Paese che si è sempre considerato l'Impero al centro della terra non era più concepibile alla fine di un secolo come il nostro che ha visto tutti i Paesi del mondo riguadagnare la propria indipendenza ed in cui la Ci na ha ritrovato la sua unità e la sua forza. Certo: Hong Kong non diventa indipendente, viene ripresa dalla Cina, dalla Cina comunista; la gente di Hong Kong, a cui nessuno ha mai chiesto il suo parere, è inquieta. Ma a questa soluzione non c'erano alternative. Nel 1982, andando a Pechino, Margareth Thatcher propose a Deng Xiaoping di prolungare di altri 50 anni l'amministrazione inglese sulla città. La risposta fu inequivocabile: «Posso ordinare alle mie truppe di entrare ad Hong Kong oggi pomeriggio». La Thatcher preferì cedere, negoziando, e così le truppe cinesi sono entrate ad Hong Kong, pacificamente, quindici anni dopo. Il confronto fra Cina ed Occidente, scoppiato militarmente con la guerra dell'Oppio, si è concluso. Quello ch e ora continua è il confronto di due civiltà. Bastava guardarli, durante la breve cerimonia nel Palazzo dei Congressi, i cinesi venuti da Pechino a riprendersi la loro terra e gli inglesi che partivano restituendogliela, per capire quanto, nonostan te le loro simili apparenze, gli stessi abiti scuri e le stesse cravatte, fra gli uni e gli altri ci fosse ancora un abisso. Jang Zemin e Li Peng, responsabili del massacro di Tien-an-men, erano i rappresentanti di un potere totalitario che non amm ette dissenso, membri - vecchi - di una società ancora chiusa ed intollerante. Gli inglesi, col loro governatore populista, col loro principe ed il loro primo ministro - giovani - stavano lì per un mondo che non è più quello delle conquiste coloniali , ma della democrazia e della libertà di pensiero. Riprendendosi Hong Kong, la Cina si mette ora in casa sei milioni di cinesi fra cui le idee, i principi, la moralità di quel mondo - il mondo occidentale - hanno messo il loro seme, e presto dovrà farci i conti. Patten, il governatore, nel suo breve ed intenso discorso d'addio, non ha voluto lasciare dubbi sul ruolo

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storico che l'amministrazione inglese di Hong Kong si lascia dietro e sulle speranze che Londra ed il resto del mondo si fanno sul suo futuro. «Questa è una città cinese con caratteristiche inglesi - ha detto -. Hong Kong dovrà esser governata da gente di Hong Kong. Questa è la promessa. Questo è l'incrollabile destino». Pioveva a dirotto. Pioveva sul governatore che parla va, pioveva sul berretto militare del principe Carlo che portava il saluto della regina Elisabetta, pioveva sulle migliaia di scolari delle scuole della città nei costumi della grande pantomima, pioveva sul primo ministro Tony Blair e sui diecimila i nvitati; pioveva sui tamburi, sulle trombe, sulle bocche dei fucili che hanno sparato a salve l'ultima loro raffica; pioveva a scroscio sui soldati che, impassibili, hanno continuato a marciare fino all'ultimo ritmo, quello della ritirata, una musica lenta che nei tempi antichi veniva suonata al tramonto per annunciare ai soldati la tregua intesa per andare a ritirare i propri morti sul campo di battaglia. In quel restare, imperterriti, sotto la pioggia c'era una determinazione che nasceva dal senso di una missione compiuta. «È bene capire il passato per poterlo meglio dimenticare», ha detto Patten mettendo sullo stesso piano l'inaccettabilità del comportamento inglese nella Guerra dell'Oppio 150 anni fa, ma anche quello dei cinesi comuni sti nei confronti dei loro stessi cittadini nel corso degli ultimi 50 anni. Poco prima Chris Patten, 28º governatore di Hong Kong, era partito, per l'ultima volta, dalla sua residenza, facendo fare alla sua Rolls Royce nera tre giri attorno al penn one da cui era stata appena ammainata la bandiera britannica. È un vecchio rito cinese di chi si augura di tornare nel posto che lascia, e qualcuno nella folla che si accalcava lungo i marciapiedi per aspettarlo ha certo capito che c'era in quel gest o non solo qualcosa di personale, ma di simbolico. Patten, al contrario di tutti i suoi predecessori, non arrivò qui con la vecchia uniforme coloniale ed il berretto carico di piume. Non venne qui da semplice amministratore, ma da politico per dare ad una città che, dopo il massacro di Tien-an-men, era scesa in piazza con più di un milione di persone, un primo saggio di democrazia. Allo stesso modo è partito. Quando la sua macchina è uscita dal cancello nero della residenza, la strada, per s uo ordine, non era stata chiusa al traffico e la limousine è rimasta per un po' imbottigliata in mezzo ai taxi e alle macchine della gente comune. Quando, dopo la grande cerimonia del passaggio di sovranità alla Cina, Patten si è avviato verso lo yac ht Britannia, si è fermato a salutare e ad abbracciare la gente dietro le transenne. La delegazione cinese, al contrario, circondata da un nugolo di agenti della sicurezza, è andata via senza permettersi alcun bagno di folla in questa città che, pe r ora, è sua solo sulla carta.

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lunedi , 30 giugno 1997 PRIMA PAGINA L'ULTIMA MESSA

di Tiziano Terzani

CONTINUA A PAGINA 12 SEGUE DALLA PRIMA Era domenica, l'ultima della Hong Kong che ho conosciuto, ed ho cominciato con l'andare alla Messa delle nove. La Cattedrale di St. John, una delle prime costruzioni dell'isola ed una delle poche rimaste sen za aria condizionata, è sulle pendici della collina, accanto al vecchio tribunale. L'intera società coloniale, dal governatore al comandante delle truppe inglesi, ai più alti funzionari dell'amministrazione che ha ormai le ore contate, era lì, raccol ta in preghiera, sotto le grandi arcate neo-gotiche, al fresco dei lenti ventilatori che muovevano l'aria umida e calda. Fuori, sull'ultimo lembo di prato non ancora mangiato dal cemento e dai grattacieli, dei cinesi venuti dal continente e vestiti c ome solo i poliziotti in borghese di là sanno fare, si fotografavano ridendo davanti alle lapidi e alle croci. Due mondi diversi, divisi, che non hanno più nulla da dirsi: uno celebrava il proprio funerale, l'altro la propria vittoria. Il significa to di quel che sta per avvenire, a mezzanotte, è talmente contrastante che inglesi e cinesi sembrano ormai far fatica a parlarsi - anche diplomaticamente - e le cerimonie del passaggio di sovranità finiranno per essere rovinate da una serie di recipr oci sgarbi. Gli inglesi si rifiutano di andare col loro primo ministro all'inaugurazione del nuovo consiglio legislativo, imposto senza vere elezioni da Pechino, e per ripicca i cinesi rifiutano di mandare i loro rappresentanti alla cerimonia di addi o delle truppe inglesi, rifiutano di mandare il loro presidente Jang Zemin al banchetto del Principe Carlo e lasciano ad un semplice vice ministro il compito di accompagnare il figlio e rappresentante della Regina al suo yacht, il Britannia, che salp erà da Hong Kong immediatamente dopo che la bandiera cinese verrà issata sull'isola. L'uscita dalla scena di un potere coloniale non è mai facile. L'ultimo ufficiale francese che lasciò Hanoi nel 1954, traversando a piedi con le sue truppe il ponte Doumer, si prese un calcio nel sedere da un soldato di Hochiminh. Non gli restò che voltarsi e salutare militarmente. Gli inglesi han fatto di tutto perché la loro partenza da Hong Kong sia meno umiliante, ma i cinesi dal canto loro non sembrano ora voler lasciare alla storia l'impressione di essere stati troppo generosi con gli ultimi rappresentanti di quel «grande male», come chiamano il colonialismo. In questo ultimo gioco, dove tutte le carte sono ormai nelle mani di Pechino, la gente di Hong Kong, che viene «liberata» senza che le sia stato mai chiesto se è proprio quello che vuole, è sempre più incerta su quello che l'aspetta. Ognuno sente che sta per finire un'epoca e cerca in qualche modo di approfittarne, di coglierne gli ultimi momenti. Decine di coppie in abiti nuziali facevano oggi pomeriggio la coda fuori dal municipio, affacciato sulla baia, per

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sposarsi ancora sotto il regime inglese. Davanti alla residenza del governatore, fino a tarda notte, c'era una lunghissima fi la di giovani che aspettavano il loro turno per farsi fotografare dinanzi al cancello di ferro che ha ancora le lettere «E.R.», Elisabetta Regina. «Perché sei qui?», ho chiesto ad un ragazzino. «Ho sentito dire che questo palazzo verrà buttato giù e voglio un ricordo». La caccia al ricordo è diventata uno sport. Coppie di inglesi vestiti da sera, sulla via di una delle loro tante feste di addio, vengono fermati da famiglie di qui che vogliono farsi con loro un'ultima fotografia. I soldati ingl esi di guardia alla caserma del Principe di Galles debbono farsi abbracciare per un attimo da un continuo flusso d ragazzine dinanzi ad un cartello che dice «vietato fotografare». «Ormai...», diceva uno di loro, alzando le spalle. Durante tutto il giorno c'era in città una strana atmosfera, non esattamente quella di una festa. Migliaia di domestiche filippine, come ogni domenica, avevano invaso il centro trasformando in un grande, gioioso, cinguettante bivacco le strade attorno al Mandarin Hot el e la Piazza della Statua. Sembravano, come sempre, essere le uniche persone veramente felici. Dinanzi al monumento ai caduti, dove ancora sventolano le bandiere inglesi, un gruppo missionario, «Gesù vive», teneva un suo rumoroso concerto. Ho cer cato di vedere «l'entusiasmo del popolo di Hong Kong per la riunificazione con la madrepatria» di cui parla sempre più insistentemente la propaganda di Pechino, ma non sono riuscito a trovarlo. «Comitato di quartiere per le celebrazioni», diceva una scritta sul negozio di un venditore di incenso sulla Hollywood Road, ma la bandiera rossa cinese che ci era appesa era l'unica di tutta la strada. Le associazioni dei taxi avevano dato disposizione che tutte le macchine avessero oggi legata all'anten na della radio la nuova bandiera di Hong Kong, rossa con al centro un fiore bianco di bauhinia a cinque petali, ma anche di quelle se ne vedevano poche in giro. «Felice?», ho chiesto ad un tassista. «Posso essere felice, e quelli vengono. Posso esser e infelice, e quelli vengono lo stesso». «Quelli» sono già qui. Agenti della sicurezza di Pechino hanno fatto il giro degli alberghi facendosi dare la lista degli ospiti, mentre altri - si dice - stanno organizzando le «spontanee dimostrazioni di g ioia» di 10.000 contadini dei Nuovi Territori che dovranno dare il benvenuto ai soldati dell'Esercito di Liberazione che entreranno ad Hong Kong all'alba del primo luglio. È stato il primo giorno senza grandi scrosci di pioggia ed un cielo a volte limpidissimo si rispecchiava nel mare della baia e nel vetro dei grattacieli facendo scintillare le loro ardite sagome di modernità. Davvero una straordinaria creazione. Ero in giro con un vecchio amico, uno storico, scappato dalla Cina nel 1949, c he ora insegna in Australia. Anche lui è venuto ad Hong Kong per vivere questi giorni storici e cercare di raccogliere le opinioni della gente di qui. Non c'è riuscito. Ogni volta che chiede ai suoi parenti cosa pensano, quelli gli offrono dell'altro tè e degli altri cioccolatini. Solo un vecchio compagno di scuola che ha ritrovato qui, fra i quadri comunisti arrivati da Pechino, gli ha dato

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un'opinione. «I nostri antenati sono stati furbi», gli ha detto. «Prestarono agli inglesi un villaggio di pescatori, e guarda ora cosa ci riprendiamo! Peccato che non gliene abbiano dati di più». DiariodaHongKong

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domenica , 29 giugno 1997 ESTERI Arrivano i comunisti come a Saigon. Il potere rosso e gia dappertutto di Tiziano Terzani

Da trent'anni m'aggiro in Oriente e non è la prima volta che mi capita d'essere in una città ad aspettare l'arrivo delle truppe comuniste. Qui, dove tutti sembrano intenti ad approfittare delle svendite, a mangiare, bere e ballare nelle mille feste, forse pochi vedono le cose così, ma io non posso mettere a tacere la memoria. Hong Kong non è assediata come Saigon e Phnom Penh nel 1975. Qui non si teme un bagno di sangue o una immediata resa dei conti, ma la sostanza di quel che sta per avvenire è abbastanza simile. Il Paese che lunedì notte si riprende Hong Kong non è la Cina, ma la Cina comunista; la bandiera che sventolerà su questa terra è quella rossa a cinque stelle e i 4 mila soldati che, coi loro mezzi blindati, varcheranno plateal mente, trionfalmente la frontiera per installarsi nelle caserme che sono state inglesi, appartengono a un esercito che - non a caso - si chiama ancora oggi di «liberazione». Dietro il pudico paravento diplomatico delle cerimonie e delle celebrazioni questa è la profonda verità di quel che sta per succedere. M'è bastato, stamani, accendere la radio e sentire le stazioni cinesi, m'è bastato guardare per un po' le trasmissioni tv di Pechino. In Cina è cominciata una vasta campagna di propaganda p er convincere la gente che con questa storica «vittoria» si conclude «l'eroica lotta del popolo di Hong Kong per liberarsi del giogo coloniale» e le masse sono spinte a festeggiare. La grande fanfara è certo intesa a riaccendere nei cinesi del contin ente quell'orgoglio nazionalista e razziale che, al di sopra di tutte le ideologie, è la vera colla che tiene assieme il Paese, ma è soprattutto intesa a consolidare la posizione del regime e a legittimare la posizione del presidente del partito, Jia ng Zemin. Certo, non c'è panico e la gente non cerca di aggrapparsi agli ultimi elicotteri in partenza dai tetti delle case. Chi voleva andarsene da qui lo ha fatto (dal 1984 un decimo della popolazione è partito); ma fra chi è rimasto gli argoment i che sento sono simili a quelli che sentivo fra i vietnamiti e i cambogiani di allora. «I nuovi padroni di Hong Kong sono cinesi, e fra cinesi ci intenderemo», mi diceva uno dei tanti miliardari di qui, con una delle più belle collezioni di arte c ontemporanea cinese e una delle più grandi collezioni di vini francesi. Mi aveva invitato a cena e in perfetto inglese mi spiegava che anche lui non poteva più sopportare l'arroganza coloniale degli inglesi e che occupandosi esclusivamente di affari non avrà nulla da temere. Eravamo in una di quelle belle case sulla collina con vista sulla baia e mi tornavano in mente i drammatici giorni del 1967, quando la gente come lui era terrorizzata. In Cina la Rivoluzione Culturale era al suo apice e il Fiume delle Perle portava nel mare di Hong Kong i cadaveri delle vittime. La città era paralizzata

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da scioperi e dimostrazioni. I maoisti locali bruciavano pupazzi di paglia col nome dell'allora governatore inglese e lanciavano appelli perché l'Eser cito di Liberazione, appostato alla frontiera, marciasse sulla città. La polizia coloniale combatteva per le strade. Ogni tanto scoppiava una bomba. I ricchi di Hong Kong avevano già caricato le loro giunche e si erano accertati che i loro marinai fo ssero degli ex soldati nazionalisti che non li avrebbero traditi. Nessuno si fidava più di nessuno perché - si diceva - la colonia era già infiltrata da migliaia di agenti di Pechino, pronti a prendere il potere. L'Esercito di Liberazione, fermato - ora si sa - da Zhou Enlai, non varcò la frontiera e l'ordine tornò a Hong Kong. E oggi? Quanti sono oggi gli uomini di Pechino già in città? Nessuno parla troppo apertamente di questo, ma la memoria aiuta. Quando i vietcong ed i nordvietnamiti pres ero Saigon, una delle cose più strabilianti fu il venire a galla di quella struttura clandestina che Hanoi aveva messo in piedi col lavoro paziente di anni. Alcune delle persone più insospettabili si rivelarono agenti comunisti. Il cameriere d'alberg o dove erano alloggiati tutti i giornalisti divenne il commissario politico del quartiere, l'interprete del settimanale americano Time che gli ingenui avevano sospettato di essere un agente Cia, si rivelò invece un colonnello dei servizi segreti di H anoi. Lo stesso era successo a Shanghai nel 1949: quando le truppe di Mao marciarono nella città, l'intero corpo sociale, dalle università alle fabbriche, era infiltrato da agenti che praticamente avevano già in mano le chiavi di Shanghai. Il numer o due della polizia nazionalista si rivelò un membro segreto del Partito comunista, che aveva impedito la distruzione degli archivi per facilitare le epurazioni che seguirono. Che qualcosa di simile sia già successo anche qui? Bisogna darlo per sco ntato. Quel che i comunisti cinesi chiamano dixia gongzuo, il lavoro sotterraneo, è parte del loro normale modo di operare, è parte essenziale di quella loro mentalità formatasi nella guerra contro il Giappone e nella guerra civile. E non è un segret o per nessuno che a Hong Kong i comunisti hanno operato prima attraverso la Bank of China, poi attraverso l'agenzia di stampa Nuova Cina e le centinaia di aziende cinesi che hanno aperto uffici nella colonia. Il settimanale Zheng Ming ha scritto che Pechino ha recentemente investito 150 milioni di dollari per piazzare a Hong Kong 900 nuovi agenti prima del passaggio di sovranità. A questa presenza ha alluso lo stesso Chris Patten, il governatore, quando recentemente ha detto: «Certo che i comuni sti operano a Honk Kong clandestinamente». Patten ha aggiunto di non aver voluto condurre una caccia alle streghe prima di partire «perché la stabilità di Hong Kong sta anche nel saper chiudere un occhio quand'è necessario». Parte di questo chiuder e un occhio è forse stata l'improvvisa, inspiegata rimozione, dieci mesi fa, del capo dei servizi d'immigrazione di Hong Kong. Si dice che avesse passato alla Cina la lista dei 50 mila importanti cittadini di qui a cui Londra era disposta, eccezional mente, a dare un passaporto inglese. Negli occhi di Pechino quella è gente «non-patriottica», probabilmente da tener

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d'occhio. Sempre secondo certe voci, gran parte dell'amministrazione coloniale che resterà in piedi dopo il passaggio di sovranità sa rebbe ormai fortemente infiltrata da uomini fedeli a Pechino e nel nuovo gruppo dirigente, capeggiato da Tung Chee-hwa, ci sarebbero alcuni veri e propri membri del Partito comunista. Membri clandestini, s'intende, perché il partito a Hong Kong è sem pre stato clandestino e tale rimarrà anche dopo il 1º luglio. La Cina s'è formalmente impegnata a rispettare il principio «un Paese, due sistemi» e come potrebbe giustificare la presenza di un partito dedito alla distruzione del sistema capitalista d i qui? E poi: se il partito uscisse allo scoperto, dovrebbe partecipare alle prossime elezioni e sarebbe imbarazzante vedere quanti pochi voti otterrebbe in questa città, fatta di gente scappata al comunismo. Eppure tutti noi che abbiamo avuto a ch e fare con la Cina, negli anni in cui il Paese era chiuso e Hong Kong era il punto privilegiato di osservazione, sappiamo com'era facile mettersi in contatto con i membri di quel partito pure clandestino. Bastava telefonare e si era invitati a bere u na tazza di tè. Il mio «contatto» risale all'estate del 1967, quando Hong Kong sembrava sul punto di cadere in mano alle guardie rosse. In quei giorni drammatici un ragazzo cinese di diciassette anni, studente in una delle migliori scuole cristiane della colonia, venne arrestato per aver distribuito dei volantini sovversivi e condannato a due anni di galera, che passò nel Forte di Stanley, nel sud dell'isola. «Quella è stata la mia università». Lo conobbi dopo che venne rilasciato e fra noi c' è stata da allora amicizia. Ogni volta che volevo capire qual era la posizione di Pechino su un certo argomento non avevo che da chiederlo a lui. Oggi è uno dei portavoce non ufficiali di Pechino e il direttore del giornale pro-comunista di Hong Kong . Lo sono andato a trovare. Felice? «Felicissimo - m'ha risposto -. Il ritorno di Hong Kong alla Cina è quel che ho sempre sognato». Quale sarà il futuro di Hong Kong? «Voi stranieri vi ponete il problema così, ma io sono cinese e mi chiedo quale sar à il futuro della Cina. Può un Paese come il nostro perseguire fini puramente materiali o ha bisogno di credere in qualcosa di più alto?». A guardarlo mi pareva una rarità. Aveva una camicia e dei pantaloni da poco, una cintura di quelle che portan o i manovali e che girava una volta e mezza attorno alla sua vita magrissima. «Son passati trent'anni, ma io non ho cambiato le mie idee. Ti parrà strano, ma è così - diceva -. Ho studiato dai preti e quelli, per vendermi l'idea della Bibbia, mi pone vano dinanzi a una stessa domanda: “Qual è il senso della vita?". Bene, mi pongo sempre quella domanda». Quando ci siamo salutati ho sentito che la risposta a quella domanda lui pensa sempre d'averla trovata nel partito e nell'ideologia che, nonost ante tutti i cambiamenti e tutte le apparenze, in gente come lui, sopravvive.

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venerdi , 27 giugno 1997 ESTERI Lacrime inglesi per le ultime cornamuse. E io brindo alla fine dell'Impero

Tutti gli asiatici della colonia discendono dai cinesi che fuggirono dalla madrepatria. Ogni profugo qui sapeva di trovare la porta sempre aperta. I colonialisti diedero liberta di TIZIANO TERZANI.

«Entrate! Questi sono gli ultimi giorni dell'Impero», c'è scritto sulla lavagna di un bar a pochi passi da casa mia. A Hong Kong tutte le scuse son buone per vendere qualcosa e la «riconsegna» della colonia alla Cina - oramai data inevitabile e scon tata da tutti - è usata come tema pubblicitario. I grandi magazzini hanno svendite per celebrare il 30 giugno, le bancarelle offrono montagne di inutili oggetti-ricordo, i ristoranti hanno speciali menu; uno ha scelto di attirare clienti con un orolo gio elettronico che tiene - velocissimo e angosciante - il conto alla rovescia dei secondi che restano alla fatidica mezzanotte: poco più di 300 mila. A forza di passarci davanti, quell'invito a brindare agli «ultimi giorni dell'Impero» m'ha convin to... ad andare allo stadio ad assistere all'ultimo grande concerto pubblico delle bande militari dell'esercito di Sua Maestà Britannica stazionato qui. Il 30 giugno quelle stesse bande suoneranno alla cerimonia ufficiale del passaggio di sovranità, ma lì ci saranno solo gli invitati, le grandi personalità. Allo stadio c'era invece la gente comune. L'ingresso era libero e i 50 mila posti erano quasi tutti occupati. Soprattutto da cinesi. Lo spettacolo era maestoso: soldati nelle uniformi bia nche coloniali e in quelle classiche con la giubba rossa e i colbacchi neri di pelo d'orso marciavano e suonavano alla perfezione nel caldo tropicale e nell'umidità che qui ha raggiunto il 96 per cento. Quando un membro della guardia scozzese è sal ito sul podio per intonare con la sua cornamusa il solitario lamento «Dormi, compagno, dormi», alcuni avevano le lacrime agli occhi. Si sentiva nell'aria l'alito della storia. Davvero questi sono gli ultimi giorni, non solo di un impero, ma di un'epo ca. Restituendo Hong Kong alla Cina, l'Inghilterra perde il resto più significativo delle sue colonie e l'Occidente perde il suo ultimo bastione in Asia, la testa di ponte da cui sono partiti i suoi mercanti ed i suoi missionari, i suoi prodotti e le sue idee; specie ora quella di modernità. Hong Kong è oggi il simbolo di questa avventura. Fra due immense arcate di teloni, che in parte riparavano lo stadio, svettavano nel cielo nero della notte le sagome spaziali dei grattacieli illuminati. As coltando quelle musiche che hanno marcato la grande marcia imperiale dell'Inghilterra, con le sue vittorie e le sue sconfitte, mi veniva da pensare al meraviglioso, funzionante congegno che gli inglesi si lasciano dietro e al bilancio che l'avvenire farà di questa eredità. Hong Kong è un'opera d'arte della colonizzazione occidentale al suo meglio. Certo che nacque col

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marchio della guerra dell'oppio, ma è forse l'unico territorio nella storia della colonizzazione che è vissuto e cresciuto senz a che i colonizzatori abbiano schiavizzato e sfruttato i loro sudditi, senza che si siano macchiati di quei crimini che hanno segnato tutti gli altri esperimenti di questo tipo. Quando gli inglesi atterrarono su quest'isola non c'era praticamente n essuno e i sei milioni di cinesi che vivono oggi in questa città sono tutti profughi o discendenti di profughi scappati dalla Cina. Era la presenza inglese ad attrarli. In una delle prime foto di Hong Kong si vedono migliaia di uomini, con il loro co dino legato alla testa, che cercano di farsi assumere dagli inglesi. È sempre stato così. Nel 1949 vennero quelli che scappavano al comunismo di Mao, negli anni Sessanta quelli che scappavano alla carestia provocata dal Grande Balzo in Avanti e all e epurazioni ed esecuzioni della Rivoluzione Culturale. Gli inglesi, con la loro proverbiale arroganza, li avranno trattati dall'alto in basso, ma hanno dato loro modo di salvarsi. Li han messi al lavoro, hanno dato una educazione ai loro figli e han no indirettamente migliorato le loro vite. Guardavo le migliaia di cinesi attorno a me allo stadio. Moltissimi erano anziani - operai, contadini dei Nuovi Territori, gente semplice - e mi chiedevo quanti di loro, fuggendo dalla Cina, anni fa, spess o con addosso solo degli stracci e la paura, avevano visto in quei soldati che ora marciavano via i loro protettori, quanti, arrivati nella colonia, si erano finalmente sentiti in salvo, al sicuro da ogni persecuzione. «Questa è la sola società cin ese in cui per soli cento brevi anni un uomo non ha dovuto temere che qualcuno bussasse alla sua porta in mezzo alla notte», ha scritto poco prima di morire nel 1989 un famoso giornalista di Hong Kong. Ed è vero: i cinesi di qui hanno goduto - grazie agli inglesi - di una libertà che nessun altro paese in Asia, tranne il Giappone, ha dato ai suoi cittadini. Assieme, inglesi e cinesi, con quella praticità che è delle due culture, hanno costruito questa meraviglia di città dove tutto funziona, d ove tutto è efficiente e che ora, così com'è, coi suoi tunnel sottomarini, le sue sopraelevate, la sue ricchezze, viene consegnata alla Cina. Gli inglesi praticamente non ci rimettono nulla: hanno venduto tutto quello che hanno potuto prima di fare l e valigie. «Potrebbero anche vendere lo Yacht Reale Britannia», mi diceva un miliardario di qui, sapendo che dopo aver portato il principe Carlo nelle Filippine lo yacht farà rotta per l'Inghilterra solo per essere smantellato. «Lo potremmo comperare noi e conservare come parte del museo dell'era coloniale». Già la residenza di tutti i governatori inglesi, a mezza costa sulla collina dell'isola, col suo tetto ricurvo aggiunto durante l'occupazione giapponese, diventerà un museo. Per ora ospite rà i doni fatti dalle varie province cinesi in commemorazione della «consegna» di Hong Kong, ma - chi sa? - un giorno potrebbe anche ospitare una mostra sulla «liberazione di Hong Kong da giogo coloniale». Riscrivere la storia è un'arte che i cines i hanno coltivato da secoli. I comunisti l'hanno solo raffinata. Per questo son capaci di insistere ancora oggi che, nonostante tutte le

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testimonianze e i filmati, sul Tienanmen, la notte del 4 giugno 1989 non fu ucciso nessuno. L'ipocrisia della p ropaganda non cambia mai. Il giornale di Pechino, lasciato stamani assieme agli altri davanti alla porta, ne aveva una bella conferma. Pechino ha scelto il delfino cinese - una specie in via di estinzione - come animale mascotte per le celebrazioni. Perché il delfino? «Perché quel delfino si trova solo nei mari del Sud e così può bene rappresentare Hong Kong; perché ogni anno il delfino risale il Fiume delle Perle per andarsi ad accoppiare, e questo dimostra come Hong Kong è parte inseparabile d ella Cina; perché il delfino è solito vivere in grossi branchi e questo rappresenta bene il grande desiderio dei compatrioti di Hong Kong di tornare nell'abbraccio della madre patria». Quando i soldati inglesi delle quattro bande militari si sono m ischiati, uniti, intrecciati in intricate manovre al ritmo travolgente dei tamburi, delle trombe e delle cornamuse per poi scomparire definitivamente, eleganti e precisi come pezzi di un gioco meccanico, nel tunnel degli spogliatoi, tutto lo stadio e ra in piedi. Gruppi di inglesi sventolavano la Union Jack piangendo, i cinesi applaudivano. Davvero questi sono gli ultimi giorni di un impero e, tornando, m'è venuto da accettare l'invito scritto sulla lavagna del bar vicino a casa. Alla salute!

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lunedi , 23 giugno 1997 ESTERI Ma uno strano silenzio aspetta i fuochi d'artificio del Politburo

di Tiziano Terzani

Ho affittato un minuscolo appartamento nel centro della città. Ho detto al portiere che ogni mattina vorrei avere i giornali e, puntuale, all'alba un cinese in canottiera e calzoncini bagnati - piove quasi sempre in questi giorni - arriva a deposita re un pacco davanti alla porta. Non ha voluto soldi in anticipo, né un deposito. Il fatto che parlo un po' di cinese è la sua garanzia. Ad Hong Kong alcune delle più grandi fortune del passato sono state fatte così, sulla parola, sul fatto di apparte nere allo stesso clan, di essere emigranti della stessa contea. Nonostante la città pulluli ormai di avvocati, certi accordi vengono stipulati ancora in questo modo. Probabilmente anche quello fra la Cina e il futuro governo di Hong Kong, fatto tutto - caso unico nella storia recente - da uomini d'affari. La Cina li ha scelti e la Cina deve aver dato loro delle garanzie perché le loro aziende e le loro proprietà prosperino o almeno non vengano toccate. Niente di scritto. Niente da portare domani in tribunale. I giornali sono pieni di notizie sugli ultimi preparativi per le «celebrazioni» - questa è ormai la parola usata da tutti - della «consegna» di Hong Kong alla Cina da parte degli inglesi. Tutto è stato deciso da tempo, ma gli uomini di Pechino cercano ancora di ottenere delle concessioni. Ad esempio insistono perché almeno un terzo dei 6.000 soldati dell'Esercito di Liberazione (tutti già addestrati e pronti da tempo con speciali uniformi di nuova foggia) varchino la frontiera a lcune ore prima della cerimonia ufficiale del passaggio di sovranità a mezzanotte del 30 giugno. La scusa è che solo così riusciranno ad essere ai loro posti in tempo per garantire l'ordine e la sicurezza dopo la partenza delle ultime unità di sua Ma està Britannica; il sospetto è che vogliono riuscire in una sorta di «invasione pacifica», così che la storia dica poi che formalmente hanno preso Hong Kong quando quella era ancora in mano agli inglesi. «Possibile che tengano a questi dettagli?», chiede un giovane giornalista canadese. Io credo proprio di sì. Ai tempi in cui vivevo in Cina, una ventina d'anni fa, quando pioveva, s'era soliti dire: «Non è certo un caso. Lo deve aver deciso il Politburo». Da allora in Cina son cambiate tante cose - il Paese s'è aperto, la gente è libera di arricchirsi e di viaggiare, al posto del preteso socialismo s'è installato, almeno nel settore dell'economia, un sistema capital-gangsteristico -, ma il potere è ancora fermamente nelle mani del Partit o Comunista ed il Politburo continua a lasciare poco o nulla al caso. Un paio di riprove le ho trovate scorrendo i giornali. Fra i film che si danno ad Hong Kong in quest'ultima settimana, prima che la sovranità della colonia passi dall'Inghilterra alla Cina, c'è «La guerra dell'oppio», un kolossal fatto con abilità e gusto dagli studi cinematografici di Pechino e - certo non

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a caso - proiettato proprio ora in quattro delle sale più importanti della città. Son corso a vederlo. La gente, quas i tutti giovani - molte le coppiette -, faceva la coda per entrare ed ho avuto fortuna a comprare uno degli ultimi biglietti. Il film rifà la storia delle navi inglesi che, nella prima metà del secolo scorso, con l'aiuto di funzionari corrotti dell'I mpero, scaricano oppio sulla costa cinese; del Commissario Lin, mandato dall'Imperatore a mettere fine a questa «pestilenza» che stava distruggendo la società; della decisione inglese di dichiarare guerra alla Cina e dell'umiliazione che l'esercito i mperiale subisce quando vede le navi inglesi sfrecciare sul mare «alla velocità di cavalli al galoppo» ed i potentissimi cannoni inglesi distruggere uno dopo l'altro i fortini lungo la costa. «Il nostro fuoco non riesce a raggiungerli», dice disperat o un generale dell'Impero Celeste prima di far saltare la santabarbara uccidendo se stesso e qualche decina di inglesi. Il pubblico guardava attonito le drammatiche sequenze sullo schermo. Il messaggio era chiaro e penetrante: la Cina è stata umili ata dai «barbari» perché l'Impero era debole e corrotto, e perché non disponeva dei mezzi materiali per far fronte ad un Paese moderno. Il senso dell'impotenza diventa ancora più bruciante nella scena in cui si vede un piccolo manipolo di soldati i nglesi (l'intero corpo di spedizione invasore fu di appena 3.000 uomini) sbarcare sull'isola di Hong Kong e piantarci la bandiera. L'impero cinese, sconfitto, ha dovuto cedere una fetta della sua terra ed ha dovuto aprire i suoi porti al commercio (i ncluso quello dell'oppio). Siamo nel 1841. Tutti gli eroi del film finiscono da vittime: la protagonista femminile viene legata ad una grossa pietra ed affogata in mare dalla sua stessa gente; il commissario Lin, per ordine imperiale, viene mandato i n esilio perché ha «provocato» la guerra; il suo successore è costretto a rientrare a Pechino per essere punito perché ha perso Hong Kong. Lo schermo si annerisce e compare, in cinese, la scritta: «Il 1º luglio 1997 Hong Kong tornerà nell'abbraccio d ella madrepatria». Non ci sono applausi, non ci sono commenti. Un pesantissimo silenzio cade sulla platea immobile prima che la gente si alzi, si riprenda come da uno choc e, senza un bisbiglio, si riversi di nuovo sulle strade. Quel silenzio m'è p arso la reazione più sincera della normale gente di Hong Kong all'inevitabile che sta per succedere. La Cina è una cultura di cui si sentono parte e di cui sono orgogliosi, ma è anche una madre di cui sanno che varie volte ha divorato i suoi figli e non si sentono sicuri. In passato ogni cinese che voleva sfuggire alle ire di quella genitrice cercava di raggiungere Hong Kong. Lo fecero i primi rivoluzionari modernisti della fine del secolo scorso e l'hanno fatto i giovani studenti del moviment o per la democrazia sopravvissuti al massacro di Tienanmen nel 1989. Fra una settimana Hong Kong non sarà più un rifugio. Lo sanno i duecento giovani dissidenti cinesi arrivati qui negli anni scorsi che cercano di partire in Occidente nei pochi giorn i che restano. «La Cina non potrà permettersi mosse false», si sente dire, specie fra gli osservatori occidentali. I cinesi di qui non ne sono completamente

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convinti e sanno che la mano della Cina può essere durissima. Nei giornali di stamane c'era la foto, rilasciata dall'agenzia di stampa di Pechino, di un condannato a morte, «Un trafficante di droga», c'era scritto. Accanto era riportata la notizia, sempre di fonte di Pechino, che più di 100 «trafficanti di droga» sono stati fucilati nelle ultime settimane in varie parti della Cina, ma in particolare nelle province del Sud vicine ad Hong Kong. Non è certo un caso che questa ondata di esecuzioni avvenga proprio ora e la gente di Hong Kong capisce il senso del vecchio proverbio cinese: « Ammazza un pollo per far paura alle scimmie». Son tornato a casa a piedi. I ristoranti e i bar di Wanchai stavano chiudendo. Mi sono fermato ad un angolo di strada a bere un succo di frutta da un banchetto all'aperto. «Brindiamo alle celebrazioni», m'ha incitato, ridendo, un cinese di mezza età, ben vestito, con una bottiglia di birra in mano e forse già un paio nello stomaco. «Non riesco a decidere chi ha ragione e chi ha torto: gli inglesi o la Cina?... Forse hanno ragione tutti e due, ma no i che c'entriamo? - mi chiedeva - Celebrazioni? Diciamo addio ad un governatore che ci hanno dato gli inglesi e diciamo benvenuto ad uno che ci danno i cinesi. Restiamo sempre governati da altri». Era un impiegato del governo ed il suo compito nei prossimi giorni sarà di rimuovere il simbolo della corona inglese da tutte le carte da lettera e le buste del suo ufficio. Aveva proposto al suo capo di metterci sopra degli adesivi così che il tutto possa essere riciclato, ma non ha ancora avuto una risposta. «Beviamo al riciclaggio! - diceva -Al riciclaggio... Al riciclaggio di Hong Kong», l'ho sentito ancora vaneggiare mentre me ne andavo nella pioggia. Sì, continua a piovere e mi chiedo se il Politburo riuscirà a farla smettere prima di lu nedì prossimo, così che le celebrazioni e i fuochi d'artificio possano dare alla città quell'impressione di gioia e di festa che la gente in cuore suo non sembra ancora avere

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lunedi , 23 giugno 1997 PRIMA PAGINA Hong Kong e il fantasma del Politburo

FERRARO e TERZANI

«Il silenzio m'è parso la reazione più sincera della normale gente di Hong Kong all'inevitabile che sta per succedere. La Cina è una cultura di cui si sentono parte e sono orgogliosi, ma è anche una madre che varie volte ha divorato i suoi figli e n on si sentono sicuri... Continua a piovere e mi chiedo se il Politburo riuscirà a farla smettere prima di lunedì prossimo, così che i fuochi d'artificio possano dare alla città un'impressione di gioia e di festa»

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venerdi , 20 giugno 1997 PRIMA PAGINA Tra dieci giorni torna cinese HONG KONG ADDIO PER SEMPRE

Tiziano Terzani

Resistere al suo fascino è impossibile. Esuberante ed esotica, ricca e misteriosa, Hong Kong travolge il visitatore che arriva qui per la prima volta e quello che da anni continua a tornarci, notando ogni volta i suoi immensi cambiamenti ed ogni v olta restandone stupefatto. Il più grande mutamento di tutta la sua storia sta giusto per avvenire e la domanda è che cosa ne sarà di questo minuscolo lembo di terra d'Oriente su cui solo 150 anni fa c'erano a mala pena una dozzina di buie capanne di pescatori e su cui oggi fiorisce una delle più scintillanti, moderne, vitali e intraprendenti città del mondo. Fra dieci giorni, allo scoccare della mezzanotte del 30 giugno, la bandiera inglese verrà ammainata qui per l'ultima volta ed Hong Kon g tornerà «felicemente nell'abbraccio della madrepatria»: la Cina. Così almeno dicono i governanti comunisti di Pechino. Altri vedono le cose in maniera completamente diversa e parlano di questo evento come della «consegna di sei milioni di persone - vissute finora in una clima di relativa libertà - nelle mani dell'ultima grande tirannia del mondo». Un imperdonabile tradimento, dicono quelli. In ambedue le versioni c'è un fondo di verità, così come è vero che questo passaggio di Hong Kong dalla sovranità inglese a quella cinese era storicamente inevitabile. Dal 1841, quando gli inglesi se la presero come bottino di guerra - la guerra con cui Londra impose all'Impero cinese l'importazione dell'oppio - Hong Kong è stata una colonia e come t ale non poteva continuare ad esistere alla fine di un secolo come questo che ha visto tutti gli imperi coloniali tramontare e tutti i territori d'Asia e d'Africa, governati da «bianchi», diventare indipendenti. La presenza di un regime coloniale su u n pezzo, pur minuscolo, di Cina - una Cina che ha ritrovato il suo orgoglio di grande potenza - era inconcepibile. «La Cina si è sollevata», annunciò Mao Zedong dagli spalti della Città Proibita, nel 1949. Ed era vero: la Cina si sollevava da decen ni di umiliazioni impostele prima dagli europei e poi dai giapponesi, che tutti si erano sbizzarriti a massacrare la sua gente, a radere al suolo alcuni dei suoi grandi monumenti ed a spartirsi il suo territorio. Con la fine della guerra civile e l'a vvento dei comunisti al potere, la Cina chiuse definitivamente questo umiliante capitolo della sua storia e riprese con forza il controllo dell'intero continente, dal Tibet alla Manciuria. Restarono solo due piccoli, ma irritantissimi ricordi del pas sato: Hong Kong in mano agli inglesi e Macao in mano ai portoghesi. I comunisti si dettero tempo per eliminare «questa puzza di colonialismo che veniva dalle loro sponde» (come ebbe a dire Krusciov). Il tempo è ora venuto: Hong Kong cessa di essere u na colonia fra dieci giorni, Macao fra due

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anni (una cortesia questa da parte di Pechino nei confronti dei portoghesi che sono stati a Macao molto più a lungo degli inglesi e che, al contrario di quelli, non usarono la forza per installarcisi). È c osì che dal punto di vista della Cina e della stragrande maggioranza dei cinesi - anche quelli non comunisti e quelli della diaspora - la fine del regime coloniale ad Hong Kong è davvero un «ritorno all'abbraccio della madrepatria» e come tale un avv enimento che ristimola il loro profondo orgoglio di razza. Resta il fatto che questo abbraccio può essere mortale e che sei milioni di cinesi si sveglieranno all'alba del 1º luglio non più sudditi di Sua Maestà britannica, ma della Repubblica Popol are. E questo senza che a loro sia mai stato chiesto nulla, senza che sia mai stata data loro una scelta. Non solo: molte di quelle libertà e quei diritti che il regime coloniale inglese garantiva loro verranno - lo si sa già - ridimensionate o sempl icemente eliminate dal nuovo regime «patriottico» che si installerà a gestire quel periodo di 50 anni a venire in cui, secondo le promesse di Pechino, Hong Kong dovrebbe godere di una certa autonomia, conservare il suo stile di vita ed il suo sistema capitalista. Sulla carta tutto è abbastanza rassicurante. Eppure la sola idea che unità dell'Esercito di Liberazione, quello stesso che soffocò il movimento per la democrazia sulla Piazza di Tien An Men nel 1989, stiano per installarsi nel cuore di Hong Kong manda già dei brividi giù per tante schiene. Il fatto è che la straordinaria storia della crescita e del successo di Hong Kong è legata a quell'irripetibile combinazione di intraprendenza cinese e di capacità amministrativa coloniale ingl ese che fra dieci giorni finirà. L'intera popolazione di Hong Kong è fatta di emigrati e dei loro discendenti. È gente che fuggendo dalla Cina per evitare la sua fame o i suoi regimi dittatoriali, ultimo quello comunista, ha trovato qui un «padrone» coloniale sì, ma uno che le ha permesso di esprimere al suo meglio quello che è desiderio di ogni emigrato: migliorare la propria vita. Il cinese di Hong Kong, fino a pochissimo tempo fa, non ha avuto alcun diritto di voto, non ha avuto altra sicurez za sociale che quella della beneficenza dei suoi pari arricchitisi, eppure sapeva che se portato davanti ad un giudice coloniale con la sua inglesissima parrucca bianca sarebbe stato trattato con giustizia, sapeva di poter contare su degli amministra tori non corrotti. In questa cornice di ordine e di legalità pur coloniale, i cinesi di Hong Kong, sia quelli arrivati come ku-li («amara forza», manovali) e rimasti tali, sia quelli diventati multimiliardari, si sono sentiti al sicuro ed hanno fatto di questa città - certo anche grazie ai loro «padroni» - un posto unico al mondo, un posto che per non essere fagocitato dalla Cina si è dovuto continuamente rinnovare e reinventare. In ogni momento dal 1949 in poi Pechino si sarebbe potuta ripren dere Hong Kong - dopo la Seconda guerra mondiale gli inglesi non sono più stati in grado militarmente di difendere questa colonia -. Eppure la Cina non ha mai fatto questo passo perché Hong Kong era utile così com'era: un porto sempre conveniente ed una finestra sul mondo quando la Cina era chiusa, una riserva di sapere tecnico e finanziario quando la Cina si è

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aperta e si è voluta mettere al passo con la modernità. «Questa è una gallina che fa le uova d'oro» si sono detti e si dicono ancora ogg i per consolarsi quelli che vogliono essere ottimisti. «Perché la Cina dovrebbe ucciderla?». Molti fondano su questo semplice ragionamento le loro speranze che il cambio di bandiera non significhi la fine di tutto. Altri invece pensano alla storia della Cina e, accorgendosi che è seminata di scheletri di simili «galline» (Shanghai nel 1949 ad esempio), si preoccupano. In un modo o nell'altro i dieci che vengono sono gli ultimi giorni della Hong Kong che il mondo ha conosciuto e ci vorrà un po' di tempo per sapere se questo storico mutamento muterà anche l'anima di questo posto e con ciò il suo ancora irresistibile fascino.

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giovedi , 20 febbraio 1997 PRIMA PAGINA IL PICCOLO TIMONIERE

di TIZIANO TERZANI

«Vede quell'ometto là, piccolo, piccolo. Stia attento. Quello ha dinanzi a sé un grande futuro». Era il 1957 e Mao, seduto accanto a Krusciov, indicava Deng Xiaoping, diventato da poco segretario generale del partito comunista cinese. Sul conto d i quell'«ometto» Mao non si sbagliò mai. Nel 1966, in piena Rivoluzione Culturale, si rese conto che Deng era ormai passato nel campo dei suoi avversari e lo accusò di voler tradire la rivoluzione e di voler imboccare «la via capitalista». Aveva asso lutamente ragione. Deng venne rimosso da tutti i suoi incarichi, epurato dal partito e cacciato, assieme a milioni di altri cinesi, a lavorare nei campi. Nel 1973 poi, Mao, già affetto dal morbo di Parkinson, fece tornare Deng Xiaoping a Pechino. A nche quella volta non si sbagliò: Deng era l'unico dirigente sopravvissuto alle persecuzioni delle Guardie Rosse, con il prestigio militare e l'esperienza amministrativa in grado di aiutare il primo ministro Zhou Enlai, anche lui già malato di cancro , a riprendere in mano le redini di un Paese in preda all'anarchia e sull'orlo del disastro economico. Deng Xiaoping aveva già 70 anni, ma il suo «grande futuro» doveva ancora cominciare. Solo dopo la morte di Mao, nel 1976, l'ascesa dell'«ometto» al potere divenne irresistibile e Deng ebbe mano libera per fare esattamente quel che il Grande Timoniere aveva cercato ad ogni costo di evitare: cambiare il colore della Cina mettendo il Paese «sulla via capitalista».

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lunedi , 16 dicembre 1996 INSERTO ECONOMIA FINE DEI MIRACOLI / PRIMI SEGNI DI CRISI NEI PAESI ASIATICI PROTAGONISTI DEL BOOM QUELLE TIGRI SENZA ARTIGLI

Taiwan, Hong Kong, Thailandia, Singapore e Malesia, con la loro aggressivita produttiva, per anni sono stati lo spauracchio di tutto il mondo. Ora non piu. Che cosa sta succedendo? L'inflazione, la crescita dei salari, il consumismo e l'arrivo di nuovi concorrenti di Tiziano Terzani

I miracoli, specie quelli fatti dall'uomo, finiscono sempre per rivelarsi effimeri. I miracoli economici non fanno eccezione. Per anni quel che è successo nell'Asia del Sud Est è stato definito «straordinario», «insolito»; la rapida crescita di Paesi come Taiwan, Hong Kong, Thailandia, Singapore, Corea del Sud e Malesia è stata definita «miracolosa» e montagne di carta sono state scritte su queste «tigri» che, con la loro aggressività produttiva, sembravano dover far paura al resto del mondo. Il successo delle «tigri» veniva indicato come un modello che non solo gli altri Paesi in via di sviluppo, ma persino quelli industrializzati, «ormai sulla via della decadenza economica», avrebbero dovuto imitare. I fatti, o meglio le statistiche che spesso servono ad oscurare i fatti, erano sempre lì a dimostrare la veridicità del «miracolo». Anno dopo anno il tasso di crescita dei vari Paesi era di oltre il 10%, le esportazioni in continuo aumento, la disoccupazione inesistente, le proiezioni per il futuro - un'altra turlupinatura affidata al gioco dei numeri - rassicuravano tutti sulla continuità del successo. Il «miracolo» aveva anche i suoi filosofi: certi intellettuali erano arrivati a trovare la spiegazione di questo straordinario successo nelle comuni radici confuciane dei vari Paesi miracolati, mentre altri - più realisticamente - identificavano la formula magica nella specie abbinata: dittatura politica e libera economia. Lo stesso Lee Kuan Yew, per decenni primo ministro e mago-autocrate del «miracolo» di Singapore, non si peritava a ripetere con vanto e arroganza la sua lezione: «Un Paese per svilupparsi ha bisogno di disciplina, non di democrazia». Ora tutto questo sembra finito. Improvvisamente non si parla più d i miracolo e al posto dell'ottimismo, prima imperante nei vari Paesi, è subentrato un nuovo sentimento che va dalla semplice inquietudine al panico. La Thailandia è il caso più preoccupante. Per più di vent'anni, nonostante i sei colpi di Stato, i generali al potere, il massacro di Bangkok ed altri guai politici, l'economia Thai è vissuta nella più spensierata euforia. Non più. Quest'anno il tasso di crescita è largamente inferiore alle aspettative (non potrà essere più del 6%), la Borsa ha pe rso nelle ultime settimane il 20% del suo valore e si parla ora di svalutare la moneta nazionale, il bath, per cercare di ridare

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competitività ai prodotti da esportazione che qui, come negli altri Paesi dell'Asia, sono stati alla base del miracolo. N egli ultimi cinque anni le esportazioni thailandesi sono cresciute al ritmo regolare del 20%. Ora si sono fermate. L'esportazione dei tessili è caduta da sola del 12%. Perché? Semplice: l'inflazione mangia i salari degli operai, i prezzi salgono ed i l capitale, nella sua fredda logica, si sposta. Per anni la Thailandia ha potuto offrire agli investitori stranieri masse di giovani contadini tolti alle risaie e intruppati nelle fabbriche delle periferie urbane. Quella riserva ora sta da un lato es aurendosi, dall'altro diventando più cara e gli investitori vanno a cercarsi altrove i giovani a buon mercato di cui hanno bisogno. Le fonti non mancano: un operaio in Vietnam, in Birmania o in certe parti della Cina costa oggi solo un terzo di quant o ormai costa un operaio a Bangkok. Da qui lo sgonfiarsi del boom. La Corea del Sud, pur con la sua economia più sofisticata e diversificata di quella thailandese, deve affrontare una simile fine del miracolo. Per anni il Paese è cresciuto sulla sp inta della produzione in massa di prodotti di consumo tipo scarpe, biciclette, giacche a vento, parrucche e giocattoli fatti da una popolazione operaia pagata poco. Lentamente però anche lì i prezzi sono andati salendo e quando le grandi aziende si s ono messe, pur con l'aiuto del governo, in produzioni più impegnative (dalle navi alla grande elettronica) i vantaggi di una mano d'opera a buon mercato sono presto scomparsi: un operaio specializzato sudcoreano costa oggi sulle 18 mila lire l'ora, m entre il suo equivalente in Malesia costa circa 3 mila lire, uno in Cina solo 1.500. Il processo è stato simile nei vari Paesi: il successo ha innescato la scalata dei prezzi - da non dimenticare quella vertiginosa dei terreni (a Bangkok un metro q uadrato vale più che a Manhattan) - e quella ha provocato la crisi. Per alcuni economisti, specie i credenti del passato, il miracolo delle tigri non è finito e la recessione attuale è semplicemente il risultato di un rallentamento ciclico che sarà superato. Le Cassandre invece sono molto preoccupate e parlano già di un possibile crollo dell'Asia che potrebbe appunto cominciare nel punto più debole, la Thailandia, afflitta al momento da un deficit simile a quello del Messico prima del suo disa stro. Qualunque sia la prossima fase dello sviluppo di questa regione, che con la Cina e l'India resta comunque negli occhi di tutti il grande mercato del prossimo secolo, le ragioni della attuale crisi nei paesi del miracolo sono sempre più chiare e hanno a che fare con la natura stessa del fenomeno e la sua fragilità di fondo. Innanzitutto c'era una speciale situazione internazionale: lo Yen si era rivalutato così tanto rispetto al dollaro da costringere le aziende giapponesi a produrre fu ori dal Paese, grandi capitali europei erano in cerca di collocamento e il mondo degli investimenti internazionali era dominato da notevole euforia. Questa situazione è ora mutata: i giapponesi sono più cauti e gli europei trovano più familiare muove rsi coi loro soldi nell'Europa orientale. Inoltre c'era il fatto che il miracolo aveva disseminato i vari Paesi della regione di tante fabbriche - dure e pericolose (in Thailandia

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più di 200 ragazze addette a far bamboline morirono in un incendio) - dove i capitali stranieri (non vanno dimenticati quelli ingenti dei cinesi di oltremare) manifatturavano prodotti diretti a dei mercati su cui i Paesi produttori stessi non avevano alcun controllo. Da qui la loro estrema vulnerabilità. Il caso de lla produzione elettronica è stato tipico. Per anni l'Asia è stata popolare con i capitali dell'industria dei chips («Chi usa le bacchette per mangiare, ha una eccezionale manualità» si diceva). Le tigri sono così arrivate a produrre più del 50% del fabbisogno mondiale di memorie. Il risultato è stato un grande accumulo di ricchezza, ma anche una straordinaria dipendenza al punto che, invece di «repubbliche delle banane» si è parlato in Asia delle «repubbliche dei chips». Ebbene: è bastato che i l prezzo dei chips sia caduto, che la domanda di computers nel mondo, dopo il boom di Windows 95, sia crollata per mettere in coma l'intero settore e far scattare la fine del miracolo. Alcune grandi fabbriche, ora deserte ed abbandonate nella perifer ia di Taipei, sono il simbolo di questa storia. Un Paese come Singapore, grazie alla sua popolazione concentrata e docile e grazie al suo dirigismo politico, è riuscito a evitare questa dipendenza, a diversificare la sua economia e a essere ora il più flessibile e pronto alla riconversione. Altri Paesi invece, come la Thailandia, pagano ora l'errore di non aver usato gli anni delle vacche grasse per sviluppare adeguatamente la loro infrastruttura e per alzare il livello di educazione della p ropria popolazione, così da aver le basi per il salto di qualità ora sempre più necessario. Sull'intera regione aleggia poi un'altra incognita: quella della stabilità. Il successo negli ultimi vent'anni aveva fatto pensare a molti che l'economia l' aveva finalmente avuta vinta sulla politica e che nella frenetica corsa ad arricchirsi nessuno sarebbe mai più stato interessato a creare conflitti e tanto meno a rischiare delle guerre. Anche su questo sorge ora un dubbio e la Cina, dove la crescita economica è andata di pari passo con l'aumento della spesa militare, è la maggiore fonte di preoccupazione a Taiwan come in India. I capitali restano però - per loro natura - ottimisti e la fine del miracolo da una parte non vuol certo dire la fin e della speranza di un miracolo altrove. L'attenzione del momento è tutta sulle Filippine. Questo Paese, che non era riuscito mai a diventare una tigre, ora che il conflitto coi musulmani indipendentisti del Sud si è risolto, viene visto come un'area di grande potenzialità: in altre parole il costo della mano d'opera così come quello della terra è ancora attraente. Se tutto va bene, la storia si ripeterà finché anche lì il successo non provocherà la crisi ed i capitali non si trasferiranno ancor a una volta altrove. È questa la natura del miracolo. Lunedì 16 dicembre 1996 Anno VIII / Numero 42

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venerdi , 07 giugno 1996 PRIMA PAGINA UNO SPETTRO PER LA SINISTRA

Uccise milioni di cambogiani ma è un mistero

PHNOM PENH - Dalla giungla cambogiana e arrivata via radio la notizia: . I servizi segreti francesi hanno confermato il decesso del dittatore comunista autore del genocidio del periodo 1975-1979, ma nel corso della giornata i dubbi sono aumentati. Il governo della Cambogia non e stato in grado di trovare prove e il Dipartimento di Stato americano ha concluso: . Sarebbe stato un attacco di febbre malarica a stroncare il terribile leader dei Khmer rossi, 68 anni. Tiziano Terzani

Un altro dei grandi assassini del nostro tempo morto nel suo letto, senza che la giustizia degli uomini lo abbia raggiunto, senza che sia stato ristabilito quel principio di naturale moralità che è una necessità nel fondo di tutti noi. Sarebbe l'ulti ma beffa. Pol Pot ha sulla coscienza il massacro di almeno un milione e mezzo, forse di due milioni di cambogiani e la distruzione di una civiltà. Una delle figure più inquietanti del secolo. Inquietante perché dietro la sua apparente follia omicid a, diventata politica, c'era una logica che ha attratto tanta attenzione e tante simpatie nel mondo. Quella logica si chiamava rivoluzione. Pol Pot si era diplomato all'istituto tecnico di Phnom Penh quando andò a Parigi e, da giovane nazionalista in cerca di una formula per combattere il regime che reggeva allora il suo Paese, si imbatté nel marxismo-leninismo. Lo studiò, prese alla lettera i suoi dettami di eliminazione di una classe per sostituirla con un'altra e, quando nel 1975 alla tes ta del movimento di guerriglia dei Khmer rossi prese il potere, li mise in pratica con una determinazione che era mancata a tutti i suoi predecessori ideologici. Da bravo rivoluzionario Pol Pot aveva capito che, per fare una società «nuova», occorr eva innanzitutto creare un uomo «nuovo» e lui fece un passo più avanti di Lenin, di Stalin e dello stesso Mao di cui si sentiva allievo: per dar vita all'uomo nuovo cercò di eliminare nel più breve tempo possibile tutto ciò che era vecchio: gli uomin i, le istituzioni, le tradizioni. Pol Pot capì che, se del passato fosse rimasta una sola traccia, la rivoluzione sarebbe stata sempre in pericolo; così cercò di azzerare la memoria collettiva, dando alle fiamme le biblioteche, uccidendo chi sapeva l eggere e scrivere, eliminando dal paesaggio i pinnacoli dei templi e i monaci, catena di trasmissione dei valori buddisti. Tolti dalle loro famiglie ed educati esclusivamente da Angka, la omnipresente Organizzazione, il Partito, migliaia di giovani cominciarono a crescere senza alcuna idea del prima, imbevuti solo dell'ideologia della rivoluzione. Se i vietnamiti nel 1979 non avessero invaso il Paese e

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rovesciato il suo regime, Pol Pot sarebbe forse riuscito a fare della Cambogia quel Paese «n uovo» che era il suo sogno. «Stiamo facendo qualcosa che non è mai stato fatto prima nella storia dell'umanità», mi disse nel 1976 Ieng Sary, il braccio destro di Pol Pot, incontrato a Kuala Lumpur, in una delle sue rare apparizioni fuori da un Pae se che si era ermeticamente chiuso al resto del mondo. Era allora difficile figurarsi che cosa davvero volesse dire. Fui uno dei primi giornalisti occidentali a tornare nella Cambogia «liberata» dalle truppe di Hanoi e quello che mi trovai dinanzi sfidava ogni fantasia dell'orrore, era più spaventoso di qualsiasi cosa un uomo potesse immaginarsi. Fra il 1975 ed il 1979 l'intera società era stata rovesciata, le città abbandonate, le pagode distrutte, la religione buddista eliminata e la gen te regolarmente massacrata in una devastante orgia purificatrice. Un terzo della popolazione era stato eliminato. Cercai quelli che avevo conosciuto negli anni della guerra e non trovai nessuno. Erano tutti finiti a «fare da concime nei campi» perché i «controrivoluzionari», diceva Pol Pot, dovevano almeno come cadaveri servire a qualcosa. Viaggiai per un mese attraverso un Paese martoriato a raccogliere le testimonianze di questa follia. La gente era così inebetita dall'orrore che spesso non riusciva a raccontare quel che era loro successo. Nelle campagne mi venivano indicati i «centri di raccolta per l'eliminazione dei nemici» - di solito le vecchie scuole ed i monasteri - dove restavano le tracce delle torture, i pozzi dove non era più possibile attingere l'acqua perché pieni di scheletri, le risaie dove spesso non si riusciva a camminare senza pestare le ossa di quelli che lì a colpi di bastone, per risparmiare le pallottole, erano stati massacrati. Dovunque si scoprivano fosse c omuni. C'erano superstiti che non riuscivano più a montare su una barca da quando avevano visto i loro familiari portati in mezzo a un lago e buttati in pasto ai coccodrilli. Altri non riuscivano più a salire su una palma perché gli uomini di Pol Pot avevano usato gli alberi per mettere alla prova le loro vittime e decidere chi dovesse vivere e chi morire. Quelli che riuscivano ad arrivare fino in cima erano considerati contadini da utilizzare, gli altri intellettuali da eliminare. Un'altra id ea che stava dietro la follia rivoluzionaria di Pol Pot era di riportare la Cambogia alla grandezza del suo passato, spazzando via tutto ciò che col colonialismo era stato introdotto nel Paese. Il simbolo di quella corruzione erano le città. L'unica soluzione era abbandonarle e ricominciare da capo. «Bisogna tornare alla purezza del chicco di riso» diceva. Tutto quello che era venuto dall'esterno aveva indebolito ed imbastardito la razza Khmer. Per tornare alla grandezza di Angkor, bisogna all ora tagliare ogni legame con l'esterno ed eliminare tutti i segni di presenza straniera. Da qui la decisione, una volta entrato a Phnom Penh, di far saltare la banca centrale lasciando pacchi di dollari a svolazzare al vento; da qui la demolizione, p ietra per pietra, della cattedrale cattolica, da qui l'evacuazione forzata, fatta nel giro di 24 ore delle città simboli di quella modernità non cambogiana che Pol Pot

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detestava. L'assurdo fu che una volta rimosso dal potere, Pol Pot ed i suoi Khme r rossi diventarono una pedina nel gioco della guerra fredda e la guerriglia Khmer venne usata dagli Stati Uniti e dall'Occidente per combattere l'egemonia vietnamita sulla penisola indocinese. Allo stesso modo, quando, dopo anni di trattative, la nuova guerra cambogiana ebbe fine e nel 1991 a Parigi furono firmati gli accordi di pace che portarono le Nazioni Uniti con 22.000 uomini in Cambogia a garantire il cessate il fuoco e ad organizzare le prime elezioni democratiche nel Paese, su insist enza della Cina, che pur senza Mao ha continuato fino alla fine a proteggerli, i Khmer rossi furono considerati una componente legittima del nuovo assetto politico e Pol Pot poté tornare nella sua base al confine con la Thailandia senza che venisse p ortato davanti ad un tribunale - internazionale o cambogiano - a rispondere dei suoi crimini. Così nessuno ha fatto i conti con Pol Pot. Neppure la sinistra che l'ha trattato come un folle o semplicemente come una aberrazione. Né l'uno né l'altro. Pol Pot è stato un rivoluzionario che ha cercato di fare in pochissimo tempo quel che altri, ispirati dalle stesse idee, avevano pensato di fare nel giro di qualche generazione. Per questo resta una figura inquietante e il suo spettro strisciante

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domenica , 05 maggio 1996 PRIMA PAGINA Terzani

DHARAMSALA - La Cina ha sventrato il centro della capitale del Tibet, Lhasa, per costruire discoteche, bar e supermercati. I giovani sono conquistati dal rock. Ma il Dalai Lama, dal suo esilio, lancia l'appello: «Stanno distruggendo la nostra spiritu alità».

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mercoledi, 27 dicembre 1995 ESTERI Quei 15 mila giovanissimi con la fiala di cianuro al collo Li descrivono come zombi a cui il lavaggio del cervello non ha lasciato altra passione che la tensione verso il martirio Da vicino, invece, appaiono come normali ragazzi di villaggio

Tiziano Terzani

BATTICALOA (Sri Lanka) - Il ragazzo sorride. «Morire è facile. Guarda!», dice e si mette fra i denti una piccola fiala di vetro trasparente, piena di cristalli bianchi. Basta che chiuda la bocca ed il cianuro lo ammazzerà in po chi secondi. «In meno di un minuto», precisa con orgoglio, come rassicurato da questa certezza. Ma il ragazzo non morde e la bocca gli resta aperta in un sorriso scherzoso. «Avanti! Prova te», dice porgendomi la fiala. Ha appena 16 anni e mi sfida al l'unico gioco che conosce: quello della morte. Attorno a noi s'è riunita una piccola folla di altri ragazzi che sghignazzano. Ognuno di loro ha una di quelle fiale, appesa al collo con un filo nero, allo stesso modo con cui, in altre parti del mond o, la gente porta un crocefisso, l'immagine della Madonna o di Budda, appesa a una catenina d'oro. Qui il cianuro è un amuleto e la fiala è per questi ragazzi, il simbolo della loro appartenenza ad una sorta di ordine religioso segreto e temibile. Co me dei monaci, anche loro, hanno preso i loro voti: non bevono, non fumano, non hanno rapporti sessuali. Si sono impegnati a combattere per creare in Sri Lanka, un'isola in cui, la maggioranza della popolazione (il 75%) è cingalese, uno stato indipen dente per la minoranza Tamil (il 14%), ed hanno giurato di non farsi mai catturare vivi dalle forze governative che si oppongono alla secessione. Il cianuro sembra fatto per esorcizzare la paura e a rafforzare la loro fede. I Tamil li chiamano «i n ostri ragazzi». Loro preferiscono definirsi le Tigri, le tigri del movimento di Liberazione dell'Eelam (Ltte), la guerriglia più efficiente, più spietata, più assassina oggi rimasta al mondo. Trovare le Tigri non è stato difficile: 15 chilometri a bordo di un tre ruote a sud di Batticaloa su una strada assolata all'ora della siesta, quando i soldati governativi sono più distratti e stanno al riparo nei bunker; mezz'ora di traghetto attraverso la laguna - il battelliere con un cenno di complici tà rifiuta di farmi pagare il biglietto -, qualche chilometro su una bicicletta presa in prestito ed i «ragazzi» mi accolgono nell'ufficio dello Ltte di Kokkadicholai, un grosso villaggio in mezzo alle risaie. Sulla porta un manifesto con le foto di cinque giovani, raffigurati in un alone di fiamme azzurre, annuncia il loro «martirio»: recentemente, imbottiti di esplosivo, si sono gettati contro alcune installazioni militari del governo. Più difficile è trovare le risposte alle tante domande c he uno, venendo qui, ha in testa. Come ha fatto questa cultura di morte e di violenza a mettere radici in un'isola dove la bellezza tropicale della natura sembra fatta solo per ispirare pace e

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contemplazione? Come riesce un uomo come il «Supremo» Pre bhakaran, fondatore e capo delle Tigri, a far dimenticare a migliaia di giovani il naturale, umano istinto alla sopravvivenza ed a mettere loro addosso, invece, una sorta di fervore religioso che li spinge ad uccidere ed a morire? Un mese e mezzo f a nel nord del Sri Lanka ho visto decine di contadini cingalesi massacrati nel sonno dai giovanissimi guerriglieri Tamil: fra le Tigri c'erano delle bambine di appena 10, 12 anni. Tre settimane fa ho visto una ventina di cadaveri fatti a pezzi dall'e splosione martirio di due giovani bomba, che si sono fatti saltare in aria nel centro della capitale, Colombo. A sentirne soltanto parlare, da lontano, le Tigri paiono esseri particolari, degli zombi ai quali il lavaggio del cervello non ha lasciat o altra passione che quella della morte. A vederli, i ragazzi hanno tutta l'aria di normali giovani di villaggio, completamente a loro agio con quello che fanno e con la gente che hanno attorno. A Kokkadicholai le Tigri sono tornate solo due mesi f a. Il governo, per andare a prendere Jaffna, la capitale dei ribelli nel Nord, ha dovuto ritirare gran parte delle sue truppe dalle regioni dell'Est ed i guerriglieri ne hanno approfittato per riprendere il controllo di questa zona. Le Tigri qui sono di casa. Come nel Nord, la stragrande maggioranza della popolazione qui è Tamil e non c'è una sola famiglia che non abbia un figlio o un parente nella guerriglia. «Non siamo d'accordo con tutto quel che fanno, ma i ragazzi sono la nostra assicurazio ne sulla vita», dice un uomo che, la notte, viene a trovarmi, «Se tornano i soldati ci massacrano tutti». In passato è successo così. Nel 1990 l'esercito, fatto esclusivamente di cingalesi, spinse via le Tigri dalla regione di Batticaloa. Migliaia di giovani Tamil vennero arrestati e torturati. La gente era così terrorizzata che non tentava nemmeno di riconoscere i cadaveri messi a bruciare sulle vecchie gomme d'auto al margine delle strade. «Non mi dimenticherò mai quelle scene», mi racconta un prete cattolico della zona. «Una volta che era piovuto ed il fuoco s'era spento vidi una pila di piedi che erano rimasti intatti, bene accatastati, come tanti panini sugli scaffali di un forno. Da allora mi chiedo se siamo ancora degli esseri uman i». Nei cinque anni in cui l'esercito ha controllato questa zona di 250.000 abitanti, 4.200 Tamil sono scomparsi, così. E' questa violenza da parte dei cingalesi che ha spinto molti giovani Tamil ad entrare nella guerriglia e che li rende così disp onibili a morire. «Siamo una minoranza e lottiamo contro un esercito forte che ha a disposizione tutti i più sofisticati mezzi militari. Il suicidio è la nostra arma più potente», mi dice Karikalan, il capo delle Tigri della regione dell'Est. Mi ha dato appuntamento in una casa in mezzo ai campi. E' uno degli uomini più ricercati delllo Sri Lanka, ma anche lui qui sembra essere perfettamente a suo agio. Arriva guidando una motocicletta, con solo una guardia del corpo sul sedile posteriore. «La caduta di Jaffna? Non ha alcuna importanza - dice -. L'esercito c'è entrato, ma non riuscirà ad uscirne. Continueremo a lottare dalla giungla. La popolazione è con noi. La pace verrà solo quando avremo ottenuto uno stato indipendente, Eelam. La pres idente Chandrika ha

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portato la guerra nella nostra capitale e noi la porteremo da lei, la porteremo a Colombo». Il governo prende sul serio questa minaccia e Colombo vive come una città assediata. Il traffico è continuamente bloccato da operazioni di controllo e rastrellamento. La voce è che decine di Tigri Nere, guerriglieri addestrati al suicidio, si sono infiltrati nella capitale e son pronti ad entrare in azione per un colpo spettacolare. Il timore nella mente di tutti è un attentato alla presidente. La guerra è ben lontana dall'essere finita con la vantata vittoria di Jaffna. La caduta della capitale ribelle appare sempre di più come un semplice episodio in una guerra che va avanti ormai da 12 anni, ha lacerato la società e diviso in maniera apparentemente irreversibile i Tamil dai cingalesi. Situata sulla punta meridionale dell'India, conosciuta fin dai tempi dei greci e dei romani, come un'isola di grande fascino e ricchezza, lo Sri Lanka, un tempo chiamato Ceylon, è stato p er secoli un'oasi di relativa tolleranza con le quattro grandi religioni del mondo che hanno fatto seguaci nelle varie comunità. La violenza è recente. I primi pogrom cominciano una decina d'anni dopo l'indipendenza del paese nel 1947. I cingalesi, t emendo che i due milioni e mezzo di Tamil dell'isola si uniscano ai 50 milioni di Tamil che vivono in India lungo la costa per buttarli a mare, fanno di tutto per stabilire la loro supremazia, cacciando via più Tamil possibili e marginalizzando quell i che restavano. Per giustificarsi i cingalesi, buddisti, si inventano il mito di essere una razza eletta, «la razza del leone», cui il Budda stesso, morendo ha scelto la loro isola come il santuario della sua religione. I Tamil, hindu, diventano cos ì anche dei nemici religiosi. Nel 1971 a Jaffna, la capitale tradizionale dei Tamil, 13 giovani fondano il primo movimento di liberazione dei Tamil. Uno di loro è Prebhakaran. Ha solo 17 anni. Nel 1975, con una vecchia pistola, Prebhakaran uccide i l sindaco della città. Nel 1976 viene ufficialmente fondato lo Ltte. L'emblema copiato da una scatola di fiammiferi è una tigre, simbolo della ferocia, capace di tenere testa a quella del leone. Prebhakaran è il capo; l'assassinio politico il suo più efficace mezzo di imporsi. Nel giro di pochi anni Prebhakaran uccide e fa uccidere tutti i suoi possibili avversari nella comunità Tamil. I pogrom continuano. In quello del 1983 i cingalesi massacrano alcune migliaia di persone. Intere famiglie, n ella stessa capitale Colombo, vengono chiuse nelle loro case e date alle fiamme. Con ogni pogrom le Tigri reclutano nuovi adepti. Come Pol Pot prima di lui, Prebhakaran sa che i migliori soldati sono quelli reclutati giovanissimi ed addestrati alla guerra, senza memoria, senza altri valori che quelli inculcati dall'organizzazione. Prebhakaran va nelle scuole delle regioni Tamil, fa vedere dei video con scene dei massacri e chiede: «Volete che questo succeda ai vostri genitori? Alle vostre so relle?» Alla fine di ogni sessione decine di giovani si alzano, lasciano tutto quel che hanno in ricordo ai genitori e scompaiono con i reclutatori. Spesso la loro unica traccia è, qualche mese dopo, una foto sui manifesti che annunciano il loro suic idio martirio in una azione militare. Alcuni di queste reclute

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hanno appena dieci, dodici anni. Parte del loro addestramento consiste nel torturare ed uccidere i prigionieri. Il caso di uno di questi ragazzi, impazzito per essere stato costretto ad a mmazzare un neonato, viene portato agli occhi del mondo da un coraggioso psichiatra di Jaffna che ne parla ad una conferenza internazionale. Nonostante questo rivoltante carattere delle Tigri, il fatto che i Tamil siano realmente vittime della pers ecuzione cingalese, pare giustificare la loro violenza agli occhi dei Tamil in Sri Lanka, dei Tamil della diaspora ed anche di parte della comunità internazionale. Sotto la direzione di Prebhakaran, le Tigri diventano con gli anni quel mostro di or ganizzazione - ancora in parte sconosciuta - che è oggi. Le Tigri hanno circa 10/15.000 guerriglieri in Sri Lanka, hanno una quarantina di uffici nel mondo, si finanziano con soldi offerti o estorti dalle comunità Tamil nei vari paesi e pare sempre d i più con il traffico delle armi e della droga. Un sospetto ancora non ben provato è che le Tigri prendono l'eroina in Birmania e la distribuiscono nel mondo, passando per l'Europa. Alcuni dei loro corrieri che vengono catturati non possono parlare: hanno la lingua tagliata. Anche in Italia un paio di centinaia di Tamil, sono stati arrestati, in gran parte a Palermo, per droga. Le Tigri non permettono il dissenso. Chiunque osi criticare Prebhakaran viene ucciso: ultimo il suo numero due, fucil ato poco tempo fa, dopo un «anno di interrogatori», come ha detto il portavoce del movimento. Prebhakaran resta l'indiscusso capo del movimento che, nonostante la perdita di Jaffna, non sembra affatto indebolito. Dovunque sono stato nei quattro gio rni che ho passato con loro, le Tigri erano gli «eroi» e decine di giovanissimi Tamil nella regione di Kokkadicholai sembravano non sognare altro che di diventare come loro con un mitra a tracolla e la fiala di cianuro al collo. Poco importa se la fine è in una fossa. «Vedi?» e mi fanno vedere le loro targhette di soldati, col nome dell'Ltte ed il loro numero di matricola. Ognuno ne ha tre: una al collo, una al polso, una attorno alla vita. «Così anche in caso che vada a pezzi, mi si potrà i dentificare», mi dice uno di loro facendo il gesto del suo corpo che esplode in aria. Appena fuori dal villaggio, le Tigri hanno da poco costruito il «Parco dei Martiri» con le tombe ben ordinate dei ragazzi morti e le file di fiaccole, accese la n otte, in memoria di quelli i cui corpi non sono stati recuperati. Tornando verso le zone del governo, son passato davanti a quel cimitero e m'ha colpito vedere quanto spazio è già stato previsto per file e file di nuove tombe. Ci vorrà del tempo - e forse anche un miracolo - finché anche in questa strana isola qualcuno insegni ai bambini un gioco diverso da quello facile di uccidere e morire.

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domenica , 03 dicembre 1995 ESTERI REPORTAGE/ Duro colpo alle speranze dei secessionisti di costituire un proprio Stato. Ora la battaglia si sposta nella giungla Cade nel sangue la Tamil

Svolta nella guerra in Sri Lanka, i governativi singalesi conquistano Jaffna Tiziano Terzani

COLOMBO - Jaffna è caduta. Almeno così dice il governo. Dopo quasi due mesi in cui ogni giorno la presa della città ribelle da parte dell'esercito veniva data per certa o imminente, l'annuncio ufficiale è stato reso pubblico dal portavoce delle Forze Armate. Il brigadiere Sarath Munasinghe ha detto che, alle dieci e trenta del mattino, i soldati di Colombo, provenienti dal Nord della penisola, hanno occupato la zona del Forte (una vecchia rocca a forma di stella del periodo coloniale olandese, d istrutta nel 1990 dalle Tigri) e che qualche ora dopo si sono ricongiunti con una colonna di loro colleghi provenienti dal Nord-Ovest. «Ai terroristi, ora completamente accerchiati nel centro della città, non resta che arrendersi o suicidarsi», ha co ncluso il brigadiere. L'annuncio ufficiale, come da settimane tutte le notizie su questa guerra che nessun osservatore indipendente è riuscito a vedere da vicino a causa della rigorosa censura imposta dal governo e della impossibilità di raggiunger e il fronte, lascia molto a desiderare, ma non c'è dubbio che l'avvenimento costituisca, per il governo del Presidente, signora Chandrika Kamaratunga, un notevole successo. Nel corso degli ultimi cinque anni Jaffna, una vecchia città commerciale, u n tempo cosmopolita e colta, era diventata la vera e propria «capitale» dello LTTE, il movimento di liberazione delle Tigri Tamil, guidato dal «Supremo» Prebakaran, un rivoluzionario di 41 anni, mistura di Mao, Che Guevara, Hitler e Pol Pot. A Jaffna le Tigri avevano gli uffici centrali della loro amministrazione civile, i loro tribunali (coi giudici di solito ancora ragazzini), le loro scuole politiche ed il loro grande cimitero dei «martiri». Lì avevano uno dei loro principali comandi militari . Conquistando la città e ricacciando la guerriglia separatista nella giungla, il governo ha distrutto l'immagine di uno stato Tamil, di fatto già indipendente e separato all'interno dello Sri Lanka. Psicologicamente questo è importante. Politicame nte poi la presa di Jaffna aumenta la già notevole popolarità della signora Chandrika, che potrebbe ora annunciare nuove elezioni per ottenere in Parlamento una maggioranza più sicura di quella attuale. La signora è stata eletta un anno fa con un man dato di pace. Le Tigri però, dopo tre mesi di negoziati col suo governo, avevano ripreso le ostilità e a lei non era rimasto che mostrarsi ferma e ordinare ai suoi generali di rispondere alla guerra. Piantare ora la bandiera del governo su una città che dal 1990 è stata in mano ai ribelli è un atto carico di

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simbolismo. La vittoria di Jaffna arriva però solo fin qui perché la guerra fra il «Supremo» Prebakaran che a tutti i costi vuole creare sull'isola uno stato separato per la popolazione di minoranza Tamil e il governo che intende invece mantenere l'unità del Paese, dominato dalla maggioranza singalese, non è oggi più vicina a una conclusione di quanto lo fosse qualche settimana fa. Militarmente infatti la caduta di Jaffna non cambia di molto l'equilibrio delle forze in campo e alla lunga potrebbe avere effetti più negativi per il governo che per la guerriglia. Le Tigri, pur avendo nella battaglia per Jaffna perso un notevole numero dei propri combattenti (fonti governative parl ano di circa 2.000 fra morti e feriti), sono riuscite a evacuare i loro quadri superiori e tutti i loro rifornimenti nelle basi di riserva nella foresta. La speranza del governo è che Prebakaran, indebolito ora dalla sconfitta, torni al tavolo dei negoziati o venga sostituito (magari assassinato) da qualcuno più moderato. La speranza delle Tigri è che il governo non riesca a subire il continuo salasso di uomini e di soldi provocato dalla guerra e che qualcuno, dopo Chandrika, che le Tigri hann o messo in testa alla lista delle persone da assassinare, si decida a dare loro quel che vogliono: uno Stato indipendente. Tutti e due forse si illudono e il risultato non potrà essere che la progressiva distruzione del Paese. Come avviene a Jaffna dove i ribelli, prima di ritirare il grosso delle loro truppe, hanno piantato centinaia di mine, dove ogni bicicletta, ogni secchio, ogni lampadina tascabile può essere una bomba e dove nel centro della vecchia città sono ancora asserragliate intere squadre di Tigri nere, i guerriglieri votati al suicidio. Sì, Jaffna è praticamente caduta, ma la caduta continua.

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martedi , 05 settembre 1995 TERZA PAGINA L'incontro con un mago orientale che sconsiglio di prendere l'aereo per dodici mesi. Cosi un grande inviato scopri il mondo via terra Anno 1993:

di TIZIANO TERZANI

«Un indovino mi disse» è il titolo del nuovo libro di Tiziano Terzani (Longanesi, pagg. 429, lire 30 mila). Ne anticipiamo un brano tratto dal primo capitolo. Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere e a volte non è facile. La mia, per esempio, aveva tutta l'aria di essere una maledizione. «Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell'anno non volare. Non volare mai», m'aveva detto un indovino. Era successo a Hong Kong. Avevo incontr ato quel vecchio cinese per caso. Sul momento quelle parole m'avevano ovviamente colpito, ma non me ne ero fatto un gran cruccio. Era la primavera del 1976, e il 1993 pareva ancora lontanissimo. Quella scadenza però non l'avevo dimenticata. 1977... 1 987... 1990... 1991. Sedici anni, specie se visti dalla prospettiva del primo giorno, sembrano tanti, ma, come tutti gli anni, tranne quelli dell'adolescenza, passarono velocissimi e presto mi ritrovai alla fine del 1992. Che fare? Prendere sul serio quel vecchio cinese e riorganizzare la mia vita, tenendo conto del suo avvertimento? O far finta di niente e tirare avanti dicendomi: «Al diavolo gli indovini e le loro fandonie»? A quel punto avevo vissuto in Asia, ininterrottamente, per più di u n ventennio - prima a Singapore, poi a Hong Kong, Pechino, Tokyo, infine a Bangkok - e pensai che il miglior modo di affrontare quella «profezia» fosse il modo asiatico: non mettercisi contro, ma piegarcisi. «Allora ci credi?» mi stuzzicavano i colle ghi-giornalisti, specie quelli occidentali, gente avvezza a voler sempre un netto sì o no a tutte le domande; anche a quelle mal poste come questa. Uno non ha bisogno di credere alle previsioni del tempo per uscire di casa con l'ombrello in una giorn ata nuvolosa. La pioggia è una possibilità, l'ombrello una precauzione. Perché provocare la sorte se proprio quella ti fa un cenno, ti dà un suggerimento? Al tavolo della roulette quando il nero è uscito tre o quattro volte di seguito ci sono giocato ri che, contando sulle probabilità statistiche, puntano allora tutto quel che hanno sul rosso. Io no. Ripunto sul nero. Non è in questo senso che la pallina mi ha fatto l'occhiolino? E poi a me l'idea di non volare per un anno intero piaceva di per sé. Soprattutto come sfida. Pretendere che un vecchio cinese di Hong Kong potesse avere la chiave del mio futuro mi divertiva moltissimo. Mi pareva di fare un primo passo in un terreno ignoto. [...]. La profezia era la scusa. La verità è che uno a cinquantacinque anni ha una gran voglia di aggiungere un pizzico di poesia alla propria vita, di guardare al mondo con occhi nuovi, di rileggere i classici, di riscoprire che il sole sorge, che in cielo c'è la luna

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e che il tempo non è solo quello s candito dagli orologi. Questa era la mia occasione e non potevo lasciarmela scappare. Il problema era come fare: rinunciare per un anno al mio lavoro? prendere una lunga vacanza o continuare a lavorare, pur con questa limitazione? [...] L'occasione di verificarlo venne nell'ottobre del 1992. Uno dei due capiredattori di Der Spiegel passò da Bangkok e una sera, dopo cena, senza tanti preamboli, gli raccontai la storia dell'indovino di Hong Kong e gli parlai della mia intenzione di passare il 19 93 senza prendere aerei. «Ora che m'ha detto questo, come vuole che io le chieda di volare a Manila quando ci sarà il prossimo colpo di Stato o in Bangladesh per il prossimo tifone? Faccia come crede», fu la sua risposta. Come al solito magnifici, quei miei lontani gestori! Capirono che da quel mio sfizio poteva nascere una storia diversa, che avremmo potuto offrire al lettore qualcosa che gli altri non avevano [...]. La «profezia» scattava con l'inizio dell'anno nuovo e mi riservai di decid ere all'ultimissimo momento, allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre dovunque mi fossi trovato. Fu nella foresta del Laos. Il «cenone» era stato una omelette di uova di formiche rosse; per brindare non c'era champagne, ma sollevando un bicchie re d'acqua fresca presi formalmente con me stesso l'impegno di non cedere, per nessuna ragione, a nessun costo, alla tentazione di volare. Avrei viaggiato il mondo con ogni mezzo possibile purché non fosse un aereo, un elicottero, un aliante o un del taplano. Fu una splendida decisione e l'anno 1993 è finito per essere uno dei più straordinari che io abbia passato: avrei dovuto morire e son rinato. Quella che pareva una maledizione s'è dimostrata una vera benedizione. Muovendomi fra l'Asia e l'Europa in treno, in nave, in macchina, a volte anche a piedi, il ritmo delle mie giornate è completamente cambiato, le distanze hanno ripreso il loro valore e ho ritrovato nel viaggiare il vecchio gusto di scoperta e di avventura [...]. Appena si decide di farne a meno, ci si accorge di come gli aerei ci impongono la loro limitata percezione dell'esistenza; di come, essendo una comoda scorciatoia di distanze, finiscono per scorciare tutto: anche la comprensione del mondo. Si lascia Roma al t ramonto, si cena, si dorme un po' e all'alba si è già in India. Ma un Paese è anche tutta una sua diversità e uno deve pur avere il tempo di prepararsi all'incontro, deve pur fare fatica per godere della conquista. Tutto è diventato così facile oggi che non si prova più piacere per nulla. Il capire qualcosa è una gioia, ma solo se è legato a uno sforzo. Così con i Paesi. Leggere una guida, saltando da un aeroporto all'altro, non equivale alla lenta, faticosa acquisizione - per osmosi - degli umo ri della terra cui, con il treno, si rimane attaccati. Raggiunti in aereo, senza un minimo sforzo nell'avvicinarli, tutti i posti diventano simili: semplici mete separate fra di loro solo da qualche ora di volo. Le frontiere, in realtà segnate dall a natura e dalla storia e radicate nella coscienza dei popoli che ci vivono dentro, perdono valore, diventano inesistenti per chi arriva e parte dalle bolle ad aria condizionata degli aeroporti, dove il «confine» è un poliziotto davanti

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allo schermo di un computer, dove l'impatto con il nuovo è quello con il nastro che distribuisce i bagagli, dove la commozione di un addio viene distratta dalla bramosia del passaggio obbligato attraverso il free duty shop, ormai uguale dovunque. Le navi si avv icinano ai Paesi entrando con lento pudore nelle bocche dei loro fiumi; i porti lontani tornano a essere delle agognate destinazioni, ognuna con la sua faccia, ognuna con il suo odore. Quel che un tempo si chiamavano i terreni d'aviazione erano anche loro un po' così. Oggi non più. Gli aeroporti, falsi come i messaggi pubblicitari, isole di relativa perfezione anche nello sfacelo dei Paesi in cui si trovano, si assomigliano ormai tutti; tutti parlano nello stesso linguaggio internazionale che dà a ciascuno l'impressione di essere arrivato a casa. Invece si è solo arrivati in una qualche periferia da cui bisogna ripartire, in autobus o in taxi, per una centro che è sempre lontanissimo. Le stazioni invece no, sono vere, sono specchi delle cit tà nel cui cuore sono piantate. Le stazioni stanno vicino alle cattedrali, alle moschee, alle pagode o ai mausolei. Una volta arrivati lì, si è arrivati davvero. Pur con questa limitazione del non volare non ho smesso di fare il mio mestiere e sono s empre riuscito ad arrivare in tempo là dove era necessario che fossi, dalle prime elezioni democratiche in Cambogia all'apertura della prima linea di comunicazione - via terra! - fra la Thailandia e la Cina attraverso la Birmania. In estate non ho rinunciato alla visita annuale in Europa a mia madre, facendo uno «storico» Bangkok-Firenze in treno: più di 20.000 chilometri passando per la Cambogia, il Vietnam, la Cina, la Mongolia, la Siberia e via avanti, un viaggio di per sé niente affatto ec cezionale, tranne che nessuno lo faceva più da tantissimo tempo; un mese al ritmo del botta e risposta delle ruote con le traversine, dei fischi delle locomotive di vari Paesi, attraverso quella che sulla carta pare una piccola parte di mondo.

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domenica , 28 maggio 1995 Cinquant'anni e tre conflitti tra India e Pakistan non hanno risolto una crisi a sfondo religioso nata con la fine dell'impero britannico Kashmir, nel tempio dell'odio

Tiziano Terzani

Tra i picchi dell'Himalaia la guerra infinita in nome di Dio Tra le rovine annerite di Sharar i Sharif solo i cani randagi sanno la verità sul grande rogo. SHARAR I SHA RIF (India). Storditi, i cani si aggirano fra le macerie e rosicchiano ossa carbonizzate. Accecati dal fuoco, alcuni muoiono di fame, sdraiati fra i resti fumanti di quello che era il tempio più sacro del Kashmir. Loro la verità la sanno e sarebbero anche gli unici a non mentire, ma i cani riescono appena a guaire. Dal 1300, arroccata su questo promontorio, circondata dai picchi dell'Himalaia, c'era una elegante cittadina di mattoni. Non restano che un paio di case. Dal 1460 c'era qui un sant uario di legno di noce, tutto intagliato, a cui sia gli hindu che i musulmani venivano in pellegrinaggio, spesso portando, come un ex voto, il primo taglio di capelli dei loro figli. Non restano che alcuni gradini di pietra. Tutto è andato in fumo e con quello se n'è andata l'ultima speranza d'un compromesso in Kashmir, il pomo della discordia che da mezzo secolo avvelena le relazioni fra India e Pakistan e che minaccia d'essere la scintilla d'una nuova guerra fra questi Paesi vicini, tutti e du e ormai armati di testate nucleari. Il santuario di Sharar i Sharif era il simbolo della tolleranza religiosa, della possibile coesistenza fra hindu e musulmani. Era stato costruito attorno alla tomba di Sheik Nurudin, il propagatore del sufismo . la versione mistica dell'Islam ., il profeta della non violenza, il poeta i cui versi sono alla radice dell'anima kashmir. “Dio è dovunque e ha mille nomi, ma non c'è foglia d'erba che non lo conosca". “Siamo venuti assieme sulla terra, perchè non sp artire gioie e dolori?", scriveva Sheik Nurudin per convincere la sua gente che l'amore, più che la spada, converte gli infedeli e che “Non bisogna mai dividere gli hindu dai musulmani". L'incendio di Sharar i Sharif ha approfondito quella division e. Chi l'ha appiccato? Chi ha voluto distruggere questa cittadina con tutto quel che rappresentava? I cani tacciono. Solo alcuni fatti sono certi. Due mesi fa una cinquantina di guerriglieri fondamentalisti islamici, armati fino ai denti, si sono m ischiati ai pellegrini e sono entrati a Sharar i Sharif. Il loro capo era Mastgul, un sedicente “maggiore" dei mujihaeddin, veterano della guerra in Afghanistan. L'esercito indiano ha mandato 3.000 dei suoi uomini a circondare la città, ma i generali di Delhi han detto fin dall'inizio che non avrebbero attaccato i guerriglieri per evitare di fare vittime fra la popolazione e danneggiare il santuario. Dopo settimane di stallo,

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improvvisamente, una notte l'intera città, il tempio, la tomba di Shei k Nurudin, i suoi manoscritti e la sacrissima reliquia rappresentata dal mantello di Fatima, figlia di Maometto, sono stati divorati dalle fiamme. Chi è responsabile di questo sacrilegio? Le autorità indiane dicono che sono stati i guerriglieri; qu elli dicono che sono stati gli indiani con la loro artiglieria; la popolazione, ora rifugiata nei villaggi vicini, racconta una inverosimile storia di elicotteri che avrebbero cosparso la città di una polvere incendiaria, poi innescata dalle bombe. O gni volta che qualcuno sgarra da questa stereotipa versione, la folla attorno lo corregge. I kashmiri vivono nel terrore: terrore dei mujihaeddin venuti a “liberarli", terrore degli indiani venuti a “proteggerli". “I militanti erano poco più di u na trentina. Tutti mercenari, venuti dal Pakistan. Ne abbiamo ammazzati 28 e catturato uno. Per noi è stato un gran successo", dice il generale Mohinder Singh comandante delle truppe indiane che ora occupano la città distrutta e abbandonata. La sua u niforme è inamidata, il suo turbante verde con una striscia rossa, ma il generale è scalzo. “Per rispetto alla santità del posto" ha costretto tutti, soldati e giornalisti, a togliersi le scarpe e a camminare pericolosamente, a piedi nudi, fra le mac erie, le schegge e i vetri rotti nel recinto del santuario che non esiste più: un ultimo tocco di ipocrisia in una guerra combattuta anche a suon di falsità. Per l'India la distruzione di Sharar i Sharif è stata tutt'altro che un successo. Il poten te esercito di Delhi non solo è stato messo in scacco da una piccola banda di guerriglieri; alla fine è stato anche preso in giro. Mentre i portavoce militari annunciavano che il “maggiore" Mastgul era circondato e che entro poche ore sarebbe stato " liquidato", il capo dei mujihaeddin lasciava Sharar i Sharif, accompagnato da 18 dei suoi uomini, e poco dopo mandava ai giornalisti una registrazione in cui raccontava la fuga. Il problema del Kashmir ha quasi cinquant'anni. Cominciò quando gli in glesi, lasciando l'India nel 1947, permisero la formazione di due Stati indipendenti . il Pakistan con una popolazione a maggioranza musulmana e l'India con una maggioranza di hindu . e chiesero ai 562 maharaja di scegliere con chi stare. Questa “spa rtizione" contestata dal Mahatma Gandhi, ma voluta dal capo del Partito Islamico, fu drammaticissima ed è all'origine di tutte le guerre che hanno da allora insanguinato il subcontinente. Nei massacri reciproci del primo anno soltanto morirono più di un milione di persone. Nel Kashmir non ci furono massacri, ma il maharaja, un hindu, scelse, nonostante la popolazione fosse per l'80% musulmana, di annettere il suo Stato all'India. Il Pakistan allora invase il Kashmir, l'India mandò il suo esercit o e l'Onu ordinò ai due contendenti di ritirare le loro truppe e di lasciare ai kashmiri di decidere la loro sorte per mezzo di un plebiscito. Niente di questo avvenne. Anzi: sul Kashmir India e Pakistan hanno da allora combattuto tre guerre. Il ri sultato è che oggi il Kashmir è diviso: gli indiani ne controllano una parte (100.000 chilometri quadrati con una popolazione di 12 milioni), i pakistani ne controllano un'altra (67.000 km con tre milioni) e i cinesi, approfittando

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della situazione, se ne sono appropriati una fetta di 24.000 km con un milione e mezzo di persone. I kashmiri si sono sentiti traditi da tutta questa storia e col tempo si sono mossi su posizioni sempre più radicali. La svolta decisiva è stata nel 1989, quando la ma ggior parte dei gruppi separatisti hanno deciso di ricorrere alla lotta armata contro l'India e sono stati affiancati da bande di mujihaeddin, rimasti disoccupati con la fine della guerra in Afghanistan. Secondo le autorità indiane il Pakistan e i su oi “mercenari" sono all'origine del “terrorismo" nel Kashmir, ma anche questa è una mezza verità. “Tutti stranieri", dice un ufficiale indiano indicando i cadaveri di cinque guerriglieri stesi sotto dei teli bianchi in un prato alla periferia di Sh arar i Sharif. I giornalisti prendono nota, i fotografi scattano immagini e ripartono. Chi per curiosità torna qualche ora dopo sul posto scopre che i cadaveri sono circondati da donne che piangono. Erano tutti ragazzi dei dintorni. Non c'è dubbio che il Pakistan soffia sul fuoco dell'insurrezione anti indiana nel Kashmir, che infiltra suoi agenti e manda rifornimenti di armi alla guerriglia, ma il movimento separatista ha forti radici locali e l'odio contro l'amministrazione indiana è ormai t ale che centinaia di giovani kashmiri lasciano spontaneamente i loro villaggi per andare nella parte di Kashmir controllata dal Pakistan dove ricevono un addestramento non solo militare, ma anche religioso. È così che sempre più kashmiri cadono sot to l'influenza dei mullah fondamentalisti e che il sufismo, con la sua tolleranza ed ecumenicità, viene progressivamente soppiantato in questa regione dall'Islam duro e militante. Per l'India stessa, che per decenni ha fatto della tolleranza e dell a coesistenza fra le religioni la base della sua identità nazionale, l'alienazione del Kashmir . il solo Stato dell'Unione con una maggioranza musulmana . è motivo di grande imbarazzo sul piano internazionale e di grandi conseguenze sul piano interno . La distruzione del tempio a Sharar i Sharif viene dopo quella del Tempio d'Oro dei sikh da parte dell'esercito, dopo quella della moschea di Ayodhya da parte di una folla scatenata di hindu e sembra indicare una crescente intolleranza religiosa. Per i 110 milioni di musulmani che ancora vivono in India è un'indicazione preoccupante. Il fatto è che per il momento nessuna soluzione è possibile. Qualsiasi concessione l'India possa fare in Kashmir apparrebbe come una concessione al Pakistan e questo è qualcosa che nessuno a Delhi può permettersi. Lasciare che il Kashmir abbia il suo plebiscito e scelga il suo futuro vorrebbe dire ispirare altre popolazioni e altri Stati indiani a chiedere la loro indipendenza. Così lo stato d'assedio co ntinua e il Kashmir, un Paese di particolare bellezza, diventa sempre di più una sorta di paradiso perduto. La sera i bei house boats, un tempo occupati da centinaia di turisti, restano bui e deserti, ormeggiati sotto i monumentali platani lungo le rive del lago Dal. Le vette dell'Himalaia risplendono d'argento sotto la luna. Nel silenzio rincuorante della natura si sentono improvvisamente delle urla lontane: “Azaadi Kashmir!", Libertà al Kashmir, poi lo sgranare della mitraglia.

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domenica , 21 maggio 1995 Sette e terrorismo E il Giappone adesso esporta anche gli incubi IL GIAPPONE

Tiziano Terzani

Bisogna aver viaggiato nella metropolitana di Tokio alle ore di punta quando la gente viene stivata nei vagoni da uomini in uniformi grigie e guanti bianchi; bisogna aver passato delle serate nei piccoli bar di Shinjuku dove gli “uomini salario", semplici impiegati o alti funzionari, piangono ubriachi sulle spalle delle mama san; bisogna aver osservato come all'alba le mogli restano ad inchinarsi sulle soglie di casa finchè i mariti scompaiono in lontananza verso la stazione per capire come quella giapponese è una s ocietà dura e senza gioia, e come tanti individui, intrappolati in una disumana vita di solitudine, finiscono per vedere l'unica via d'uscita nella distruzione: la propria, degli altri e al limite del Giappone stesso. Gli attacchi al gas nervino da parte degli adepti della setta Aum della Suprema Verità contro le folle formicolanti delle città non sono una aberrazione. Sono semplicemente l'espressione più drammatica e vistosa di una malattia che da tempo cova nell'anima giapponese; sono parte del prezzo che il Giappone . affascinante, ma anche terrificante Paese . paga per il suo straordinario successo economico. Le radici di questo male sono vecchie. Risalgono alla fine del secolo scorso, quando i giapponesi decisero, senza alcun spiri to critico, di imitare la modernità occidentale e così si disancorarono dalle loro tradizioni culturali e persero i loro, già relativi, punti di riferimento morale e spirituale. L'aggravamento però è cominciato nel 1945, quando il Giappone, sconfit to sui campi di battaglia dell'Asia e dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, ha scelto di continuare a battersi contro il resto del mondo . questa volta sul piano economico . senza alcun riguardo per le conseguenze che la nuova guerra aveva su lla sua gente. Buttati a capofitto nell'impresa di ricostruire il Paese, messi a correre dietro a sogni di banali acquisizioni materialistiche, i giapponesi hanno ancora una volta dovuto reprimere ogni loro individualità, rinunciare ad ogni rifless ione e si sono presto ritrovati a vivere a ritmi sempre più pressanti, in spazi sempre più angusti, in una società sempre più disumanizzata in cui nessuno è quel che è, ma è il ruolo che svolge. Nelle scuole gli studenti non considerano i compagni come possibili amici, ma come dei concorrenti. Nelle fabbriche e negli uffici i rapporti sono esclusivamente gerarchici. Persino all'interno delle famiglie le comunicazioni sono dettate da stereotipi e per lo più fatte di grandi silenzi. La natura vien e progressivamente mangiata dal cemento, le città cambiano in continuazione. In questo vuoto spirituale, creato da una società tutta presa dal lavoro e dal consumo, sono fiorite le “nuove religioni", ognuna con una sua promessa di “salvezza", ma og nuna,

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per sua natura, una organizzazione giapponese e con ciò, in un modo o nell'altro, integrata al sistema. Molte di queste sette sono parte di quella stessa rete di interessi politici ed economici da cui uno crede, diventandone membro, di sfuggire . È certo da questo senso di impotenza dinanzi ad una società senza alternative che è cresciuto inconsciamente fra i giapponesi, culturalmente già così affascinati dalla morte e propensi al suicidio, il desiderio di far saltare tutto in aria, di ve dere città come Tokio rase al suolo e l'intero Giappone ingoiato dal mare. Non è certo un caso che Godzilla, il mostro che calpesta i grattacieli di Tokio, sia una invenzione giapponese e che i film in cui lui è protagonista continuano ad essere un i ncredibile successo. Allo stesso modo non è un caso che i libri più venduti siano quelli che descrivono l'ultimo terremoto o l'ultimo maremoto che cancelleranno il Giappone dalla faccia della terra. Ogni giapponese trova in questi scenari da apocalis se la liberazione da tutto ciò a cui si sente incatenato. In questo senso gli adepti di “Aum della Suprema Verità", mettendo in pratica coi loro attacchi al gas nervino le fantasie altrui, sono una espressione del Giappone di oggi come lo sono i su oi gadgets elettronici. Gli uni sono legati agli altri. Quella loro è una storia raccapricciante, ma una che fa riflettere sulle conseguenze del puro economicismo; una che dovrebbe far anche ricredere quelli che in Occidente, affascinati dalle appa renze

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domenica , 30 aprile 1995 Vent' anni fa la fine della guerra I VIET A SAIGON SOGNO FALLITO

Terzani Tiziano

Vent'anni fa la fine della guerra L'emozione fu grande . Una delle più intense della mia vita. Quando vidi i primi guerriglieri con la bandiera vietcong sfrecciare su una jeep per la strada principale di Saigon, urlando: “Giai Phong!", non riuscii a trattenermi. Mi misi a piangere. Di gioia. Con quell'ur lo, “Liberazione!", finiva una guerra che aveva martoriato il Vietnam e scosso il resto del mondo. Mi misi a correre verso il Palazzo presidenziale. Arrivai che i primi carri armati avevano appena sfondato la cancellata di ferro e i soldati stavano p rendendo posizione sulla scalinata. La resa formale del regime del Sud avvenne in pochi minuti, senza altri scontri, senza più morti. Col passare delle ore il panico di quelli che non erano riusciti a fuggire con gli americani passò, la paura di Saig on si sciolse e alla sera sul grande prato al fianco della Cattedrale i guerriglieri, come fossero ancora nella giungla, accesero i loro falò per cucinare il riso in grandi pentoloni. Il 30 aprile 1975 “la rivoluzione" si presentò a Saigon esattame nte come milioni e milioni di dimostranti nel mondo, per anni, se l'erano sognata: semplice, contadina, giusta. I giovani guerriglieri che entrarono in città, magri, con le uniformi lise e ai piedi i classici sandali di Ho Chi Minh ricavati da vecchi e gomme di camion, erano ragazzi di campagna che si rivolsero ai loro ex nemici chiamandoli “fratelli". Erano estremamente disciplinati e non ci furono nè furti, nè saccheggi. Quella che si concludeva era stata una lunga, sanguinosa guerra civile, ep pure non ci furono plotoni di esecuzione, non ci furono bagni di sangue, nè regolamenti di conti. Tutto quel che i nuovi governanti dissero di volere era la pace e la riconciliazione nazionale. La rivoluzione sembrò ideale. Restai a Saigon per tre mesi e l'esperienza quotidiana di quella rivoluzione fu eccitante. Si aveva la sensazione di qualcosa di nuovo che veniva al mondo, qualcosa di promettente come un bambino appena nato. C'era qualcosa di catartico, di purificante nel lento rovesciarsi di una società che era stata estremamente corrotta, incapace e senza più ispirazione. C'era un senso di “giustizia è fatta" nel vedere gli oppositori del vecchio regime liberati dalle “gabbie di tigre", i profittatori della guerra andare a prendere lezioni di “nuova moralità" e i funzionari e gli ufficiali di Saigon partire verso le basi dei guerriglieri per essere “rieducati" e rendersi conto delle difficoltà con cui quelli avevano vissuto e combattuto “per il bene di tutti". L'altra faccia della rivoluzione L'illusione non durò a lungo e la rivoluzione vietnamita come ogni altra rivoluzione . da quella sovietica, a quella cubana, a quella cinese prima . presto mostrò l'altra sua faccia: i combattenti furono lentamente

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sostituiti da i commissari politici, gli eroi dai burocrati e gli idealisti dagli uomini dei servizi segreti. Presto una dittatura prese il posto dell'altra ed il nuovo regime comunista finì per essere spietato e disumano come quello pro americano del passato. Inv ece che vivere in pace e lavorare alla ricostruzione del Paese, migliaia di giovani vietnamiti dovettero andare a combattere e a morire in Cambogia contro i Khmer rossi di Pol Pot; decine di migliaia di persone furono costrette a mettersi in mare e a cercare scampo come boat people nei Paesi vicini; la “rieducazione" si rivelò una trappola con cui tutti i potenziali oppositori del nuovo regime vennero tolti di mezzo e rinchiusi in campi di concentramento da cui moltissimi non tornarono. Il fatto di essere stati pro americani e di aver combattuto per il Sud si rivelò un “peccato" che non potè essere espiato con nulla e che anzi si tramandò di padre in figlio come una maledizione. Di tutte le belle promesse la rivoluzione non ne ha mantenut a nessuna. Tanto meno quella della riconciliazione nazionale. I comunisti hanno sì riunito politicamente il Paese . e questo è stato il loro grande, storico merito ., ma hanno mantenuto, anzi approfondito, l'abisso psicologico fra Nord e Sud. Il regi me che i comunisti, al costo di tanti morti e tanti sacrifici, hanno instaurato è oggi . a distanza di due decenni . corrotto, inefficiente e poco ispirante quanto lo era quello che loro stessi rovesciarono nel 1975. La società che i rivoluzionari ha nno messo in piedi è una società senza grandi ideali, confusa e ora tutta tesa a diventare quel che in maniera più sbrigativa ed efficace sarebbe comunque diventata se i “reazionari" del vecchio regime fossero rimasti al potere. Fra le tante ragion i di questo fallimento c'è stato certo il fatto che gli Stati Uniti, non avendo accettato la sconfitta del 1975, hanno continuato per anni, pur con altri mezzi, a fare la guerra al Vietnam; che la Cina, da alleata di Hanoi, è diventata sua nemica e c he il mondo s'è presto dimenticato del Vietnam e dei suoi problemi. Al fondo del fallimento però ci sono state ugualmente l'arroganza dei dirigenti di Hanoi, la loro superbia nei confronti dei vinti e la loro ottusa applicazione dell'ideologia marxis ta leninista imposta sopra il comune, forte nazionalismo che ha distinto i vietnamiti da secoli. Giuste le sfilate per la pace Il risultato è stato una grande delusione e oggi molti di noi si chiedono se tutto sommato non c'eravamo sbagliati a marciare allora per le strade del mondo a favore della pace in Vietnam, cioè della vittoria vietcong. La domanda è giusta. La risposta è: “No". Quel che è successo negli ultimi vent'anni non ha cambiato il senso di quella guerra e il significato st orico del 30 aprile 1975. I vietnamiti combattevano una guerra di liberazione nazionale cominciata più di cento anni prima con lo sbarco delle prime truppe coloniali francesi. Per molti della mia generazione quella guerra era un test di moralità così come lo era stata quella di Spagna. Senza necessariamente essere comunisti, eravamo convinti che gli Stati Uniti non avessero alcuna ragione di immischiarsi negli affari di quel lontano Paese dell'Asia. Eravamo idealisti e fra la sofisticata macchin a da guerra

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americana e il guerrigliero contadino la scelta del nostro eroe era scontata. Un principio in cui credevamo era che un popolo ha il diritto di decidere il proprio destino e che le società hanno da essere a misura d'uomo e giuste. La rivol uzione sembrava promettere tutto questo. È sempre così con le rivoluzioni. Perchè le rivoluzioni sono il futuro e il futuro, a confronto del presente . di solito segnato di miseria ., è sempre più attraente, visto che può essere riempito di promess e. Il Vietnam era un caso perfetto su cui trasferire le nostre aspettative. Dopo due decenni lo scetticismo Da un lato c'era un regime oppressivo appoggiato dall'intervento americano che era la continuazione del regime coloniale francese, dall' altro c'era una spartana, morale, dura rivoluzione che prometteva una migliore vita per tutti. Son passati vent'anni e il tempo ha fatto la sua parte: ha cambiato il mondo, ha cambiato il Vietnam e ha cambiato noi stessi. Nessuna guerra ci commuove più, nessuna causa ci fa scendere più in strada come quella allora dei vietcong. Siamo diventati . certo anche a causa di tante speranze deluse . scettici dinanzi a tutte le promesse politiche e certo sospettosi di tutte le rivoluzioni. Quel che i l tempo non ha combiato è il ricordo delle grandi passioni di quegli anni e della grande emozione di quel 30 aprile. È importante che resti così se, nel cinico clima del presente, vogliamo capire che il passato aveva una sua carica di idealismo, che la “rivoluzione" vietnamita era anche un sogno ed è per questo che milioni di persone scesero per le strade del mondo per dimostrare a suo favore e che tanti giovani vietnamiti andarono a morire . forse inutilmente . in suo nome.

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giovedi , 30 marzo 1995 REPORTAGE DAL PAKISTAN L' universita dei soldati di Allah

Terzani Tiziano

REPORTAGE DAL PAKISTAN A Peshawar il centro frequentato dai militanti mandati a combattere su decine di fronti. PESHAWAR (Pakistan). Il muro di cinta è di fango; gli edifici che per un attimo riesco a vedere all'interno, sono anche di fango. Il cartello dinanzi al portone dice: “Università", ma l'autista del taxi, invece che fermarsi, come gli chiedo, accelera indicandomi un furgone nero, senza targa, fermo sul bordo della strada. Dietro i vetri affumicati si vedono le ombre di uomini barbuti e di fucili. “Quelli sono gli studenti!", dice, piegandosi sul volan te come per farsi più piccino. Ha ragione ad aver paura: secondo varie fonti, quel che si insegna in questa strana, inaccessibile “università", spersa nella pianura sassosa ai piedi dei monti Chirat, in territorio pachistano, sulla via dell'Afghani stan, non è la letteratura o la medicina, ma la scienza del terrorismo, Qui, in queste casupole di fango, identiche a quelle dei tanti villaggi attorno, farebbero capo i bandoli di alcuni misteri e complotti che le polizia di mezzo mondo non sono anc ora riuscite a sbrogliare. La bomba scoppiata due anni fa al World Trade Center nel cuore di New York e quella in preparazione a Manila per la visita del Papa all'inizio dell'anno, ad esempio, hanno avuto a che fare con questa “università": l'uomo ch e le avrebbe confezionate, fra un viaggio e l'atro in vari Paesi, è passato regolarmente da qui. Il nome dell'università, scritto in bianco su un pannello verde fuori dal portone, è di per sè tutto un programma: Dawat and Jihad, “Benvenuti alla Gue rra Santa". “Gli studenti" sono alcune centinaia. Il loro addestramento punta a farne dei combattenti per la gloria dell'Islam nel mondo. Giovani militanti musulmani, formati negli anni scorsi fra queste mura di fango, sono ora “al fronte" in Algeria , in Tajikistan, in Bosnia, nelle Filippine e nel Kashmir. Fondata ai tempi dell'invasione sovietica in Afganistan, “l'università" è uno dei tanti esempi di come lo sforzo americano per sconfiggere l'URSS ha messo al mondo dei mostri che vivono ora una vita tutta loro e di cui nessuno sa esattamente come riprendere il controllo. Per vincere la “Guerra fredda", Washington ha lasciato che i gruppi anti comunisti si finanziassero col traffico della droga, e così l'eroina ha invaso l'Occidente. Washington ha dato a questi gruppi montagne di armi e quelle finiscono ora sul mercato privato ed in mano ai terroristi. Washington ha fatto da balia ai mujaheddin, i “guerrieri santi", contro il regime ateo dell'Afghanistan, ed ora quelli diventano i soldati del fondamentalismo islamico contro i regimi arabi pro occidentali e contro

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l'Occidente stesso. “Quando arrivavano qui al tempo della guerra, li accoglievamo a braccia aperte . dice il capo della polizia pachistana a Peshawar. . Erano ven uti per una nobile causa e non facevamo loro nessuna domanda". Fra il 1979 ed il 1989 più di 25.000 giovani musulmani, provenienti dai Paesi del Medio Oriente e dell'Africa del Nord, sono passati dal Pakistan per partecipare alla jihad, la “guerra sa nta" in Afghanistan. Ora che quella è finita, molti di loro, rimasti disoccupati e senza più alcuna possibilità di tornare a casa loro dove sono considerati dei sovversivi, vengono impiegati in una guerra molto più generalizzata e pericolosa: la guer ra per l'imposizione dell'Islam nel mondo. La Frontiera del Nord Ovest, come viene chiamata questa regione montagnosa del Pakistan al confine afgano, è un terreno ideale per questo nuovo esercito di fanatici religiosi. Gran parte della regione, coi suoi 15 milioni di abitanti più due milioni e mezzo di rifugiati afghani, è solo nominalmente controllata dal Pakistan e non è soggetta a nessuna delle leggi che vigono nel resto del Paese. Nella cittadina di Darra, ad esempio, a soli 28 chilometri da Peshawar, i negozi affacciati sulla strada principale vendono tutti la stessa mercanzia: armi. Mitra, pistole e bazooka sono apertamente offerti con le loro munizioni. Un Ak 47 “Kalashnikov" costa appena 6 mila rupie, trecentomila lire. Quel che n on è esposto sono gli Stinger, i micidiali missili capaci di abbattere un aereo o un elicottero seguendo semplicemente la sua fonte di calore. Gli americani ne avevano dati alcune centinaia ai mujaheddin. Ora gli stessi americani offrono milioni di d ollari per riavere quelli non utilizzati, ma pochissimi sono venuti a galla. I missili valgono evidentemente molto di più sul mercato del terrorismo. Le autorità pachistane sanno da anni che questa regione è diventata il santuario di vari gruppi fo ndamentalisti e che dietro la facciata dell'“università", così come dietro quella di alcune organizzazioni umanitarie arabe, si svolgono attività legate ad operazioni terroristiche, ma è sola ora, dopo enormi pressioni americane, che cominciano ad af frontare il problema. La posizione del Pakistan è estremamente precaria. Fin dalla sua nascita nel 1947, il Pakistan ha cercato di darsi un'identità nazionale attraverso l'Islam. Da allora, ogni governo ha usato l'Islam per restare al potere. I grupp i fondamentalisti, finanziati dall'Iran e da altri interessi arabi, ne hanno approfittato per mettere le proprie radici in Pakistan e col tempo hanno acquisito una tale influenza da rendere ora rischiosissimo per un primo ministro come Benazir Bhutto il metterli al bando. Il rischio è che questi gruppi si rivoltino contro il governo di Islamabad, che lo accusino di essere anti islamico, servo degli Stati Uniti, e che lancino qui una “guerra santa" per eliminare tutte le influenze occidentali ed imporre una stretta ortodossia islamica come stanno facendo in Afghanistan i taliban. Il Pakistan è un Paese di enormi divisioni sociali dominato da una piccola èlite di grandi proprietari terrieri che ha il monopolio del potere e della ricchezza, che vive nelle città, che manda i propri figli a studiare all'estero, che non è particolarmente religiosa, ma che usa

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della religione per legittimarsi. Per la massa della popolazione che resta estremamente tradizionalista, la sola educazione possibil e nelle campagne è quella offerta dalle scuole coraniche in cui l'insegnamento consiste soprattutto nel leggere e rileggere . a volte incatenati ai banchi . il Corano. È fra i giovani inculcati di fanatismo in queste scuole che è stato reclutato l' esercito di “studenti", i taliban, che carcano ora di conquistare l'Afghanistan. È fra di loro che vengono reclutati i guerriglieri che vengono infiltrati nella parte indiana del Kashmir ed i militanti per le varie guerre islamiche in giro per il mon do. Dinanzi all'avanzare della cultura occidentale che attraverso la Tv arriva nei villaggi più remoti di ogni Paese, la reazione più comune di certe società di stampo feudale è il ritorno alla religione nelle sue espressioni più radicali e tradizi onaliste. Da qui il rafforzarsi del fondamentalismo islamico, visto da molti come l'unica arma per combattere “il male" che viene dall'Occidente. Per questo Peshawar, centro di intrighi e di spie fin dai primi anni della “Guerra fredda" (fu da qu i che partì l'U 2, l'aereo spia americano abbattuto nell'URSS), è tornata improvvisamente ad essere un calderone di misteri e di complotti nel quadro della guerra occidentale contro il nuovo nemico: il fondamentalismo islamico. Per questo Peshawar pullula di agenti che cercano gli assassini dei due diplomatici americani a Karachi, di spie che cercano di seguire le tracce lasciate qui da decine di algerini, marocchini, yemeniti, palestinesi, sauditi ed altri che ora con passaporti pakistani com prati qui per 4 mila rupie, circa duecentomila lire, viaggiano per il mondo a mettere in pratica ciò che hanno imparato fra le mura di fango dell'Università della “Guerra Santa".

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mercoledi, 15 marzo 1995 RAPPORTO DAL PAKISTAN. Ogni giorno nella citta di 12 milioni di abitanti un massacro, una bomba, una mano mozzata gettata nel giardino di qualcuno per avvertimento. Nel labirinto di Karachi, fabbrica di morte

Terzani Tiziano

Sunniti a caccia di sciiti, sanguinose faide politiche e poi feroci regolamenti di conti tra gangster e spie KARACHI. Si ha paura, ma non si sa bene di chi. Di quel gruppo di uomini contro il muro? Della macchina che si affianca a un semaforo o di due guardie armate fino ai denti che potrebbero non essere guardie? Il senso del terrore è tutto qui: ogni giorno in questa città di dodici mi lioni di abitanti c'è un massacro, scoppia una bomba o una mano mozza viene buttata, come avvertimento, nel giardino di qualcuno. Nessuno si sente più al sicuro. Gli spacciatori di eroina sono liberi agli angoli delle strade; gli assassini sparano in pieno giorno e i poliziotti evitano di inseguirli. “A che serve farsi ammazzare?", ha detto l'ufficiale che una settimana fa, avendo visto freddare i due funzionari del consolato americano sulla via dell'aeroporto, si è rifiutato di dare la caccia a lla macchina dei terroristi. Una delle poche regole che ancora tutti rispettano è quella di non attaccare i furgoncini di Abdul Sattar Edhi . l'uomo conosciuto come la “madre Teresa" di Karachi . che ogni giorno fanno il giro della città a raccogli ere i cadaveri. Dall'inizio di dicembre ne hanno già recuperati più di 500. È su uno di quei furgoni che sono riuscito a entrare a Pak Colony, uno dei quartieri più esplosivi, infestato da varie bande di armati. Il centro della città con i grandi alb erghi, le banche, gli uffici e la vita che continua ad avere una sua parvenza di normalità è solo a pochi minuti. Poi le strade si fanno deserte, i negozi sono chiusi. Entrato nei meandri di viuzze sterrate, il furgone viene circondato da dei giovani e guidato verso una stamberga di cemento. Le pareti sono cosparse di fori di pallottole, i pavimenti di sangue, di scarpe, di mobili sfasciati. Gli assassini sono arrivati alle undici del mattino e hanno ucciso sette persone nella prima stanza. Un g iovane sui trent'anni che era nella seconda ha cercato di salvarsi nascondendosi in una cisterna d'acqua nel pavimento, ma non ha fatto in tempo a richiudere il coperchio su di sè, è stato visto e freddato con un colpo in faccia. È il più difficile d a recuperare. Quando il furgone riparte col suo carico di morte, sulla piazzetta resta una folla attonita e una capra a gambe all'aria anche lei inutile vittima della sparatoria. Restano anche infinite domande a cui nessuno sembra saper rispondere co n certezza. “Innanzitutto ci sono almeno quattro diverse guerre in corso allo stesso tempo . dice Fazal Qureshi, direttore della

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Agenzia di stampa pachistana . la guerra fra musulmani sunniti e sciiti, quella fra le mafie della droga, quella fra i partiti politici e quella fra i normali gangster e la polizia. Poi c'è il resto". Il “resto" sono sei diversi servizi segreti pachistani che hanno a Karachi più di 6.000 uomini, sono gli agenti dello spionaggio indiano certo interessati a destabilizz are il Pakistan per rispondere alla destabilizzazione pachistana in Kashmir; il “resto" sono gli agenti americani dell'antidroga e della Cia, gli agenti segreti afghani, quelli iraniani, più i trafficanti d'armi che hanno qui un grande mercato. Kar achi, uno dei porti più importanti dell'Asia, è ormai un ingovernabile Frankenstein di violenza che rischia di diventare una seconda Beirut e di provocare lo smembramento del Pakistan stesso. La responsabilità ultima di quel che sta succedendo è da c ercare nella storia. Nel 1947 gli inglesi, dando l'indipendenza al loro Impero, permettono la spartizione dell'India in due Stati: l'India vera e propria, dominata dalla popolazione di religione hindu ed il Pakistan dominato dai musulmani. Già sull a carta il Pakistan, come nuovo Stato, nasce male, fatto di due tronconi: uno nell'Ovest con la capitale nazionale Karachi, uno nell'Est con la capitale regionale Dacca. I due tronconi sono separati da migliaia di chilometri. La spartizione dà origin e a una migrazione di popoli di dimensioni bibliche e ai primi grandi pogrom in cui centinaia di migliaia di hindu vengono massacrati da musulmani e viceversa. Karachi è allora una piccola città di appena 200.000 abitanti. L'influsso degli immigrati musulmani dall'India, che parlano urdu, che sono molto più colti, molto più moderni ed intraprendenti della locale popolazione dei sindhi, cambia completamente la struttura sociale della città ed innesca fra i due gruppi un antagonismo che col passar e del tempo è solo diventato più acuto. I sindhi hanno lentamente monopolizzato il potere centrale, trasferendo fra l'altro la capitale da Karachi a Islamabad e gli immigrati si sono sempre più sentiti discriminati in una città che resta la più imp ortante del paese. Il PPP di Benazir Bhutto, ora al governo, è sostanzialmente il partito dei sindhi; il MQM, il partito degli immigrati urdu, ha l'appoggio popolare a Karachi, ma non governa. Nel corso degli ultimi tre anni centinaia di suoi sosteni tori sono stati uccisi dall'esercito e da gruppi rivali sponsorizzati dai militari che cercavano di togliergli il controllo sulla città. È in questo partito, ancora estremamente popolare fra la gente di Karachi, che si incominciano a sentire le dom ande di una maggiore autonomia e anche di una possibile indipendenza per Karachi. Alcuni sognano già di fare di questa città un porto libero e un centro finanziario tipo Singapore. L'altra importante tappa della storia a cui vanno ricondotte le res ponsabilità di quel che succede qui oggi è la guerra in Afghanistan. Gli americani, fin dalla prima ora alleati del Pakistan contro l'India prosovietica, fanno di questo Paese la base della resistenza afghana contro il regime di Kabul e contro la for za di intervento sovietica. Miliardi e miliardi di dollari entrano nel Paese per finanziare i mujaheddin e le scuole coraniche in cui vengono addestrati i

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combattenti della “guerra santa" contro i comunisti. Karachi è il porto d'ingresso di tutto il materiale bellico che gli Stati Uniti offrono alla resistenza. Il fatto che parte di queste armi si perdono per strada in territorio pachistano non preoccupa eccessivamente Washington, come non preoccupa il fatto che nei contenitori che tornano vuoti dalla frontiera vengono nascosti ingenti quantitativi di eroina che ripassando per Karachi vanno in tutto il mondo. Per anni la priorità americana è di sconfiggere l'Unione Sovietica in Afghanistan e accelerare il processo di disintegrazione dell'UR SS. Il risultato è stato un grande successo. Il prezzo di quella strategia però viene ora pagato da Karachi: circa cinquantamila fucili mitragliatori sono oggi in mani private nella città e la mafia della droga è diventata un vitale centro di potere in grado di controllare, attraverso i suoi uomini in alte posizioni politiche, le attività dei vari partiti, compreso il MQM. La vittoria americana in Afghanistan ha anche lasciato moltissimi combattenti della “guerra santa" islamica disoccupati ed è fra questi che i vari gruppi ed i vari servizi segreti reclutano la loro manovalanza e i loro agenti provocatori. I massacri di apparente natura religiosa, come quello contro la moschea sciita o quello di due famiglie in cui gli uomini sono stati torturati per tre ore davanti ai loro parenti prima di essere uccisi a Karachi, non sarebbero stati opera di musulmani sunniti, ma di agenti esterni interessati a metter in moto una catena di vendetta e a mantenere alto il livello di terrore. Quant o all'assassinio dei due americani, una delle teorie più accreditate qui è che Washington vuole ora risolvere il problema della droga e che spinge il governo pachistano ad attaccare le varie mafie. La risposta sarebbe stata l'imboscata sulla via dell 'aeroporto, contro due funzionari che di diplomatico avevano forse solo la copertura ufficiale. L'unico a non saper più cosa fare è il governo. Benazir Bhutto, venuta a Karachi nei giorni scorsi, ha promesso alla città di usare tutti i mezzi possib ili per riportare l'ordine e subito dopo la polizia ha annunciato di aver arrestato più di trecento sospetti. Son bastate poche ore perchè i giornali qui rivelassero che erano in gran parte dei vagabondi e drogati di nessuna importanza e perchè un nu ovo massacro avesse luogo in pieno giorno. Per questo Karachi è una città di paura e dove è difficile immaginarsi come la paura cesserà.

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venerdi , 10 febbraio 1995 La piu grande democrazia del mondo cerca faticosamente di conciliare gli interessi della liberalizzazione economica con quelli di un esercito di poveri Sonia, sfinge nel destino dell' India

Terzani Tiziano

A villa Gandhi il premier Rao chiede consiglio alla “vedova italiana". Ci sono più di 900 milioni di indiani in India, ma il futu ro politico di questo Paese sembra improvvisamente dipendere dalle parole di una italiana che odia la politica e preferisce tacere. Da quando, a dicembre, il Partito del Congresso ha perso le elezioni in cinque stati dell'Unione, Sonia Gandhi, la sig nora di origini piemontesi, vedova del primo ministro Rajiv Gandhi, assassinato nel 1991, è qui al centro dell'attenzione pubblica e la sua residenza . una villa dai muri bianchissimi, coperti di bouganville, al numero 10 del viale Janpath . è la met a di continui pellegrinaggi da parte degli uomini più importanti del Paese. L'altra sera è stato lo stesso capo del governo, Narashima Rao, ad andarla a trovare nel tentativo di ottenere la sua approvazione per aver cacciato dal partito il suo arci r ivale, Arjun Singh. La signora l'ha ascoltato per 40 minuti e, come al solito, non ha detto nè sì nè no. Nonostante si definisca “la più grande democrazia del mondo", l'India è ancora per molti versi “una democrazia dinastica": dall'indipendenza (1 947) il Paese è stato retto per 42 anni dal Partito del Congresso e per 38 anni questo partito è stato nelle mani di un clan: la famiglia Nehru Gandhi. Nel 1964 il potere passò da Jawaharlal Nehru alla figlia Indira; dopo che fu assassinata, passò al figlio Rajiv. Quando lui stesso rimase vittima di una bomba, il potere venne offerto alla sua vedova italiana, ma lei, categoricamente, rifiutò. Venne allora scelto un candidato di compromesso, appunto Narashima Rao, che diventò così capo del part ito e del governo. La nostalgia dinastica però sopravvive. A buon diritto: il Partito del Congresso, senza un Gandhi alla testa, ha perso terreno e, nonostante abbia ancora una comoda maggioranza nel parlamento nazionale, è sempre più minacciato dall a crescente popolarità di piccoli partiti di sinistra e di ispirazione regionale che gli portano via elettori ogni volta che si vota per le Assemblee legislative dei vari stati. Da qui la rivolta di alcuni influenti membri del partito contro il primo ministro Rao, accusato di essere un personaggio grigio e senza carisma, e la crescente richiesta da parte di tanti perchè la signora Gandhi, erede diretta della dinastia, sciolga il suo riserbo, entri in politica e, grazie al suo nome che ha ancora una immensa, quasi magica, forza di attrazione con le masse del Paese, “salvi il Congresso". Per il momento la signora, che ha visto la politica uccidere sua suocera, suo marito e che sa bene come essa costituisca una seria minaccia per lei stessa ed i suoi due figli, si rifiuta. E solo perchè

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non c'è un Gandhi a capo del Congresso che il partito è indebolito e rischia di perdere alla fine di questo mese le elezioni in altri cinque stati e . ancora peggio . quelle nazionali previste nel 1996 ? Certo no. Le ragioni sono in quel che è cambiato . e soprattutto in quel che non è cambiato . in India negli ultimi anni. Sotto la guida di Narashima Rao, il Congresso ha abbandonato la sua tradizionale politica semi socialista, il suo modello di economia centralizzata e dal 1991 ha lanciato nel Paese quella che molti vedono come una “grande rivoluzione": la liberalizzazione. Nel giro di quattro anni sono state rimosse gran parte delle barriere doganali che proteggevano l'industria locale, sono state decurtate le sovvenzioni governative ed è stata aperta la porta agli investimenti stranieri. Improvvisamente l'India è diventata di moda: i guru di Wall Street e dei grandi gruppi finanziari europei hanno visto nell'India un grande mercat o e molti capitali, preoccupati dalla instabilità e dal clima di gangsterismo prevalenti in Cina, sono accorsi a scommettere sullo sviluppo di questo Paese, dove il sistema democratico e quello legale, ancora di stampo inglese, sembrano garantire un futuro meno incerto agli operatori economici stranieri. I risultati di queste riforme, che il Congresso si vanta di aver introdotto, sono stati notevoli: l'economia, prima stagnante, è cresciuta ad un ritmo medio del 6 per cento all'anno ed il Paes e, prima chiuso su se stesso, si è aperto alle più svariate influenze del resto del mondo: invece della sola televisione di Stato, gli indiani hanno potuto godersi i vari programmi della tv via satellite posseduta da Murdoch, nei negozi hanno potuto comprare Coca Cola e cereali Kellog ed hanno avuto la scelta di volare sugli aerei di alcune nuove linee private invece che su quelli della malandata compagnia di stato. Presto potranno usare anche i telefoni cellulari. Ma quanti indiani profittano di questi mutamenti? Sostanzialmente solo i 200 milioni che appartengono alla classe media e che abitano nelle città. Per i 700 milioni che continuano a vivere di agricoltura nei villaggi dove più di metà della popolazione è analfabeta e la mortalit à infantile (79 per mille) resta una delle più alte del mondo, le riforme hanno solo voluto dire aumento di prezzo nei beni di consumo essenziali come il riso. Lo Stato non ha speso per loro una lira in più in educazione e in igiene. Di qui la reaz ione: chiamati alle urne, ad esempio nello stato di Andra Pradesh, gli elettori si sono espressi al 60 per cento contro il Congresso ed hanno votato invece per un partito locale la cui principale promessa è stata quella di vendere il riso a due rupie il chilo invece delle sette rupie che costa sul mercato libero. “Il Congresso si è dimenticato che l'India è soprattutto un Paese povero", ha scritto uno dei più influenti commentatori su un quotidiano locale. La povertà è fuori discussione. Il pr oblema è come uscirne e come evitare che, strada facendo, le due Indie che già esistono . quella dei benestanti e quella dei disgraziati . diventino sempre più separate e distanti. Al momento nessuno sembra avere una vera soluzione. Rao dice che le r iforme sono irreversibili e che ci vorrà del tempo “finchè i loro frutti penetrino giù fino negli strati più

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bassi della società" il suo ministro delle Finanze dice che “bisogna aspettare che la ricchezza del Paese cresca perchè ci si possa occupare di distribuirla più equamente". Nel frattempo però il Congresso perde la sua immagine tradizionale di “partito dei poveri" e cresce al suo interno la fronda di quelli che, come l'arci rivale di Rao, Arjun Singh, ora epurato, chiedono, pur vagamente, di dare alle riforme “un volto umano". Dinanzi al suo continuo calo di popolarità ed alla possibilità di una spaccatura, che potrebbe segnare la sua fine, il Congresso avrebbe bisogno di qualcuno di grande prestigio e con grande presa sulle masse per presentarsi alle urne. Per questo il pellegrinaggio alla villa bianca sul viale Janpath e l'ipotesi che Sonia Gandhi possa diventare il futuro primo ministro. Una soluzione ideale? Non necessariamente. Gli avversari politici del Congresso, spec ie quelli nelle file del partito fondamentalista hindu, non aspettano altro per dar fiato alla loro propaganda. Un loro commentatore “disgustato dallo spettacolo dei più alti dirigenti del Paese che strisciano alla porta di una donna di casa italiana ed apolitica", scrive: “Se l'India deve proprio avere un primo ministro italiano, allora tanto vale sia Berlusconi. Anche lui è disoccupato, ma almeno ha un pò di esperienza amministrativa". ------------------------- PUBBLICATO --------------------- --------- TITOLO: La nostra industria sbarca in forze Scalfaro inaugura la Fiera di Delhi Il partito del Congresso che fu di Indira, in difficoltà, invoca il vecchio carisma della dinastia Tra battaglie e frecciate al veleno - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - NEW DELHI . Nell'India avviata sulla strada della liberalizzazione economica e destinata a diventare uno dei più grandi mercati mondiali sono sbarcati ieri il presidente della Repubblica Oscar Luigi Sc alfaro e il ministro degli Esteri Susanna Agnelli. Non a caso la visita di Stato di Scalfaro (che oggi incontrerà il primo ministro Rao e il presidente Shankar Dayal Sharma) coincide con l'inaugurazione ufficiale, domani, della Fiera internazionale d i New Delhi, che vede l'Italia in prima fila con 141 aziende espositrici (tra cui Agip, Alenia, Ansaldo, Ilva, Marconi, Stet), i vertici di Confindustria e Ice, i maggiori gruppi industriali privati e pubblici affiancati dal “nocciolo duro" delle pic cole e medie imprese. Il simbolico taglio del nastro con il quale Scalfaro darà il via alla Fiera rappresenterà il desiderio dell'Italia di essere presente in India come “sistema Paese".

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martedi , 24 gennaio 1995 Viaggio nella citta dove la mitica efficienza giapponese, poco addestrata all' imprevisto, non ha funzionato. Dolore senza lacrime tra le macerie di Kobe

di Terzani Tiziano

Dopo giorni di attesa sono al lavoro i soccorritori. Si fanno i conti della ricostruzione e crolla la Borsa KOBE. Poveri giapponesi! Non piangono, non urlano, no n si disperano. La loro cultura glielo impedisce e così raspano fra le macerie, bruciano i loro morti, si aggirano, attoniti, fra i resti delle loro case, senza espressione come non provassero nulla, come volessero, anche a chi li osserva, evitare di commuoversi, di compiangerli. Ho passato 48 ore in giro per questa città martoriata dalla cieca, ingiusta forza della natura, in mezzo a decine di migliaia di persone disorientate, impaurite, ognuna con una vita, a suo modo, azzerata da dieci second i d'orrore, ma non ho visto una lacrima, non ho sentito un grido, neppure di rabbia per gli aiuti che ancora tardano a venire. E anche se ieri c'è stata una nuova, forte scossa. Quel che più ha colpito è stato il disciplinato, agghiacciante silenzi o della gente. Non è facile arrivare a Kobe. Il treno super rapido in provenienza da Tokio non va oltre la stazione di Osaka dove i viadotti sono crollati e l'autostrada, che prima volava alta fra le case, è ora come un budello rovesciato su una part e; i piloni di cemento sono spezzati come dei fiammiferi. La via più sicura è quella del mare ed una nave, prima adibita a crociere di lusso, fa ora la spola attraverso la baia di Osaka, carica di gente che porta acqua e cibo a parenti e amici. A bor do nessuno parla, nessuno si scambia informazioni, storie su quel che è successo, e quando si entra nel porto di Kobe, con gli occhi fissi sui moli deserti, le gru ripiegate, le pile dei containers, come i tasselli di legno di un gioco per bambini, r ovesciati sui piazzali squarciati da voragini, il silenzio si fa soffocante. Sbarcare è come mettere piede in un altro tempo; un tempo in cui l'uomo riscopre il senso della sua infinita vulnerabilità. Palazzi d'acciaio e di vetro sono crollati come fossero stati di carta, altri pendono pericolosamente da una parte, altri ancora stanno in piedi, ma con alcuni piani in meno rientrati, come sono, gli uni negli altri, schiacciando tutto e tutti quelli che ci stavano dentro. L'asfalto delle strade è pieno di gobbe e di crepe, i blocchi di granito lungo i marciapiedi sono spezzati. Certi quartieri sono completamente rasi al suolo; in altri le case sul lato di una strada sono distrutte, quelle sull'altro sono intatte; in una fila alcune sono rid otte a macerie, altre non hanno neppure una crepa, come se il terremoto avesse giocato alla roulotte russa con la vita di ognuno. (Si fanno i conti della ricostruzione, sono cifre da vertigine e la Borsa crolla ai livelli più bassi

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in un anno, ndr). “Siamo tutti salvi", “Cercateci a questo numero di telefono", “La mamma è morta e noi stiamo ora a questo indirizzo", dicono dei cartelli scritti a mano e messi sui resti di una tv o su una sedia che spunta dalle rovine. Kobe aveva circa 2 milion i e mezzo di abitanti. Molti sono scappati; chi resta, vive accampati nelle scuole, nelle tende che hanno montato nei parcheggi. La città è ancora in grande parte senza elettricità, gas e acqua e l'esistenza sembra tornata ad una medioevale semplicit à. I più mangiano ancora un solo pasto al giorno. La sera, fra le rovine dei quartieri popolari, gruppi di gente si riuniscono per scaldarsi attorno a dei falò. L'unico suono è il guaire dei cani che non trovano più le loro case o i loro padroni. G li orologi della città sono rimasti fermi all'ora di martedì scorso, le 5.55 del mattino, quando dalle viscere della terra sono venuti i boati che molti ricordano come gli urli di una bestia, e poi i dieci secondi che hanno segnato il destino di Kobe . I più dormivano. Alcune coppie sono state ritrovate abbracciate; altri rimasti intrappolati sono bruciati tra le fiamme. I cadaveri ritrovati finora sono più di 5.000, ma centinaia di persone continuano ad essere date per disperse. Molti dei mort i avrebbero potuto essere salvati, ma i soccorsi sono stati lenti ed inadeguati. Nel quartiere di Negata, uno dei più colpiti, i primi pompieri sono arrivati solo dopo due ore dopo il terremoto, i medici un giorno dopo ed i primi rifornimenti di cibo tre giorni dopo. Le autorità non sono state all'altezza della situazione ma nessuno protesta. “Contro il terremoto, il fulmine ed il padre non c'è niente da fare", dice un proverbio giapponese e la gente, con feudale disciplina, accetta la propria d ipendenza dall'autorità con la stessa rassegnazione con cui accetta le calamità. Dal punto di vista delle autorità il problema è semplice: un terremoto di queste dimensioni non era previsto per questa zona del Paese e nessuno è riuscito ad improvvi sare un piano di soccorso. In maniera tipicamente giapponese, ogni comportamento ha da essere previsto, codificato ed imparato a memoria. Questo dei soccorsi a Kobe non era stato previsto e non è stato possibile inventarlo. Anche quando, dopo giorni di attesa, l'esercito è stato fatto intervenire a fianco di poliziotti e pompieri, ognuno ha continuato a fare la sua parte senza grande coordinazione: più che lavorare, tutti parevano molto più presi dal fare bella figura: i soldati nelle uniformi v erdi, i pompieri in arancione, i poliziotti in bianco; tutti con le mascherine sulla bocca. Il capo della polizia si aggirava con un attendente che lo seguiva con un gagliardetto. Anche con gli aiuti stranieri le autorità hanno avuto uno strano att eggiamento. Solo quando si sono accorti che un continuo rifiuto si sarebbe attirato delle critiche, i giapponesi hanno finalmente accettato gli aiuti che venivano offerti loro da vari Paesi, ma poi quando questi sono arrivati non sono stati in grado o non hanno voluto impiegarli a dovere. I gruppi di salvataggio svizzeri e francesi, ad esempio, venuti qua con i loro cani ed con i loro equipaggiamenti elettronici, capaci di identificare dei corpi nelle macerie, non sono stati fatti lavorare a tem po pieno . di notte

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hanno dovuto fermarsi . e non sono stati portati là dove c'era più possibilità di trovare gente in vita. Inefficienza? O il vecchio orgoglio giapponese? Forse tutte e due. L'organizzazione giapponese funziona nelle situazioni pr eviste e questa non lo era. Quanto all'orgoglio, con le sue vecchie radici xenofobe, con la disciplina resta una straordinaria qualità di questo popolo: disciplina che impone ad ogni giapponese di non manifestare le proprie emozioni. Kobe è una cit tà in gran parte lasciata a sè stessa, per le strade ci sono decine di auto, moto e biciclette abbandonate, ci sono case con porte e finestre aperte, negozi senza saracinesca, magazzini sventrati da cui rigurgitano merci, ma non ci sono stati furti e saccheggi. In silenzio nascondendo dolore e paura, i giapponesi aspettano che venga loro detto cosa fare o che quella orribile bestia nella terra torni ad urlare.

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martedi , 04 ottobre 1994 La peste? c' e solo sulla carta

di Terzani Tiziano

La paura è relativa . La verità meno. Quel che spaventa una persona può non spaventare un'altra, ma i fatti, se raccolti con un pò di onestà, hanno da essere accettati per quel che sono. I fatti sulla peste in India, a due settimane dallo scoppio dell'epidemia, sono que sti: . in un Paese di 900 milioni di persone i morti di peste sono stati soltanto una cinquantina; . la stragrande maggioranza delle altre persone colpite dal morbo (circa 500 in tutto il Paese) ha reagito benissimo agli antibiotici, si è salvata o è in via di guarigione; . l'epidemia è sotto controllo. Nonostante il giustificato timore che i pazienti fuggiti dagli ospedali e che gli operai di Surat, sparpagliatisi nel Paese, avrebbero potuto portare la malattia con sè ed accendere focol ai di peste in varie parti dell'India, questo fenomeno non si è verificato su vasta scala e . dato che l'incubazione del morbo è al massimo di una settimana . più passano i giorni più il pericolo recede. Nessuno, ripeto nessuno, è morto finora di pes te nei grandi centri urbani di Calcutta e Bombay. Quanto ai cinque morti di Delhi, la causa del loro decesso non è stata ancora definitivamente accertata. La ovvia conclusione da tirare è che la peste è sì ancora, come nei secoli scorsi, una malatt ia particolarmente contagiosa, ma è anche una malattia che oggi, al contrario di altre come l'Aids, è curabilissima. La tetraciclina si è dimostrata in questo di miracolosa efficacia. Quanto alle autorità indiane, dopo un primo momento di incertezz a e di inefficienza, la loro reazione è stata competente ed efficace. La iniziale penuria di medicinali è stata colmata, nel giro di una settimana, con una capillare distribuzione ed oggi la tetraciclina sembra essere disponibile in quantità sufficie nti nelle farmacie private e negli ospedali di tutto il Paese. Là dove il governo è fallito è nel presentare i fatti nella loro completezza, fornendo dati che si sono facilmente prestati ad aumentare l'apprensione qui ed il panico all'estero. Le auto rità dei vari Stati hanno dato, ad esempio, giornalmente il numero delle persone ricoverate come “sospette", senza poi dire che la stragrande maggioranza di queste risultava poi non avere la peste, ma solo la polmonite, il raffreddore o, come avviene proprio in questa stagione del dopo monsone, la malaria. È stato così che l'India, presentatasi da poco come la nuova “tigre" economica dell'Asia, percepita dalla finanza internazionale come un grande mercato del futuro, è tornata, nel giro di poc hi giorni, ad essere di nuovo il Paese degli incantatori di serpenti, sporco ed appestato. Simboli della modernità indiana come la città di Bangalore, grande centro dell'elettronica, sono stati in un attimo dimenticati e sostituiti negli occhi dell 'opinione pubblica internazionale dai simboli dell'India medioevale coi suoi lazzaretti, le bidonvilles

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infestate dai ratti, i cumuli di spazzatura attorno a cui vivono branchi di animali e uomini imbavagliati. Come fosse stato tradito nelle sue aspe ttative, il mondo ha reagito, non senza una vena di razzismo, cercando di proteggersi da qualsiasi cosa che venisse dall'India: i suoi aerei, le sue merci, la sua gente. In Occidente il gioco del massacro è stato fatto con una strana, particolare g ioia. La stampa e la televisione hanno avuto in questo un loro colpevole ruolo. Le cifre sono state gonfiate, certi episodi . qui comuni . sono stati presentati come eccezionali. Il racconto di un missionario di Bombay, ad esempio che, intervistato a l telefono, diceva di aver visto alla televisione un bambino morto di peste a Surat portato dal padre al crematorio, diventava la testimonianza oculare di “diversi bambini morti tra le braccia dei loro genitori" a Bombay (l'Unità del 25 settembre). L a gente è così corsa a cancellare i viaggi di lavoro in India e le proprie vacanze non solo qui, ma anche nei Paesi vicini e persino nelle Maldive, le isole in mezzo ad un oceano che purtroppo si chiama “Indiano". Il fatto è che le due Indie, quell a già tutta proiettata verso il XXI secolo e quella del passato, sono e resteranno ancora per molto tempo l'una accanto all'altra e che solo la cecità delle statistiche aveva nascosto la realtà umana di gran parte del Paese dietro le cifre dei tassi di sviluppo e le proiezioni di crescita. La peste è stata, se si vuole, una cartina di tornasole di queste contraddizioni che sono presenti in India come in altri Paesi dell'Asia, soprattutto la Cina. Anche lì l'ottimismo degli investitori occidental i potrebbe un giorno o l'altro venir deluso dall'esplosione di una qualche peste che nell'Impero di Deng Xiaoping potrebbe prender la forma di una rivolta contadina. La tetraciclina avrebbe in quel caso poco effetto. Certo che parole come “peste bu bbonica" e “peste polmonare", specie se sentite da lontano, continuano ad avere una loro antica carica terrorizzante. Ma proprio per quello che è successo qui dovrebbero d'ora innanzi far tremare di meno. Oggi, vista dall'India, l'India con la peste non fa così paura.

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domenica , 25 settembre 1994 Su Bombay l' incubo della peste

Terzani Tiziano

Le autorità indiane considerano l'ipotesi di isolare completamente la megalopoli impedendo l'accesso a chiunque NEW DELHI. La peste uccide ancora, ma la gente ha cominciato a capire che c'è scampo e la corsa è ora alle medicin e. Da quando i giornali hanno scritto che due dosi di tetraciclina al giorno, prese per una settimana, sono la salvezza contro la terribile malattia, le farmacie del Paese sono diventate la grande meta della speranza, ma non tutte sono in grado di soddisfare l'improvvisa domanda. A Bombay, la capitale finanziaria del Paese, a sole sei ore di macchina dall'epicentro dell'epidemia, le scorte dell'antibiotico disponibile al pubblico si sono presto esaurite e migliaia di persone che avevano aspe ttato per ore e ore in lunghe file fuori dai negozi sono dovute tornare a casa a mani vuote, aumentando così il clima di inquietudine della città. A Surat, il centro dell'industria tessile, dove c'è stato il più alto numero di morti e da dove circa m età dei due milioni di abitanti sono fuggiti, gruppi di persone in panico hanno attaccato le ambulanze di passaggio nella speranza di procurarsi l'antibiotico. Ospedali Il governo ha cercato di calmare gli animi, annunciando di aver spedito milio ni di dosi di tetraciclina nelle zone più colpite dalla peste, ma la gente non si fida, teme che la distribuzione non avvenga in tempo e fa di tutto per ottenere la desiderata medicina. Nella stessa New Delhi, dove è entrato in vigore lo stato di all arme negli ospedali, ma dove finora non sono stati registrati casi di peste, le farmacie erano ieri affollatissime e molte non sono riuscite a far fronte alle richieste del pubblico. L'India ha un'ottima industria farmaceutica e ha scorte di antibi otici sufficienti, secondo le autorità, a far fronte anche a una emergenza come questa. Ma il pericolo è che la gente, non trovando i medicinali in negozio, si serva del mercato nero come è già avvenuto in passato. Le autorità sanitarie nazionali han no messo in guardia contro la possibilità che vengano smerciate da speculatori senza scrupoli false medicine anti peste. Farmaci falsi che negli anni scorsi, in situazioni analoghe, hanno ucciso molte persone ignare. Gli altri grandi problemi del m omento sono i trasporti e come contenere l'epidemia. Un primo tentativo di creare un cordone sanitario attorno alle zone colpite, impedendo a chiunque potesse esserne affetto di uscire, è fallito. Le misure da adottare sarebbero dovuto essere così dr aconiane che le autorità locali non hanno voluto rischiare di aumentare il panico della popolazione e provocare ben più morti di quanti ne avesse fatti la peste (finora circa 200). Non c'è stata così una precisa politica nei confronti dell'esodo. A lcuni treni sono passati ad esempio dalla città di

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Surat che si trova sulla linea Delhi Bombay completamente sigillati per non prendere passeggeri, altri invece si sono fermati regolarmente e hanno aperto i loro vagoni alla gente che voleva scappare. La peste ha un periodo di incubazione di circa una settimana e il pericolo è ora che quelle persone, portatrici dei germi, scatenino l'epidemia nei posti in cui sono andate a rifugiarsi. Stati Uniti e Russia hanno già inviato aiuti e mezzi sanitar i per effettuare test su campioni di sangue e saliva degli ammalati. Ma è comunque una lotta ad armi impari. La peste polmonare o pneumonica è più pericolosa delle altre due forme, la bubbonica e la setticemica, perchè, per contrarla, basta un colpo di tosse, mentre le altre necessitano di un contatto per sviluppare il contagio. Nuovi casi di peste annunciati oggi in città come Boroda, 150 chilometri a Nord di Surat, confermano il timore di un'epidemia su larga scala. Tra l'altro decine di app estati, come hanno ammesso gli ufficiali sanitari, hanno lasciato l'ospedale contro il parere dei medici per ritornare nelle loro case e questo fa temere una ulteriore diffusione del morbo. Decisioni La città al momento più esposta resta Bombay, cuore economico dell'India dove vivono quasi 13 milioni di persone. Le autorità stanno considerando di isolare la città e impedire l'accesso a chiunque. Una decisione politicamente difficile da prendere e ancor più difficile da applicare. La traged ia, per ora, si consuma nel lazzaretto di Surat. Pochi medici e molta immondizia. Centinaia di vittime giacciono in terra su materassi sporchi e strappati, senza lenzuola. I malati lottano per la vita in un clima agghiacciante. In ogni stanza ci sono dalle 10 alle 15 persone; il silenzio viene spezzato soltanto da qualche respiro affannato o da lamenti. La maggior parte dei ricoverati appare stordita, sotto l'effetto dei sedativi, con le flebo di glucosio infilate nei polsi.

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sabato , 24 settembre 1994 La morte nera nel cuore dell' India

di Terzani Tiziano

L'epidemia di peste ha colpito una regione vicino a Bombay. In allarme anche gli ospedali di New Delhi. Le autorità hanno chiuso uffici e cinema I villaggi sono invasi dalle mosche, le strade colme dei resti dei topi La gente ha preso d'assalto i treni ma molti scappano a piedi e in risciò In crisi l'immagine moderna del Paese che riscopre gli incubi del passato Più di cento vittime, e sauriti gli antibiotici: ora scatta la grande fuga NEW DELHI. I cadaveri dei ratti coperti di piccoli bubboni sono sparsi per le strade, i cani che cercano di mangiarli muoiono subito dopo; i contadini scappano dai villaggi invasi da nuvole nere di mosche. Le descrizioni sono da Medioevo. Le conseguenze anche. Più di cento persone sono già morte, alcune centinaia di migliaia stanno cercando di sfuggir e dinanzi all'avanzare di una malattia che si pensava ormai appartenere a un'altra era: la peste. La terribile, temutissima Morte Nera che fece milioni di vittime nell'Europa e nell'Asia dei secoli scorsi si è rimessa in cammino, ora, alla fine del tecnologico, sofisticato ventesimo secolo, nel centro dell'India e, nel giro di poche ore, ha già raggiunto la costa. Le prime notizie sono arrivate due giorni fa da dei villaggi nello Stato di Maharashstra: alcuni contadini, morsi dai ratti, accu savano la crescita di linfonodi sotto le ascelle e all'inguine. Le autorità hanno cercato di minimizzare. La peste era un terribile imbarazzo: imbarazzo per il governo centrale che nel 1966 l'aveva dichiarata ufficialmente sradicata dal Paese e per i l governo dello Stato di Maharashstra, la cui capitale, Bombay, è il simbolo dell'attuale liberazione e della modernizzazione indiana. Bombay è una città ancora afflitta dalle conseguenze dei recenti violenti scontri religiosi e da una campagna ter roristica che ha fatto decine e decine di sue vittime. La peste non è certo quello che le serve a ristabilire la sua immagine di avanguardia e la sua credibilità come il centro finanziario del Paese. Alle richieste di aiuto dei contadini il gover no locale ha reagito mandando decine di fusti di Ddt per combattere le mosche e assumere 100 membri di una particolarissima tribù, gli Irula, specializzati nell'acchiappare i topi. Ma la storia non poteva finire lì. I sintomi della peste bubbonica si sono fatti di ora in ora più chiari, le vittime più numerose e ieri sera la peste, questa volta nella sua versione pneumonica . più micidiale perchè non più trasmessa dai ratti e dalle mosche, ma semplicemente dai germi nell'aria che uno respira . ha fatto la sua comparsa nella città di Surat, nello Stato di Gujarat, sulla costa occidentale del continente, a centinaia di chilometri dai primi villaggi infestati dell'interno. Le prime

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strane, improvvise morti sono state spiegate con l'avvelen amento delle acque della città . che ha reputazione di essere una fra le più sporche dell'India ., ma la verità è presto venuta a galla e i due milioni di abitanti sono stati presi dal panico. Le farmacie sono rimaste aperte tutta la notte, hanno esa urito le loro riserve di antibiotici e presto è cominciato un esodo in massa. I treni sono stati presi d'assalto e le strade si sono intasate di gente che in macchina, nei trisciò e a piedi cercava di lasciare l'abitato. Per evitare possibili occas ioni di contagio, le autorità hanno chiuso i mercati, le scuole e tutti i luoghi di ritrovo e hanno mandato per la città le auto della polizia con altoparlanti che trasmettevano messaggi registrati invitando la popolazione a rimanere nelle case. Cent inaia di poliziotti battono strade e stazioni per intercettare i fuggitivi. Ma la gente non si è tranquillizzata e l'esodo è continuato durante tutta la giornata. Un giornalista locale parlava di strade piene di gente “come mummie", ognuno che si cop riva la faccia pensando così di proteggersi. Con ogni persona che parte aumenta il rischio che l'epidemia si diffonda in altre parti del Paese, ma i primi tentativi di fare un cordone sanitario attorno a Surat, una delle basi dell'industria tessile , non sono valsi a nulla e stasera anche gli ospedali di New Delhi sono stati messi in stato di allarme e hanno ricevuto l'ordine di creare speciali reparti di isolamento per i pazienti. L'epidemia potrebbe essere stata “importata" dal vicino Stato d el Maharastra. Secondo quest'ipotesi le massicce scorte di cereali fatte dalla popolazione dopo il terremoto che un anno fa provocò la morte di 10 mila persone avrebbero attirato migliaia di topi. Che storia! Proprio ora che l'India cerca di uscire dal suo semi isolamento, che cerca di entrare, come tutti, nella corsa dello sviluppo e verso un futuro di stampo occidentale, viene colpita da questa che appare come una vendetta del passato. La verità è che questo è ancora un Paese di immense co ntraddizioni, un Paese in cui 900 milioni di persone vivono nella stessa geografia, ma non nella stessa storia; nello stesso spazio, ma non nello stesso tempo. Accanto a una parte della popolazione che ha le auto, i computer e la televisione satellit are del ventesimo secolo, c'è ancora . spesso semplicemente a pochi metri di distanza . una popolazione che non ha nè acqua nè luce e che vive ancora nelle condizioni del Medioevo. È da lì che ora escono e si diffondono i germi di questa atavica paura.

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lunedi , 08 agosto 1994 Cambogia, le radici dell' orrore

di Terzani Tiziano

La missione dei Caschi blu non ha saputo nè ridimensionare l'enorme esercito nè ricondurre i Khmer Rossi alla legalità. PHNOM PENH. Sono le undici e mezzo di sera e, vista dall'alto, la città è come inesistente : buia e silenziosa. Attraverso le finestre spalancate della mia camera al quarto piano del Monorom Hotel, mi arriva solo il fischio, poi lo sparo di avvertimento, di un poliziotto che forse ferma una macchina per farsi pagare una birra; il fruscio d i un motorino di un qualche ritardatario che fila verso casa. Mi immagino la sua paura. Stamani, di nuovo al mercato di là dal ponte delle Nazioni Unite, un ladro ha sparato in faccia ad un uomo per portargli via la motocicletta. Il bambino che era s eduto dietro è rimasto ad urlare avvinghiato al casco di banane che il padre aveva appena comprato. L'orrore qui sembra non dover mai finire. Ma dove nasce l'orrore? Che cosa fa di un uomo . o di un intero popolo . all'apparenza così semplice e pur o, un mostro di violenza e di crudeltà? Ogni volta che arrivo in Cambogia queste domande mi tornano naturalmente a rimuginare nella testa perchè qui, più che altrove, uno si trova dinanzi ad un Paese in cui, se il mondo fosse retto da un qualche prin cipio di decenza, la gente ora dovrebbe vivere in pace, godere di un minimo di giustizia ed essere aiutata da tutti a ritrovare il senso della propria esistenza. Invece no. Dopo due decenni di morte e di distruzione, la vita è tornata sì a fiorire, m a lo fa con tutta la sua vecchia crudeltà, la sua violenza, e gli uomini, alla maniera di prima, sono fra di sè come lupi. E qui non per ragioni di religione, di ideologia o di razza. Qualcuno bussa alla mia porta. È il guardiano di notte. “Vieni g iù. C'è un tuo amico appena arrivato da Siem Reap che deve assolutamente parlarti". Un amico? Da Siem Reap? “Non ho amici a Siem Reap..." e a mezza frase mi fermo. Giusto due giorni fa ho fatto colazione con Greg Davis, il grande fotografo di Time Ma gazine. Veniva da Tokyo e m'ha detto che sarebbe andato per qualche giorno ad Angkor. "È uno straniero l'uomo giù?", chiedo. “No è khmer". “Allora non sono io che cerca. Digli di andarsene". Ma il guardiano ritorna. “L'uomo insiste. Dice che è import antissimo". Scendo. L'uomo è magro, piccolo, sulla trentina, ben vestito. Ha l'aria stanca e gli occhi spiritati. Mi vede e si inchina. “Sono appena arrivato con un taxi. Ho viaggiato tutto il giorno... Sono venuto perchè il tuo amico Greg Davis è mo rto... è stato ucciso dai Khmer Rossi e dovevo venire a darti la notizia. È successo ieri verso le due del pomeriggio, a Bantei Serei. Io sono il portiere del Grand Hotel di Siem Reap e sono stato chiamato perchè alcuni ospiti dell'albergo erano stat i attaccati dai Khmer Rossi durante la visita al tempio...

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Greg Davis era ferito alla testa ed al petto... Mentro lo portavo all'ospedale mi ha detto di venire a Phnom Penh, ad avvisare te". Il suo inglese è rudimentale, ma le sue parole sono chiare e la testa improvvisamente è come mi andasse in tutte le direzioni, esplodesse in mille pensieri, domande, dubbi: l'inutilità di morire per una foto, come avvisare sua moglie? Far cremare il cadavere? Come accertare ora, in mezzo alla notte, se quest o tipo dice la verità? Lo sento dire che deve pagare il taxi che aspetta fuori, che gli mancano dei soldi. Quanto? “Cinquemila Riels". Metto la mano in tasca e glieli do, pensando che il viaggio da Siem Reap deve costare ben più che due dollari, sp ecie coi rischi che uno corre dopo il tramonto. L'uomo esce. Quanto torna lo faccio sedere e mi faccio riraccontare tutto da capo. La sua storia è piena di dettagli e tutti tornano: la descrizione di Greg, i suoi vestiti, le macchine fotografiche. Po i l'uomo dice: "...all'ospedale non c'era nulla e siccome il tuo amico cominciava a puzzare io sono andato a comprare tanto, tanto ghiaccio per metterglielo attorno". Impossibile. Anche ai tropici la decomposizione non comincia così presto. L'uomo me nte. È tardi, ma il telefono cellulare del collega americano della Far Eastern Economic Review, Nate Thayer che vive qui da anni e parla khmer, è acceso. “Vieni al Monorom... Ho con me un tipo che sostiene di aver visto Greg Davis morire ieri a Sie m Reap". “Greg? Ho appena cenato con lui... Si era prenotato per andare ad Angkor, ma all'ultimo momento ha cambiato idea... Possibile che si tratti di qualcun altro?". Davanti a Nate l'uomo ripete il suo racconto, dice che può sbagliarsi sul nome, m a è certo che il morto è un americano. Dal suo telefono Nate riesce a raggiungere qualcuno all'ambasciata. “No. No, non è morto nessun americano a Siem Reap, nè ieri, nè oggi... . dice quello . ...e mi raccomando, non pagate per il ghiaccio... Sono giorni che un tipo va in giro per Phmom Penh, si presenta alle organizzazioni umanitarie, alle ambasciate dicendo d'aver visto uno di loro morire ucciso dai Khmer Rossi". Nate ed io ci guardiamo. Che fare con questo furfante? “Anche tu, come tutti , avrai perso dei familiari, degli amici in questa guerra. Anche tu hai sofferto. Come puoi ora far soffrire gli altri, solo per portar via loro dei soldi?", dice Nate. L'uomo si mette a piangere. Racconta che i suoi genitori sono stati uccisi ai tem pi di Pol Pot, che lui ha passato anni ed anni in un campo di profughi alla frontiera thailandese, e che ora, tornato in Cambogia, non riesce a comprarsi una carta d'identità e che senza quella non trova lavoro. È a Phmom Penh da un mese ed ha escogi tato questo sistema per guadagnarsi da vivere. Ha visto me a Greg far colazione. Lo ha seguito quando è andato a fare la sua prenotazione per Siem Reap e, pensando che era partito, è venuto a fare la scena da me nel mezzo della notte. Lo facciamo g iurare che non farà più una cosa del genere, gli giuriamo che lo faremo arrestare se scopriamo che continua e prima di salutarlo gli diamo un'altra manciata di Riels. “Non ne posso più di questo Paese . dice Nate andandosene. . Guarda cosa può fare di un tipo come quello! Altrove, anche lui sarebbe stato una persona

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decente". Distrattamente gli do ragione. Uno è sempre tentato di pensare, specie nel caso della Cambogia, che c'è nel suo orrore qualcosa che ha a che fare con la psiche ferita del popolo e col suo collettivo dimenticare il proprio passato. Ma è davvero così? Se oggi la Cambogia, a un anno dalla partenza delle Nazioni Unite che sono state qui con 22.000 funzionari civili e militari a spender più di due miliardi e mezzo di do llari, non ha ancora trovato la sua via verso la normalità politica, se il Paese è ancora estremamente instabile e la gente ha di nuovo paura per il futuro, la colpa non è tutta dei cambogiani. La tanto vantata missione delle Nazioni Unite è stata in verità una pura operazione di facciata, fallita nel suo maggiore obbiettivo: quello di smilitarizzare almeno il 70% delle forze militari del Paese e ricondurre i Khmer Rossi nella vita nazionale. Da qui la nuova divisione del Paese coi Khmer Rossi che hanno un loro “governo" e fanno saltare i ponti, che tagliano le strade nazionali e che con le loro poche migliaia di guerriglieri, continuano ad essere una potenziale minaccia per Phnom Penh. Questa insicurezza impedisce ora la ripresa econom ica. Nessuno dei grandi progetti discussi nell'euforia della presenza Onu qui è stato realizzato. Non son venuti gli investitori, nè sono venuti i turisti a riempire i tanti alberghi costruiti in fretta. Tutto è fermo, tutto marcisce. A parte la pros tituzione, l'unica altra industria che fiorisce è quella del riciclaggio del danaro. Più di 50 misteriose banche dai nomi più strani hanno aperto i loro uffici in città. Nessuna sembra aver clienti, ma milioni e milioni di dollari arrivano da ogni pa rte del mondo. Soldi di droga, soldi di mafia. Su questo, come su altri affari più o meno loschi, una piccola classe di cambogiani, di cinesi d'oltremare e qualche straniero stanno facendo immense fortune. All'origine del misterioso, fallito colpo di Stato dell'inizio del mese ci sono anche questioni legate alla divisione della torta in un Paese in cui tutto è in vendita, dalle stellette dei generali (ce ne sono più di duemila ormai) ai posti di ammissione al corso per doganieri, alle quote di contrabbando del legname e della gomma. Colpa di quei khmer che hanno ora in mano il loro Paese e senza alcun senso del bene comune se ne servono per arricchire sè stessi, con la scusa di rafforzare i loro partiti? Non tutta. Se la Cambogia di ogg i sembra a volte estremamente simile a quella degli inizi degli Anni 70, e se la storia sembra sul punto di ripetersi, è anche perchè il resto del mondo non è ancora riuscito a imporsi un minimo di decenza. E cosi i militari thailandesi possono perme ttersi di continuare a fare i loro affari coi Khmer Rossi. E così chiunque ne abbia l'occasione cerca di sfruttare la miseria e la sofferenza che la Cambogia produce. Tre mesi fa un giovane di Londra con una ragazza inglese e una australiana sono s tati presi da uomini armati mentre viaggiavano in un taxi sulla strada tra Phnom Penh e il porto di Sihanoukville. La gente che ha visto non parla. Il governo dice che sono stati i Khmer Rossi, alcuni dicono che potrebbero essere stati i soldati del governo. Dopo una domanda di riscatto nessuno si è fatto più vivo. Recentemente sono stati ritrovati

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alcuni resti che ai primi esami sembrano confermare il peggio: i tre sono stati massacrati poco dopo la cattura. Il padre del ragazzo non si rasseg na ed è a Phnom Penh a seguire ogni filo che gli dia speranza. Oggi a pranzo mi raccontava che un grande giornale di Londra si è offerto di pagargli viaggio, soggiorno ed una grossa somma di danaro se lui firma un contratto con cui si impegna a non p arlare con nessun giornalista e per due settimane, dopo la liberazione del figlio o l'annuncio della sua morte, lui dà a quel giornale l'esclusiva del suo dolore o della sua gioia. Ripenso al mio falso portiere di Siem Reap venuto ad annunciarmi la “morte" del mio amico Greg: un povero dilettante, un artigiano in paragone a questi industriali esperti nello sfruttamento delle sofferenze altrui. Le radici dell'orrore sono dappertutto. L'orrore siamo noi.

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domenica , 13 febbraio 1994 Birmania addio

di Terzani Tiziano

Le giovani sono preda dei mercanti per i bordelli thailandesi perchè non ancora malate di Aids. Quando risultano sieropositive vengono rispedite a casa per morire Le vecchie tribù di tagliatori di teste, dopo aver combattuto a fianco della guerriglia comunista, ora coltivano oppio con la protezione delle autorità KENGTUNG E’ giusto che i cacciatori di teste rinuncino ai loro pur macabri riti per dedicarsi a quello più innocuo, ma ugualmente disumano, di passare ore ed ore davanti a una scatola chiamata televisione? E giusto che la luce calda ed intima dei lumini ad olio venga sostituita da quella piatt a e bluastra dei tubi al neon? Che lo struggente tintinnare dei campanelli mossi dalla brezza del tramonto in cima ad una pagoda venga affogato dall'urlio di una discoteca appena aperta sulle sponde di un lago, ancora per poco coperto di enormi fogli e di loto? Il “progresso" è ormai arrivato dovunque. Anche là dove non ci sono strade o aeroporti, una semplice antenna in cima ad un albero basta per captare i seducenti messaggi, i velenosi sogni di modernità; e i posti al mondo in cui si ha anco ra occasione di porsi, pur retoricamente, queste scontate, antistoriche domande sono ormai rimasti pochissimi. Uno di questi è un angolo remoto della Birmania orientale attorno alla città di Kengtung, conosciuta un tempo come la fascinosa capitale de l più grande degli Stati Shan. Per più di mezzo secolo questa regione, a causa delle sue vicende interne e della sospettosa xenofobia dei governi, è rimasta chiusa al resto del mondo e con ciò come bloccata in quella magica bellezza che è delle cose senza tempo. L'incanto è finito. Un anno fa la regione è stata aperta ed ora, su pressione di Bangkok e Pechino, sta per diventare una zona di passo fra la Thailandia e la Cina, un mercato aperto a tutti i traffici, da quello delle vergini a quello dell'eroina. Uno degli ultimi angoli di indomata natura è stato dato in pasto alla logica del profitto. In un certo modo ho preso parte anch'io a questo stupro; ero in una delle quarantasei macchine della carovana che per la prima volta ha legato vi a terra la città di Chiang Rai nel Nord della Thailandia a Kumming nel Sud della Cina, attraversando la regione di Kengtung; ero nel primo gruppo di occidentali ad attraversare la frontiera fra la zona birmana dei tagliatori di teste Wa e lo Yunnan d alla fine della seconda guerra mondiale. I protagonisti del nuovo colonialismo asiatico non sono più i mercanti ed i condottieri bianchi dell'Europa, ma gli uomini d'affari dei Paesi più avanzati della regione; ad esempio della Thailandia. Le avang uardie di questo nuovo processo di sfruttamento non sono più i missionari, ma i turisti. La carovana di dieci giorni Chiang Mai Kumming e ritorno

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era organizzata dall'Ente del Turismo thailandese. I partecipanti, a parte un paio di giornalisti, era no un gruppo di patiti del volante, entusiasti di affrontare gli oltre duemila chilometri di percorso, a volte particolarmente difficile, attraverso una delle regioni più selvagge di questa parte del mondo. “Voi siete dei pionieri. Speriamo che molti altri vi seguano", continuavano a ripetere i funzionari cinesi messi per l'occasione al remoto posto di frontiera di Daluò. L'idea che la Cina e la Thailandia stanno spingendo per aprirsi un passaggio fra le montagne birmane che li separano è quella del “turismo d'avventura" ed è vero che appena uno lascia la strada asfaltata dell'ultima cittadina thailandese, Mai Sai, ed entra a Tachilek, il primo abitato birmano oltre frontiera, le avventure e le sorprese non mancano. La prima è che i birma ni rifiutano di mettere un visto d'ingresso sui passaporti dei “turisti" e preferiscono “confiscare" i documenti. Ce li restituiranno . dicono . quando si uscirà. Un'altra è che a Kengtung, per far posto ad un nuovo albergo per turisti, l'esercito birmano ha raso al suolo una delle più belle attrazioni della città, il vecchio Palazzo dei Sawbaw, i principi feudali della regione, e che per intrattenere i turisti è stata aperta sulla riva del lago Neung Tung una rumorosissima discoteca dove dell e giovanissime ragazze, molte di appena quattordici.quindici anni, ballano a pagamento con i clienti. Entrando si compra un mazzo di biglietti; ogni mezzo minuto la musica viene interrotta dallo squillo di una campanella; ad ogni squillo si deve cons egnare un biglietto alla ragazza che si è scelto. La discoteca è già diventata un luogo in cui i procacciatori di ragazze per i bordelli thailandesi vengono a scegliere le loro prede. L'idea che queste ragazze, appena adolescenti, non possono essere ancora ammalate di Aids le rende ricercatissime e a migliaia vengono ora portate a Sud. Alcune finiscono per essere delle vere e proprie schiave, prigioniere dei tenutari cui sono state vendute. Moltissime tornano solo per morire, una volta che i tha ilandesi scoprono che sono diventate sieropositive e le rimandano a casa. In ogni villaggio in cui la carovana si fermava ho chiesto notizie di questo traffico; in ogni villaggio mi è stato raccontato di almeno due o tre giovani morte così nell'ultim o anno. Kengtung era una delle più belle città degli Stati Shan. La pagoda principale con i suoi otto capelli di Buddha nel reliquiario e decine di piccole campane di bronzo, tremule all'alto dei pinnacoli, risale ad almeno sette secoli fa; ma quel la suadente, tintinnante presenza nel buio della notte è già un ricordo da rimpiangere. Le voci e le luci volgari del progresso hanno già soppiantato quelle incantanti della tradizione e del passato. Lattine di birra importata e sacchetti di plastica galleggeranno sempre più numerosi fra degli splendidi fiori di loto sul lago Neung Tung, soggetto di tante leggende, e dove un ristorante su palafitte fa ora concorrenza alla discoteca. Il mercato del mattino a Kengtung è ancora una grande “avvent ura" ancor prima che il sole dissipi la spessa nebbia nella valle, dalle montagne attorno scende la più straordinaria collezione di umanità: donne Akka con i loro cappelli carichi di palline, monete ed i

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gambali neri; le donne giraffa con i loro gra ndi, spessi collari d'argento; cacciatori Meo coi loro lunghissimi fucili; i Paò, i Karen, i Lisu, i Wa con i loro rudimentali, ma affilatissimi coltelli nei foderi di bambù. Ognuno ha qualcosa da vendere o da scambiare. I turisti prendono tutto. Ho visto una vecchia donna Akka col suo basto di legno sulle spalle andar via felicissima perchè era riuscita a dare ad un thailandese la sua bella giacca ricamata con disegni geometrici non per un biglietto da 500 bath (25.000 lire) come quello le avev a prima offerto, ma per due biglietti da 100 bath (12.000 lire). Ai suoi occhi due fogli, per giunta rossi, dovevano valere certo di più d'uno violetto! La parte più avventurosa del viaggio comincia dopo Kengtung. La foresta si fa fitta e la strada appena tagliata da dei bulldozer si inerpica per una costa scoscesa. I villaggi attraverso cui si passa sono di belle capanne di legno raggruppate attorno a delle bianchissime pagode. La vita dei contadini che camminano accanto ai loro bufali ha anc ora il ritmo vecchio di secoli: lento e pacifico. Maurice Collins, lo scrittore inglese che viaggiò qui nel 1938 scrivendo un libro sugli Stati Shan ed i loro Sawbaw, I signori del tramonto, come venivano chiamati per distinguerli dai re di Rangun, I signori dell'alba, racconta che ai suoi tempi i contadini si inginocchiavano al passaggio di una macchina perchè non poteva che essere quella di un principe. Le nostre jeep non attraggono altrettanto rispetto, ma la curiosità è tale che la gente ci corre incontro dai campi e dalle case per farsi avvolgere nella nuvola soffocante di polvere che ci lasciamo dietro. Dopo un paio d'ore si arriva al fiume Ta Ping e la carovana si ferma all'imbocco d'un rudimentale ponte di ferro che lo traversa. Un ufficiale birmano ci restituisce i passaporti. “E qui la frontiera?" chiediamo. “No, mancano ancora una cinquantina di chilometri, ma i controlli vengono fatti qui". La ragione è presto chiara. Dall'altra parte del ponte comincia un territorio che sulla carta è ancora Birmania, ma che in realtà è controllato dai Wa, una tribù di tagliatori di teste che, dopo aver combattuto contro il governo di Rangun a fianco della vecchia guerriglia comunista, ora con l'accordo di Rangun si dedica alla colti vazione intensiva dell'oppio e fa concorrenza al “re della droga", Khun Sa, che opera più a Sud. Per far passare la carovana attraverso i loro posti di blocco, gli Wa fanno pagare una “tassa" di quindici dollari per ogni macchina e chiedono di confis care tutte le macchine fotografiche e quelle video. Dai finestrini che ci è stato ordinato di tenere assolutamente chiusi vediamo sfilare pattuglie di soldati Wa, nelle loro uniformi di fattura cinese come quella dei kmeri rossi e con i loro fucili A 47. Nessuno ci sorride, nessuno fa un cenno di saluto. Sulla piazza centrale di Monglà, l'ultima cittadina in territorio birmano, sventola non la bandiera di Rangun, ma quella tricolore dei tagliatori di teste. Sul tetto di una casa in muratura ve do spuntare una grande antenna parabolica. E l'abitazione di Lin Mingxian, un cinese, ex guardia rossa che ora col beneplacito di Rangun e certo anche delle autorità cinesi dell'Yunnan controlla i Wa ed il loro traffico di droga. La letteratura di

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viaggio dall'inizio del secolo è piena di strane storie sugli Wa. Uno dei loro riti più temuti era quello della “fertilità": prima della semina, andavano nottetempo in un villaggio dei loro nemici a tagliare la testa di un bambino da mettere in mezzo ai loro campi. Fra gli Wa che vivono ancora su delle vette remote pare che questo succeda ancora. Non più fra gli Wa “civilizzati" e trafficanti di droga di Monglà. Dal finestrino della macchina vedo in una sorta di caffè che si apre sulla strada un a cinquantina di giovani Wa dinanzi ad un televisore che trasmette qualcosa a colori. Quel che non sono riuscito a vedere sono tracce della droga: non ho visto ad esempio un solo campo di papaveri che ora, data la stagione, sono in piena fioritura. Appena passata la sbarra della frontiera cinese però, uno dei doganieri, indicando una collina, dice: “La raffineria d'eroina? E là, ci siete appena passati". A Daluò quello non è un segreto. La “avventurosa" situazione serve perfettamente gli int eressi dei vari protagonisti. Lasciando una parte del territorio nazionale in mano ai Wa, il governo di Rangun può pretendere di non essere coinvolto nel traffico della droga, anche se certo riceve una percentuale dei profitti. Lo stesso è vero per i cinesi che possono dire di non avere nè coltivazioni nè raffinerie nella loro giurisdizione, ma che certo hanno un modo per profittare del fatto che l'eroina prodotta dai Wa deve passare attraverso la Cina per arrivare nel resto del mondo, specie ne ll'Europa occidentale. Dalla frontiera cinese il “turismo d'avventura" viene completamente preso in mano dalle autorità della Repubblica Popolare. Una mezza dozzina di macchine della polizia precedono e seguono il convoglio; in ogni villaggio e cit tà che attraversiamo l'intera popolazione è stata convocata per stare allineata lungo il percorso e per manifestare il proprio “spontaneo" entusiasmo per questo “Rally dell'amicizia". I cinesi contano sull'apertura permanente di questa strada per s pingere i prodotti della loro industria di consumazione verso i Paesi del Sud Est Asiatico e l'India passando per la Birmania. I thailandesi sono ugualmente interessati al legame diretto con la Cina per sviluppare le regioni più depresse del loro Nor d e per espandere la loro influenza sulle zone della Birmania abitate da popolazioni affini ai Thai come gli Shan. Chi da tutto questo ha da perdere sono gli abitanti di questa zona di passo che non hanno modo di proteggere la loro identità, il lor o modo di vivere, la loro cultura. Non c'è più rito, tradizione o bellezza che resista alla dilagante logica del danaro. Quando la carovana entra nella vecchia città di Kumming, un tempo conosciuta come Yunnan fu, la prima cosa che colpisce è una d imostrazione silenziosa di migliaia di persone davanti alla sede del governo comunista della città. Una dimostrazione per la democrazia? La prima dal massacro del Tien An Men?, mi chiedo scendendo tutto indolenzito dalla macchina. No! I dimostranti p rotestano perchè le azioni di una certa società della città sono state vendute ad Hong Kong a prezzi inferiori a quelli offerti alla gente di qui. Il progresso è arrivato dovunque. ------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ TITOLO: Le suore lombarde

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sulla collina degli spiriti - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - QKENGTUNG uesta è una bella storia, ma è una di quelle che si è perso l'abitudine di raccontare. Forse perchè i protagoni sti sono fuori dall'ordinario. Per giunta è una storia italiana, ma d'un'Italia d'altri tempi che solo la distanza ha conservato intatta. Ancora per poco. La storia comincia agli inizi del secolo. La Birmania è amministrata dagli inglesi, come part e dell'India. Gli Stati Shan nell'Est sono formalmente lasciati alla gestione dai signorotti locali, i Sawbaw, che fra i loro sudditi, oltre agli Shan, civilissimi e di vecchia fede buddista, hanno moltissime tribù primitive ed animiste. Il Papato di Roma vede in queste minoranze dei potenziali cristiani e cerca, attraverso di loro, di mettere i semi della sua fede in terra buddista. Il primo missionario arriva a Kengtung nel 1912, è un milanese il padre Bonetta. Ha con sè pochi soldi, ma con qu elli riesce a comprare la cima di una collina che soprasta la città. La gente dice che quel posto è pieno di “phi", di spiriti, e che nessuno può viverci o costruirci una casa. Bonetta, cui si aggiungono presto altri missionari, in poco tempo tira su una chiesa ed un seminario. Nel 1916 arrivano le prime suore italiane, tutte della regione di Milano, tutte dell'ordine di Maria Bambina, e aprono un orfanotrofio ed una scuola. Nel corso degli anni Kengtung fu coinvolta nelle vicende politiche dell a regione ed i soldati di vari eserciti passarono da lì da conquistatori: i giapponesi, i siamesi, i cinesi del Kuomintang e quelli di Mao, i birmani, ma la missione italiana rimase. E rimasta così fino ad oggi. Niente è cambiato sulla “Collina deg li Spiriti" a Kengtung: gli edifici sono ancora tutti lì ben tenuti e pieni di bambini; il padre Bonetta, assieme ad altri missionari, è nel cimitero dietro la chiesa: è morto nel 1949. Delle suore una, Vittoria Ongaro, è morta il 25 novembre dell'an no scorso, dopo 58 anni in questa missione; altre quattro sono ancora vive. “Quando arrivai, la notte non si poteva uscire perchè fuori c'erano le tigri", mi racconta suor Giuseppa Manzoni. Ha novant'anni, è qui dal 1929, non è mai tornata in Itali a e l'italiano non le viene più facile. Capisce le mie domande, ma spesso mi risponde in shan; suor Luigina, una Karen, venuta qui come orfana ed ora diventata la Madre Superiora del convento, mi traduce in inglese. Suor Giuseppa è nata a Cernusco, " Un posto bello sa? Proprio vicino a Milano... io ci andavo sempre a piedi perchè a casa di soldi non ce n'era". I genitori erano contadini. Avevano avuto nove figli, ma i maschi, sette, morirono tutti piccini e solo lei e la sorella sopravvissero. “A vent'anni ebbi la vocazione ed a 25 ero qui ad occuparmi dell'orfanotrofio... era difficile perchè avevamo poco da mangiare e c'erano tante malattie... ogni giorno almeno un bambino andava in paradiso". Delle altre suore una, Battistina Sironi, 86 anni di Trezzo d'Adda, lavora ancora nell'ospedale, due, suor Vincenza Redaelli, 84 anni di Milano, e suor Angela Cerea, 85 anni di Bergamo, lavorano con il gruppo di donne vedove, storpie o matte . una cinquantina . che le famiglie di qui avevano m esso per strada e che ora sulla “Collina degli Spiriti" hanno trovato una nuova casa. Avete nostalgia dell'Italia? Che cosa vorreste

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che si facesse per voi? “Resti ancora un pò qui a parlare" dice suor Giuseppa, “perchè lo so, ora che lei se ne va, continuerò a parlarle anche quando lei è lontano lontano... e poi dica delle preghiere per me, così, quando muoio, anch'io andrò in paradiso!". “Se non ci va lei in paradiso, quel posto deve essere proprio deserto", dico, e lei ride. La carovana d elle macchine sta per riprendere la sua corsa verso la Cina ed io debbo partire. Suor Giuseppa mi prende ancora la mano, mi si avvicina all'orecchio e questa volta in italiano dice: “Mi saluti la gente di Cernusco, mi saluti tutti", poi ha un attimo di esitazione "... ma Cernusco l'è ancora vicino a Milano, vero?". Son felice di dirle di sì.(T.Ter.)

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sabato , 05 febbraio 1994 Clinton il " pacifista " e il capitalismo rosso

Terzani Tiziano

VIETNAM DOPO L'EMBARGO USA BANGKOK. La guerra in Vietnam è finalmente davvero finita. Con la decisione americana di togliere l'embargo economico, imposto al “nemico" esattamente 30 anni fa, gli Stati Uniti hanno solo ieri accettato la sostanziale conclusione di un conflitto, in rea ltà perso dagli americani già nel lontano 1975, ma da allora tenuto in vita da Washington con mezzi altri che quelli bellici e con l'indiscriminato appoggio a tutti i nemici del Vietnam, dai cinesi ai khmer rossi. Il prezzo di questa guerra, contin uata per quasi vent'anni più del necessario, è stato alto per tutti e due i combattenti: i vietnamiti, costretti a dipendere sempre di più dal blocco sovietico, finchè quello esisteva, sono rimasti politicamente isolati ed economicamente strangolati; gli americani, continuando ad arrovellarsi nel trauma della sconfitta . la prima nella loro storia . si sono psicologicamente autoflagellati, imponendosi falsi problemi tipo quelli dei Mia, i soldati dispersi, e si sono economicamente tagliati fuori da uno dei mercati potenzialmente più interessanti dell'Asia dopo la Cina. Ci voleva un presidente come Clinton . un uomo che la guerra l'aveva vissuta solo da oppositore “pacifista" . per prendere la decisione politica di togliere l'embargo al Vi etnam. Ma in quella decisione non c'è niente di coraggioso. Economicamente era una decisione che si imponeva da tempo perchè, nonostante l'adesione formale dei vari paesi occidentali all'embargo americano, alcuni fra questi . innanzitutto il Giappo ne . avevano quietamente fatto grandi passi avanti nella loro cooperazione col Vietnam e si stavano posizionando in modo da lasciare sempre meno spazio agli americani auto esclusisi dalla divisione della torta. La decisione di togliere l'embargo, p ermettendo finalmente alle aziende americane di operare in Vietnam, senza più essere accusate di “connivenza col nemico", mette fine a questa assurdità. Gli americani partono con un certo svantaggio, ma approfitteranno dell'enorme carica di simpatia ed ammirazione che i vietnamiti . anche quelli del Nord . nonostante i bombardamenti a tappeto dei B 52 e le reciproche crudeltà della guerra, hanno sempre avuto per gli americani. Se Washington nel 1975 o poco dopo, invece che fare del Vietnam un paria internazionale, gli avesse teso la mano come fece alla fine della seconda guerra mondiale coi tedeschi ed i giapponesi, i vietnamiti erano ben pronti a prenderla e la storia della regione sarebbe stata completamente diversa. Ma gli americani, c he nel 1945 erano stati così generosi coi loro potenti e ricchi ex nemici che avevano battuto, non riuscirono ad esserlo poi coi poveri scalcagnati vietnamiti da cui

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erano stati sconfitti. Fra le conseguenze strategiche di questa decisione american a di non aprire al Vietnam subito dopo il 1975 e di mantenere l'embargo contro Hanoi per quasi altri vent'anni ce n'è una di grande importanza e che potrebbe al limite essere stata presa in considerazione dai lungimiranti di Washington: l'isolamento economico del Vietnam comunista ha dato tempo ai paesi anticomunisti della regione di rafforzare le loro infrastrutture e di darsi in generale un notevole vantaggio rispetto al Vietnam contro la cui concorrenza un giorno avrebbero dovuto battersi. Quel giorno è venuto. Paesi come la Thailandia, la Malesia, Singapore e Taiwan hanno ben sfruttato il periodo di grazia che l'embargo americano contro Hanoi ha garantito loro, sono ora in pieno boom ed hanno impressionanti tassi di crescita. Tutti pe rò sanno anche che da oggi in poi hanno da guardarsi alle spalle: il Vietnam sarà un loro formidabile, temibilissimo e sempre più diretto concorrente. I vietnamiti, un popolo di grande durezza e disciplina, di formidabile tenacia ed inventiva, non aspettano altro che un pò di libertà per buttarsi a capofitto nella corsa dello sviluppo verso la modernità ed il consumismo che gli altri hanno iniziato prima di loro. Non ci vorrà molto tempo, perchè si mettano al passo. Per molti versi quel che su ccederà d'ora innanzi in Vietnam è quel che è successo negli ultimi anni nelle zone costiere della Cina dove il comunismo si è sviluppato in una forma di capitalismo selvaggio che ha molte caratteristiche del gangsterismo con corruzione, sfruttamento e violenza. Rispetto alla Cina il Vietnam ha vari vantaggi: ha una popolazione omogenea, ha una leadership sicura (senza un problema di successione, perchè non c'è un Deng Xiaoping che deve morire e che deve essere sostituito), ha un passato recen te senza un massacro come quello di Tien An Men, e la richiesta di democrazia è per ora una voce fievolissima e quasi inaudibile. I paesi del Sud Est asiatico tutto questo lo sanno e guardano ora al Vietnam, un tempo temuto come una minaccia politi ca e militare, come ad una crescente minaccia economica.

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venerdi , 04 febbraio 1994 Thailandia: cosi la polizia uccideva i turisti stranieri

Terzani Tiziano

Oltre 40 le vittime della banda criminale TITOLO: BANGKOK. “Ne abbiamo ammazzati un sacco", dicono. Quanti esattamente non lo si saprà mai perchè, dopo averli fatti fuori, li spiaccicavano con le loro auto, li buttavano giù per le scarpate o li tagliavano a pezzi rendendone così difficile il riconoscimento. Finora solo quindici cadaveri sono stati rimessi assieme e più o meno identificati. Ma le autorità parlano già di oltre 40 vittime. L'ultimo corpo è stato ritrovato mercoledì in una giungla della provincia di Prachin Bur i, 130 chilometri da Bangkok. Era un giapponese di 38 anni. Persino per la Thailandia, un Paese uso alla violenza e all'uccisione facile, questa storia è stata motivo di scalpore. La ragione è che gli assassini sono dei poliziotti in uniforme, che le vittime sono dei turisti stranieri e che il Paese, con le sue spiagge tropicali e i suoi alberghi di lusso, già disertati per varie altre ragioni, rischia ora di perdere ulteriori clienti. “Questi assassinii non fanno che danneggiare l'industria d el turismo", scriveva qualche giorno fa, preoccupato, il Bangkok Post. La storia è raccapricciante. Un gruppo di sette poliziotti, guidati da un capitano, si erano organizzati per quel che pareva loro un ottimo affare. Durante i pattugliamenti in m acchina della città, prendevano di mira un turista, lo avvicinavano contestandogli una qualche infrazione (“Il suo passaporto è falso, dobbiamo fare dei controlli"), lo facevano salire sulla loro auto e da quel momento il disgraziato era perso. I pol iziotti lo ammanettavano, lo spogliavano di tutto quel che aveva, lo ammazzavano e poi o lo facevano sparire o lo lasciavano maciullato ai bordi di una strada di campagna come fosse stato vittima di un terribile incidente. Le vittime erano di solito asiatiche: soprattuto cinesi di Taiwan, di Hong Kong e giapponesi. In Thailandia ogni anno decine di persone scompaiono senza lasciare traccia, mentre altre decine . fra cui molti europei . muoiono in circostanze per lo meno sospette, nei luoghi pi ù frequentati dai turisti; spesso nelle loro stesse camere d'albergo. Vittime della criminalità? Della droga? Vittime della loro curiosità sessuale o delle loro perversioni che in questo Paese trovano ogni soddisfazione? Queste domande ricevono raram ente una chiara risposta, perchè la polizia non sembra particolarmente efficiente nel ricercare gli eventuali responsabili e le autopsie ufficiali che vengono fatte su questi cadaveri stranieri parlano di solito di “arresto cardiaco" o di “arresto re spiratorio", il che equivale a dire “il morto è morto di morte". Il fatto che la storia dei turisti spiaccicati e fatti a pezzi non sia finita come tante altre fra i misteri dell'esotico Oriente è dovuta alla nomina di un nuovo capo della polizia. Quando questo, alla fine

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dell'anno scorso, ha preso il potere, fra i tanti dossier che si è trovato sul tavolo c'era quello della scomparsa di più di trenta turisti nel giro di tre mesi. Per mostrare che con lui le cose cambiavano ha dato ordine che si facesse luce su quei morti. Poco dopo sette poliziotti con alla testa un capitano sono stati arrestati e presentati al pubblico. I truculenti dettagli sui loro misfatti sono venuti dalle loro stesse confessioni. Partita chiusa? Niente affatto. D a anni la polizia thailandese è additata dalla stessa stampa locale come una delle organizzazioni più corrotte e discutibili del Paese. E molte delle soluzioni ai problemi che affliggono la Thailandia sembrano oggi urtarsi negli interessi occulti di certi gruppi annidati nei vertici del potere. La prostituzione . specie quella dei minori . ad esempio è un gravissimo problema sociale. Ogni governo che si avvicenda a Bangkok si impegna a combatterla, ma niente di sostanziale cambia mai perchè . si dice . in un modo o nell'altro vari funzionari di polizia sono coinvolti nei grandi profitti che vengono da questa industria. Proprio nei giorni scorsi una organizzazione umanitaria americana ha denunciato il coinvolgimento ufficiale delle forze del l'ordine thailandesi con dei gruppi di gangsters che di questi tempi portano dalla Birmania e dal Sud della Cina centinaia di giovanissime ragazze e le costringono a lavorare come “schiave del sesso" nei bordelli del Paese. La criminalità è un altr o problema che si è andato aggravando negli ultimi anni; non solo quella locale, ma quella straniera che ha messo le sue radici qui. Bangkok ad esempio è diventata il centro di bande di gangsters giapponesi e pachistani che operano soprattutto contro i loro connazionali giunti qui come uomini d'affari e turisti. Parlando la stessa lingua avvicinano le loro vittime offrendo aiuto, servizi e protezione. I poveretti finiscono nel migliore dei casi per essere derubati, nel peggiore per essere rapiti e rilasciati contro il pagamento di un riscatto. Fra i delinquenti che operano in questo modo nella città balneare di Pattaya, meta ogni anno di milioni di turisti, ci sono anche degli italiani. Sgominare queste bande sembra impossibile perchè . si dice . godono della protezione di funzionari corrotti. Il nuovo capo della polizia sembra deciso a “rimettere la polizia sulla giusta via" come chiedono i giornali, ma è forse proprio per questo che la sua nomina è stata osteggiatissima da vari alt i ufficiali e che non ha ancora avuto la conferma definitiva.

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domenica , 30 gennaio 1994 Alla festa del re dell' oppio

di Terzani Tiziano

Per celebrare il Capodanno l'ultimo grande narcotrafficante apre la sua magione a centinaia di ospiti. Il Che Gue vara birmano canta il karaoke e offre sorridente montagne di cibo Invitati anche alcuni ufficiali thailandesi Poi a spasso per la capitale della droga tra gioiellerie, monaci buddisti e bordelli Khun Sa: “Non sono il diavolo, io libero un popolo oppresso". HO MONG (Birmania). L'invito, in strani geroglifici dorati su un cartoncino rosa, era scritto in una lingua che non conosco e mi c'è voluto un pò di t empo per trovare chi me lo leggesse. “Venga a celebrare il Capodanno Shan con noi", diceva. La firma era di Khun Sa, “il Principe delle Tenebre", da decenni il signore della guerra del Triangolo d'Oro, l'ultimo grande trafficante di droga del mondo o ra che Noriega è in una galera americana e che Escobar è in una tomba in Colombia. Dall'inizio di dicembre Khun Sa è anche il presidente del “Paese degli Shan", uno Stato che ha formalmente dichiarato la sua secessione dalla Birmania, ma che per ora nessuno riconosce. L'invito per Capodanno era particolarmente interessante: proprio in quei giorni il governo di Rangoon annunciava una grande offensiva contro le forze di Khun Sa ed uno dei ministri della dittatura militare si era pubblicamente impe gnato a catturare il “grande ricercato". Impossibile rifiutare. Il Triangolo d'Oro . un'area montagnosa di 225.000 chilometri quadrati alla frontiera fra la Thailandia, la Birmania, il Laos e la Cina . produce 2.3 delle 6.000 tonnellate di oppio ch e vengono oggi sfornate nel mondo. Khun Sa ha la chiave di questa produzione. Ci vogliono dieci chili di oppio per fare un chilo di eroina. Khun Sa controlla la maggior parte delle raffinerie nascoste nelle montagne. “Khun Sa è il nemico numero uno d ell'umanità", ha detto di lui l'ex ambasciatore americano a Bangkok. “Khun Sa è il Che Guevara birmano", ribattono i suoi fedeli che considerano il “generale" come un grande capo guerrigliero impegnato nella “liberazione" degli Shan. Gli Shan sono una delle 67 minoranze etniche che compongono la popolazione della Birmania. Come varie altre minoranze del Paese, gli Shan si sentono oppressi e defraudati dalla maggioranza birmana e da anni conducono una lotta armata contro il regime militare di R angoon. Khun Sa, nato 60 anni fa da una madre Shan ed un padre cinese, ha unificato i vari gruppi nazionalisti Shan e si presenta ora come il loro unico, indiscusso eroe. La droga . dice . è solo un modo per finanziare quella lotta. Per gli Shan il 1994 è l'anno 2088 perchè cominciano a contare da quando divennero buddisti e costruirono la loro prima pagoda. Il Capodanno viene celebrato al sorgere della dodicesima luna. Le mie istruzioni erano di

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andare due giorni prima in una certa pensione d i una cittadina nel Nord della Thailandia ed aspettare che qualcuno mi contattasse. Il resto è stato un pò come in un romanzo poliziesco: un paio di appuntamenti mancati, una trentina di chilometri lungo una strada di provincia, una fattoria isolata in cui ho dovuto nascondere la mia macchina, un mulo cui è stato affidato il mio sacco ed un giovane Shan che mi ha fatto da guida durante le nove ore di faticosa marcia attraverso la bisbigliante giungla delle montagne verde giada ed una ventina di torrenti passati al guado. Ho Mong, la “capitale" di Khun Sa, è situata a 15 chilometri all'interno della Birmania in una larga striscia di terra protetta ad Ovest dal Salaween, uno dei più lunghi e più selvaggi fiumi del mondo, ad Est dalla fronti era thailandese. La mia consegna era di arrivarci evitando a tutti i costi di essere visto dall'esercito Thai che dice di controllare strettamente quel confine e non vuole in alcun modo dare l'impressione . specie ad un giornalista straniero . di col laborare coi “ribelli". Bangkok mantiene ottime relazioni diplomatiche e commerciali con i dittatori di Rangoon, carcerieri della signora Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, ed ufficialmente nega di aver a che fare con Khun Sa. Solo quando, nel mezzo di una notte buissima e senza luna, sono finalmente arrivato a Ho Mong, ho scoperto che ci sono due strade che dalla Thailandia conducono direttamente a questa cittadina e che tutti gli altri “invitati" di Khun Sa erano comodamente arrivat i in macchina. Fra questi c'era anche un gruppo di ufficiali dell'esercito thailandese in borghese. Sorprendente se si considera che dal 1990 Khun Sa è inquisito come trafficante di droga negli USA e che in Thailandia sulla sua testa c'è una taglia d i 20.000 dollari! Ma era solo la prima di varie sorprese. Ho Mong è una piccola, vivacissima cittadina di case dalle pareti di legno e dai tetti di ondulina. La popolazione è di circa ventimila persone. Un grande spiazzo al centro dell'abitato serv e da campo di calcio, terreno di parata e da mercato. Le feste di Capodanno, durate tre giorni, si sono svolte lì, dove erano allestiti due teatri ambulanti, una discoteca, alcuni baracconi per il tiro ai bussolotti ed un concorso di bellezza che, fr a i vari premi, ne aveva anche uno di “consolazione" andato ad un travestito locale. Lungo la strada principale ci sono i barbieri, i sarti, i gioiellieri, i fotografi ed un paio di negozi per l'affitto di videocassette. “Jurassic Park" è richiesti ssimo. Tutte le merci vengono dalla Thailandia. La moneta che viene usata è il Baht thailandese ed anche le macchine stanno sulla sinistra della strada come in Thailandia e non sulla destra come nel resto della Birmania. Ho Mong ha un tempio buddista con 400 monaci, tre alberghi “per viaggiatori di commercio", e un bordello con 15 ragazze. Sulle case dei benestanti spuntano i dischi delle antenne televisive che captano tutti i programmi internazionali. All'ingresso di un modesto negozio, che v ende di tutto, dalle pile tascabili ai chiodi, alle coperte, un cartello dice: “Telefono". Grazie ad una linea speciale con la Thailandia da Ho Mong, la “capitale mondiale della droga" in mezzo alla giungla birmana, si può chiamare in diretta

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ogni an golo della terra. In una cabina sento una ragazza cinese discutere con qualcuno a Taiwan di un biglietto aereo Bangkok Hong Kong. Non è quella la rotta che seguono i corrieri? Non sono i gangster cinesi che controllano la distribuzione della droga ne l mondo? L'unico edificio in muratura in tutta la valle è la residenza di Khun Sa. Accovacciata su una collina, protetta da nidi di mitragliatrici, la villa di Khun Sa col camino nel salotto, la luce azzurra nei bagni, la moquette rosa, le poltrone protette da un telo di plastica e le librerie senza un libro, ma piene di videocassette, sembra la realizzazione di tutti i sogni di un nouveau riche, di un bandito in cerca di rispettabilità. Per il Capodanno Khun Sa ha aperto la sua casa ed il vas to giardino a centinaia di ufficiali del suo esercito ed ai funzionari della sua amministrazione. Agli ospiti, assieme a montagne di cibo, viene offerto lo spettacolo del “generale" in persona che canta il karaoke. Vengo invitato a fare la seconda vo ce in una famosa canzone cinese le cui parole passano sullo schermo di un costosissimo sistema hi fi. “E la droga, generale? Vogliamo parlare di quel che succede qui?", azzardo. Khun Sa ride. “Domani... domani l'intervista. Ora si canta". Fra gli i nvitati, a parte i soliti ufficiali thailandesi, riconosco il capo di stato maggiore di Khun Sa, Zhang Zuquan, il “generale Tuono" come lo chiamano tutti, un cinese nato in Manciuria, e che prima di legarsi agli Shan ha combattuto in tutte le guerre “segrete" organizzate dalla Cia contro i comunisti in questa parte del mondo. Anche quelle guerre furono, allora con l'approvazione di Washington, finanziate con la droga. La mattina dopo vengo portato negli uffici del governo di Khun Sa e vengo pr esentato ai suoi vari “ministri". Dal 1980 Khun Sa ha varie volte offerto di dar via tutto il suo oppio in cambio di aiuti economici. All'inizio di ottobre ha scritto una lettera direttamente al presidente Clinton riformulando la vecchia offerta, ma non ha avuto alcuna risposta. Nel 1948, quando la Birmania divenne indipendente, il Triangolo d'Oro produceva 30 tonnellate d'oppio. Nel 1988, nonostante miliardi di dollari spesi in operazioni internazionali di polizia, in piogge defolianti sui camp i di papaveri, la produzione era già salita a 3.000 tonnellate. “La repressione serve solo ad aumentare il prezzo e con ciò a rendere la droga più attraente", dice Khun Sa. Incontro il generale all'ora del tramonto, nel suo giardino. Siamo seduti i n un patio con sullo sfondo una serra piena delle sue adorate orchidee. Ha una bella presenza, una faccia impassibile che si apre in improvvisi sorrisi ogni volta che gli arrivano le mie provocatorie domande d'obbligo. “Generale, tutta la sua vita le i ha avuto a che fare con la droga. Ora però lei si presenta come un combattente per la libertà degli Shan. Non è che lei usa questa copertura da patriota per continuare i suoi affari?". Khun Sa accende una delle sue sigarette “555", e lentamente, come volesse non farmi perdere una sola parola, risponde. “Innanzitutto gli affari non sono così belli come paiono a lei. Una partita di eroina che da noi vale un milione di dollari, vale cento milioni quando raggiunge i vostri Paesi. Allora chi fa i grossi guadagni? Non

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certo Khun Sa! Non certo gli Shan!". Il generale tira una lunga boccata alla sua sigaretta e continua. “Per più di 30 anni la verità su di me e sul mio popolo è stata nascosta dietro questa cortina della droga che i nostri nemic i hanno eretto contro di noi. È ora che la verità venga fuori. Noi non abbiamo segreti. Lei vada pure in giro, guardi, guardi dove vuole. Il mondo deve capire che io non sono un diavolo". “Un diavolo no, generale. Ma non vorrà mica negare che la ma ggior parte dell'eroina che inonda i nostri Paesi viene dai campi d'oppio che la sua gente coltiva, viene dalle raffinerie che lei controlla e viene esportata sotto la protezione del suo esercito?". Gli assistenti di Khun Sa che ci stanno attorno s embrano preoccupati da questa confrontazione. Lui sembra quasi divertito. “Non sono io a costringere la mia gente a coltivare il papavero. Ci costringono i birmani in quanto ci attaccano, ci tolgono le nostre migliori terre e ci spingono a vivere nel le montagne. Io non controllo alcuna raffineria. Quelle sono in mano ad uomini d'affari stranieri. Quanto al trasporto, il mio esercito garantisce la sicurezza dei sentieri per tutti. La mia lotta è per la liberazione del popolo Shan e per finanziare questa lotta facciamo pagare delle tasse a chi guadagna sulla droga". Il sistema è semplice: gli esattori di Khun Sa prelevano il venti per cento sul valore di ogni transazione a cominciare da quella dei commercianti che comprano l'oppio dai contadi ni, a quella dei contrabbandieri che portano l'eroina oltre frontiera. Nel corso della sua vita Khun Sa dice di essere stato l'oggetto di 42 attentati. Il fatto che ora, dopo l'arresto di Noriega e la uccisione di Escobar, lui venga indicato come l 'ultimo grande trafficante da eliminare non sembra preoccuparlo molto. “Se l'arresto o la morte di Khun Sa risolvesse il problema della droga, allora Khun Sa meriterebbe di morire", mi risponde quando gli chiedo se non sente di avere le ore contate. “Ma lei crede davvero che il problema si risolverebbe con la mia morte?". Mi è difficile contraddirlo. La forza di Khun Sa è un esercito . dice lui . di 40.000 uomini che gli sono fedelissimi. Le nuove reclute si esercitano ogni mattina all'alba su lla spianata al centro dell'abitato. Alcuni son bambini che hanno appena dieci anni. Solo a 16 ricevono un fucile e vengono mandati al fronte, ma fino ad allora vengono vestiti nutriti ed educati da Khun Sa. Non è una cosa da poco per la gente dei mi serissimi villaggi sulle montagne. L'esercito è efficiente e la disciplina ferrea. Se un soldato diserta e viene catturato la sua testa viene mozzata, viene mostrata ai suoi ex commilitoni; se entro tre mesi non viene preso, son le teste dei suoi gen itori che vengono portate in giro come avvertimento. L'uso della droga è assolutamente vietato nel “Paese degli Shan". Se un giovane viene scoperto a fumare dell'oppio o ad iniettarsi dell'eroina, viene mandato in un centro di rieducazione dove la “cura" consiste in dieci giorni in un buco in terra profondo tre metri ed alcuni mesi di lavori forzati. Una ricaduta comporta l'esecuzione. Quel che sembra preoccupare Khun Sa più d'ogni altra cosa è che l'Occidente non lo prende sul serio quando dice di voler aiutare il mondo a risolvere il

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problema della droga. “Il giorno in cui i soldati birmani si ritireranno dal nostro territorio io mi impegno a mettermi alla testa della mia gente a sradicare fino all'ultima tutte le piante d'oppio. Il m ondo deve ascoltarmi: dateci la nostra indipendenza e gli Shan smetteranno di produrre droga". E se lo dicesse davvero? Mi chiedevo tornando, dopo cena, verso l'albergo pieno di misteriosi cinesi, alcuni di Taiwan, altri di Pechino, venuti qui per chi sa quale ragione o quale affare. Il giro d'affari legato alla droga equivale oggi a quello del traffico delle armi; è grande quasi quanto quello del petrolio. Gli interessi fondati sull'eroina sono ormai diventati ben più grandi di Khun Sa e se a nche “il generale" volesse davvero chiudere con la droga e diventare una figura rispettabile, c'è chi non glielo permetterebbe. A vedere Ho Mong all'alba, quando la cittadina esce dalla coltre di nebbia della notte e le donne Shan si acquattano ad accendere i loro focherelli a legna sotto le pentole nere di fumo per preparare la prima colazione, viene davvero da chiedersi se questo posto, nascosto nella giungla, sia davvero la capitale del nuovo “impero del male" come gli americani lo rapprese ntano e se questa gente col loro capo Khun Sa siano davvero gli untori dell'“undicesima peste" o se anche loro non sono ormai altro che delle semplici pedine in un gioco manovrato da ben più potenti ed invisibili forze. Ha unificato i vari gruppi nazionalisti Ora è lui l'unico eroe Gli affari non sono così belli come paiono a voi tutti

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domenica , 21 novembre 1993 Cambogia, la pace senza gioia

di Terzani Tiziano

Costi delle operazioni, comportamento dei “caschi blu" e conseguenze politiche hanno prodotto un bilancio negativo La diplomazia plaude al successo ma la missione Onu è fallita. BANGKOK. I cambogiani lo sanno da secoli: la vita è una ruota e la storia non è progresso. Alla guerra segue la pace, alla morte u na rinascita e poi di nuovo la morte. È forse anche per questo che oggi non c'è fra i cambogiani quello stesso entusiasmo sul loro futuro che manifestano invece, tanto enfaticamente, gli occidentali. Da Phnom Penh stanno partendo gli ultimissimi “c aschi blu" dell'Onu e con la conclusione ufficiale della missione di pace è incominciata la corsa all'autocongratulazione da parte della organizzazione internazionale e della diplomazia delle grandi potenze che l'hanno sostenuta. “Grazie all'Onu la C ambogia inizia una nuova vita", “La pace dell'Onu regna ora in Cambogia" sono tipiche frasi che ricorrono nelle analisi bilancio fatte per celebrare l'occasione. Dinanzi al fallimento delle operazioni in Paesi come la Somalia o l'ex Jugoslavia, la missione Onu in Cambogia che ora si conclude (restano solo una ventina di osservatori militari) viene citata come uno “straordinario successo", viene indicata come un modello da seguire e viene usata per riscattare la reputazione di un organismo le c ui strutture e le cui funzioni andrebbero comunque rimesse in discussione; ora ancor più di prima proprio in ragione dell'esperienza cambogiana. Ambiziosa impresa La missione Onu in Cambogia cominciò nell'autunno del 1991. Fin dall'inizio venne definita la più costosa e la più ambiziosa impresa dell'organismo internazionale dalla sua fondazione, quasi mezzo secolo fa. Si trattava di far applicare un accordo di pace concluso fra le quattro fazioni della guerra civile, di disarmare e smobili tare i quattro eserciti in lotta, di organizzare le prime elezioni democratiche nel Paese e di mettere in pratica quella “comprensiva soluzione" del problema cambogiano che avrebbe dovuto trasferire il conflitto dal campo di battaglia al campo politi co. L'aggettivo “comprensivo" stava ad indicare che i Khmer rossi, una volta disarmati, come tutte le altre fazioni, avrebbero dovuto essere re integrati nella vita del Paese. Per quanto fosse estremamente discutibile . dal punto di vista morale sp ecialmente . che l'Onu dovesse impegnarsi a riassorbire nel tessuto sociale della Cambogia Pol Pot ed i suoi uomini, responsabili di uno dei più grandi crimini di questo secolo . lo sterminio di più d'un milione dei loro concittadini ., questa era la missione affidata dal Consiglio di Sicurezza ai ventiduemila uomini dell'Onu mandati in Cambogia. A questo dovevano servire i due miliardi e mezzo di dollari messi in bilancio per

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l'operazione. Ebbene quella missione si è ora ufficialmente conclus a. Con quale bilancio? Cominciamo con quello dei soldi. L'operazione è stata carissima ed è stata segnata da sprechi, inefficienze ed episodi di corruzione senza precedenti all'Onu. Secondo fonti interne all'organizzazione qualcosa come 400 milioni d i dollari sarebbero finiti nelle tasche di alcuni funzionari internazionali . alcuni anche di altissimo livello . che avrebbero messo in piedi un efficiente sistema di ordinazione di materiali che non venivano mai consegnati o che venivano pagati a l oro complici a prezzi fuori mercato. Una inchiesta è attualmente in corso a New York, ma è improbabile che lo scandalo venga completamente alla luce perchè le Nazioni Unite non hanno un vero sistema di controlli sulle spese e perchè persino la scoper ta di un comportamento criminale da parte di suoi funzionari può solo finire con un provvedimento che rimane discretamente interno all'organizzazione. Il costo umano dell'operazione in Cambogia è stato ugualmente alto: 21 persone dell'Onu sono stat e uccise, 17 sono morte in incidenti di macchina, 29 di infarto, malaria ed altre malattie; altre 150 moriranno di Aids contratto durante la loro permanenza. E il bilancio politico? In apparenza è positivo: la Cambogia è ora retta da un governo di coalizione in cui tre dei quattro nemici del passato sono rappresentati; le ostilità sono cessate; il Paese ha un parlamento, una costituzione e il vecchio re Sihanouk è tornato sul suo trono. Uno “straordinario successo" dunque, come dicono i funz ionari del Palazzo di Vetro? Sì, ma solo in apparenza. Nella sostanza le Nazioni Unite non hanno affatto adempiuto alla loro missione, non hanno disarmato i quattro eserciti e non hanno, attraverso la prevista “soluzione comprensiva", ricondotto i Kh mer rossi alla vita civile. Le elezioni ci sono state (e il grande merito del loro ottimo svolgimento va alle centinaia di giovani volontari Onu, mal pagati e maltrattati), ma hanno prodotto una situazione di estrema instabilità in quanto la maggiora nza dei voti è andata a chi non ha la maggioranza delle armi . al figlio di Sihanouk Ranariddh . e il vero potere resta perciò al partito elettoralmente sconfitto, ma in realtà ancora potentissimo, il partito ex comunista di Hun Sen e Chea Sim. I k hmer rossi poi restano nella giungla. “Emarginati e sempre più demotivati", dicono i diplomatici occidentali ottimisti, citando l'esempio di “centinaia" di guerriglieri che lasciano le file di Pol pot e vengono, da “disertori", ad arruolarsi nelle fi le dell'esercito di Phnom Penh. Ma è proprio così? Una interpretazione molto più verosimile è che i Khmer rossi restano quel che sono, una grande minaccia, e che stanno approfittando della situazione per infiltrarsi nelle unità dei loro nemici e cont ano sul tempo e sulle contraddizioni di fondo che la presenza per quasi due anni dell'Onu non ha risolto, per tornare all'offensiva. La pace portata dall'Onu in Cambogia è solo apparente e un preoccupante senso di insicurezza si sta impossessando d ei cambogiani ora che vedono gli ultimi “caschi blu" lasciare il Paese con tutto quello strascico di effimero che si erano portati dietro. Ancora poche settimane fa gli alberghi di Phnom Penh

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erano pieni, le ville, rimesse a posto in fretta, erano affittate alla gente dell'Onu per cifre tipo quelle di Tokio o New York e quasi non c'era famiglia in cui un membro non lavorasse direttamente o indirettamente per l'Onu. Ora tutto questo è drammaticamente cambiato. Gli alberghi sono vuoti, le ville sfitte, la gente disoccupata, i ristoranti deserti e al calar del sole le strade si svuotano per chè diventano dominio di ombre senza scrupoli . spesso soldati o poliziotti in borghese . che, pistole alla mano, portano via automobili, motociclette, s oldi e a volte la vita a chi osa uscire. Dopo il grande “amore" per tutto ciò che l'Onu, visto come Dio venuto da fuori a salvare la Cambogia, la delusione per quel che l'Onu ha fatto e per il suo stesso partire . visto qui come un tradimento . si es prime ora in una crescente ostilità verso ciò che è occidentale. Sihanouk, che con la sua semplice presenza a Pnom Penh rappresentava per tutti una garanzia di stabilità, è in un ospedale a Pechino, convalescente di un cancro che lo terrà assente d al suo Palazzo Reale per almeno altri sei mesi. Il fatto che Sihanouk sia stato di nuovo incoronato re può anche essere visto come una conseguenza positiva della missione Onu in cambogia. Ma anche questo solo in apparenza. Una monarchia al di sopra d elle parti, come centro di equilibrio politico, è una buona idea solo sulla carta. Proprio perchè Sihanouk è stato rimesso ad un posto di tale psicologica importanza per i cambogiani . lui è il Dio Padre . la sua morte creerà un immenso vuoto. Sihano uk ha vari figli, avuti da varie mogli; chi sia l'erede non è chiaro e la lotta per la successione . già cominciata dietro le quinte . non potrà che essere un ulteriore fattore di instabilità. La ruota della vita Dal punto di vista dei cambogia ni la situazione di oggi è una che ricorre nel continuo girare della ruota della vita. Politicamente è una situazione simile a quella di un quarto di secolo fa, quando le varie fazioni si congregavano come ora attorno al centro di potere rappresentat o da Sihanouk, quando i Khmer rossi, come ora, erano dei guerriglieri nella foresta e il Paese si godeva un suo periodo di pace sapendo che a quella segue la guerra e che la storia, almeno quella cambogiana, sembra davvero destinata a non essere prog resso.

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martedi , 08 giugno 1993 le nozze del principe ereditario Si sposa un dio, i giapponesi tornano unici al mondo

di Terzani Tiziano

Pochi Paesi al mondo sono cambiati tanto, esteriormente, e sono rimasti tanto eguali a se stessi, come il Giappone nel corso di questo secolo. Tokio, la capitale, è stata rasa al suolo tre volte (nel 1923 dal terremoto, nel 1945 dai bombardamenti americani, ora dalla modernizzazione); tre volte è stata ricostruita, ma i suoi abitanti, pur perdendo i loro punti di riferimento fisici, non hanno perso quelli spirituali che fanno di un giapponese un giapponese, cioè un essere umano che si crede completamente diverso dal resto dell'umanità. I giapponesi erano così all'inizio del secolo quando vivevano in case di legno e di carta, lo sono ora che vivono in elettronizzati cubic oli di cemento. Neppure una esperienza traumatica come la bomba atomica e la sconfitta nella Seconda guerra mondiale riuscì ad intaccare la coscienza giapponese. Fra gli americani, arrivati da conquistatori nel Giappone umiliato del 1945, c'erano q uelli che per cambiare davvero il Paese volevano farne una repubblica e cristianizzare i suoi abitanti. Non avevano torto perchè l'istituzione imperiale e lo Shinto, la religione di Stato, sono lo zoccolo duro dell'identità giapponese e se quello res ta intatto, i giapponesi restano se stessi anche se tutto il resto cambia attorno a loro. Ma quei missionari di mutamento non ebbero via libera. Il generale MacArthur, responsabile dell'occupazione, decise di non mettere in discussione nè il ruolo dell'imperatore, nè quello dello Shinto e con questo i giapponesi poterono modernizzarsi, poterono diventare esteriormente “venditori di transistor", come de Gaulle definì un loro primo ministro, senza però che i mutamenti esterni mutassero la loro g iapponesità. In questo continuo processo di mutamento e conservazione le ricorrenti cerimonie imperiali, con tutta la mistica e la misteriosità dei loro riti hanno un ruolo importantissimo; ricordano al giapponese la sua natura divina. Il matrimoni o del principe ereditario Naruhito con la sua Masako Owada, fra i suoi tanti messaggi, ha soprattutto questo, perchè dietro tutte le montagne di baggianate che scrivono e scriveranno i giornali sull'argomento, dietro le ore di tv che gli verranno ded icate e dietro la marea di monete d'oro, di francobolli e T shirt prodotti per l'occasione, al giapponese medio resterà il ricordo di quel che non riuscirà a vedere, ma di quel che sa avvenire nei recessi del palazzo imperiale, nel corso di riti segr eti di cui conosce l'esistenza, che sa legati alla leggenda e da cui la modernità è tenuta lontana. Nuda, davanti allo specchio dell'altare shintoista a palazzo, la sposa verrà spolverata da un sacerdote con una scopa dal lungo manico di legno e da lle strisce di carta bianchissima. È il rito della “purificazione" prima di unirsi alla divinità. Perchè l'imperatore

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discende dalla dea del Sole e così i giapponesi: i soli al mondo. È il messaggio che viene da ogni cerimonia imperiale. Negli ulti mi anni ce ne sono state varie: il funerale straordinario del vecchio imperatore Hirohito, l'incoronazione spettacolare del figlio, il matrimonio di un nipote, ora dell'altro, il principe ereditario. Ogni cerimonia è stata l'occasione per riafferma re la diversità, la unicità dei giapponesi, la fonte di quella forza giapponese che molti, specie in Asia, vedono ancora come una minaccia. Con ogni rito si è come riannaffiato il seme della coscienza collettiva giapponese che a volte sembra soffocat o nella terra arida del Giappone dei transistor. In verità quella coscienza viene tenuta in vita in vario modo dalla interpretazione giapponese della quotidianità del resto del mondo. Ogni occasione è buona. In America un giovane giapponese viene a mmazzato da un vecchietto che lo scambia per un ladro? Il Giappone insorge Quando il tribunale assolve il vecchietto dall'accusa di omicidio, il Giappone insorge contro questa “inciviltà" di un Paese straniero. Un poliziotto giapponese, membro delle Nazioni Unite in Cambogia, viene ucciso dai khmer rossi? Gli viene fatto un funerale di Stato, tutti inneggiano al suo sacrificio, ma in nessun discorso viene detto che è stato uno dei 60 morti fra le forze dei vari Paesi. Il punto è che gli al tri non contano perchè non sono giapponesi, perchè non sono discendenti della dea del Sole. Il Giappone dentro non cambia. Solo due mesi fa la Corte Suprema ha di nuovo dato ragione ai burocrati del ministero della Pubblica istruzione che non vogli ono vedere scritta nei libri di testo per le scuole la vera storia della Seconda Guerra Mondiale e non vogliono alcun riferimento alle atrocità ed ai massacri commessi dai giapponesi. È passato già mezzo secolo da quella storia, una terza gene razione imperiale viene alla ribalta, il Giappone è esternamente cambiato radicalmente, ma dentro resta lo stesso. A suo modo la ragazza non di sangue reale, ma semplicemente di buona famiglia che sposa il futuro imperatore è il simbolo di questa c ontraddizione. Esternamente è “moderna", parla varie lingue, ha studiato all'estero ed aveva persino intrapreso una carriera, quella diplomatica, ma in qualche modo anche lei ha risposto alla chiamata del Giappone interno. Custodi della tradizion e Il principe non la interessava, la vita di corte tanto meno, ma alla fine i funzionari vestali della casa imperiale, custodi del mito e della tradizione hanno prevalso costringendola a sposarsi, come tutti i giapponesi sanno, “non per amore, ma p er dovere". Un dovere che viene così di nuovo, spettacolarmente, ricordato a tutti: il dovere di essere giapponesi. Tiziano Terzani Purgatori da Tokio a pagina 13

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lunedi , 24 maggio 1993 Sono cominciate ieri le elezioni con i Caschi blu in assetto di guerra che sorvegliano seggi ed elettori I cambogiani sfidano le bombe khmer

di Terzani Tiziano

Massiccio afflusso alle urne nonostante le minacce di attacchi e rappresaglie dei feroci guerriglieri di Pol Pot I rappresentanti dell'Onu sottolineano il successo: “Questo è un giorno storico, una grande vittoria popolare". PHNOM PENH. Le elezioni sono state una festa: una grande festa popolare e tranquilla che nè la pioggia nè i khmer rossi con le loro bombe sono riusciti a rovinare. Già all'alba migliaia di persone, molte coi vesti ti della domenica, le donne con delle belle gonne di seta colorata, facevano la coda dinanzi ai seggi elettorali sotto un cielo basso e pesante. Venivano a gruppi di amici, a famiglie intere, pesticciando nel fango, coi bambini che tenevano in mano le sofisticatissime carte di identità dei genitori, rilasciate dall'Onu, carte impossibili da riprodurre perchè con una scritta magnetica che solo una strana lampada dalla luce violetta riesce a leggere. I seggi erano sistemati nelle scuole, nelle pagode, negli stadi. Soldati dell'Onu in assetto di guerra presidiavano gli ingressi. Poliziotti dell'Onu, i più disarmati, ma tutti con dei pesanti giubbotti antipallottole, verificavano l'identità della gente e controllavano che nessuno entrasse c on delle armi. L'operazione di voto era questione di pochi minuti. Uno dava la propria carta di identità, tuffava l'indice della mano destra in un liquido che ora gli lascia, per almeno una settimana, una traccia apparentemente invisibile, ma che l a magica lampada dalla luce violetta riconosce immediatamente, prendeva un foglio con il simbolo dei 20 partiti, si dirigeva dietro una piccola cabina fatta di cartoline, faceva col lapis la sua scelta e metteva il foglio in un'urna. Il tutto non era soltanto un atto politico; era anche un divertimento, una cosa insolita, uno spettacolo in cui ognuno aveva un suo ruolo e che nessuno voleva perdersi. I khmer rossi avevano minacciato di attaccare i seggi e di punire chi ci sarebbe andato, ma que lle minacce, come i terribili tuoni e i lampi con cui s'è aperto il giorno, non hanno scoraggiato la gente e il massiccio afflusso alle urne ha colto di sorpresa gli stessi funzionari dell'Onu che in molti seggi si sono trovati a corto di scrutinator i e hanno dovuto farne arrivare altri d'urgenza. Alle quattro del pomeriggio quando le urne si sono chiuse si calcolava che più di un milione e mezzo di persone avessero votato nell'intero Paese. Restano ancora due giorni in cui è possibile votare nei seggi fissi; più altri tre giorni per i seggi mobili che andranno a dare la possibilità di votare alla gente nelle zone più remote. Il bilancio della prima giornata è dunque di un grande

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successo e i funzionari dell'Onu che, non essendo riuscit i a riportare la pace nel Paese, hanno puntato tutto sulle elezioni per poter vantare un qualche successo non hanno mancato di sottolinearlo. “Questo è un giorno storico, è il giorno di una grande vittoria per il popolo cambogiano", ha detto il gener ale Sanderson, comandante qui dei Caschi blu. A parte il grande afflusso di votanti, l'altra grande sorpresa della giornata è stata la mancata grande offensiva dei khmer contro le elezioni. Ci sono stati sì degli incidenti, ma assolutamente sporadi ci e marginali. Nella città di Poipet, alla frontiera con la Thailandia, i khmer rossi hanno sparato cinque colpi di artiglieria contro il mercato; nella regione di Kampot hanno attaccato una camionetta dell'Onu che andava a consegnare gli scrutini, facendo brevemente prigionieri due soldati francesi, ma nella sostanza i guerriglieri di Pol Pot si sono fatti notare per la loro assenza. Il perchè di questa improvvisa “tranquillità" dei khmer rossi è uno dei grandi interogativi del momento. Una possibilità è che i feroci guerriglieri abbiano deciso di aspettare la partenza delle Nazioni Unite fra tre mesi per far pesare la loro presenza militare, invece di esporsi e antagonizzare ulteriormente l'opinione pubblica internazionale, ora che la Cambogia è al centro dell'attenzione del mondo. L'altra possibilità è che in qualche modo, dietro le quinte, i khmer rossi abbiano ricevuto delle garanzie su un loro ruolo politico nel futuro della Cambogia, in cambio di un pacifico svolgimento delle elezioni. Sihanouk, diplomaticamente alleato dei khmer rossi dal 1970, e i cinesi, che da sempre li hanno sostenuti politicamente e armati, potrebbero aver giocato un ruolo determinante. Il ritorno improvviso e inaspettato del principe da Pechino proprio alla vigilia delle elezioni, quando i khmer rossi hanno cessato ogni operazione offensiva contro l'Onu, sembra un'indicazione in questo senso. Ancora poche settimane fa Sihanouk era stato estremamente critico sul ruolo Onu in Cambogia e aveva attaccato le elezioni “onussiane", come le chiamava, ridicolizzandole. Sabato invece, rimettendo piede a Phnom Penh, ha di nuovo parlato di “elezioni storiche" e della necessità di essere col suo popolo in questo importantissimo momento. In qualch e modo è come se fra i vari protagonisti di questo dramma cambogiano ci si fosse messi d'accordo perchè l'ultima fase della presenza dell'Onu in Cambogia si svolga così come le Nazioni Unite vogliono e che il resto venga regolato fra cambogiani, una volta che i funzionari internazionali e i Caschi blu se ne siano andati. Una cosa è certa. L'odierna “tranquillità" dei khmer rossi non è in alcun modo dovuta a una loro debolezza o a una loro incapacità a intervenire. Proprio ieri Akashi, il capo della missione Onu in Cambogia, ha rilevato che i khmer rossi hanno recentemente rafforzato i loro effettivi, passando con nuovi reclutamenti da 10 mila a 15 mila uomini, che questi uomini hanno giusto ricevuto nuove armi e uniformi e che alcuni dei loro nuovi comandanti sono da considerare ideologicamente più duri e determinati a combattere dei loro predecessori. In altre parole i khmer rossi sono oggi, ancor più di un

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anno fa, un'importante componente militare e politica del panorama cambogi ano, anche se non hanno preso parte alle elezioni. Gli accordi di Parigi e l'intera missione dell'Onu in questo Paese non hanno risolto questo problema, anzi in qualche modo l'hanno acutizzato. Per questo sullo sfondo della bella festa odierna delle elezioni resta, più pesante di tutte le nuvole cariche di pioggia di ieri mattina, la nuvola nera della loro minacciosa presenza.

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venerdi , 14 maggio 1993 Sciagura: l' incendio nella fabbrica di bambole a Nakhon Pathom Tra le schiave delle bambole

Terzani Tiziano

BANGKOK. I parenti passano , scoperchiano le bare, cercano negli ammassi carbonizzati di cose e corpi di riconoscere qualcuno, piangono e se ne vanno. Nessuno protesta. Nessuno inveisce. Le bare, semplicissime, di legno da poco, sono già più di duecento, ma i volontari delle o rganizzazioni buddiste, i pompieri ed i poliziotti continuano a portare i loro pesanti carichi di morte e li allineano nel cortile dell'ospedale. Son passati già tre giorni dall'immenso fuoco che ha sventrato, piegato e fatto crollare su se stessa la grande fabbrica di bambole nella cittadina di Nakhon Pathom, ma solo un terzo delle macerie è stato rimosso e solo 243 cadaveri sono stati finora districati dai cumuli di cemento e dalle impalcature di ferro liquefattesi al calore. Ci vorrà forse ancora una settimana finchè i quattro edifici che costituivano la fabbrica vengano completamente esaminati ed alla fine il bilancio dei morti potrebbe essere di 400 o 500 persone: il più alto di questo secolo nel mondo; un record spaventoso per un Pa ese come la Thailandia che tiene tanto alla sua immagine di meta turistica di sorrisi e gentilezza, ma dove incidenti di questo tipo si ripetono con inquietante frequenza. “La vita umana qui costa ormai poco" scriveva ieri il quotidiano The Nation. La verità è che niente è più sacro e che tutto viene ormai sacrificato in nome dello sviluppo economico. Le centinaia di ragazzine bruciate vive, assieme alle montagne di bambole che producevano, sono l'altra faccia della medaglia del “miracolo as iatico" che tanto impressiona oggi il mondo degli affari. La storia della fabbrica e del suo rogo è classica per il tipo di economia che domina questa intera regione. La fabbrica nasce nel 1989. E un gruppo di cinesi di Hong Kong e di Taiwan a vole rla qui per sfruttare il basso costo della mano d'opera thailandese. Gli operai della colonia inglese e dell'isola nazionalista sono diventati cari, mentre alle ragazze thai, che vengono dalla campagna e che non possono o non vogliono lavorare nei massage parlours e nei bordelli, basta dare 100 120 bath (circa seimila lire) per una giornata di lavoro. Il primo progetto non viene approvato dal governatore locale, ma in qualche modo gli investitori cinesi trovano a Bangkok un qualche alto funzio nario che firma loro tutti i permessi e la fabbrica viene fatta come comoda a loro. Lo stabilimento impiega circa 4.000 ragazze i cui turni regolari sono dalle otto del mattino alle cinque del pomeriggio; di solito però le ragazze rimangono alle ma cchine fino a mezzanotte per poter usufruire degli straordinari (circa mille lire l'ora). Alcune sono già madri e si portano in fabbrica i figli. Quelli più grandi danno una mano nella lavorazione. Le condizioni

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di lavoro sono dure. Il rumore delle 5 00 macchine cucitrici è assordante; l'odore delle plastiche provoca sintomi di asfissia. Il materiale altamente infiammabile usato nella lavorazione è all'origine di vari incendi . quattro negli ultimi otto mesi . ma i dirigenti non prendono, nè veng ono costretti dalle autorità a prendere, alcuna precauzione. Nei periodi di punta la fabbrica impiega a giornata alcune centinaia di studenti e lavoratori avventizi. Anche lunedì scorso era così ed è per questo che nessuno sa con esattezza quante e rano le persone presenti al momento dell'incendio. Il fuoco comincia alle quattro del pomeriggio in un ripostiglio al primo piano di un edificio. Fra le ragazze è subito il panico, ma tutte le porte sono chiuse. Urlano, implorano le guardie di toglie re i lucchetti, ma gli ordini sono ordini: nessuno può lasciare la fabbrica senza essere perquisito e la sola uscita è fatta in modo che solo una persona alla volta possa passare. I proprietari temono i furti. Bastano pochi minuti perchè il fuoco d ivampi nei magazzini, perchè il pavimento del secondo piano, dove stranamente sono tutti i macchinari più pesanti, crolli seppellendo tutto ciò che trova nella sua caduta. Quando finalmente le porte vengono aperte, è già tardi. Decine di ragazze si s ono buttate nella disperazione dalle finestre; il fuoco ha già intrappolato altre centinaia di persone negli altri edifici. Nel giro di alcune ore l'intera fabbrica è distrutta. All'alba comincia la penosa resa dei conti: ma solo i morti sono lì a farsi contare. Il responsabile taiwanese della fabbrica ha preso il primo aereo ed è sparito, il quartier generale del gruppo ad Hong Hong pubblica un suo comunicato e rassicura i propri azionisti dicendo che “il disastro avvenuto in Thailandia non a vrà alcun sostanziale impatto finanziario dal momento che i profitti della fabbrica thailandese sono stati, negli ultimi anni, insignificanti". E molto probabile che i proprietari non si facciano più vivi e che le famiglie delle vittime qui non abbia no nessuno cui rivolgersi per avere una qualche indennità. Le ragazze non erano assicurate! La fabbrica, sì: per 700 milioni di baht. La ragione di fondo che ha portato le povere, magre ragazzine thailandesi di Nakhon Pathon a morire nel rogo delle loro bambole fatte per i mercati del mondo è la stessa per cui ogni anno decine di giovani operai thailandesi cadono dalle impalcature dei grattacieli in costruzione, la stessa per cui intere famiglie di baraccati attorno al porto di Bangkok, dove s ono i grandi depositi chimici del Paese, sono colpite da misteriose malattie respiratorie e da strani eczemi che bruciano la pelle. E la stessa ragione per cui oggi la Thailandia è, assieme ad Hong Kong, Taiwan e Singapore, considerata una delle “tig ri" dell'Asia; la stessa ragione per cui il Paese è additato come un modello di sviluppo per Paesi come la Birmania ed il Vietnam che ora cercano di uscire dalla stagnazione economica. La ragione è nella assoluta libertà lasciata a chi ha soldi, a ch i porta, a chi genera altri soldi. Ogni governo che è stato al potere a Bangkok ha dato più o meno carta bianca a chi era disposto a venir qui ad investire, ha evitato di mettere regole, di imporre limitazioni e,

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anche là dove le più elementari esi stevano, ha chiuso gli occhi perchè non venissero applicate. E così che il Paese è decollato; ma è anche così che la Thailandia resta uno dei Paesi in cui il fenomeno degli “operai schiavi" è ancora frequente, dove le famiglie povere del Nord vendono . con regolari contratti . le loro figlie ai magnaccia degli infiniti bordelli di questa nazione in cui la prostituzione è formalmente illegale. In qualche modo questi fatti non creano qui grande scandalo, nè tante reazioni ufficiali, specie a lun ga scadenza. Sarà così anche dopo che le ragazze delle bambole saranno ritrovate fra le macerie. E successo lo stesso coi più di cento morti bruciati vivi nel centro di Bangkok tre anni fa perchè un camion carico di gas liquido viaggiava in mezzo al traffico in barba a tutte le minime precauzioni. Ogni anno, a causa della mancata applicazione di normali regole di sicurezza, ci sono in Thailandia almeno 90.000 casi di infortuni sul lavoro. Molti sono mortali. Ma nessuno protesta. Quando i gener ali fecero il loro ennesimo colpo di Stato nel febbraio del 1991, c'era in Thailandia un giovane dirigente operaio che godeva di crescente popolarità. Un giorno, dopo che i militari installarono il loro governo, quel giovane scomparve. Nessuno è mai riuscito a spiegare come e dove, ma sua moglie si considera da allora una vedova. Tiziano Terzani Dalla prima pagina

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domenica , 23 maggio 1993 Dopo un conflitto di vent' anni e un milione e mezzo di morti si aprono le urne sotto la tutela dell' ONU "Votiamo e poi sara guerra a Pol Pot"

di Terzani Tiziano

Oggi elezioni in Cambogia, ma i khmer rossi tengono lontana la pace PHNOM PENH. D'un tratto s'è fatto silenzio. Non si sentiva che lo strusciare delle ciabatte sull'asfalto, i l mormorio sommesso delle preghiere e questa città rumorosa, cinica, violenta, rapace e senza cuore s'è come fermata a riflettere, per un attimo commossa, dinanzi a una delle più spontanee manifestazioni popolari avvenute di recente: la marcia per la pace. Alla testa del corteo c'erano alcune centinaia di bonzi, nei loro sai arancione, poi migliaia di donne, suore buddiste nei loro abiti bianchi, contadine con le lunghe gonne di vecchia seta nera; ognuna con una ghirlanda di gelsomini o delle ba cchette d'incenso nelle mani giunte; tutte con un'unica, semplicissima preghiera: la pace. Negli ultimi giorni a Phnom Penh ci sono stati i comizi spettacolo dei grandi partiti, ci sono state le ultime dichiarazioni elettorali dei grandi dirigenti politici, ma nessuna manifestazione come questo silenzioso passare di alcune migliaia di donne semplici, di campagna, le solite vittime di tutti i conflitti, venute, molte da province lontane, nella capitale a chiedere quel che tanti hanno promesso, ma che nessuno è stato finora capace di dare a questo povero, disperato Paese: la pace. Negli Anni Sessanta, quando il resto dell'Indocina era già in fiamme, Sihanouk promise di tenere la Cambogia fuori dalla guerra e neutrale. Non ci riuscì e nel 1970 venne rovesciato dal generale Lon Nol con un colpo di stato di destra sobillato dagli americani. Furono allora i khmer rossi a promettere la pace, una volta che il regime di Lon Nol fosse stato rovesciato e la rivoluzione avesse vinto. La loro " pace" costò il massacro di circa un milione e mezzo di cambogiani, vittime della utopia sanguinaria di Pol Pot che credette di dar vita ad una nuova Cambogia, affogando la vecchia in un bagno di sangue. Nel 1979, quando i vietnamiti entrarono nel Pae se per rovesciare Pol Pot e mettere al suo posto un governo pro Hanoi (quello che oggi è diretto da Hun Sen), le promesse di pace furono rinnovate, ma quel che seguì fu una nuova guerra. I khmer rossi erano praticamente alle corde e sul punto di esse re spazzati via, ma una strana alleanza fra Pechino, Washington e i Paesi anticomunisti del sud est asiatico, con la complicità “umanitaria" del mondo occidentale, ridette vita ai guerriglieri assassini di Pol Pot e ne fece il nucleo portante di una resistenza anti Phnom Penh a cui si unirono i monarchici diretti da Sihanouk e da suo figlio Ranariddh e i repubblicani guidati da Son Sann. La guerra così continuò per altri dieci anni e costò ai cambogiani

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altre decine di migliaia di morti. Final mente due anni e mezzo fa la comunità internazionale decise di intervenire nel conflitto e, dopo mesi di negoziati, le quattro fazioni combattenti firmarono gli Accordi di Parigi. Alla fine del 1991 le Nazioni Unite vennero mandate qui per quella che è stata definita la più ambiziosa e la più costosa missione nella storia dell' organizzazione: riportare la pace in Cambogia. Quella promessa, fatta nelle sale del Palazzo di Vetro, sottolineata dalle Grandi Potenze nel Consiglio di Sicurezza, par ve ai cambogiani più sacrosanta e più credibile di tutte le promesse precedenti, ma anche questa s'è rivelata una immensa delusione: invece della pace le Nazioni Unite hanno dato alla Cambogia... delle elezioni. Da oggi e per cinque giorni quattro milioni e settecentomila cambogiani, dovutamente registrati da modernissimi computers, si presenteranno nei 1430 seggi elettorali sparsi per il Paese a scegliere fra i candidati di venti partiti i 120 membri di un nuovo Parlamento che entro tre mesi varerà una Costituzione e che nominerà un nuovo governo. Sulla carta tutto sembra perfetto, ma la gente qui ormai ha capito che ha solo da aspettarsi il peggio. Secondo il loro mandato, alla fine di agosto le Nazioni Unite ritireranno i loro 22.000 militari e civili e la Cambogia sarà lasciata a se stessa. In pace? Niente affatto. Basta vedere le condizioni in cui si svolgono le elezioni per capire che le Nazioni Unite finiranno per lasciare un Paese in condizioni peggiori di quelle in cui lo hanno trovato. Innanzitutto non c'è più una sola Cambogia, ma due: una controllata dal governo di Phnom Penh e dal suo primo ministro Hun Sen, e una controllata dai khmer rossi e dal loro capo storico, Pol Pot. Per giunta la Cambogia di Phnom Penh è ora infiltrata dai khmer rossi come certo non lo era un anno fa. Quanto alle elezioni, anche se si svolgeranno più o meno tranquillamente, nonostante le minacce dei khmer rossi di sabotarle (anche ieri hanno sparato uccidendo due Caschi blu cinesi) , non risolveranno il problema di fondo del Paese, ma segneranno solo l'inizio di un nuovo conflitto. La ragione è semplice: gli Accordi di Parigi erano fondati sull'idea di una riconciliazione nazionale che avvenisse dopo il disarmo delle varie fazi oni. Questo disarmo non c'è stato; tanto meno la riconciliazione. Gli Accordi di Parigi sono stati violati dai khmer rossi subito dopo essere stati firmati e le Nazioni Unite, invece di denunciare questo fallimento, intervenendo per modificare la sit uazione o magari anche ritirandosi dal Paese, hanno scelto di andare avanti come se niente fosse e hanno voluto realizzare la fase finale degli Accordi (vale a dire le elezioni), nonostante la fase più importante, quella iniziale del disarmo generale , non fosse stata realizzata. E così che le elezioni hanno ora luogo solo nell'80% del territorio nazionale (quello controllato dal governo di Phnom Penh), che sono ben lontane dallo svolgersi nel clima “pacifico e neutrale" prescritto dagli accordi e che mettono l'elettore cambogiano dinanzi a una falsa scelta. Nonostante i partiti siano venti e alcuni di questi riusciranno a far eleggere dei loro candidati, quelli che contano sono due ed è su questi che convergerà

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la maggioranza dei voti: il partito di Hun Sen (l'ex partito comunista ora ribattezzato Partito cambogiano del popolo) e il partito del figlio di Sihanouk, il Funcinpec (dalle iniziali in lingua francese dell'organizzazione). A parte le diversissime origini ideologiche, la g rande differenza fra i due partiti, agli occhi della gente, oggi, è quella che gli stessi capi partito hanno sottolineato nella loro campagna elettorale: il Partito cambogiano del popolo, nemico mortale dei khmer rossi non è disposto ad accettare alc un compromesso coi guerriglieri ed è deciso a battersi perchè Pol Pot non torni, sotto alcuna forma di potere; il Funcinpec, invece ex alleato dei khmer rossi nella resistenza, è per la riconciliazione nazionale ed è disposto, dopo le elezioni, a for mare un governo di coalizione in cui i khmer rossi siano rappresentati. A prima vista sembra dunque che un voto per Hun Sen sia un voto per la guerra, mentre uno per Ranariddh sia un voto per la pace, ma è ovvio che in questo senso la scelta è mal posta perchè ridare anche una minima parte di potere agli uomini responsabili dell'olocausto cambogiano non è certo una garanzia di pace. I recenti attacchi dei khmer rossi hanno ricordato alla gente quanto reale fosse la minaccia militare dei guerri glieri di Pol Pot e hanno certo convinto molti cambogiani a votare per Hun Sen nonostante non abbiano alcuna simpatia per il suo partito dalla struttura e dalla storia totalitaria. “E il solo ad avere i fucili con cui difenderci da Pol Pot", dice la gente. LA SCHEDA La Cambogia è uno dei Paesi più poveri del mondo: gli otto milioni di abitanti guad agnano in media 110 dollari a testa all'anno. Nella capitale Phnom Penh, che era stata completamente spopolata dai khmer rossi nel 1975, vivono ora un milione di abitanti. La maggior parte della popolazione è distribuita nelle campagne e, grazie al s ostegno delle agenzie internazionali impegnate nei programmi di ricostruzione, l'anno scorso ha prodotto due milioni di tonnellate di riso e altri cereali, riportando il Paese sulla soglia dell'autosufficienza alimentare. L'Unhcr, l'Alto commissari ato dell'Onu per i rifugiati, ha rimpatriato con uno sforzo straordinario poco meno di 400 mila profughi dai campi ai confini con la Thailandia. Ma i piani di reinserimento sono ostacolati dalle mine piazzate dalle fazioni in lotta durante i vent'ann i di guerra civile. Si calcola che sui 190 mila chilometri quadrati di territorio siano stati disseminati tra i due e i dieci milioni di ordigni. Ci vorranno almeno dieci anni di pericoloso lavoro per bonificare il Paese (se la pace reggerà). Un al tro incubo che incombe sulla Cambogia è quello del disastro ecologico per lo sfruttamento selvaggio delle foreste tropicali. Solo l'anno scorso sono stati completamente privati degli alberi 1,2 milioni di metri quadrati di territorio. Ancora una volt a sono i khmer rossi, che controllano le zone a Nord e a Ovest del Paese, in testa a questo dissennato commercio. I khmer rossi vendono il legname pregiato ai thailandesi e in cambio ricevono soldi, rifornimenti e armi. Si calcola che di questo passo entro cinque, dieci anni al massimo la Cambogia sarà spogliata di questa

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ricchezza con conseguenze tragiche per l'ecosistema. Da queste elezioni, per le quali l'Onu ha registrato 4,7 milioni di cittadini, uscirà un'assemblea costituente di 120 dep utati. Tra i venti partiti, sono favoriti i governativi del Partito del popolo, seguiti dal Funcinpec, guidato da un figlio di Sihanouk.

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mercoledi, 28 aprile 1993 Sono cominciati a Singapore i colloqui tra le delegazioni di Taipei e Pechino. E’ il primo incontro dal 1949 Le due Cine in marcia verso l' unita

di Terzani Tiziano

Le due Cine in marcia verso l'unità Comunisti e nazionalisti cercano di ricucire le ferite della storia. SINGAPORE. I cinesi hanno un proverbio per ogni situazione. Uno che amano citare spesso è quello che dice: “Anche un viaggio di diecimila miglia comincia con un primo passo". Ebbene il primo, proverbiale passo di uno storicissimo viaggio, che i cinesi ricorderanno per generazioni, è stato fatto qui, a Singapore, città totalitaria e bottegaia, ma anche . non va dimenticato . sempre di più città cinese. Il viaggio è quello verso la riunificazione della Cina. Al ventiseiesimo piano di uno dei tanti grattacieli con vista sul secondo porto del mondo, una delegazione di Taipei e una di Pechino hanno cominciato a incontrarsi per discu tere problemi “di comune interesse". E la prima volta che questo avviene dal 1949, quando i guerriglieri di Mao Tsetung presero il potere in Cina e i resti dell'esercito nazionalista di Chiang Kai Shek dovettero, sconfitti, rifugiarsi a Taiwan. D a allora la Cina è stata divisa in due tronconi separati da uno stretto braccio di mare: da un lato il grande, povero continente comunista, dall'altro la piccola, ma progressivamente sempre più ricca isola nazionalista; cinesi contro cinesi, pronti o gni momento a riprendere attivamente la sanguinosa guerra civile cominciata negli anni Venti e formalmente mai finita. Dal 1949 in poi sia il governo di Taipei sia quello di Pechino hanno preteso ognuno di essere il governo legittimo dell'intera Ci na e ognuno a suo modo ha giurato di voler andare prima o poi a “liberare" quella parte di “madrepatria" che sfuggiva al suo controllo. Questa situazione di tensione che a volte, come nel 1957, sembrò dover coinvolgere anche le Grandi Potenze, è sbol lita col passare degli anni, con lo scambio inufficiale di visite private e recentemente con massicci investimenti di Taiwan nella provicia di Fukien. Il sogno di Deng Restava però il fatto che i due governi continuavano a ignorarsi e a proclamar e di non voler avere niente a che fare l'uno con l'altro. Con l'incontro di Singapore le cose cambiano radicalmente; comunisti e nazionalisti si parlano, implicitamente si riconoscono e con questo si avvia il processo che prima o poi porterà le “du e Cine" ad essere riunite. Era stato il grande sogno di Chiang Kai shek, morto senza realizzarlo; è il grande sogno di Deng Xiaoping che potrebbe fare ancora in tempo a vederlo coronato. L'uomo che ha avuto un notevole ruolo nel rendere possibile q uesto incontro e che offerto la sua città, Singapore, come, palcoscenico per questo nuovo capitolo di storia cinese, è Lee Kuan

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Yew, formalmente non più primo ministro, ma ancora l'indiscusso uomo forte di questa isola orwelliana dove tutto funziona, dove tutto è regolato, dove tutto è sterilmente perfetto compresa la docilità dei suoi due milioni e mezzo di abitanti, in stragrande maggioranza cinesi. Il fatto che questi colloqui fra cinesi comunisti e nazionalisti avvengano nel territorio di un piccolo Stato indipendente, ma sostanzialmente cinese, ha di per sè un suo grande significato e alcune conseguenze. A parte il miliardo e trecento milioni di cinesi che vivono sul Continente e la ventina di milioni che vivono a Taiwan, ci sono a ncora circa 40 milioni di cinesi che vivono nei vari Paesi dell'Asia dove, pur come minoranze a volte anche perseguitate, controllano gran parte delle locali economie. Sono i cinesi della diaspora, i discendenti degli emigranti sfuggiti alle carestie e alle guerre del continente, una sorta di ebrei d'Oriente, vittime in passato di progrom e di discriminazioni nei Paesi d'adozione. Per questi cinesi della diaspora, identificati a volte come “la terza Cina", Singapore è una sorta di Svizzera, neut rale e sicura, mentre Lee Kuan Yew è un esempio di successo e di ispirazione. Per questo il processo di riunificazione cinese non riguarda solo i cinesi di Cina e quelli di Taiwan; riguarda anche loro, i cinesi della diaspora. Il capo della delegaz ione di Pechino l'ha detto senza mezzi termini: “A Singapore ci occuperemo di proteggere non solo gli interessi dei compatrioti di Taiwan, ma quelli dell'intera razza cinese". I barbari Bisogna ricordare la storia per capire, dal punto di vista c inese, il grande significato di quel che sta per avvenire. Da un secolo la Cina è stata umiliata e smembrata dall'intervento dei “barbari". Le grandi potenze europee dell'Ottocento fecero a gara a ritagliarsi delle loro enclaves in territorio cinese mentre il Giappone invase il continente e ci fondò un suo impero fantoccio, il Manchukuo. Le guerre dell'oppio e i vari interventi stranieri nei diversi conflitti interni hanno lasciato nella coscienza popolare cinese una penosa ferita che la incompi uta riunificazione e indipendenza del Paese hanno finora impedito di dimenticare. La Cina era sì diventata una grande potenza, una forza con cui il resto del mondo doveva fare i conti, ma Hong Kong, parte integrante del suo territorio, restava una colonia inglese, Macao restava governata dal Portogallo e l'isola di Taiwan restava separata dalla “madrepatria". Mao Tsetung con tutto il suo spirito nazionalista non era minimamente riuscito a mutare questa situazione. C'è riuscito invece Deng Xiao ping, avviando la soluzione di tutti questi problemi “lasciati dalla storia", come dicono i cinesi: gli inglesi sono stati costretti a restituire Hong Kong alla sovranità della Cina nel 1997; i portoghesi a rendere Macao nel 1999. Ora è la volta di T aiwan. I colloqui di Singapore sono il primo passo, ma il primo passo di un viaggio di dieci mila leghe che, agli occhi di tutti i cinesi, dentro e fuori dalla Cina, riscatterà finalmente la storia e riporterà il Paese a quello stato di unità, di forza e grandezza in cui non è stato da oltre un secolo. C'è già chi di questo si preoccupa. Tiziano Terzani

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sabato , 06 marzo 1993 Viaggio in Birmania lungo i 262 chilometri che i generali chiamano " la via del futuro ". Un' opera utile al regime per rompere l' isolamento Negli inferi del Triangolo d'oro

di Terzani Tiziano

Negli inferi del Trian golo d'oro Droga, schiave del sesso, prigionieri in catene sulla nuova Burmaroad. KENGTUNG (Birmania). Lungo la strada non ci sono cartelli pubblicitari, non ci sono pali della luce; solo squadre di uomini incatenati che spaccano le pietre. I villaggi che attraversiamo sono pieni di gente, ma gente muta perchè nessuno osa scambiare una parola con un estraneo. I muli, che sfilano via in lunghe carovane, h anno i loro strani carichi nascosti sotto pesanti teloni di incerato. Trasportano droga. Le poche macchine che si vedono sono senza targa. La strada sterrata, tutta buche e polvere, si inerpica per delle colline, passa per delle gole oscure, costeg gia un tumultuoso torrente e si inoltra sempre più in una delle regioni più remote, più misteriose e, fino a poco tempo fa, più impenetrabili del mondo. Il Triangolo d'oro; un nome affascinante per una terra che è all'origine della miseria di milioni di persone. È da qui che viene il 60 per cento dell'eroina venduta in Occidente. Per decenni questa regione della Birmania, un Paese chiuso su se stesso e retto da una orribile dittatura militare, è stata una zona di grande instabilità, contesa fr a guerriglieri e trafficanti, campo di battaglia fra esercito nazionale e minoranze etniche. Per uno straniero era praticamente impossibile entrare in questa regione che a Sud confina con la Thailandia, a Est con il Laos, a Nord con la Cina. Da alcun e settimane le cose sono cambiate. Al posto di frontiera di Tachilek, dinanzi alla città thailandese di Mae Sai, il vecchio cartello che diceva: “Stranieri state lontani. Chi viene colto dopo questo punto rischia di essere fucilato", è stato sostitui to con un altro, a grandi lettere rosse: “Turisti! Siate benvenuti", e questa strada, larga appena tre o quattro metri, è diventata la prima via di comunicazione della Birmania con il resto del mondo: 172 chilometri da Tachilek a Kengtung, l'antica, favolosa capitale del Triangolo d'oro, altri 90 fino alla provincia cinese dello Yunnan. Alcuni la chiamano già la nuova “Burmaroad", in ricordo della straordinaria mulattiera di oltre mille chilometri con cui dalla Birmania, allora in mano agli in glesi, venne tenuta in vita la resistenza anti giapponese in Cina nella prima fase della Seconda guerra mondiale; altri l'hanno battezzata “la strada dell'Aids" perchè è da qui che ora centinaia di giovanissime ragazze birmane e cinesi vengono traspo rtate nei bordelli della Thailandia, dove presto cadono vittime della malattia. Per i generali che oggi, col terrore, governano la Birmania, questi 262 chilometri sono “la via del futuro" in quanto permettono loro di

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arricchirsi e di restare al pot ere, togliendo il Paese dal suo isolamento. Per il momento “la strada del futuro" birmano è una strada di sofferenza e di orrori. Per aprirla i militari hanno usato il lavoro forzato di migliaia di prigionieri ed è con i prigionieri . i più incatenat i, molti giovani studenti arrestati durante le manifestazioni per la democrazia del 1988 . che la strada viene ora mantenuta praticabile. A usarla sono soprattutto contrabbandieri, magnaccia e narcotrafficanti. La logica dietro l'apertura della str ada è semplice. Nel 1988, quando i generali fecero il loro colpo di Stato, massacrarono qualche migliaia di dimostranti e misero la signora Aung San Sun Kyi agli arresti domiciliari, invece che cederle il potere vinto alle regolari elezioni, la Birma nia era un Paese allo stremo, congelato nel passato, isolato e senza più un soldo. I generali capirono che l'unico modo per sopravvivere era di svendere le risorse naturali del Paese. Per far questo avevano bisogno di una strada e la strada ideale er a quella capace di collegare con i due Paesi vicini e complici: Cina e Thailandia. Mentre la comunità internazionale condannava i crimini della giunta di Rangoon, conferiva il premio Nobel per la pace ad Aung San Sun Kyi e ne chiedeva la libertà, i dirigenti di Pechino e di Bangkok facevano grandi affari con i nuovi dittatori. Il Triangolo d'oro era una delle regioni con alcune delle ultime grandi foreste della Birmania. Ora si vede a malapena un grande albero ancora in piedi. Delle aziende le gate ai militari Thai avevano ottenuto la concessione per l'intera zona a Sud di Kengtung; delle aziende della Cina Popolare per quella a Nord. Perchè lo sfruttamento del Triangolo d'oro avvenisse senza incidenti, i generali di Rangoon avevano dovu to pacificare l'intera regione. Per questo ebbero un'idea brillantissima. I nuovi dittatori mandarono loro emissari a incontrare i capi ribelli con un messaggio uguale per tutti: “Non fate la guerra. Fate affari. Qualsiasi tipo d'affari e noi non ci immischieremo". Nessuno ha rifiutato. I guerriglieri comunisti, non più appoggiati da Pechino, si sono dati alla coltivazione dell'oppio, i Wa, un tempo cacciatori di teste, al contrabbando, e la nuova strada viene ora usata senza più pericolo per og ni sorta di traffico da quello delle antichità a quello delle ragazze, da quello della giada a quello delle auto. Ogni giorno una colonna di macchine nuovissime e senza targa passa la frontiera Thai e si dirige verso la Cina. Sia i guidatori sia gl i uomini della scorta sono Wa. Per ogni auto che transita i militari birmani si fanno pagare 1.200 dollari. Per ogni auto che i Wa consegnano ai contrabbandieri cinesi incassano 10.000 dollari. Sulla via del ritorno portano mercanzie cinesi e birmane . A 23 chilometri da Tachilek c'è uno strano villaggio in cui tutti gli uomini hanno un walkie talkie e una pistola sotto la camicia. È il punto di raccolta di tutta l'eroina prima che venga consegnata ai trafficanti thailandesi che la portano oltre frontiera. L'industria della droga è ora in pieno boom. Nel 1988 nel Triangolo d'oro c'erano solo 90.000 ettari di terra coltivati a papaveri; quest'anno sono 160.000. I risultati del nuovo benessere si incominciano a vedere dovunque. “Le

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case nuov e sono quelle delle famiglie che hanno delle ragazze a lavorare in Thailandia", dice un residente di Kengtung. Il traffico delle ragazze è in mano a delle bande di Thai che, con l'aiuto dei militari birmani, vanno di villaggio in villaggio a sceglier e le giovani più carine . spesso di appena 13 o 14 anni . da avviare all'industria del sesso. Con l'apertura della strada i militari birmani hanno ripreso il completo controllo della regione. Dovunque si vedono nuove caserme; le colline attorno a K engtung sono occupate dall'esercito e la città stessa ha una fortissima presenza dei temutissimi uomini in uniforme. La Birmania ha oggi un esercito di circa 300.000 uomini, ma i generali di Rangoon vogliono portarne gli effettivi a mezzo milione. Pe r difendersi da chi? Dal loro stesso popolo che, nonostante la spaventosa repressione, continua a considerare Aung San Sun Kyi un'eroina. Anche qui, come nel resto del Paese, i democratici ottennero la maggioranza nelle elezioni e anche qui la dittat ura birmana continua a pretendere che il partito della Aung San Sun Kyi esiste e che i suoi membri possono esercitare i loro diritti. Kengtung è una vecchissima città situata in una valle un tempo occupata da un grande lago. Secondo la leggenda qua ttro uomini venuti dalla Cina riuscirono a strappare la valle ai “draghi delle acque" e a fondare la città. Il primo edificio che eressero fu una pagoda in cui vennero posti otto capelli lasciati da Buddha al tempo del suo passaggio da qui. La pagoda , ricostruita e ingrandita attraverso i secoli, c'è ancora, splendida con la sua vetta d'oro. Anche i cinesi sono oggi, come allora, i più importanti esponenti fra i 30.000 abitanti della città. Controllano il commercio, hanno le migliori case e due di loro detengono il monopolio della droga nella regione di Kengtung. Sono due ex guardie rosse venute qui a combattere per la guerriglia maoista, e convertitesi agli affari. A Pechino i generali di Rangoon hanno i loro più stretti alleati. La deci sione di reprimere nel sangue le manifestazioni democratiche del 1988 e il massacro degli studenti a Rangoon trovò particolare comprensione fra i dirigenti di Pechino che l'anno dopo, seguendo praticamente quell'esempio, ricorsero alla stessa soluzio ne sulla Tienanmen. Da allora le relazioni fra la Cina e la Birmania sono strettissime. La Cina rifornisce i dittatori birmani delle armi più sofisticate del loro arsenale (per un valore di circa un miliardo e duecentomila dollari) e la Birmania cont raccambia aiutando la Cina a perseguire la sua spinta strategica verso l'Asia del Sud Est e a stabilire una sua presenza nel Golfo del Bengala. La nuova strada attraverso la Birmania ha una enorme importanza per Pechino in quanto permette uno sbocc o vitale per l'industria dei beni di consumo che sta esplodendo nel Sud della Cina e lega il sistema di comunicazioni terrestri cinese con quello sviluppatissimo della Thailandia. Non c'è dubbio che la Cina ora spinge perchè presto la polverosa strad a sterrata dei dittatori di Rangoon, dei trafficanti di droga e di ragazze, sia trasformata in una autostrada che andrà ininterrottamente da Hong Kong, Canton e Kunming, attraverso la Birmania, la Thailandia e la Malesia fino a Singapore. La Thaila ndia

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stessa, che aspira a diventare il centro economico e di comunicazioni del Sud Est asiatico, è interessatissima a questo sviluppo e sta facendo grandi investimenti. Il generale Ne Win aveva giustificato la sua dittatura e la politica di isolament o della Birmania con l'idea che solo così la cultura del Paese e il modo di vivere della gente potevano essere protetti. I dittatori che gli sono succeduti hanno rinunciato a quella politica e il Paese non è in grado di resistere allo sfruttamento ec onomico e alla invasione culturale dei suoi vicini. Tachilek, primo lembo birmano appena varcata la frontiera, è già uno specchio di questi mutamenti: la cittadina ha 14 casinò, l'eroina è in vendita apertamente; i migliori ristoranti, due discoteche e il primo supermercato sono posseduti dai thailandesi. La Birmania sta sì, uscendo dal suo passato, ma la strada che le è stata aperta verso il futuro è, per ora, rivoltante.

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sabato , 06 febbraio 1993 L' analisi. la piu grande operazione dell' organizzazione internazionale naufraga nell' ambiguità Cambogia, macchia per l' Onu

di Terzani Tiziano

La più grande operazione dell'organizzazione internazionale naufraga nell'ambiguità. Si va verso la spartizione del Paese: i famigerati khmer rossi controllano un quinto del territorio. L'obiettivo di una pace giusta è completamente dimenticato, le elezioni saranno una foglia di fico. PHNOM PENH. Le foglie di fico della diplomazia non bastano più. L'operazione di pace delle Nazioni Unite in Cambogia sta fallendo e con ciò si dimostra illusoria la speranza che l'organizzazione internazionale, almeno così come è strutturata oggi, sia in grado di risolvere i grandi conflitti del momento e che il “nuovo ordine" del mondo sia un ordine fondato su un minimo di giustizia e di decenza. Con l'annuncio, ora formale, che i khmer rossi di Pol Pot non parteciperanno alle elezioni previste per maggio e con la dec isione delle Nazioni Unite di accettare questo rifiuto e di procedere comunque al voto, la Cambogia viene condannata ad essere praticamente divisa in due e il Paese, già profondamente avvilito da più di vent'anni di guerra, sta per essere gettato di nuovo nell'abisso di un conflitto civile. Il tutto . questa volta . con l'aiuto delle Nazioni Unite. L'organizzazione internazionale, impegnandosi a far applicare gli accordi di Parigi e ad amministrare la Cambogia durante il periodo di transizione, s'era coinvolta nella più ambiziosa e più costosa operazione della sua storia. Le ragioni del fallimento sono varie. Innanzitutto gli accordi stessi che stabilivano una precisa tabella di marcia per portare il Paese dalla guerra alla pace, ma che n on prevedevano alcuna sanzione per chi non rispettasse le regole. I khmer rossi hanno violato gli accordi fin dal primo giorno della loro applicazione, rifiutando ad esempio di far entrare i funzionari dell'Onu nelle zone sotto il loro controllo, ma non hanno per questo subito alcuna conseguenza. Secondo gli accordi il percorso di pace consisteva di varie tappe (disarmo dei combattenti, rimpatrio dei rifugiati, registrazione della popolazione ed elezioni), ma solo il superamento di una poteva permettere il passaggio alla successiva. È bastato che i khmer rossi si rifiutassero . di nuovo impunemente . di disarmare i loro uomini, e tutto il castello di carta degli accordi è crollato. La diplomazia ha preteso che questo fosse un problema da poco e che il processo di pace potesse andare avanti. “Il rimpatrio dei profughi è un successo", affermano i funzionari dell'Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr). Sì, i cambogiani scappati in Thailandia sono stati

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fatti rientrare, ma stanno d i nuovo in campi profughi perchè le risaie in cui avrebbero dovuto andare a vivere non sono state sminate, visto che i vari eserciti restano sul piede di guerra. “La registrazione dei votanti procede benissimo", dicono i funzionari dell'Onu incaric ati di organizzare le elezioni generali. Ma a che serve avere i nomi di centinaia di migliaia di cambogiani nei computer quando il Paese è praticamente ancora in mano ai soldati delle varie fazioni che con le loro armi intimidiscono, ricattano e mina cciano gli elettori? Il fatto è che senza aver realizzato la prima e la più importante fase degli accordi, quella del disarmo, tutte le fasi successive non contano, anche se in apparenza vengono messe in atto. I diplomatici e i funzionari dell'Onu ora insistono che le elezioni si faranno e che con questo l'Onu avrà svolto la sua funzione. Ma l'intervento dell'Onu non era inteso a organizzare delle elezioni, ma a realizzare degli accordi di pace di cui le elezioni dovevano essere una delle cons eguenze. Permettendo ai khmer rossi di non disarmare prima e di intraprendere poi . di nuovo impunemente . una escalation di attacchi contro i Caschi blu, le Nazioni Unite hanno abdicato a tutta la loro autorità e son finite per essere poco più che degli impotenti ostaggi dei khmer rossi. “Siamo qui a mantenere la pace, non a imporla", dicono i funzionari Onu a Phonm Penh. Bastano queste distinzioni per spiegare a otto milioni di cambogiani che i Caschi blu, nella cui presenza avevano così tan to sperato, sono serviti solo a rafforzare la posizione degli uomini di Pol Pot? Dall'entrata in vigore degli accordi di Parigi i khmer rossi hanno allargato le zone sotto il loro controllo: avevano il dieci per cento del territorio nazionale, ora ne hanno il venti. Il fatto è che i khmer rossi, invece d'esser trattati come dei criminali e d'esser messi alla sbarra in un tribunale internazionale, accusati del massacro del popolo cambogiano, sono stati accettati dalla comunità internazionale co me legittimi partecipanti di una soluzione di pace. La ragione di fondo del fallimento delle Nazioni Unite è tutta qui; nel fatto che gli accordi di Parigi hanno messo sullo stesso livello i boia e le loro vittime e hanno, per soddisfare le esigenze di tutte le forze in campo, accettato loro stesse il principio di una pace senza giustizia. Il fatto è che l'Onu non esprime dei principi di legittimità internazionale o una sua moralità, ma semplicemente gli interessi dei suoi membri più potenti. Come poteva la Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza, protettrice da sempre di Pol Pot e dei khmer rossi, accettare una soluzione di pace che li escludesse? E come avrebbero gli Stati Uniti, che continuano a combattere la loro guerra con tro il Vietnam, pur persa nel 1975, accettare una soluzione che premiasse il governo pro vietnamita di Phnom Penh? Da qui i compromessi, la rinuncia a un minimo di decenza. La corsa è ora a trovare una formula per salvare la faccia. I Paesi dell'As ean (con in testa la Thailandia, che ha sempre sostenuto i khmer rossi e che continua a farlo oggi traendo enormi profitti dal traffico del legname e dei rubini con i guerriglieri di Pol Pot) cercano di dar vita ad un governo di coalizione di cui i k hmer rossi sarebbero

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parte: un passo assolutamente contrario allo spirito e alla lettera degli accordi di Parigi. Sihanouk si offre come candidato unico per delle elezioni presidenziali che gli accordi di Parigi non hanno affatto previsto e che in ve rità verrebbero a negare il valore e lo spirito di quelle per un nuovo parlamento. Gli elettori cambogiani, a cui i volontari delle Nazioni Unite da mesi stanno spiegando che cosa è la democrazia e come si ha il diritto di scegliere fra vari candidat i, andrebbero alle urne per dare il proprio assenso al solito unico candidato. La soluzione più probabile è che le elezioni presidenziali si faranno, ma contemporaneamente a quelle per il parlamento; e si faranno solo nelle zone controllate dal gover no di Phnom Penh, perchè la Cambogia dei khmer rossi è già un Paese a sè. Una soluzione vale l'altra, ora che l'obiettivo vero delle Nazioni Unite, la pace, è dimenticato e che tutta l'operazione sembra ormai intesa a trovare una foglia di fico più grossa delle altre per poter coprire la vergogna di questo fallimento e lasciare la Cambogia al suo destino.

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martedi , 22 dicembre 1992 E Bangkok celebra Silpa il fiorentino

Terzani Tiziano

Nato cent'anni fa in Italia, lo scultore Corrado Feroci ha avuto una prodigiosa fortuna in Thailandia: oggi è venerato quasi come un dio TITOLO: E Bangkok celebra Silpa il fiorentino Emigrò nel regno del Siam nel '23 e riformò l'arte del Paese. Per il centenario della nascita ora si danno grandi feste. Gli studenti lo invocano prima degli esami. Ma quasi nessuno ricorda da dove veniva. BANGKOK Firenze, dove nacque, nessuno se lo ricorda, ma in Thailandia, dove morì, ne hanno fatto un Dio. La sua memoria qui è veneratissima, la sua statua nel cortile principale dell'Università delle Belle Art i è sempre circondata di fiori, il museo aperto in suo nome è un commovente reliquiario di tutto quello che “il professore" in vita sua fece e toccò. Anche i thailandesi però, nella loro venerazione del “professore", dimenticano qualcosa: che era ita liano e che il suo vero nome era Corrado Feroci. In Thailandia Feroci, venuto qui come scultore di corte agli inizi degli Anni Venti, è conosciuto come Silpa Bhirasri, nei libri di storia si parla di lui, Silpa Bhirasri, come del fondatore dell'art e moderna thailandese e quando, due settimane fa, la qui amatissima figlia del re, la principessa Sirindhorn, è andata ad inaugurare le grandi celebrazioni del centenario della nascita del “professore", nei discorsi ufficiali si è parlato esclusivame nte di questo Silpa Bhirasri, che solo dalle foto . si capiva . di thailandese aveva ben poco, a parte quel nome. La storia di Feroci e della sua avventura nel regno del Siam (così si chiamava allora la Thailandia) è interessante nel quadro del con tinuo, contraddittorio e spesso frustrante tentativo di dialogo fra Occidente ed Oriente. E una storia che va vista sullo sfondo della spinta dell'Asia a voler essere moderna alla maniera europea e della sua pretesa di accorciare la strada andandos i a comprare, come fossero dei mercenari, i portatori di quella modernità. Il fenomeno cominciò nel secolo scorso quando l'Occidente, con le sue navi ed i suoi imbattibili cannoni, bussò alle porte dell'Asia e pretese dei privilegi coloniali. Il Giap pone, importando tecnici, militari, giuristi ed amministratori occidentali, nel giro di pochi anni divenne uno Stato moderno e presto fu lui stesso una potenza coloniale. Nel Siam, in piccolo, successe qualcosa di simile. Il Paese era sottoposto alla pressione di due imperi coloniali, fra loro rivalissimi: ad oriente quello francese, d'Indocina, ad occidente quello inglese dell'India e delle sue dipendenze. Per evitare di cadere sotto l'influenza dell'uno o dell'altro, la corte di Bangkok andò a cercare in un Paese europeo neutrale i suoi mercenari missionari di modernità. E così, per ragioni geo politiche, che la scelta cadde sugli italiani. Ne vennero alcune decine; soprattutto

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architetti ed ingegneri. Molti erano piemontesi. Il re Chulal angkorn era stato due volte ospite a Torino e voleva che in qualche modo la sua capitale, Bangkok, allora una fatiscente città di legno su dei canali, acquistasse un pò di quella monumentale austerità che lo aveva così tanto colpito nella prima capit ale italiana. Ègrazie all'opera degli italiani che la “città degli angeli" (questo il significato di Bangkok) fra la fine dell'Ottocento e l'ultima guerra ha cambiato letteralmente faccia. Tutti i maggiori edifici in pietra della città, dal Palazzo dove risiede il re a quello del Parlamento, i principali ponti ed i principali monumenti del centro storico furono progettati, costruiti, affrescati e decorati dagli italiani. Dopo le grandi dimostrazioni di maggio ed il massacro, da parte dell'es ercito di alcune decine di giovani, il Monumento alla Democrazia attorno al quale avvennero gli scontri più violenti è diventato il simbolo della nuova coscienza della Thailandia. Pochi si ricordano che anche quel monumento fu fatto da un italiano, a ppunto da Corrado Feroci. Feroci era nato il 15 settembre 1892 a Firenze in una vecchia casa poco lontano dal Duomo. La madre era una Papini ed il padre un anarchico che, quando non era in galera per le sue idee politiche, gestiva una piccola mesci ta di vini. Il giovane Feroci cominciò a modellare la creta che trovava sulle sponde dell'Arno, fu preso come allievo in una bottega di artigiani e da lì passò all'Accademia dove finì per insegnare. Di lavoro da scultore non ne aveva molto ed a parte un monumento ai caduti a Portoferraio, in Italia non resta molto di quel suo primo periodo. Nel 1922 Feroci vide un bando di concorso. La corte del Siam cercava artisti in grado di disegnare monete, cercava ritrattisti ed i soliti architetti ed in gegneri. Lui fece domanda come scultore, venne accettato e nel gennaio 1923 salpò per Bangkok. I primi tempi furono duri, il ministro incaricato dei “farang", gli stranieri, non aveva molta simpatia per questo fiorentino che, appena arrivato, chies e d'avere uno studio in cui le finestre dovevano essere grandi e la luce doveva cadere dall'alto, e lo lasciò senza far nulla. La storia venne alle orecchie del principe Naris, fratello del re Chulalangkorn, il quale impiegò il Feroci commissionandog li il proprio busto. Quando questo fu finito, il principe Naris, entusiasta dell'opera, invitò il ministro dei “farang" a vederla; quello capì che Feroci aveva trovato un potente protettore e che non andava più ostacolato. Nel giro di pochi giorni il Feroci ebbe lo studio esattamente come lo voleva, un anno dopo fu nominato scultore del Dipartimento Reale; dieci anni dopo fondò l'Accademia delle Belle Arti, divenuta in seguito l'Università Silpakorn, il più grande centro di formazione per artist i della Thailandia. Sempre grazie alla protezione del principe Naris e alla sua crescente fama di insegnante e di scultore, Feroci ricevette, una dopo l'altra, le ordinazioni per tutti gli importanti monumenti di cui la Bagkok moderna si adornava. La maggior parte delle statue di re e guerrieri thailandesi sotto le quali i turisti stranieri vanno oggi a fotografarsi sono opere del Feroci. Nel 1943 Feroci, che in vent'anni era tornato solo due volte in Italia (una volta per far

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fondere a Fire nze la statua di Rama Primo), dopo l'8 settembre, come cittadino di una potenza nemica, venne arrestato dai giapponesi che occupavano la Thailandia e messo in campo di concentramento. I suoi protettori a corte cercarono in vari modi di liberarlo, ma l'unica scappatoia possibile fu quella di farlo diventare cittadino thailandese. Lui accettò ed è così che Corrado Feroci diventò Silpa Bhirasri. Nel 1949, un pò per nostalgia ed un pò per le difficili condizioni economiche in cui si trovava in Tha ilandia, cercò di ristabilirsi e di lavorare a Firenze, ma l'esperimento non durò più di qualche mese. Appena il governo di Bangkok gli offrì uno stipendio più alto di quello che aveva prima, Feroci tornò al suo studio dalle grandi finestre, ad un pa sso dal palazzo reale, ed ai suoi studenti. Tutti i maggiori pittori e scultori thailandesi contemporanei sono, quasi senza eccezione, stati suoi discepoli. Il suo più grande contributo è stato quello di introdurre nel sistema di insegnamento dell' arte in Thailandia l'idea del creare, del fare qualcosa di diverso da quello che è stato fatto tradizionalmente e poi copiato e ricopiato. Per questa forma di “liberazione", che per la cultura fiorentina di Feroci era assolutamente naturale, il mondo artistico di qui gli è estremamente grato ed ha fatto di Silpa Bhirasri il nume tutelare dell'arte moderna thailandese. In fondo, proprio con questo hanno finito per tradire il suo messaggio. Già negli ultimi anni della sua vita, andare alle sue l ezioni era un pò come andare in chiesa. Feroci parlava un thai grammaticalmente perfetto, ma la sua pronuncia era talmente rimasta toscana che pochi, tra gli studenti, capivano quel che diceva. Gli stavano però tutti davanti ammutoliti, come davanti a un oracolo. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1962, attorno alla figura di Silpa Bhirasri si è sviluppato un vero e proprio culto. E al suo “spirito" che gli studenti si raccomandano prima degli esami, è davanti alla sua statua di bronzo nel cortil e dell'Università che vanno ad inginocchiarsi e ad offrire bacchette d'incenso. Feroci, scultore fiorentino e modernista, è entrato nell'Olimpo degli spiriti buoni e protettori del Paese. Per rispetto al fatto che Silpa Bhirasri ha certo mantenuto anche nel mondo di là alcune sue abitudini . certo strane per un thailandese . ogni 15 settembre, anniversario della sua nascita, qualcuno, in mezzo alle profumatissime ghirlande di gelsomino, ai piedi della sua statua, mette anche un bel piatto di s paghetti.

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sabato , 19 dicembre 1992 Le elezioni di questo fine settimana a Taiwan e in Corea del Sud testimoniano il cambio di rotta che ora minaccia le ultime dittature L' Asia a lezione di democrazia

di Terzani Tiziano

Dal miracolo economico al voto: così cambia il continente dei despoti. TAIPEI. L'Asia sta imparando a votare. Di per sè il fatto che la gente sia chiamat a alle urne non vuol necessariamente dire una maggiore partecipazione popolare negli affari del mondo, ma le elezioni di questi giorni, in due Paesi in particolare . Taiwan e la Corea del Sud . hanno questo significato e sono l'indicazione di una ten denza che sta cambiando la faccia del continente: la democratizzazione. Tradizionalmente l'Asia è stata retta da regimi autoritari e dittatoriali ed anche i vari Paesi, nati dalle lotte d'indipendenza degli ultimi cinquant'anni . ad eccezione dell' India, caso tutto a sè ., hanno seguito questa regola. L'unica differenza è stata che i regimi dittatoriali di ispirazione socialista, tipo quello cinese, quello nord coreano e quelli dell'Indocina, sono stati incapaci di avviare un loro sviluppo eco nomico ed hanno presieduto su diverse ma ugualmente scoraggianti stagnazioni, mentre quelli ad indirizzo capitalista hanno creato le condizioni per i vari “miracoli", le esplosioni economiche e la nascita di tutti quei piccoli e grandi “draghi" che s ono stati il grande fenomeno dell'Asia più recente. Sotto l'egida di governi in vario modo indemocratici . da quello coloniale di Hong Kong a quello a partito unico di Singapore, a quelli militari della Corea del Sud e della Thailandia . si è assis tito alla realizzazione della formula “nessuna libertà politica, tutta la libertà economica" che dovunque s'è dimostrata di grande successo. Tenuti per il collo da mani di ferro . solo a volte guantate da apparenze democratiche come a Singapore . que sti Paesi hanno scavalcato la soglia del sottosviluppo e sono ora diventati il modello per quelli rimasti impantanati nel perseguimento di un sogno ideologicamente ora sconfitto: il socialismo. Non c'è dubbio che oggi Deng vuole per il miliardo e d uecento milioni di cinesi del continente quel che Lee Kuan Yew è riuscito a fare per i suoi pochi cinesi nell'isoletta di Singapore, quel che i “nemici" nazionalisti hanno fatto a Taiwan e quel che i dittatori fascisti hanno fatto nella Corea del Sud ; non vuol certo quel che il dittatore comunista Kim II Sung ha fatto nella Corea del Nord. Alla stessa conclusione stanno ora arrivando i vietnamiti. Quel che gli autocrati a Pechino come ad Hanoi son tutt'altro che pronti ad accettare sono le con seguenze di quel modello e di quei “miracoli". La Corea del Sud e Taiwan, con le loro elezioni di questo fine settimana sono un ottimo esempio di queste conseguenze. Per la prima volta dal dopo guerra non uno dei candidati che si

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presentano alle urne a Seul è un generale o un ex militare e per la prima volta nelle liste di Taipei sono rappresentate le varie tendenze politiche dell'isola nazionalista e personaggi che han passato un quarto di secolo in galera per le loro idee . compresa quella di una Taiwan indipendente dalla Cina . sono liberi di candidarsi e con molta probabilità anche di essere eletti. Quel che è successo è semplice. Per decenni il potere dittatoriale in questi Paesi ha detto alla gente: “Lavorate, arricchitevi e noi pen siamo al resto". Nel quadro prescritto dalle autorità che si preoccupavano di mantenere l'ordine e di mettere a tacere, spesso con inaudita brutalità, ogni voce dissidente, sono avvenuti i decolli economici, s'è formata ed è cresciuta una borghesia n azionale. Questa nuova classe, acquistando progressivamente forza e coscienza di sè, bussa ora alle porte delle varie dittature e queste, in un modo o nell'altro, accettano con saggezza tutta asiatica di farle posto. Il personaggio simbolo di tutto questo mutamento è uno dei candidati nelle elezioni presidenziali sudcoreane di domenica: Chun Ju yung, fondatore del gruppo Hyundai, grande industriale dell'auto, padrino del “miracolo" economico, ma fino a poco tempo fa dipendente lui stesso dalla protezione della dittatura. Accettando che Chun sia candidato ed eventuale presidente, i militari mettono fine al loro monopolio politico, fanno partecipare al potere la classe emergente ed allargano con ciò definitivamente lo spazio democratico del la Corea del Sud. Esattamente lo stesso avviene con le elezioni di Taiwan dove i cinesi nazionalisti, venuti dal continente, non sono più i dittatori di tutto e dove anche la democrazia si allarga a macchia d'olio. È un fenomeno questo che sta marc ando vari altri Paesi. In Thailandia, in mezzo alla folla che la scorsa primavera manifestava per le strade a favore della democrazia, si notavano moltissimi borghesi ben vestiti e tantissimi giovani yuppies con in pugno i loro telefoni cellulari; il massacro di Bangkok, voluto dai militari, non bastò a fermare la crescita politica di quella nuova classe ed ora il Paese è retto da un governo eletto democraticamente. A suo modo è anche per dare voce alla emergente giovane classe media cinese di Hong Kong che il nuovo governatore inglese, Chris Patten, vuol allargare la base rappresentativa delle istituzioni politiche della colonia prima che questa torni “nell'abbraccio della madrepatria" nel 1997. Non è un caso che la Cina abbia reagito violentemente a questa proposta e che ne parli come di una minaccia agli “interessi nazionali". È certo quel che Kim II Sung oggi pensa delle elezioni che avvengono nel Sud della sua penisola. Finchè i vari Paesi dell'Asia erano retti da dittatori ed erano ugualmente poveri, la propaganda di uno valeva quella dell'altro. Ma ora che alcuni di questi Paesi, diventati ricchi, diventano lentamente anche democratici, i dittatori che restano negli altri hanno dinanzi a sè tempi duri per giustificare la loro permanenza al potere.

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venerdi , 11 dicembre 1992 La crescita economica e militare delle due Cine mette in allarme i paesi dell' area . Il risveglio del dragone unito

di Terzani Tiziano

I cinesi di Pechino e Taiwan per gli affari dimenticano le rivalità HONG KONG. “Lasciatela dormire", diceva Napoleone della Cina e la paragonava a un drago che il giorno in cui si fosse svegliato avrebb e fatto tremare il mondo. Molti pensano che quel giorno è arrivato. L'Economist scrive che all'attuale, impressionante tasso di sviluppo (circa il 9 per cento da 14 anni), la Cina, già oggi la terza potenza economica del mondo (dopo gli Stati Uniti e d il Giappone), fra vent'anni sarà di gran lunga la prima: “Il più grande mutamento dopo quello rappresentato dalla rivoluzione industriale", scrive il settimanale inglese. Alcuni giorni passati nel Sud del paese, ad Hong Kong ed in vari paesi dell a regione confermano questa visione e danno un'idea dei primi tremori che questo risveglio del drago comporta. La prima considerazione è che le varie Cine di cui si parlava un tempo stanno scomparendo e che il drago diventa sempre più uno e forte. Imparato a distinguere Dal 1949, quando Mao Tsetung prese il potere a Pechino, il mondo aveva imparato a distinguere e a trattare in maniera diversa sostanzialmente tre Cine: quella comunista che controllava il continente, quella nazionalista che controllava l'isola di Taiwan e quella della diaspora, la Cina delle comunità di emigranti che da Singapore alla Thailandia, dalla Malesia alle Filippine controllavano le fila dell'economia del Sud Est asiatico. Quella distinzione quasi non esiste p iù e da un angolo all'altro dell'Asia cresce una nuova, sorprendente coscienza di razza che “unisce tutti i figli dell'imperatore giallo", qualunque siano i confini politici entro cui vivono. Un insolito, e per questo interessante, articolo su questa “unità fondata sulla razza" è uscito nei giorni scorsi nel quotidiano degli intellettuali di Pechino. Nonostante l'attuale disputa fra Londra e Pechino a proposito di Hong Kong (Londra vuole introdurre più democrazia nella colonia prima di restitu irla alla Cina nel 1997; i cinesi, ovviamente si oppongono), Hong Kong è economicamente già integrata nella Cina e i cinesi . non gli inglesi . sono ormai i suoi veri proprietari. Capitali cinesi di Hong Kong impiegano già più di tre milioni di per sone al di là della sempre più evanescente frontiera ed il numero cresce ogni giorno col continuo trasferirsi di fabbriche e di laboratori. Lo stesso è vero a Taiwan. Quest'isola nazionalista, che per decenni è vissuta nell'incubo di venire riconquis tata militarmente dalla madre patria comunista, si sta ora comprando grandi pezzi di madre patria a suon di miliardi di dollari (13 secondo le ultime stime) investiti di là dallo stretto. L'idea di una riunificazione non fa più tanta paura. “Siamo tu tti cinesi", ci si sente ripetere. La differenza ideologica, un tempo

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mortale fra comunisti ed anticomunisti, si è appianata nella rinata, comune idea di una grande Cina. Allo stesso modo i cinesi della diaspora, ora non più sospettati nei loro pae si di residenza di essere una quinta colonna comunista e longa manus di Pechino presso le varie guerriglie locali, trovano facile essere fedeli al richiamo della madre patria e sono molto più liberi di prima di andare e venire dalla Cina e di portare là i loro investimenti. Grande boom Questa “unità della razza" è un importantissimo fattore che contribuisce all'impressionante boom della Cina, specie nelle regioni costiere che restano quelle più accessibili e per questo trainanti. La provin cia di Canton cresce al tasso del 14%, la regione speciale di Shenzheng, attaccata ad Hong Kong, al tasso del 40 per cento. “Se si pensa che cosa siamo riusciti a fare in pochi milioni di cinesi a Singapore, ad Hong Kong e nel resto dell'Asia, c'è da immaginarsi che cosa sarà capace di fare un miliardo e duecento milioni di cinesi in Cina", dice con entusiasmo un banchiere di Hong Kong. È questo un pensiero che comincia a preoccupare molti non.cinesi. “Abbiamo reagito con entusiasmo all'idea c he la Cina diventava capitalista, ma forse ci siamo sbagliati", commenta un uomo d'affari europeo. “Alcune nostre industrie sono già in pericolo. Di questo passo i cinesi diventeranno un concorrente sempre più aggressivo". L'Asia non.cinese cominci a a preoccuparsi che questa aggressività possa non essere esclusivamente economica: nell'ultimo anno Pechino ha condotto il più potente esperimento nucleare della sua storia, ha avviato il rafforzamento della sua marina ed ha di nuovo reso chiaro a t utti nella regione che è disposta ad usare quella flotta per affermare la propria sovranità sull'arcipelago delle Spratleys di cui invece ogni altro Paese rivendica una parte. Secondo la Cina queste preoccupazioni sono assolutamente inutili perchè la Cina non minaccia nessuno, anzi è lei ad essere ora, di nuovo, l'oggetto di una congiura intesa ad indebolirla e smembrarla. L'Occidente vuole impedire il suo risveglio, dicono i cinesi e la loro propaganda parla di una nuova “guerra dell'oppio" c he si starebbe preparando e dei “barbari" che sarebbero di nuovo alle porte. Ovviamente la congiura non c'è, ma il mondo, visto da Pechino, sembra pieno di indicazioni in quel senso; le frontiere dell'Ovest sono minacciate dalla riscoperta del nazion alismo e dell'Islam da parte delle minoranze etniche, a Sud c'è la crescita democratica nei paesi limistrofi e la specifica “congiura" inglese per democratizzare Hong Kong, mentre Taiwan viene riarmata dagli F.16 americani, i Mirage francesi ed il ne o eletto presidente Clinton dice che gli Stati Uniti non dovranno più essere tanto compiacenti con i dittatori. Risposta prevedibile Da qui l'appello cinese alla solidarietà di razza e la risposta prevedibile di tutti quelli che ritrovano nel s uccesso economico di una nazione l'orgoglio di appartenerci. Certo che di questi tempi l'Europa è presa dai suoi problemi ed ha poca attenzione per quelli dell'Asia, ma quel che succede qui è importantissimo ed ai problemi di oggi se ne

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potrebbero fa cilmente aggiungere degli altri se questo drago non è tenuto d'occhio ed il suo risveglio tenuto in considerazione.

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venerdi , 23 ottobre 1992 La visita dell' imperatore giapponese in Cina apre una nuova e difficile fase nei rapporti fra i 2 paesi Akihito s' inchina alla corte di Deng

di Terzani Tiziano

Per Pechino è una vittoria st orica che legittima la dinastia comunista e cancella la macchia di Tienanmen Così il Giappone fa i conti con il dopo Guerra Fredda e corre ai ripari per proteggere la sua egemonia in Asia. In Asia la forma conta almeno quanto la sostanza. L'arrivo di Akihito a Pechino, oggi, è una questione di grandissima forma, ma proprio per questo di straordinaria importanza. Per la prima volta nella storia bimillenaria dei rapporti fra Cina e Giappone l'incarnazione di un impero mette piede nel territorio dell'altro. Non a caso è l'imperatore giapponese, simbolo di un Paese della periferia, a venire a rendere omaggio al trono dell'Impero di Mezzo. Almeno così la vedono i cinesi ed è così che i dirigenti della Città Proibita sfrutteranno la sostanza politica di questa visita dai tanti significati. Per la Cina e per il suo ultimo, vero, grande imperatore, Deng, appena riconsacrato dal Congresso del Partito, l'arrivo dell'imperat ore giapponese è una vittoria storica in quanto riafferma la centralità dell'Impero Celeste e la legittimità della dinastia comunista che lo regge. Con la visita di Akihito, che . non a caso . segue a distanza di pochi giorni l'annuncio trionfale del la linea politica capitalistico.totalitaria che dovrà segnare la via dei cinesi nel XXI secolo, la Cina mette definitivamente da parte il massacro di Tienanmen, viene assolta da tutte le sue colpe e torna a proiettare di sè l'immagine di grande poten za asiatica ai piedi della quale tutti hanno da fare kow.tow, hanno da inchinarsi. Anche gli economicamente potenti giapponesi che appunto mandano a Pechino quello che è il loro simbolo più sacro, il loro “divino" imperatore, discendente diretto dell a dea del Sole, Amateratzu. E questo un messaggio che il resto dell'Asia non mancherà di recepire. Perchè il Giappone ha ceduto alle lusinghe e alle pressioni di Pechino e ha mandato Akihito in Cina, non certo “a umiliarsi" come dice la destra fasc ista di Tokio, ma praticamente a sostegno di un regime che il resto della comunità internazionale continua a trattare con un certo distacco? La ragione di fondo è semplice: il Giappone sta facendo i conti con le conseguenze in Asia della fine della G uerra Fredda, corre ai ripari per proteggere i propri interessi economici e fa i suoi primi passi nell'arena politica (vedi l'invio delle truppe di Tokio in Cambogia) per riempire il vuoto di potere lasciato dallo sfascio dell'URSS e di conseguenza d al crescente disinteresse americano per la regione. Il terrore di Tokio è che la Cina faccia la fine dell'URSS e che i conflitti interni nell'Impero di Mezzo scombinino l'attuale equilibrio regionale e

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la prosperità economica che ne deriva. Il Giap pone sa che la grande incognita della attuale dinastia cinese, quella comunista, è se riuscirà a sopravvivere alla scomparsa di Deng e vuole fare di tutto ora, finchè c'è tempo, per dare una mano a presentarsi come l'unico partner affidabile di lunga durata. Il Giappone vuole garantirsi la stabilità della Cina e del suo mercato di un miliardo e centomila milioni di consumatori. Il Giappone ha già di gran lunga superato gli USA e l'Europa nei suoi investimenti in Cina. Quelli di quest'anno sono già una volta e mezzo quelli dell'anno scorso. Una delle prime cose che Akihito vedrà sul percorso dall'aeroporto al centro di Pechino è simbolicamente la mastodontica fabbrica giapponese di televisori. Molte altre dovranno ora seguire. Negli anni passati, un pò per sua naturale reticenza, un pò per adeguarsi alla politica occidentale di distacco nei confronti della Cina, il Giappone era stato cauto nei suoi trasferimenti di tecnologia. La fine della Guerra Fredda ha permesso a Pechino di sta bilire relazioni diplomatiche con la Corea del Sud e il presidente di Seul è corso a Pechino a offrire tutto quel che i cinesi volevano. Il Giappone non vuole certo essere dribblato in questo modo e la diplomazia di Tokio ha subito cominciato a parla re di “complementarità sino.giapponese". Sarà il tema dei mesi a venire. Ma quanto complementari sono o possono essere due Paesi come la Cina e il Giappone? Storicamente questa complementarità non c'è mai stata. Anzi. Il Giappone deve alla Cina tut to quello che è alla base della sua identità, dalla scrittura alla religione, dall'arte all'urbanistica, passando per tutto ciò che i giapponesi con la memoria corta presentano oggi come “tipicamente giapponese", dal tatami allo Zen. La Cina, invece, al Giappone non deve nulla tranne che aggressioni e miseria. Per secoli i cinesi hanno provato indifferenza verso i giapponesi e i giapponesi devota ammirazione per i cinesi. Dall'inizio del Novecento invece, quando, imparando in fretta e bene ad imitare tutto dell'Occidente comprese le sue aspirazioni coloniali, il Giappone è diventato una potenza moderna, l'ammirazione è stata lentamente rimpiazzata dal disprezzo e la Cina negli occhi di Tokio non è stata più “la fonte", “la madre", ma una nazione “arretrata e sporca" che non riusciva a “diventare adulta". Da qui l'aggressione e la guerra di conquista che è costata almeno 10 milioni di morti cinesi e che indirettamente è servita a portare, alla fine, Mao e i suoi comunisti al potere. Questa storia può anche essere messa da parte, così come per reciproca convenienza verranno messi da parte e dimenticati sia il massacro di Nanchino sia quello di Tienanmen, ma non si stabilirà con questo alcuna complementarità fra Cina e Giappone. Anzi. Nonostante la retorica dei diplomatici tutto sta a indicare che Cina e Giappone nella loro crescita, ora non più bilanciata dalla presenza militare e politica degli USA e dell'URSS nella regione, sono su una rotta di collisione per il ruolo di potenza egemone in Asia. Questa rivalità sarà al centro degli sviluppi del prossimo secolo. E inevitabile. Il Giappone è una potenza da ogni punto di vista in ascesa. La sua economia

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rappresenta oggi due terzi dell'intera economia dell'Asia, la sua crescita annua equivale all'intero prodotto nazionale lordo della Corea del Sud. La sua esperienza di sviluppo e di gestione sta imponendosi come modello nell'intera regione dove una serie di valori e tendenze giapponesi stanno imponendosi con facil ità sulle nuove generazioni. Il destino di un crescente numero di asiatici è deciso a Tokio dove è il controllo centralizzato di ogni investimento e di ogni trasferimento di tecnologia. La Cina con l'appoggio delle comunità cinesi nei vari Paesi de lla regione è l'unico centro di possibile resistenza all'espansione giapponese. Anche la Cina è ora una potenza in ascesa e non nasconde di voler rafforzare i propri muscoli. Pechino ha recentemente acquistato dall'Ucraina dei bombardieri e sta ancor a cercando di comprare almeno una portaerei che le darebbe la capacità di proiettare la propria influenza nel mezzo dell'Oceano Pacifico dove una serie di isole sono, per ora solo sulla carta, contese fra vari Paesi. La Cina è oggi assieme all'India e alla Russia una delle potenze nucleari dell'Asia. Tokio non potrà aspettare troppo a lungo a fare anche quel passo, aggravando però con questo le sue contraddizioni regionali. Nei brindisi che verranno fatti nel corso della visita di Akihito cine si e giapponesi tireranno certo fuori un vecchio detto che i due imperi hanno da sempre usato per definire la loro vicinanza: “Stretto è il braccio di mare che ci separa". Nessuno, per convenienza, ricorderà quanto quel mare è profondo. Tiziano Terzani

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mercoledi, 21 ottobre 1992 E il Golpe arrivo sul placido Amur

Terzani Tiziano

MOSCA BRUCIA?. IN UN LIBRO.REPORTAGE, IL COLPO DI STATO DELL'AGOSTO '91 VISSUTO ALLA PERIFERIA DELL'IMPERO. UN BRANO IN ANTEPRIMA La radio parla di legge marziale ma le ragazze siberiane continuano a chiedere sigarette. Sta per uscire da Longanesi “Buonanotte, signor Lenin", un libro in cui Tiziano Terzani raccont a il suo viaggio attraverso l'ex Urss, dalle Kurili alla Georgia, durante i giorni del golpe e nelle settimane successive. Nel brano che anticipiamo, Terzani racconta quando, in viaggio sul fiume Amur, al confine con la Cina, giunse la notizia dei fa tti di Mosca. Ore 13.42. Siamo tutti sul ponte a goderci il tiepido sole del pomeriggio. La nave scorre sul verde ed il nero dell'acqua. Gli altoparlanti di bordo improvvisamente si mettono a parlare. Una voce metallica dice in tono commosso delle cose che non capisco. Penso che il capitano abbia acceso la radio per sbaglio. Ma non è stato uno sbaglio. Christof, il polacco, corre verso di me. Il suo russo è perfetto; il suo inglese meno e mi dice: “In Moscow there is a military cup. (sic!) A m ilitary cup!" C'è stata una “tazza militare" a Mosca? Capisco, ma non credo di capire. Guardo i colleghi russi. Con la testa fra le mani, come non volesse sentire, Sacha, muto, sta in ascolto. Valodia diventa terreo, come se qualcosa di spaventoso gl i stesse per succedere. Nikolai fissa l'acqua come se là dentro vedesse qualcosa di assolutamente insolito .... È l'alba a Mosca. La agenzia Tass ha appena annunciato che Gorbaciov, per ragioni di salute, non è più in grado di svolgere le sue funzi oni di presidente e che è stato sostituito dal suo vice Yanaiev. È stato costituito un Comitato Esecutivo che ora ha preso in mano il governo e che, come prima misura, ha dichiarato lo stato di emergenza per sei mesi e la legge marziale in alcune reg ioni del Paese. Abituato, per mestiere, a valutare il senso degli annunci ufficiali dei regimi comunisti, mi colpisce che il partito, di cui Gorbaciov resta il segretario, non si sia per il momento espresso. Un dettaglio importantissimo. Penso che qu esto è forse l'inizio d'una guerra civile. Cerco di decidere che cosa fare, dove andare, in che modo saltare da questa nave che è sì nell'Unione Sovietica, ma dall'altro capo del continente in cui succedono le cose. Il mio visto è valido fino al 3 di settembre. Come rinnovarlo? Guardo l'Amur. Controvoglia annoto nel mio blocchetto di appunti che ci sono sulla costa sovietica decine di piccoli bunker in cemento, una volta forse usati per dar riparo ai soldati ed ora abbandonati e demoliti dalla forza del fiume. Come tante altre volte dinanzi a qualcosa di umanamente drammatico, mi colpisce la natura che non si commuove. A Mosca in questo momento sta

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cambiando la Storia, ma qui attorno tutto continua immutato. Anche il battello a scendere , col suo solito respiro, lungo il fiume. La legge marziale in alcune parti del Paese? Allora certo lungo le frontiere e certo qui al confine con la Cina. È possibile che i militari abbiano avuto l'ordine di interrompere la nostra spedizione, di ar restarci e farci lasciare il Paese? Parliamo proprio di questo sul ponte, quando due motovedette della Guardia di frontiera, ognuna con due ufficiali dai berretti verdi a padella, si staccano dalla riva, si affiancano alla nostra nave e salgono a bor do. Il polacco ed io siamo convinti che vengono a prenderci per cacciarci dal Paese e, anche quando gli ufficiali annunciano che siamo invitati a cena alla loro base, questa ci pare solo una cortesia con cui mascherare la nostra espulsione: tale è ormai l'atmosfera a bordo. Mi pare ovvio che gli autori di un colpo di Stato di questo tipo contro Gorbaciov . il primo nella storia dell'Urss . non vogliano avere troppi testimoni di quel che avverrà nei prossimi giorni; certo che hanno dato l'ordin e di espellere tutti i giornalisti stranieri, specie quelli di una strana spedizione lungo la frontiera con la Cina! Per fortuna la mia analisi è sbagliata. I militari di Markovo hanno sentito la notizia degli avvenimenti di Mosca alla radio, come noi, non hanno ricevuto alcun ordine dalle nuove autorità e, per quanto li riguarda, il mondo va avanti come prima. Lo stesso vale per il programma di riceverci, spiegarci il loro lavoro ed invitarci a cena. Il mangiare a base di cetrioli, formaggio, salame, patate e spezzatino di maiale è delizioso. Markovo ha 1.100 abitanti. I militari comandano tutto. Per riceverci persino la sabbia sulla riva è stata pettinata. La caserma è ad appena una cinquantina di metri dal fiume. Ci si arriva attrave rsando la solita barriera di filo spinato qui alta tre metri. La notte, per maggiore protezione, ci viena fatta passare anche l'alta tensione. La caserma è perfetta, pulitissima come niente di quel che fino ad oggi ho visto in Urss. Le abitazioni d egli ufficiali e delle loro famiglie, aperte su un cortile pieno di fiori e di rampicanti, fanno invidia. La camerata dei soldati coi suoi lettini piccoli, bassi, coperti dai veli bianchissimi delle zanzariere, sembra più la corsia di una maternità c he un dormitorio militare. Obbligatoria è la visita al “museo", una assurda collezione di sciocchezze sulla vita di una tale Pushinov, morto qui combattendo una notte di tanti anni fa contro dei contrabbandieri. C'è il suo letto con la bandiera ros sa sulle lenzuola, la sua uniforme, la penna con cui scriveva. C'è la foto dei suoi familiari: paiono loro dei contrabbandieri. Nel cortile della caserma c'è un monumento al suo eroismo. La frase scolpita nel bronzo è ora il motto delle guardie di frontiera: “Un solo centimetro di terra che appartiene ad altri Paesi non lo vogliamo, ma un centimetro di terra nostra ad altri non lo cederemo mai". Durante la visita passiamo dinanzi all'armeria con tutti i fucili mitragliatori in fila. Dietro u n cancello di ferro, un soldato con delle cuffie alle orecchie aggeggia attorno ad una radio e scrive attentissimo degli appunti su un pezzo di carta. Gli stanno arrivando degli ordini da Mosca? Gli stanno dicendo di arrestarci? Le

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mie preoccupazioni sono eccessive. Ovviamente, per Mosca Markovo sull'Amur non esiste e tanto meno esistiamo noi, picccolo gruppo di curiosi alla frontiera siberiana. Salutiamo la guarnigione e torniamo a bordo. Il fiume presto si allarga e contro il cielo del tramo nto appare sulla sinistra la silhouette di Heike, la più grande città cinese sull'Amur, una sorta di piccola Shanghai sull'Heilongjiang, la Corrente del Drago Nero, come i cinesi, da sempre, chiamano l'Amur. Quattro piccoli grattacieli più uno in cos truzione si stagliano nel cielo che lentamente scurisce. Bagliori di fiaccole ossidriche si alzano dai cantieri navali, zaffate di fumo dalle ciminiere delle fabbriche. Di nuovo la stessa impressione della prime ore. Sulla riva cinese la gente si muo ve, si agita, lavora. Su quella sovietica la gente sta a guardare. Il bagliore di Blagoveshchensk coi suoi 210.000 abitanti è immobile. La città, indifferente a quel che succede nel mondo, è già come quietamente addormentata. Ripenso ai racconti de i viaggiatori dell'Ottocento ed alla loro comune impressione dei siberiani come di esseri oziosi, con pochissima voglia di lavorare. Lo scrisse per primo il marchese de Custine, che viaggiò nella Russia del 1839. Lo scrisse l'inglese Hartry de Windt che ci viaggiò nel 1894. Qualcosa di vero ci dev'essere. Poi mi prende un dubbio: che l'apparente immobilità, il silenzio di Blagoveshchensk sia dovuto al fatto che è stata imposta la legge marziale? Che in città ci sia ora il coprifuoco? Che le stra de siano presidiate dai carri armati? Questa dell'Estremo Oriente Sovietico è una delle regioni militarmente più sensibili dell'Urss non solo per il confine con la Cina, ma perchè è da qui che passano le due ferrovie transiberiane che garantiscono i collegamenti fra la parte asiatica e quell'europea del Paese e trasportano verso Mosca le ricchezze della Siberia. È per questo che, con la fine della Guerra Fredda e la maggiore sicurezza lungo i confini occidentali, è in questa regione che ci sono oggi alcune delle più importanti concentrazioni di truppe. I dirigenti golpisti che hanno preso il potere a Mosca avranno ben pensato ad assicurarsene la fedeltà. Blagoveshchensk è la capitale amministrativa dell'immensa regione che costeggia l'Amur ed il controllo di questa città è decisivo per chi voglia controllare la Siberia. Mentre la Propagandist si accosta alla riva, dal ponte, col mio binocolo, scorro la città, cercando segni di qualcosa di anormale. Non ce ne sono. La Propagandist att racca accanto ad un'altra nave passeggeri. L'imbarcadero è una vecchia struttura di legno di una certa eleganza, ora invilita dal tempo e dall'incuria. Si esce a far due passi lungo il molo. Giovani malvestiti in blue jeans. Non c'è assolutamente nie nte di insolito. Anche qui sembra che tutte le ragazze che passano siano in vendita. Sacha tira fuori un pacchetto di sigarette. Una ragazza gli si fa sotto per chiederne una, ne arriva un'altra, poi un'altra ancora. “Oggi è successo qualcosa qui?". “No. Perchè?" ci risponde uno dei giovani. Possibile che la distanza da Mosca renda la gente così indifferente? Torniamo a bordo per guardare il telegiornale della notte. Sullo schermo ricompare, dopo anni di assenza, la vecchia annunciatrice dei

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t empi di Brezhnev che, con voce solenne, ripete l'annuncio che Gorbaciov, malato, è stato destituito. La stampa è stata sottoposta a censura e domani solo sei giornali saranno autorizzati ad uscire. I colleghi russi capiscono immediatamente che il lor o quotidiano, la Komsomolskaya Pravda, non sarà fra quelli e scaricano la loro rabbia inveendo contro la televisione. Ogni ora ascolto la BBC. Da Mosca niente di drammatico. Mi addormento pensando a come andarci.

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lunedi , 21 settembre 1992 intanto il Giappone conquista l' Asia

di Terzani Tiziano

BANGKOK. L'Europa? Una potenza lontana, disunita, distratta e tutto sommato poco potente. Questa è ormai l'impressione che si sta diffondendo in Asia del nostro continente fino a poco tempo fa visto, invece, come una entità politica ed economica in ascesa, capace di fare da contrappeso alle varie potenze che pr emono su questa regione: soprattutto al Giappone. Tutte le notizie che di questi tempi vengono dall'Europa . le uniche che i giornali e le stazioni tv asiatiche riportano . non fanno che confermare questa impressione. L'unità europea è qui considerata già morta col voto danese: la svalutazione di varie monete rende sempre meno verosimile la prospettiva di una moneta unica; il conflitto jugoslavo dimostra ai thailandesi come ai cinesi che questa stessa Europa, venuta spesso in Asia a parlare di diritti umani ed a condizionare i suoi aiuti al rispetto di quei diritti, non fa molto per risolvere la guerra civile in Bosnia . una guerra che qui, dove tanti sono musulmani, è concepita soprattutto come una guerra di religione .. Il Vecchio Conti nente non ha certo il potere di influenzare i destini dell'Asia e di apportare un contributo positivo ai conflitti di questa regione. In ragione della debolezza politica, lo stesso potere economico dell'Europa appare ora un impacciato gigante con i p iedi d'argilla. Di pari passo a questo fenomeno di ridimensionamento dell'immagine dell'Europa si verifica un generale abbassamento della presenza europea in Asia: diminuiscono i turisti, diminuiscono gli uomini d'affari. Attratti dalla maggiore vi cinanza e dalla maggiore facilità di contatti, molti investitori europei, che prima si avventuravano in Asia, preferiscono fare le loro scommesse nell'Est europeo. Persino la diplomazia europea, impegnata a occupare le sedi delle nuove Repubbliche de ll'ex URSS, tralascia le sue attività in questa regione. Con la fine della guerra fredda, gli stessi Stati Uniti hanno ridotto i loro impegni militari in questa regione e con ciò hanno visto immediatamente diminuita anche la loro influenza. La cons eguenza immediata di questa “ritirata" . diciamo così “occidentale" . dall'Asia è stata una crescita di presenza da parte di quella Grande Potenza orientale che è il Giappone. Nel giro degli ultimi anni il Giappone ha aumentato notevolmente la propri a posta sui vari tavoli del gioco asiatico e si appresta ora, con grande cautela e circospezione, ma con altrettanta determinazione, a proteggere quelle sue posizioni economiche rafforzando il proprio ruolo politico e militare. La prossima settiman a sbarcheranno in Cambogia alcune centinaia di soldati con la bandiera del Sol Levante. Saranno i primi a mettere piede fuori dal Giappone dopo la Seconda guerra mondiale. Vanno a far parte del

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contingente Onu, incaricato di garantire la pace e le el ezioni in quel Paese, ma il simbolismo di questo “ritorno" non sfugge a nessuno in Asia dove il ricordo della conquista e delle atrocità giapponesi di mezzo secolo fa è ancora vivo. In vario modo e con diversa intensità tutti i Paesi dell'Asia, dal la Corea a Singapore, avevano sperato molto nell'emergere di una Europa unita come contrappeso sia agli Stati Uniti che al Giappone e tutti, in vario modo, dalla Cina alla Thailandia, sono ora preoccupati di vedere che la Potenza Europea non diventa una realtà e che un'Europa incerta e tutta piegata su se stessa abdica, proprio a favore del Giappone, le sue responsabilità asiatiche. La mancanza di visione e di determinazione europea davanti al problema dei Balcani fa temere qui lo scoppiare se mpre più pericoloso di simili conflitti nell'Est, nell'ex Unione Sovietica e nell'Asia centrale, non solo quella fino all'anno scorso governata da Mosca, ma quella ancora oggi sotto il potere di Pechino. L'eventuale instabilità della Cina fa accappon are la pelle di tutta l'Asia. Anche senza questa visione di catastrofe, la presente situazione dal punto di vista asiatico è già abbastanza preoccupante. Lo è anche per l'Europa che se mai riscoprirà un suo interesse per l'Asia, finirà, venendoci i n ritardo, per trovare tutti i posti occupati dagli attivissimi giapponesi che fanno dovunque di tutto per appianare la loro strada: mandano in Cina l'imperatore per la prima storica visita dopo quella di Hirohito nel Manclukuò, comprano terreni e fa bbriche, corrompono funzionari e monopolizzano tutti i mercati possibili. Se un giorno qualcuno cercherà di vendere in Cambogia delle auto europee fallirà sicuramente. I 153 milioni di dollari del budget Onu, destinati a garantire la circolazione d ei funzionari della pace, sono già stati tutti spesi: per comprare Toyota e Nissan. Quel mercato è già perso. Tiziano Terzani

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martedi , 15 settembre 1992 Entusiasmo post elettorale, boom in borsa La coalizione democratica “sfratta" i militari dal Parlamento di Bangkok

Terzani Tiziano

BANGKOK. I democratici ed i loro alleati hanno vinto le elezioni e la Thailandia ha tirato così un gran sospiro di sollievo. I commenti sono generalmente di grande entusiasmo. “Il popolo ha scelto con sag gezza", titola l'editoriale del mattino sul Bangkok Post. “Una vittoria di cui essere orgogliosi", scrive il quotidiano The Nation. I circoli economici sono ugualmente contenti e la Borsa ha fatto un salto in avanti. Col voto di ieri è stato eletto u n nuovo Parlamento che sostituisce quello controllato dai militari sciolto dopo i moti di maggio e la sanguinosa repressione da parte dell'esercito. Nel nuovo Parlamento i democratici non hanno che la maggioranza relativa, ma questo permetterà loro d i formare un governo di coalizione con altri partiti anti.militari e di nominare come primo ministro il loro uomo di punta, Chuan Leekpai. Questo prossimo governo dovrebbe, almeno in principio, garantire un periodo di stabilità ed un corso politico moderato. Almeno in principio, perchè l'incognita dei militari resta e la possibilità di un ennesimo colpo di Stato non può essere esclusa. Da quando la Thailandia è diventata una monarchia costituzionale, esattamente 60 anni fa, i colpi di Stato so no stati 17, i militari sono stati al potere per un totale di 40 anni ed ogni volta che un governo eletto democraticamente ha preso le redini del Paese, prima o poi se le è viste togliere di mano dai generali. Molto dipenderà dal prossimo primo min istro e dalla sua abilità a tenere gli uomini in uniforme nelle loro caserme, senza isolarli completamente dalla società, provocando così una loro reazione. I commentatori concordano nel dire che il capo del Partito democratico e futuro primo ministr o, Chuan Leekpai, è l'uomo al momento più adatto a questo compito. Ha una lunga esperienza nel sistema politico thailandese . è stato più volte ministro ., ma non è segnato, come tanti altri, dalle stigmate della corruzione; è un uomo di principi, ma all'occasione è disponibile a fare compromessi. È stata questa sua immagine di moderato ed il fatto che quello democratico è l'unico vero partito con una tradizione ed una struttura capillare nel Paese ad aver portato Chuan Leekpai alla vittoria. Dei 360 seggi del nuovo Parlamento il Partito democratico se ne è aggiudicati 79. Quanto agli altri partiti della coalizione anti.militare (i partiti degli “angeli", come sono chiamati qui) questi sono i risultati: il Palang Dharma del generale Chami ong, l'uomo che capeggiò le dimostrazioni di maggio, ha vinto 47 seggi; il partito Nuove aspirazioni del generale Chavalit ne ha vinti 51; il partito Solidarietà se ne è aggiudicati 8. Con questi deputati Chuan Leekpai ha già una maggioranza (185 seg gi) a cui potrebbe aggiungere gli 8

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deputati del Partito liberal democratico. L'ex primo ministro Chatichai, quello rovesciato dal colpo di Stato del febbraio 1991, ha detto di essere disposto ad entrare anche lui nella maggioranza portando i 60 depu tati del partito che ha appena messo in piedi per queste elezioni, il Chat Pattana; ma nelle file democratiche non c'è molta simpatia per questo personaggio chiaramente identificato con le grandi collusioni del passato fra politica ed economia. Sul fronte dei “partiti del diavolo", come sono stati soprannominati quelli che si erano schierati coi militari dopo il colpo di Stato ed alle precedenti elezioni, va fatto notare il successo di Chart Thai che, grazie ai vasti fondi a sua disposizione, ha conquistato 77 voti (due soli di meno del totale dei democratici) e la sopravvivenza politica di Prachakorn che, grazie al voto, spesso “telecomandato", di migliaia di soldati in certi distretti ha conquistato 3 seggi in Parlamento. “Questo dimost ra che il grande sforzo nazionale per sradicare dal nostro sistema parlamentare gli elementi più indesiderabili è una faccenda che prenderà del tempo", ha scritto un noto commentatore. E data la ancora notevole apatia delle masse (in tutto il Paese s olo il 62 per cento degli aventi diritto ha votato, a Bangkok solo il 47 per cento) e una congenita tentazione del sistema all'autoritarismo, non è detta l'ultima parola. Tiziano Terzani

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domenica , 13 settembre 1992 La Thailandia va oggi alle urne per ristabilire la democrazia e dimenticare la repressione militare. Elezioni politiche Bangkok e i suoi mille fantasmi

Terzani Tiziano

Per paura di un nuovo golpe, nessuno par la più delle centinaia di oppositori scomparsi dopo gli scontri di maggio Gli eredi di Anand Panyarachun, il diplomatico scelto dal re che ha risanato il Paese. Ora un governo di coalizione? BANGKOK. La chiave del mistero è forse nel verde denso e marcio della giungla lungo la frontiera con la Birmania, ma nessuno ha il coraggio di andarla a cercare. Innanzitutto gli animali selvatici possono a ver già fatto sparire ogni traccia, e comunque trovare ora le prove che i militari davvero caricarono su dei loro aerei i cadaveri dei dimostranti per la democrazia, ammazzati per le strade di Bangkok nel mese di maggio, e li andarono a buttare in un a delle zone più inaccessibili del Paese perchè non fossero mai più ritrovati, non è più nell'interesse politico di nessuno. I militari sono già stati abbastanza umiliati ed esautorati e non vale la pena provocarli ulteriormente: potrebbero uscire an cora dalle loro caserme e scatenare un ennesimo colpo di Stato. Sono passati quattro mesi da quando l'esercito intervenne nel centro della capitale thailandese per reprimere una rivolta popolare contro il primo ministro, generale Suchinda, sparando sulla folla disarmata, ma alla semplicissima domanda: “Quanti sono morti?" ancora non è stata data una convincente risposta. E probabilmente non lo sarà mai. Il poco amato generale Suchinda ha dato le dimissioni e ora, con l'appoggio del re, un nu ovo e rispettatissimo ex diplomatico e uomo d'affari, Anand, ha preso il suo posto. Ma anche con lui la versione ufficiale dei fatti di maggio non è cambiata: i morti sono stati solo 52. Certo, 52 persone sono morte negli ospedali dove i feriti veniv ano trasportati, ma cosa è successo a tutti quelli che a un ospedale non arrivarono e furono lasciati sull'asfalto dai dimostranti che si ritiravano dinanzi all'avanzare dei soldati? Che è successo ai cadaveri che molti dicono d'aver visto galleggiar e nel canale sotto il ponte di Paan Fah, la notte degli scontri più violenti? Il fatto è che da quei tre drammaticissimi giorni di maggio un notevole numero di persone non ha più dato segno di sè e le famiglie stanno perdendo la speranza di riveder e i loro cari. Lo stesso primo ministro Anand ammette che gli “scomparsi" sono almeno 250. Secondo gli attivisti del movimento per la democrazia sarebbero almeno il doppio, forse anche un migliaio. Il governo ha stabilito una sua commissione d'inchie sta e ha offerto strani premi a chi può dare informazioni che conducano a qualche fossa comune (10.000 bath, cioè 50.000 lire per un cadavere, fino a un massimo di

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100.000 baht per dieci cadaveri o più), ma finora nessuno si è presentato a riscuotere . I militari thailandesi, nonostante abbiano perso notevolmente in immagine e in potere a causa dei fatti di maggio, mantengono una forte e minacciosa influenza sulla vita del Paese e nessuno ha interesse, adesso che la Thailandia ha ritrovato, grazi e ad Anand, una sua apparente stabilità, a metterli davvero con le spalle al muro con un'inchiesta seria su quel che veramente è avvenuto a maggio. “Il massacro resterà un mistero anche dopo le elezioni, chiunque ne esca vincitore", dice un osservato re straniero. Le elezioni si tengono oggi. Formalmente sono importanti perchè ristabiliscono un principio di legittimità democratica nel Paese e rimetteranno al potere un primo ministro eletto dalla gente. Ma la verità è che le masse dei thailandes i non sono particolarmente interessate alla democrazia (meno della metà dei 32 milioni di persone che hanno il diritto a votare si reca alle urne) e che comunque vadano le cose questa volta il primo ministro, eletto democraticamente, non potrà mai es sere così bravo come quello, non eletto, messo lì dal re e che per effetto della democrazia deve andarsene. E tristemente ironico, ma è così. Anand Panyarachun, il raffinato diplomatico ripescato per necessità alla politica, nel breve periodo in cu i è stato al potere ha cambiato più cose di quanto uno potesse sperare, ha passato più decreti legge di tutti i governi precedenti, ha avviato alcune delle riforme più importanti di cui la Thailandia ha bisogno, compresa quella di fare dei militari u na forza professionale e non più una piovra avvinghiata a tutto ciò che di redditizio esiste nel Paese. Da maggio a ora, Anand ha decapitato le forze armate di tutti i generali che erano stati direttamente coinvolti nel massacro, ha abrogato le leggi che rendevano sempre possibile un intervento dei militari nella vita civile del Paese e ha cominciato a rimpiazzare nei consigli di amministrazione delle società di Stato i generali e gli ammiragli con dei manager. L'esempio più appariscente è stato quello della Thai International, la compagnia di bandiera finora guidata per diritto dal comandante dell'Aeronautica, che da alcuni giorni ha di nuovo un presidente civile. Anand è riuscito a fare tutto questo proprio perchè non era stato eletto, perchè lui così come tutto il gabinetto, fatto esclusivamente di tecnici, non ha avuto una volta al potere nessun debito politico da ripagare, nessun accordo di coalizione da rispettare. Il potere di Anand si è fondato nell'arrivare alla presidenza c on l'appoggio morale del re e con una popolarità dovuta giusto al suo essere uno fuori dalla mischia. Non sarà così per il suo successore, chiunque sarà. I partiti che si contendono i voti sono 12. A parte quello democratico, tutti gli altri sono g ruppi di recente formazione e non distinguibili l'uno dall'altro per particolari diversità di ideologia o di programma. Servono solo a raccogliere voti per alcuni politici che spesso si muovono per un premio di ingaggio da un partito all'altro come f ossero calciatori. Fra i vari gruppi in lizza non ci sono particolari differenze ideologiche, nè di programma. I politici di punta (uno di

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questi sarà il prossimo primo ministro) sono: il capo dei democratici, Chuan; l'ex governatore di Bangkok e l 'uomo che fu a capo della rivolta popolare di maggio, il generale Chamiong; l'ex primo ministro rovesciato dal putsch del 1991, il generale Chatichai; il capo del partito Nuove Aspirazioni, generale Chavalit, ex comandante superiore delle forze armat e. Nè Anand nè alcuno dei suoi ministri si è candidato. Secondo le previsioni nessun partito otterrà la maggioranza dei 260 deputati del nuovo Parlamento. Il prossimo, così, dovrà essere un governo di coalizione, perciò relativamente debole e fonda to su dei compromessi politici. Compromessi anche con i militari, che nessuno vorrà avere per antagonisti. Per questo, anche dopo che la democrazia verrà formalmente ristabilita in Thailandia, la giungla della frontiera continuerà a nascondere il s egreto di quante furono le vittime del massacro di Bangkok. Tiziano Terzani

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sabato , 20 giugno 1992 cronaca di un viaggio a Phnom Penh, gomito a gomito con Khieu Samphan, uno dei capi storici dei Khmer Rossi Cambogia, una pace senza giustizia

di Terzani Tiziano

L'uomo che mi siede accanto è un assassino, responsabile di centinaia di migliaia di morti, reo di avere usato degli esseri umani come cavie per uno dei più spaventosi esp erimenti di ingegneria sociale tentati in questo secolo. Fosse un tedesco, accusato degli stessi crimini durante la Seconda Guerra Mondiale, sarebbe ricercato in tutto il mondo e dovrebbe nascondersi, ma lui è cambogiano, è ora protetto dalle Nazioni Unite, viene chiamato “Eccellenza" e viaggia con una guardia del corpo nella prima fila dell'aereo che fa la spola fra Bangkok e Phnom Penh. Il suo gomito sfiora il mio. Che farei se mi trovassi seduto accanto a Mengele? Farei finta di niente? O u rlerei: "È lui! Eccolo, è qui!". Perchè i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall'intera comunità internazionale e quelli dei Khmer Rossi no? Forse perchè le vittime degli uni erano degli ebrei, dei bianchi, e quelle degli altri era no cambogiani dalla pelle scura? Forse perchè a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate? Khieu Samphan guarda distrattamente il paesaggio che ci scorre sotto, guarda le risaie che, quando lui era al potere erano diventate i “campi della morte". Di tutta la gente che conoscevo in Cambogia agli inizi degli anni '70 non ho rit rovato che tre o quattro persone. Le altre son tutte finite laggiù a “fare da concime alle piante di cocco". Fu l'uomo che ho seduto accanto a coniare quell'espressione. Anche i “controrivoluzionari" dovevano, alla fine dei loro giorni, essere utili a qualcosa. Ho un groppo alla gola e, anche volessi, non riuscirei ad urlare. Khieu Samphan è stato uno dei fondatori dei Khmer Rossi, è stato il più stretto collaboratore di Pol Pot, è l'intellettuale che ha razionalizzato il massacro di almeno un milione e mezzo di persone per “purificare la razza khmer e riportarla allo stato di forza e di grandezza dei tempi di Angkor", diceva. Mi viene in mente l'espressione “le mani macchiate di sangue". Guardo le sue, magre, dalle dita finissime appog giate al bracciolo. Dal 1976 al 1979 Khieu Samphan svolse la funzione di capo di Stato e quella di capo.boia nell'esecuzione di centinaia di migliaia di persone. Nel 1979, quando i vietnamiti invasero la Cambogia e la liberarono dall'orrore dei Khmer Rossi, Khieu Samphan e gli altri responsabili dei massacri avrebbero potuto finire con una corda al collo, ma restarono impuniti perchè le Grandi Potenze avevano bisogno di loro. Khieu Samphan, scappato da Phnom Penh, si rifugiò, assieme a Pol Pot e agli altri capi.assassini,

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nella giungla ai confini con la Thailandia e da lì cominciò la guerriglia contro il nuovo regime pro.Hanoi installatosi in Cambogia. Siccome i Khmer Rossi lottavano contro il Vietnam, i loro crimini vennero come amnistia ti, mantennero il loro seggio alle Nazioni Unite e la Cina, gli Stati Uniti e vari altri Paesi occidentali dettero loro direttamente o indirettamente ingenti aiuti. Accanto ai Khmer Rossi, nella lotta contro il governo di Phnom Penh, presto si schi erarono i guerriglieri repubblicani dell'ex primo ministro Son Sann e quelli monarchici di Sihanouk. La guerra è andata avanti così per un altro decennio. Poi i Cinque Grandi, membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno deciso che questo conflitto doveva finire e, dopo lunghissimi negoziati, hanno imposto ai cambogiani un loro accordo di pace. Questo accordo, firmato a Parigi nell'ottobre dell'anno scorso, ha legittimato i Khmer Rossi come uno dei partiti politici del Paese e ha dato a Khieu Samphan uno dei posti nel Consiglio Nazionale Supremo, una sorta di governo di coalizione transitorio presieduto dal principe Sihanouk. Quando cinque mesi fa Khieu Samphan tornò per la prima volta a Phom Penh nella sua nuova veste d i “Eccellenza", una folla di gente dette l'assalto alla casa in cui era andato ad installarsi e cercò di impiccarlo ad un lampadario, ma anche allora Khieu Samphan se la cavò. “Aiutatemi voi, salvatemi", piagnucolava con la faccia coperta di sangue, rivolto ad un gruppo di giornalisti stranieri che erano entrati assieme alla folla, armata di bastoni, nella stanza in cui lui s'era nascosto. Nei giorni che seguirono, a Bangkok s'era discusso a lungo fra colleghi su come si sarebbe dovuto reagire a quell'appello. Ero contento di non essere stato in quella stanza a dover prendere la mia decisione. Ma ora, con lui accanto, che fare? Guardo la sua faccia liscissima, pallida, inespressiva, penso a mille domande, ma non riesco ad aprir bocca. Aut omaticamente prendo un pezzo di carta, scrivo chi sono e chiedo un appuntamento per una intervista. All'inizio della nota mi scopro a scrivere: “Eccellenza". Gli passo il foglio. Lui sorride, lo legge, prende la sua penna e risponde con due frasi in calce. Mi ridà il foglio a due mani, con un gesto cortesissimo di ringraziamento. Mi scopro a rispondergli con un sorriso. Son contento che il volo sia brevissimo. L'esperienza mi sembra la riprova di tutta l'assurdità della soluzione che le Nazioni Unite credono di aver trovato per la Cambogia: lasciando impuniti gli assassini si finisce per trattarli come persone normalissime e lentamente l'orrore del passato viene dimenticato. Ad un piccolo compromesso ne segue uno più grande e alla fine il t utto diventa una rivoltante indecenza. “Lei vorrebbe continuare la guerra civile! Lei vuole che noi continuiamo a morire", mi urlava tre settimane fa Sihanouk alla fine di una lunga conversazione in cui io chiedevo se riportare i Khmer Rossi a Phno m Penh non fosse come rimettere i lupi nell'ovile e se non sarebbe stata meglio una soluzione politica che escludesse i Khmer Rossi o almeno i loro capi storici. “Lei dice così perchè è straniero, ma i cambogiani sono più saggi di lei, capiscono che senza i Khmer Rossi non ci può essere

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pace", urlava Sihanouk. La sua voce rimbombava per le sale aperte del Palazzo Reale, preoccupando le sue guardie del corpo nord.coreane. L'aereo si ferma davanti alla torre di controllo di Pochentong. Khieu Sam phan viene fatto scendere per primo. Ai piedi della scaletta c'è l'ambasciatore inglese a salutarlo. Dei soldati delle Nazioni Unite stanno discretamente di guardia in lontananza. Che la comunità internazionale abbia deciso di mettere quest'uomo sott o la propria protezione invece che tradurlo dinanzi ad un tribunale è parte del compromesso.accordo di Parigi, ma perchè per giunta ignorare sempre di più le sue vittime? Boutros Ghall, il segretario generale delle Nazioni Unite, è venuto per tre g iorni a Phnom Penh a metà del mese scorso. Ha presieduto ad una riunione del Consiglio Nazionale Supremo, ha stretto la mano a tutti i suoi membri (compresi i Khmer Rossi), ha visitato il Museo Nazionale Cambogiano, un centro di ricevimento per i rif ugiati, ma non ha messo piede nella prigione di Tuol Sieng, la Auschwitz cambogiana, e non ha reso omaggio ai morti dell'olocausto. Anzi. Quando ha parlato della missione Onu in Cambogia, ha detto che uno degli scopi era quello di evitare il ripeters i dei “gravi errori del passato". Accetterebbe il mondo che si parlasse dei campi di sterminio nazisti come di “gravi errori"? Le Nazioni Unite portano centinaia di militari e di funzionari civili la cui missione è stabilire “la pace e la democrazi a" in questo Paese martoriato. Alla sera molti di loro si ritrovano al bar del vecchio Hotel Royal. “Ah, lei è già stato qui?", mi domanda un giovane cartografo del Mozambico davanti a una birra. “Sento spesso parlare di Khmer Rouge. Mi dica un pò, c hi è questa donna?". Tiziano Terzani

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sabato , 20 giugno 1992 cronaca di un viaggio a Phnom Penh, gomito a gomito con Khieu Samphan, uno dei capi storici dei Khmer Rossi Cambogia, una pace senza giustizia

di Terzani Tiziano

L'uomo che mi siede accanto è un assassino, responsabile di centinaia di migliaia di morti, reo di avere usato degli esseri umani come cavie per uno dei più spaventosi esp erimenti di ingegneria sociale tentati in questo secolo. Fosse un tedesco, accusato degli stessi crimini durante la Seconda Guerra Mondiale, sarebbe ricercato in tutto il mondo e dovrebbe nascondersi, ma lui è cambogiano, è ora protetto dalle Nazioni Unite, viene chiamato “Eccellenza" e viaggia con una guardia del corpo nella prima fila dell'aereo che fa la spola fra Bangkok e Phnom Penh. Il suo gomito sfiora il mio. Che farei se mi trovassi seduto accanto a Mengele? Farei finta di niente? O u rlerei: "È lui! Eccolo, è qui!". Perchè i crimini dei nazisti sono stati riconosciuti per tali dall'intera comunità internazionale e quelli dei Khmer Rossi no? Forse perchè le vittime degli uni erano degli ebrei, dei bianchi, e quelle degli altri era no cambogiani dalla pelle scura? Forse perchè a Norimberga i vincitori ebbero modo di imporre la loro giustizia ai vinti, mentre in questa maledetta guerra indocinese nessuno è in grado di processare nessuno e la giustizia resta fra le tante speranze frustrate? Khieu Samphan guarda distrattamente il paesaggio che ci scorre sotto, guarda le risaie che, quando lui era al potere erano diventate i “campi della morte". Di tutta la gente che conoscevo in Cambogia agli inizi degli anni '70 non ho rit rovato che tre o quattro persone. Le altre son tutte finite laggiù a “fare da concime alle piante di cocco". Fu l'uomo che ho seduto accanto a coniare quell'espressione. Anche i “controrivoluzionari" dovevano, alla fine dei loro giorni, essere utili a qualcosa. Ho un groppo alla gola e, anche volessi, non riuscirei ad urlare. Khieu Samphan è stato uno dei fondatori dei Khmer Rossi, è stato il più stretto collaboratore di Pol Pot, è l'intellettuale che ha razionalizzato il massacro di almeno un milione e mezzo di persone per “purificare la razza khmer e riportarla allo stato di forza e di grandezza dei tempi di Angkor", diceva. Mi viene in mente l'espressione “le mani macchiate di sangue". Guardo le sue, magre, dalle dita finissime appog giate al bracciolo. Dal 1976 al 1979 Khieu Samphan svolse la funzione di capo di Stato e quella di capo.boia nell'esecuzione di centinaia di migliaia di persone. Nel 1979, quando i vietnamiti invasero la Cambogia e la liberarono dall'orrore dei Khmer Rossi, Khieu Samphan e gli altri responsabili dei massacri avrebbero potuto finire con una corda al collo, ma restarono impuniti perchè le Grandi Potenze avevano bisogno di loro. Khieu Samphan, scappato da Phnom Penh, si rifugiò, assieme a Pol Pot e agli altri capi.assassini,

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nella giungla ai confini con la Thailandia e da lì cominciò la guerriglia contro il nuovo regime pro.Hanoi installatosi in Cambogia. Siccome i Khmer Rossi lottavano contro il Vietnam, i loro crimini vennero come amnistia ti, mantennero il loro seggio alle Nazioni Unite e la Cina, gli Stati Uniti e vari altri Paesi occidentali dettero loro direttamente o indirettamente ingenti aiuti. Accanto ai Khmer Rossi, nella lotta contro il governo di Phnom Penh, presto si schi erarono i guerriglieri repubblicani dell'ex primo ministro Son Sann e quelli monarchici di Sihanouk. La guerra è andata avanti così per un altro decennio. Poi i Cinque Grandi, membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno deciso che questo conflitto doveva finire e, dopo lunghissimi negoziati, hanno imposto ai cambogiani un loro accordo di pace. Questo accordo, firmato a Parigi nell'ottobre dell'anno scorso, ha legittimato i Khmer Rossi come uno dei partiti politici del Paese e ha dato a Khieu Samphan uno dei posti nel Consiglio Nazionale Supremo, una sorta di governo di coalizione transitorio presieduto dal principe Sihanouk. Quando cinque mesi fa Khieu Samphan tornò per la prima volta a Phom Penh nella sua nuova veste d i “Eccellenza", una folla di gente dette l'assalto alla casa in cui era andato ad installarsi e cercò di impiccarlo ad un lampadario, ma anche allora Khieu Samphan se la cavò. “Aiutatemi voi, salvatemi", piagnucolava con la faccia coperta di sangue, rivolto ad un gruppo di giornalisti stranieri che erano entrati assieme alla folla, armata di bastoni, nella stanza in cui lui s'era nascosto. Nei giorni che seguirono, a Bangkok s'era discusso a lungo fra colleghi su come si sarebbe dovuto reagire a quell'appello. Ero contento di non essere stato in quella stanza a dover prendere la mia decisione. Ma ora, con lui accanto, che fare? Guardo la sua faccia liscissima, pallida, inespressiva, penso a mille domande, ma non riesco ad aprir bocca. Aut omaticamente prendo un pezzo di carta, scrivo chi sono e chiedo un appuntamento per una intervista. All'inizio della nota mi scopro a scrivere: “Eccellenza". Gli passo il foglio. Lui sorride, lo legge, prende la sua penna e risponde con due frasi in calce. Mi ridà il foglio a due mani, con un gesto cortesissimo di ringraziamento. Mi scopro a rispondergli con un sorriso. Son contento che il volo sia brevissimo. L'esperienza mi sembra la riprova di tutta l'assurdità della soluzione che le Nazioni Unite credono di aver trovato per la Cambogia: lasciando impuniti gli assassini si finisce per trattarli come persone normalissime e lentamente l'orrore del passato viene dimenticato. Ad un piccolo compromesso ne segue uno più grande e alla fine il t utto diventa una rivoltante indecenza. “Lei vorrebbe continuare la guerra civile! Lei vuole che noi continuiamo a morire", mi urlava tre settimane fa Sihanouk alla fine di una lunga conversazione in cui io chiedevo se riportare i Khmer Rossi a Phno m Penh non fosse come rimettere i lupi nell'ovile e se non sarebbe stata meglio una soluzione politica che escludesse i Khmer Rossi o almeno i loro capi storici. “Lei dice così perchè è straniero, ma i cambogiani sono più saggi di lei, capiscono che senza i Khmer Rossi non ci può essere

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pace", urlava Sihanouk. La sua voce rimbombava per le sale aperte del Palazzo Reale, preoccupando le sue guardie del corpo nord.coreane. L'aereo si ferma davanti alla torre di controllo di Pochentong. Khieu Sam phan viene fatto scendere per primo. Ai piedi della scaletta c'è l'ambasciatore inglese a salutarlo. Dei soldati delle Nazioni Unite stanno discretamente di guardia in lontananza. Che la comunità internazionale abbia deciso di mettere quest'uomo sott o la propria protezione invece che tradurlo dinanzi ad un tribunale è parte del compromesso.accordo di Parigi, ma perchè per giunta ignorare sempre di più le sue vittime? Boutros Ghall, il segretario generale delle Nazioni Unite, è venuto per tre g iorni a Phnom Penh a metà del mese scorso. Ha presieduto ad una riunione del Consiglio Nazionale Supremo, ha stretto la mano a tutti i suoi membri (compresi i Khmer Rossi), ha visitato il Museo Nazionale Cambogiano, un centro di ricevimento per i rif ugiati, ma non ha messo piede nella prigione di Tuol Sieng, la Auschwitz cambogiana, e non ha reso omaggio ai morti dell'olocausto. Anzi. Quando ha parlato della missione Onu in Cambogia, ha detto che uno degli scopi era quello di evitare il ripeters i dei “gravi errori del passato". Accetterebbe il mondo che si parlasse dei campi di sterminio nazisti come di “gravi errori"? Le Nazioni Unite portano centinaia di militari e di funzionari civili la cui missione è stabilire “la pace e la democrazi a" in questo Paese martoriato. Alla sera molti di loro si ritrovano al bar del vecchio Hotel Royal. “Ah, lei è già stato qui?", mi domanda un giovane cartografo del Mozambico davanti a una birra. “Sento spesso parlare di Khmer Rouge. Mi dica un pò, c hi è questa donna?". Tiziano Terzani

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giovedi , 18 giugno 1992 I sogni armati di Tokio

di Terzani Tiziano

“Anche un viaggio di diecimila leghe comincia con un semplice passo", dicono gli asiatici che ai gesti simbolici danno sempre un grande peso. La decisione del Parlamento giapponese di inviare, per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, dei soldati nipponici all 'estero ha tutto il peso di un gesto di portata storica. Non è però il primo passo di quel lungo viaggio che il Giappone, sconfitto e umiliato nel 1945, ha intrapreso per tornare sulla scena mondiale nel ruolo di grande potenza. Anche militare. La legge che ora autorizza Tokio a partecipare con sue truppe alle operazioni di pace delle Nazioni Uniti è parte di quel paziente processo di restaurazione che le forze politiche conservatrici giapponesi hanno iniziato molto tempo addietro e che viene lentamente, ma con grande determinazione, portato avanti su vari fronti, da quello dell'educazione, dove si insiste ancora a non dire alle nuove generazioni che cosa davvero fu l'aggressione giapponese in Asia, a quello religioso dove si cerca di rif are dello Shinto la militaristica religione di Stato. È in questa prospettiva che va vista la legge appena varata e che in apparenza ha tante e tali condizioni da farla sembrare innocua e irrilevante. È in questa prospettiva che la legge è stata vi sta in Asia dove ancor più che i ricordi della brutale aggressione giapponese del passato sono i sospetti sull'atteggiamento giapponese del futuro a inquietare la gente. Cina, Corea del Sud, Taiwan e Singapore hanno reagito molto negativamente alla n otizia che dei soldati giapponesi, pur con i berretti blu delle Nazioni Unite, ma con la stessa loro bandiera di un tempo, torneranno a calcare il suolo dell'Asia che mezzo secolo fa misero a ferro e fuoco. Con l'invio dei soldati di Tokio in Cambo gia viene simbolicamente archiviata l'immagine del Giappone non.violento, pacifista, interessato solo al progresso suo e del mondo. Nell'immediato dopoguerra, sull'onda del trauma atomico di cui il Giappone fu vittima, e su pressione americana, il Paese si dette una Costituzione che includeva la importantissima “clausola di pace". Con quella il Giappone rinunciava, a lettere semplici e chiare, ad avere delle sue Forze Armate. Pareva davvero che i giapponesi, l'unico popolo che aveva fatto su lla propria pelle l'esperienza dell'olocausto nucleare, si fossero impegnati a ridare una speranza pacifista all'umanità, a diventare il centro mondiale di una cultura della non.violenza che aveva i suoi templi nelle sempre impressionanti rovine di H iroshima e Nagasaki. Fu un'illusione. Bastarono pochi anni perchè quella “clausola di pace" fosse “interpretata" e perchè il Giappone si facesse un esercito, una marina e una aviazione che, per puro pudore formalistico, si chiamarono e continuano a chiamarsi Forze di Autodifesa. Ovviamente, per renderla

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accettabile, la creazione di quelle Forze fu soggetta a certe condizioni; ad esempio quella che non costassero mai più dell'un per cento del bilancio nazionale. Ebbene, col passare degli anni , una dopo l'altra quelle condizioni sono state messe da parte e superate. L'ultimo superamento è ora che quelle truppe possono essere anche impiegate all'estero. Ovviamente anche questo impiego è soggetto a varie condizioni (non più di 2000 uomini, solo in missioni di pace, solo nei servizi logistici), ma l'esperienza ormai insegna che anche queste condizioni verranno a una a una, passo passo, superate in quel viaggio di diecimila leghe la cui meta è di fare del Giappone una Grande Potenza. E u na Grande Potenza non è tale senza delle Forze Armate capaci di difendere il proprio territorio, gli accessi al proprio territorio, le vie di comunicazioni del proprio territorio col resto del mondo, eccetera... Il Giappone quella forza in pratica ce l'ha già. Deve solo toglierla da quel sospetto di illegalità in cui vive (la Costituzione dovrà essere modificata con l'eliminazione della clausola di pace); deve toglierla dall'isolamento sociale a cui i militari sono costretti specie all'interno del Giappone stesso. La Cambogia è stata una splendida scusa per far superare il tabù dell'invio dei soldati fuori dal Giappone. È stata una buona scusa anche per i tedeschi che . anche loro per la prima volta dal 1945 . hanno mandato dei loro uom ini in uniforme fuori dall'area NATO. Non è certo casuale che i due Paesi aggressori e i due sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale fanno, allo stesso tempo, un passo nella stessa direzione: è simbolicamente la fine del passato. Accanto a questa s imiglianza c'è però una grande differenza. I soldati tedeschi vengono da un Paese che negli ultimi 40 anni ha fatto un grande esame di coscienza sulla sua storia, che ha accettato la colpa dei suoi misfatti e ha educato le sue nuove generazioni ai pr incipi democratici e d'umanesimo oggi accettati dai più. I soldati giapponesi invece vengono da un Paese che rifiuta di guardare alla sua storia, che ai suoi bambini non dice ancora la verità su episodi come il massacro di Nanchino e gli esperimenti batteriologici sui prigionieri di guerra; un Paese che continua a credere di non aver fatto torno a nessuno, ma di essere stato vittima di un torto. È questo che preoccupa; non il fatto che il Giappone manda dei suoi genieri a rifar ponti e strade in Cambogia. Tiziano Terzani Dalla prima pagina

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giovedi , 21 maggio 1992 improvvisa schiarita nella crisi thailandese Parla il re, tregua a Bangkok

Terzani Tiziano

Il primo ministro, il generale Suchinda, annuncia una grande amnistia e riforme costituzionali Insistenti voci di una spaccatura nelle file dei militari: resta il rischio di uno scontro tra due eserciti A tarda notte, la crisi thailandese si è avviata verso una possibile soluzione: il primo ministro, generale Suchinda, ha annunciato la liberazione immediata delle persone arrestate durante i disordini e ha promesso riforme costituzionali. Libertà anche per il leader dell'opposiz ione, Chamlong Srimuang, il quale ha pregato i dimostranti di sospendere la protesta. Tutto questo è avvenuto dopo un incontro dei due con il re, Bhumibol Adulyadej, affiancato dall'ex premier Prem Tinsulanonda. “Non voglio vedervi combattere, ma par lare l'uno con l'altro perchè questo è il nostro Paese", ha detto il monarca ai due rivali, inchinati dinanzi a lui, in un breve discorso trasmesso dalla Tv. BANGKOK . I cadaveri vengono bruciati, di nascosto, dai militari in un crematorio poco dis tante dall'aeroporto, ma le tracce del bagno di sangue, imposto dal primo ministro Suchinda a questa città, non vengono per questo cancellate dalla coscienza della gente. La rabbia resta fortissima, le manifestazioni di sfida contro il regime continu ano numerose. Durante tutta la giornata, attorno al centro storico di Bangkok, ancora presidiato da migliaia di soldati, sono proseguiti gli attacchi dei dimostranti, gli incendi dei posti di polizia, i falò di auto e di pneumatici. All'università di Ramkhamhaeng è proseguita la veglia di alcune migliaia di studenti, mentre lungo le strade attorno, altri dimostranti erigevano barricate con sacchi di cemento e decine di bombole del gas pronte ad essere fatte esplodere nel caso di un attacco. Nonostante i tre giorni di brutale repressione, Suchinda non è riuscito a domare la protesta popolare, ma invece di dimettersi ed andarsene (un aereo pare sia già pronto per lui all'aeroporto) l'ormai odiatissimo primo ministro ha deciso di vendere c ara la sua pelle: ha imposto il coprifuoco alla capitale e ha ricordato alla popolazione che i soldati sono pronti a soffocare ogni disordine. Non tutti i soldati. Corrono sempre più insistenti le voci di una spaccatura nelle forze armate; si parla di importanti spostamenti di truppe verso la capitale e di primi scontri nella periferia fra unità fedeli a Suchinda ed altre che avanzano per sloggiarlo. L'uomo che viene ora indicato come il capo simbolico di questa resistenza armata è l'ex primo ministro Prem, anche lui un ex generale, molto vicino al re e rispettato dalla gente. La crisi innescata dal movimento per la democrazia che voleva le dimissioni di Suchinda, perchè . autore del colpo di Stato dell'anno scorso . è diventato primo m inistro senza mai presentarsi alle elezioni,

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potrebbe ancora risolversi in uno scontro fra militari e Bangkok trema all'idea di divenire il campo di battaglia fra due eserciti. Quanti sono stati i morti finora? Dirlo con esattezza è impossibile. Il regime sta facendo di tutto per confondere le acque e far sparire le prove. Alla televisione Suchinda ha detto che i morti erano stati “soltanto" 40 (ammissione di per sè sconcertante), ma la gente per le strade si racconta storie in cui alla fine i l numero delle vittime è di alcune migliaia. “Tremila... cinquemila morti... ditelo al mondo", si sentono ripetere i giornalisti che si avventurano fra la folla infuriata che avanza e retrocede, come in una guerra di trincea, davanti agli schierament i di soldati nelle strade fra il tempio del Budda di smeraldo, la pagoda della Montagna d'Oro e la Città Cinese. La verità è forse che fra 100 e 200 persone sono state uccise. Una ottantina di cadaveri sono stati rintracciati attraverso gli ospedali, gli altri sono stati fatti sparire. Testimoni dicono di aver osservato camion militari entrare nel recinto di un tempio buddista nei pressi dell'aeroporto e di aver visto per ore il fumo uscire dal suo crematoio. Un commovente appello contro la vi olenza è stato lanciato dalla principessa Sirindhorn, la seconda figlia del re e il personaggio della famiglia reale più rispettato dalla gente, dopo il sovrano. “Se posso avere un desiderio . ha detto parlando alla Tv la principessa . è che quelli c he hanno il potere mettano fine alle uccisioni". Le circostanze di questo messaggio sono state particolarissime. La principessa ha parlato da Parigi dove si trova in viaggio. All'inizio della trasmissione.intervista ha detto di non essere riuscita pe r molto tempo a mettersi in contatto con la famiglia, ma di aver poi finalmente parlato con il padre. Alludeva con questo al fatto che il re è come prigioniero di Suchinda? Che la principessa abbia poi detto di voler tornare immediatamente in Thailan dia, ma di aver scelto di restare ancora fuori per “finire la sua missione" vuol forse dire che il re la vuole fuori da qui e libera di parlare . come ha fatto ora . in suo nome? Comunque la crisi si risolva, gli avvenimenti di questi giorni pesera nno enormemente sul futuro di questo Paese che troppe volte si è illuso di essersi emancipato dalla sua tradizione autoritaria e feudale e di essere diventato un esempio di successo economico e di modernità asiatica. Le spaventose scene di violenza r esteranno come simbolo di instabilità e rischio nella mente di tutti gli investitori stranieri. L'industria turistica, qui un'importante fonte di valuta straniera, ha subìto un colpo durissimo. Fa impressione vedere le hall scintillanti degli albergh i di lusso animate solo dal trascinarsi di inservienti e camerieri che non hanno nessuno da servire. Il prezzo che Suchinda finirà per far pagare al Paese nel tentativo di restare al potere è immenso ed è per questo che diminuiscono di ora in ora q uelli che sono dalla sua parte. Fra i generali stessi diventano sempre di più quelli che vedono nella insensibilità storica e nella arroganza di uno di loro il rischio che l'intera classe militare venga stigmatizzata e relegata d'ora innanzi ad un ru olo sempre più marginale nel futuro del Paese. Nel movimento per la democrazia alcuni vedono questo come una

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delle conseguenze positive della attuale crisi. "È l'ultimo hurrah dei militari. Dopo di questo non potranno più scendere in strada", dicono. Per ora ci sono e fanno una terribile paura. Tiziano Terzani

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mercoledi, 20 maggio 1992 dietro il bagno di sangue si nasconde una spietata lotta per il potere tra generali ed ex generali Bangkok, il terrore sulla citta

Terzani Tiziano

Diecimila studenti, barricati nell'univer sità, pronti allo scontro. La gente invoca un intervento del re Il primo ministro Suchinda appare in Tv e giustifica la repressione: "È una sovversione comunista" BANGKOK. Una città ammutolita, deserta, tremante. Dopo un'altra notte di scontri e di feroce repressione, dopo altre decine di morti, centinaia di feriti e migliaia di arresti, Bangkok ha perso le sue luci, il suo traffico, la sua vitalità. Ufficialmente la legge marziale non è stata ancora dichiarata, ma questo è il regime che ormai governa la città. I mezzi di trasporto pubblici sono scomparsi, i negozi sono chiusi, le strade deserte. Pattuglie di “volontari" civili, armati fin o ai denti, circolano su dei camioncini scoperti per mandare i pochi curiosi, rimasti sui marciapiedi, a chiudersi in casa. Diecimila studenti si sono barricati nella più grande università di Bangkok alla fine di una grande strada a sei corsie sfid ando lo stato di emergenza. “Verranno ma noi non ci muoveremo", promette uno studente mentre ammassa pietre e sacchi di sabbia. Il governo del generale Suchinda cerca di restare al potere imponendo un clima di terrore sulla città, ma la partita non è affatto chiusa e le prossime ore saranno decisive. In campo non c'è più soltanto un movimento popolare democratico che vuole le dimissioni di un generale, fattosi primo ministro senza essersi mai presentato ad una elezione; ci sono anche gruppi interessati ad aumentare la tensione, agenti provocatori, bande di sabotatori che agiscono per conto di forze politiche nell'ombra o nell'interesse di semplici saccheggiatori. In gioco non c'è più la posizione di Suchinda, come primo ministro, ma l'a ssetto politico della Thailandia ed il futuro ruolo delle Forze Armate. Dietro gli scontri fra soldati e dimostranti per la democrazia c'è ormai una lotta per il potere che coinvolge alcune delle più importanti figure del Paese, ognuno disposto a g iocare fino in fondo le sue carte. Fra le tante voci che corrono in città ci sono quelle di una sempre più profonda divisione nell'esercito e per questo di un possibile colpo di stato da parte di elementi contrari a Suchinda. La gente teme altri ed ancora più violenti scontri e si augura un intervento del re, una figura ancora rispettatissima. Per ora il sovrano non si è pronunciato. Il suo palazzo, al centro della vecchia Bangkok, oggi era completamente isolato da barriere di filo spinato e g uardato da una decina di autoblindo. Il fatto che durante gli scontri della notte un'unità dei marines abbia aperto un varco per far scappare centinaia di dimostranti braccati da un reparto di fanteria, è un'indicazione del

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diverso attegiamento che le varie unità delle Forze Armate stanno prendendo nei confronti della repressione. Gli scontri più violenti sono avvenuti di nuovo attorno alla grande piazza di Sanam Luang, davanti al tempio del Budda di Smeraldo, che centinaia di turisti visita no ogni anno. All'alba i soldati hanno avuto l'ordine di avanzare sulla folla. Alcuni sono stati caricati dai militari su dei camion e portati via, altri sono stati trascinati dai dimostranti nella hall del Royal Hotel trasformata in un ospedale da c ampo. Centinaia di dimostranti sono stati fatti distendere per terra, e con le mani legate dietro la schiena sono rimasti alla mercè dei soldati, prima di essere portati via. L'hotel Royal stesso è stato poi invaso dai militari che hanno perquisito t utte le camere sparando e sfondando le porte che non venivano aperte alla svelta. Nel giro di poche ore l'intera zona era occupata dai militari e da decine di carcasse di macchine e motociclette date alle fiamme durante gli scontri. Nel primo pomer iggio il generale Suchinda è apparso in televisione a spiegare la ragione dei disordini e la necessità della repressione. Ha parlato di “sovversione contro lo Stato e la Monarchia" ed ha indicato fra i responsabili i “comunisti" ed un personaggio con sospette simpatie nei loro confronti. A nessuno è sfuggito che Suchinda alludeva al generale Chavalit, ex comandante supremo delle forze armate ed ora capo di uno dei più importanti partiti di opposizione. Chavalit sarebbe stato uno dei più probabil i candidati al posto di primo ministro se l'anno scorso Suchinda non avesse fatto il suo colpo di Stato ed avesse fatto deragliare il naturale corso politico del Paese. Il fatto che Suchinda sia ricorso al vecchio spettro della “sovversione comunis ta" per giustificare il bagno di sangue che ha imposto a questa città, è la riprova della sua incomprensione per i profondi mutamenti avvenuti nella società thailandese. Il boom economico ha creato una importante classe media che non è più disposta a farsi ignorare dai potenti e a farsi imporre soluzioni politiche che riflettono solo i compromessi fra i generali sul modo di spartirsi la torta. Il movimento per la democrazia che è all'origine delle manifestazioni di massa contro l'imposizione di un primo ministro non eletto, ha le sue radici in questa classe emergente di professionisti e di tecnici non più prigionieri del sistema feudale su cui si è fondato l'ordine del passato. Suchinda ha sottovalutato la forza di questa gente ed ha cred uto di poter fare a Bangkok quel che i suoi colleghi birmani hanno fatto nel 1988 a Rangoon ed i dirigenti cinesi hanno fatto sulla Piazza del Tien An Men tre anni fa. Quelli con un bagno di sangue erano riusciti a sconfiggere i loro oppositori democ ratici ed a restare al potere. Suchinda ha creduto di poter fare lo stesso e di farsi poi, come hanno fatto gli altri, perdonare dal mondo. Ma la Thailandia di oggi non è nè la Birmania dall'economia di sopravvivenza, nè la Cina totalitaria, ed il ba gno di sangue è inaccettabile dentro e fuori al Paese. Suchinda non ha più l'appoggio di nessuno, tranne che i militari stessi . e neppure di tutti. Il mondo degli affari, che vede l'economia del Paese danneggiata profondamente da quel che avviene, gli è più contrario

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che mai, mentre le masse sono scioccate dalla arrogante brutalità con cui quest'uomo ha deciso di trattare i suoi oppositori in un Paese in cui l'arte del compromesso e della non.confrontazione è una delle più apprezzate. Suchi nda non riuscirà a lungo a restare al potere e la lotta per succedergli, diventata ora acutissima, si lega e si confonde con gli scontri fra dimostranti pro.democrazia e soldati. Fra gli uomini che in queste ore giocano le loro carte ci sono certo pe rsonaggi come il generale Chavalit che si è visto tagliare la strada alla testa del Paese da Suchinda ed il generale Chatichai, il primo ministro democraticamente eletto che Suchinda rovesciò col suo colpo di Stato del febbraio scorso. Ognuno di qu esti uomini ha dei fedelissii all'interno delle Forze Armate ed il timore è che un regolamento di conti politici fra ex.generali possa innestarsi sulla lotta dei dimostranti pro.democrazia e provocare scontri ancora più sanguinosi. Da qui la speran za che dal suo Palazzo, il Re, ora . protetto o prigioniero dai militari al potere? . intervenga a rimandare i soldati nelle caserme. Tiziano Terzani

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martedi , 19 maggio 1992 migliaia di poliziotti e soldati hanno sparato sulla folla: le vittime potrebbero essere piu di duecento A Bangkok esplode una Tienanmen

Terzani Tiziano

Le strade, le piazze e i ponti sono un campo di battaglia. Il primo bilancio è di 15 morti, non si contano i feriti Il governo del generale Suchinda teme che la rivolta contagi le province: stato d'emergenza in tutta la Thailandia BANGKOK. La guerra è arrivata nel cuore di questa frenetica città seminando la sua solita, ammutolente tristezza: una quindicina di morti, centinaia di feriti, macchine distrutte ed edifici in fiamme. Il capo dell'opposizione, Chamlong, è stato arrestato assieme a centinaia di suoi seguaci, ma la lotta fra i dimostranti per la democrazia ed i soldati non è finita. Le strade, le piazze ed i ponti sono il campo di battaglia. Sotto i profili elegan ti delle pagode si stagliano ora quelli delle autoblindo e delle mitragliatrici. I falò dei dimostranti rischiarano la notte. Le pallottole traccianti dei reparti speciali dell'esercito continuano a scrivere minacciosi messaggi nel cielo nero. La c risi è precipitata nelle prime ore dell'alba. Circa centomila dimostranti occupavano ancora la piazza attorno al Monumento della Democrazia ed il grande viale Rajadamnoen chiedendo le dimissioni di Suchinda, il generale che un anno fa fece il colpo d i Stato e che ora è primo ministro pur non essendosi neppure presentato alle elezioni. Migliaia di poliziotti e soldati in assetto di guerra sono entrati in azione per disperdere la folla. Gli scontri sono durati tutta la giornata. I poliziotti han no attaccato con i manganelli, i soldati sparando in aria ed a volte appena sopra la testa della gente. I dimostranti hanno reagito prima con scariche di sassi, poi con bombe Molotov. Decine di macchine sono state date alle fiamme. Autobotti dei pomp ieri, i cui idranti venivano usati per sloggiare dimostranti seduti sull'asfalto della piazza, sono state prese d'assalto e distrutte. Nel primo pomeriggio i soldati avevano conquistato il centro simbolico dei dimostranti, il Monumento alla Democra zia, avevano disperso il grosso della folla ed arrestato alcune centinaia di persone, spedite via con le mani legate sulla schiena su degli autobus militari, ma la confrontazione continuava. Rullano i tamburi Molti gruppi di migliaia di persone sfidavano i soldati in vari punti del centro e si facevano sotto le barriere di filo spinato messe su dall'esercito. Alle urla “Suchinda fuori", ed al rullare dei tamburi usati dai dimostranti, facevano eco le intermittenti scariche dei mitra. Il governo di Suchinda ha adottato misure speciali per impedire che la notizia degli scontri a Bangkok funzionasse da scintilla nelle province e che nuovi dimostranti venissero ad unirsi a quelli già per le

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strade. Lo stato di emergenza vige ora nel P aese. Una rigida censura è stata imposta a tutti i mezzi di comunicazione. I giornali di stamani sono apparsi con enormi spazi bianchi. Persino l'“Herald Tribune" è stato distribuito solo dopo che la didascalia di una foto degli scontri pubblicata in prima pagina era stata resa illeggibile da una lunga striscia nera. I vari canali televisivi non hanno fatto vedere i filmati di quel che succedeva in città. Le trasmissioni via satellite delle televisioni straniere sono state interrotte per imped ire che si vedessero qui le immagini altrimenti disponibili nel resto del mondo. In questo clima di incertezza sono nate le più strane voci. Secondo alcune fonti, poi riprese dalle agenzie e quindi diffuse in tutto il mondo, i morti sarebbero stati addirittura 200 e fra questi ci sarebbe stata anche una giornalista straniera. Il silenzio degli ospedali È circolata anche la notizia che lo stesso Chamlong, l'ascetico ex governatore di Bangkok che guida la campagna per la modifica della Cos tituzione e le dimissioni di Suchinda, era stato ferito. Per impedire una ricostruzione esatta dei fatti il governo ha ordinato agli ospedali dove le vittime degli scontri vengono ricoverate di non fornire dettagli alla stampa. Gli scontri hanno ovviamente bloccato la normale vita della città. I quartieri frequentati dai turisti sono semi.deserti. I grandi alberghi della città hanno cancellato moltissime delle funzioni in programma ed hanno dovuto registrare l'affrettata patenza di alcune ce ntinaia di ospiti stranieri, ma non ci sono notizie che fra questi ci siano state delle vittime. All'origine di questa crisi . la più grave in Thailandia da quella che rovesciò la dittatura militare nel 1973 . c'è il colpo di Stato del febbraio del l'anno scorso. Un gruppo di generali con a capo Suchinda decise di rovesciare il governo democraticamente eletto allora al potere. Il putsch venne accettato dalla popolazione senza particolare reazione. La giunta promise di fare presto delle elezio ni e Suchinda promise che non sarebbe diventato primo ministro. Le elezioni ci sono state, ma dopo uno strano tentativo di mettere a capo del governo un uomo che gli Stati Uniti hanno nelle loro liste dei grandi sospetti nel traffico mondiale della d roga, Suchinda accettò il posto di capo di governo scatenando così una massiccia reazione popolare. Il catalizzatore di questa opposizione è l'ex governatore di Bangkok, Chamlog, che ha cominciato con uno sciopero della fame ed ieri con l'occupare si mbolicamente, con la più grande folla che Bangkok ha visto in vent'anni, il Monumento alla Democrazia. Quel monumento è ora un bivacco di militari, Chamlong è in galera, Suchinda ancora al potere, ma il cuore di Bangkok ancora il campo di una batta glia non conclusa. Tiziano Terzani

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giovedi , 23 aprile 1992 il disperato viaggio dei Rohingya, il popolo musulmano che chiede aiuto a uno dei paesi piu poveri del mondo. quando il paradiso e in Bangladesh

di Terzani Tiziano

Da un anno abbandonano in massa i villaggi della Birmania buddista raccontando spaventose storie di persecuzioni In 230 mila disperati già si accalcano nella piccola Cox's Bazar soffiando sul fuoco del fondamentalismo islamico COX'S BAZAR. Nel silenzio dell'alba si sente il palpitare lontano dei motori, poi dalla foschia biancastra sul fiume si vedono sbucare le sagome nere delle barche che depositano sulla riva il loro quotidiano carico di sofferenza : donne e uomini allampanati, bambini silenziosi, fagotti di vecchi cenci, pentole affumicate. Sono i Rohingya, i musulmani della Birmania, che scappano in Bangladesh in cerca di rifugio. Inebetiti si accampano sotto il sole. Molti hanno camminato per giorni attraverso le montagne prima di riuscire ad imbarcarsi per l'ultima tappa di questo loro disperato viaggio da una miseria a un'altra. La Birmania ed il Bangladesh sono due dei Paesi più poveri al mondo. Il fiume Naaf segna buona parte del loro confine comune. Dall'una e dall'altra parte di questo corso d'acqua le risaie sono avare, le foreste non hanno più alberi da tagliare e la vita della gente è ugualmente dura e breve. Abbandonare casa e campi da una parte della frontiera per scap pare dall'altra è come cadere dalla padella nella brace; eppure da un anno i Rohingya non fanno altro: lasciano a migliaia i loro villaggi nella Birmania buddista e si rifugiano nel Bangladesh musulmano, raccontando spaventose storie di persecuzioni e violenze, assassini e stupri da parte dell'esercito di Rangoon. Per mesi il governo del Bangladesh li ha ufficialmente ignorati. Il drammatico esodo del Rohingya era un segreto. Funzionari e diplomatici di Dacca non ne parlavano e le organizzazio ni internazionali che chiedevano di intervenire per dare aiuto ai rifugiati si vedevano rifiutare il permesso. Dal punto di vista del Bangladesh la Birmania, un Paese retto da una dittatura militare che ha massacrato alcune migliaia di oppositori pol itici e che tiene agli arresti Aung San Suu Kyi, l'eroina del movimento per la democrazia, è un vicino difficile e pericoloso ed il governo di Dacca non voleva provocare i generali di Rangoon dando loro la colpa dell'esodo. Solo a febbraio di quest 'anno il Bangladesh si è deciso a pubblicizzare la tragedia del Rohingya. La “persecuzione religiosa" di questa minoranza musulmana da parte della Birmania buddista, stava agitando il mondo arabo ed il flusso ininterrotto di queste masse di disperati , in una regione fortemente influenzata da gruppi fondamentalisti, stava diventando un fattore di disequilibrio politico,

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all'interno del Bangladesh. Il Paese è, solo da un anno, retto da un governo eletto democraticamente (una rarità questa nel mond o islamico) ed è vulnerabile alle manovre della destra religiosa. “Qualcuno, da qualche parte ha deciso di affogarci in una marea di gente", dice Zufralian Chowdhury, un chirurgo di Dacca, capo di una fondazione che gestisce vari programmi umanitar i nella regione di Cox's Bazar. La marea è già alta: 230 mila Rohingya si accalcano in una serie di campi costruiti lungo la strada che da Cox's Bazar conduce alla cittadina di Taknaaf. Il Bangladesh è uno dei Paesi con la più alta densità di popolaz ione del mondo. Qui non c'è molta terra da sprecare e le colline sono state terrazzate per far posto a file su file di capanne di bambù che da lontano appaiono come dei grandi borghi medievali. Ma lo spazio non basta mai perchè le barche continuano a fare la spola fra le due rive del fiume Naaf ed a scaricare la loro quota di profughi: ora è di 5 mila al giorno. “I soldati mi han detto che non sono birmano e che dovevo partire", racconta Fadal Karim, un contadino del distretto di Maungdaw, app ena sceso da una delle barche con la moglie ed otto figli. Da una cassetta arrugginita tira fuori una manciata di foto e di documenti sbiaditi da cui risulta che è nato in Birmania e che per anni ha pagato le tasse per un pezzo di terra che credeva s uo. “I birmani non si fermeranno fintanto che non avranno ammazzato o cacciato via tutti i musulmani", dice un uomo di mezza età che si avvicina al gruppo dei nuovi arrivati. Succede spesso così. Ogni volta che mi avvicino ad un gruppo di profughi nei campi sulle colline o nella piana dove ancora migliaia di famiglie non hanno che delle frasche per riparo, c'è sempre qualcuno che si fa avanti a suggerire quel che la gente deve dire, a ricordare episodi di ragazze stuprate, di esecuzioni in mas sa di Rohingya che si rifiutavano di partire. In qualche modo non tutte le storie suonano vere. “Certo che ci sono donne che sono state stuprate, ma è difficile avere le prove che questo è avvenuto su vasta scala come alcuni vorrebbero farci creder e", dice un medico occidentale che lavora nei campi profughi. “Certo che i Rohingya sono vittime, ma vittime di chi?". La domanda è importante perchè il consenso generale finora è stato che la colpa di tutta questa faccenda è dei dittatori birmani. N on c'è dubbio che i generali di Rangoon sono responsabili per quel che succede. Ma forse non sono i soli ad esserlo. Già la storia ha la sua parte di colpa. I Rohingya vengono dall'Arakan, una regione remota della Birmania, isolata dal resto del Pa ese dalla catena di montagne Yuma. Sono vissuti lì da secoli, discendenti dei primi commercianti arabi che già nel 600 cominciarono a venire in Asia, dei Mogul che, persa la lotta per il trono dell'India, dovettero scappare, e dei poveri emigranti be ngalesi che cicloni ed alluvioni hanno spinto regolarmente via dalla regione di Chittagong. I Rohingya si sono sempre considerati una popolazione a sè e la lotta fra il loro regno musulmano dell'Arakan e quello buddista della Birmania, è stata una co stante della storia di questa regione. Allo stesso modo lo sono stati i movimenti di popolazione attraverso il

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fiume Naaf, a seconda di chi fosse al potere e di chi si sentisse perseguitato. Cox's Bazar, oggi una cittadina di 25 mila abitanti, cent o automobili, 2.500 risciò, pochissimi telefoni, un solo fax e masse di mendicanti, nacque nel 1799 proprio come campo profughi. Il re birmano del tempo aveva invaso e conquistato l'Arakan e già allora i Rohingya avevano cercato scampo di là dal fium e. Questo esodo era un problema per il regime coloniale inglese ed il capitano Hiram Cox fu mandato a costruire un centro dove questi rifugiati potessero considerarsi a casa. L'Arakan divenne parte dell'India inglese, quando Londra nel XIX secolo ann esse la Birmania; diventò parte della Birmania, quando questa ottenne l'indipendenza dopo la seconda guerra mondiale. La popolazione dell'Arakan è oggi di due milioni e mezzo. I Rohingya sono un milione e quattrocentomila. Giuridicamente sono citta dini birmani, ma è altrettanto vero che tradizionalmente le loro relazioni sono molto più strette con la gente delle regioni frontaliere del Bangladesh che con Rangoon. I Rohingya parlano la stessa lingua della gente di Cox's Bazar e di Chittagong, p raticano la stessa religione; spesso sono indistinguibili fisicamente gli uni dagli altri. Fino ad un anno fa il fiume Naaf era una frontiera aperta. Gli abitanti delle due sponde andavano e venivano liberamente, impegnati in un intensissimo commer cio che giovava ai due Paesi. Centinaia di giovani Rohingya venivano dalla Birmania a studiare nelle scuole coraniche del Bangladesh. I dittatori di Rangoon avevano una loro speciale ragione per tenere aperta quella frontiera: il Bangladesh era div entato, dopo la Thailandia e la Cina, la terza via attraverso la quale facevano uscire le 300 tonnellate di eroina che ogni anno viene prodotta in Birmania ed è destinata ai mercati del mondo. La frontiera aperta giovava anche a due movimenti di gu erriglia musulmana, con base in Bangladesh e formalmente impegnati a lottare per la difesa dei diritti del Rohingya e contro il regime di Rangoon. Questi due movimenti (Arif e Rso) sono di influenza fondamentalista e ricevono aiuti da alcuni Paesi ar abi. Proprio l'anno scorso questi movimenti, che in passato erano rimasti particolarmente in sordina, hanno cominciato a farsi pubblicità e a vantarsi della loro forza. Foto di giovani mujaheddin in addestramento “da qualche parte nella giungla del B angladesh" cominciarono ad apparire nella stampa asiatica e i dittatori di Rangoon dovettero preoccuparsi. La presenza di una guerriglia musulmana, con legami e finanziamenti mediorientali, lungo i confini Ovest della Birmania doveva apparire ancor a più pericolosa che la presenza della guerriglia cristiana dei Karen nelle zone dell'Est. Da qui la decisione di Rangoon di intervenire militarmente. Il grosso delle truppe birmane cominciò ad arrivare in Arakan ad aprile e fu accompagnato dagli ste ssi episodi di violenza e terrore che nelle altre parti del Paese. Interi villaggi vennero evacuati per far posto ai soldati, la popolazione locale venne obbligata a scavare trincee, costruire caserme e trasportare munizioni e provviste per l'esercit o. Ogni atto di resistenza venne punito duramente. Allo stesso tempo cominciò a

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circolare fra i Rohingya la voce che i birmani volevano “ripulire" l'Arakan e sostituire la popolazione musulmana della regione con quella buddista fatta venire da altre parti del Paese. La voce era più che verosimile dal momento che vari regimi birmani hanno già tentato di ridurre la varietà delle razze che formano la società Birmana. Nel 1963 Rangoon cacciò tutti gli indiani, pakistani e cinesi che abitavano nel Pa ese. Nel 1978 cacciò circa 300 mila Rohingya. Una parte di questi vennero poi fatti tornare, mentre altri andarono a vivere in Arabia Saudita. Il regime di terrore imposto un anno fa dall'esercito birmano in Arakan dette il via all'esodo del Rohing ya verso il Bangladesh. Altri fattori sono poi intervenuti a sostenerlo. “Mi hanno detto che qui avrei ricevuto assistenza e sono venuto", dice un uomo nel campo profughi di Balukhali. Non è il solo. Vari rifugiati raccontano di essere stati incoragg iati a passare la frontiera da agenti venuti dal Bangladesh. Ovviamente uomini delle due organizzazioni di guerriglia, gli stessi che ora sono attivissimi nei campi profughi e che incoraggiano i racconti di violenza e massacri in Arakan. I guerrigl ieri fondamentalisti hanno tutto da guadagnare dall'esodo dei Rohingya. L'arrivo di queste masse disperate di musulmani rilancia le loro sorti politiche, mette a loro disposizione una vasta riserva di giovani fra i quali reclutare nuove leve di guerr iglieri e dà loro una nuova giustificazione per andare a chiedere finanziamenti ai loro sponsor medio.orientali, dai dirigenti dell'Arabia Saudita a Gheddafi. Paradossalmente gli stessi aiuti internazionali, arrivati con grande efficienza non appen a il Bangladesh li ha chiesti, stanno ora contribuendo all'esodo dei Rohingya. “L'esercito birmano ha certo l'effetto di spingere via la gente, ma noi con la nostra semplice presenza qui abbiamo l'effetto di attirarli", dice un funzionario di una del le organizzazioni umanitarie che lavora coi profughi. “Prima che venissimo noi coi nostri aiuti i rifugiati arrivavano al ritmo di mille al giorno. Ora quel ritmo è cinque volte più grande". L'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati co struisce i campi e coordina l'opera di assistenza di vari altri organismi privati e statali che sono accorsi alla frontiera. Quel che l'assistenza internazionale offre ai Rohingya è già l'invidia della popolazione locale e ci sono già casi di famigli e del Bangladesh che entrano nei campi profughi dichiarandosi Rohingya per godere di un pasto sicuro al giorno e delle cure mediche. È ovvio a tutti che l'unico modo di risolvere il problema del Rohingya è di costringere la Birmania a riprenderseli , ma al momento la comunità internazionale non sembra in grado di imporre questa soluzione a Rangoon. Da qui la necessità di aiutare i profughi dove sono, cioè in Bangladesh, con tutti i problemi che ne derivano. "È ironico, ma così facendo finiamo p er aiutare i birmani a cacciare tutti i musulmani da casa loro e per aiutare i fondamentalisti islamici a crearsi una solida base in un Paese finora senza un vero problema di radicalismo religioso", dice un osservatore occidentale. Molti bangladesh i cominciano ugualmente a preoccuparsi. Alcuni sono inquieti per il fatto

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che l'esercito di Dacca usa della “minaccia birmana" per riarmarsi e riguadagnare potere (sono in corso negoziati discreti per nuove forniture di armi da parte del Pakistan), a ltri per le vere intenzioni dei gruppi di guerriglia musulmana che hanno campi di addestramento nel territorio del Bangladesh. "È vero che il vostro obbiettivo a lungo termine è quello di creare una Repubblica Islamica dell'Arakan che includa anche p arti dell'attuale Bangladesh?", ho chiesto, durante un incontro notturno al lume di candela al capo dei Mujaheddin del gruppo Rso (Rohingya Solidarity Organization). “Dipenderà dalla volontà del popolo" ha risposto, raccontandomi poi di avere da poco comprato una partita di armi che provenivano dalla Cambogia. Per alcuni intellettuali di Cox's Bazar, la vista della loro cittadina “assediata" dai rifugiati e le attività di questi guerriglieri fondamentalisti islamici non promette niente di buon o. “Piuttosto che usarle contro i militari birmani, ho paura che quelle armi finiranno per usarle contro di noi", diceva preoccupato un vecchio medico. Qualcuno ha deciso di affogarci in un mare di gente Armi dalla Cambogia ai mujaheddin del Rso Un anno fa il confine era aperto, anche alla droga

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giovedi , 09 aprile 1992 Bangkok: i militari s' impossessano anche del governo

Terzani Tiziano

BANGKOK. La dittatura militare thailandese si è istituzionalizzata. Il generale Suchinda Kraprayoon, l'uomo che 14 mesi fa organizzò il colpo di Stato e rovesciò uno dei pochi governi democraticamente eletti di questo Paese, è stato nominato primo ministro e si apprest a a presentare il suo gabinetto in cui i principali ministeri saranno affidati a dei militari a lui fedeli. Tutte le promesse dei generali di non volere rimanere attaccati al potere e la pretesa di volere, con le elezioni tenutesi 10 giorni fa, rimet tere la guida del Paese nelle mani del popolo si rivelano, ancor prima del previsto, per quel che erano: delle vuote parole. Il generale Suchinda, comandante supremo delle forze armate, non è stato candidato alle elezioni, non ha ricevuto alcun man dato popolare, ma con la sua nomina ora a primo ministro ha garantito la sua sopravvivenza politica e quella dei suoi compagni della “classe 5", autori del putsch di febbraio. Con una Camera dei deputati in cui i partiti dell'alleanza pro.militare ha nno la maggioranza ed un Senato in cui tutti i 270 membri sono stati scelti dai militari non c'è pericolo di una mozione di sfiducia e tanto meno di una revisione della Costituzione che i militari hanno fatto scrivere soprattutto per proteggere i pro pri interessi e che l'opposizione democratica avrebbe tanto voluto emendare. Ogni cambiamento diventa ora impossibile. La nomina di Suchinda, un militare di particolare intelligenza e di grande ironia, viene al termine di una drammatica settimana p olitica in cui i partiti di maggioranza avevano designato come primo ministro Narong Wongwan, un politico tradizionale . guarda caso . subito dopo accusato d'essere coinvolto da anni nel grande traffico della droga e di essere stato per questo bandit o dall'entrare negli Stati Uniti. Per giorni Narong, negando le accuse, ha cercato di non rinunciare all'incarico, ma alla fine ha ceduto, lasciando così la via libera a Suchinda, che ora si presenta come l'unico in grado di ridare “faccia" al Paese e fiducia alla gente. Con il colpo di Stato del febbraio scorso l'immagine della Thailandia nel mondo ha notevolmente sofferto. La vicenda di un uomo come Narong, da anni al centro di voci ed insinuazioni che lo legano al commercio di eroina e che stava per diventare primo ministro, ha ancora contribuito all'indebolimento di quella immagine. La nomina di Suchinda taglia la testa al toro. Nei palazzi del potere non ci sono più uomini di paglia dei militari. Ci sono i militari stessi ed alla t esta dei militari c'è il loro personaggio più potente, Suchinda. Questo dovrebbe garantire stabilità alla Thailandia. Almeno fino a che altri militari non saranno insoddisfatti della fetta di torta che viene loro assegnata nella

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spartizione degli aff ari legali ed illegali del Paese e cercheranno un modo per averne una più grande. Tiziano Terzani

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domenica , 22 marzo 1992 dopo il golpe dell' anno scorso la giunta thailandese cerca di legittimare il suo potere davanti al mondo chiamando oggi il popolo alle urne Bangkok, voto all' ombra dei militari

Terzani Tiziano

Una “democrazia guidata" dai generali: in 60 anni ben 17 colpi di Stato, con 40 mila lire si compra un elettore BANGKOK. Anche le dittature, di tanto in tanto, hanno bisogno di indire delle elezioni. Quella thailandese le ha organizzate per oggi. In ballo non è tanto la composizione di una nuova Assemblea Nazionale, quanto l'immagine di questo Paese che negli ultimi anni ha preso vari colp i ed ha al momento un'aria particolarmente incrinata. Circa trenta milioni di thailandesi hanno il diritto a votare. Meno della metà lo faranno: molti perchè alla democrazia non sono abituati, altri perchè sanno in partenza che il loro voto questa vo lta non vale granchè. Per “incoraggiare" la gente a presentarsi alle urne alcuni partiti offrono premi attraentissimi: un voto vale fra gli 800 ed i 1000 Bath (fra le quaranta e le cinquantamila lire) . l'equivalente di una settimana di lavoro . e molti sono pronti a vendere il proprio al maggiore offerente. Le banche non hanno più biglietti da 50 Bath dopo che i vari candidati ne hanno fatto incetta per pagare i loro elettori. Monarchia La democrazia in Thailandia non ha una lunga storia, nè radici profonde. Dal 1932, quando il Paese divenne una monarchia costituzionale, i militari sono stati al potere per un totale di 50 anni, i democratici solo per dieci. Ogni volta che un governo eletto dal popolo ha cercato di stabilire la propri a autorità, gli uomini in uniforme sono prima o poi intervenuti a rovesciarlo. In 60 anni la Thailandia ha avuto 17 colpi di Stato e per 15 volte la Costituzione è stata abrogata e riscritta per servire gli interessi dei potenti del momento. “La di ttatura militare è la versione thailandese della democrazia", dicevano sfacciatamente i generali del passato. Quelli di ora sono più sofisticati, più sensibili alle necessità delle pubbliche relazioni, e preferiscono che il loro regime venga descritt o come una “democrazia guidata". Le elezioni di oggi sono un tipico esempio di questa formula politica: qualunque siano i risultati, i veri vincitori saranno loro, i militari. Il loro gioco è stato semplice, ma astuto. Nel febbraio dell'anno scorso un gruppo di generali tutti usciti nello stesso anno (1958) dalla prestigiosa accademia Chulachomklao, autonominatisi Consiglio nazionale per la protezione della pace, rovesciarono il governo democraticamente eletto di Chatichai Chunhavan e dichiara rono la legge marziale. Il colpo di Stato fu incruento e senza opposizione. L'unico problema incontrato dai carri armati fu che restarono imbottigliati nel traffico. I

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generali dissero subito che il loro principale intento era combattere la corruzione dei politici e di voler presto indire delle nuove elezioni. La corruzione non l'hanno combattuta, ma quanto alle elezioni, hanno mantenuto la parola. Hanno anche fatto di tutto per mantenere il potere nelle loro mani. La prima mossa dei generali fu quella di nominare come primo ministro un rispettato, onesto, ma scialbo diplomatico, Anand Panyarachun. La presenza di quest'uomo servì soprattutto ad evitare che venisse isolata sulla scena internazionale, che le venissero imposte sanzioni più gravi che il taglio di certi aiuti (quelli americani ad esempio) e a far sì che Bangkok potesse ospitare ad ottobre la prestigiosa riunione della Banca mondiale. Dietro questo schermo di rispettabilità garantito dal governo Anand, i generali procedett ero con quello che alcuni accademici qui chiamano il “secondo e più soffice colpo di Stato". Da un gruppo di personaggi scelti da loro stessi, i generali si fecero riscrivere una Costituzione che presto venne approvata da una Assemblea Nazionale da loro designata. Secondo questa Costituzione, ora in vigore, i generali hanno il diritto di nominare il prossimo ministro e se questo non bastasse hanno il diritto di rovesciarlo attraverso un voto del Senato che ha ben più poteri della Assemblea Naz ionale ed i cui membri non vengono eletti, ma sono già stati designati dai generali stessi. L'altra mossa dei generali è stata di creare un loro partito politico, il Samakkhl Tham, e di prendere indirettamente il controllo degli altri attraverso un 'abile “politica di acquisti", simile a quella fatta da noi dalle squadre di calcio. Immagine Ad alcuni politici sono stati pagati “premi d'ingaggio" fino a venti miliardi di lire per passare da un partito ad un altro. Il futuro per questo non dovrebbe riservare alcuna sorpresa: il prossimo governo thailandese sarà telecomandato dai militari. Nonostante questo le elezioni in sè sono per i generali un fatto importante perchè debbono contribuire a dare legittimità al loro potere, a ristabili re l'immagine della Thailandia come un Paese democratico, a riportare gli aiuti americani e una certa dose di rispettabilità internazionale. Il colpo di Stato del febbraio scorso è stato costosissimo per l'economia del Paese. Il flusso di investime nti stranieri è diminuito e più di 60 grandi progetti di sviluppo sono stati cancellati. L'immagine dei carri armati per le strade di Bangkok si aggiunse alle storie sulla spaventosa diffusione dell'Aids nel Paese e certo ha contribuito al brusco cal o del 7 per cento registrato nell'afflusso di turisti. È stato per cercare di correggere questa pessima immagine della Thailandia nel mondo che l'Alta autorità del turismo ha organizzato all'inizio di marzo in Europa una grande operazione di pubbli che relazioni, ma anche quella è soprattutto servita a ricordare una storia che più di ogni altra aveva scoraggiato molti turisti ed aveva persino spinto l'Associazione internazionale degli assistenti di volo a mettere in guardia i suoi membri contro il soggiorno a Bangkok. Rischio Aids La storia era quella di giovani thailandesi che si aggirerebbero con delle siringhe infette di Aids a colpire i poveri passanti. Un episodio del genere è in

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realtà avvenuto una sola volta, ma ha contribuito a catalizzare nella fantasia un generale senso di insicurezza che molti stranieri hanno cominciato a legare alla Thailandia. Fra i fatti che hanno contribuito a questo senso di insicurezza ci sono le improvvise, misteriose morti di un alto numero di turisti nelle loro camere d'albergo (l'anno scorso a Pattaya soltanto sono morti, ufficialmente “per infarto", 61 stranieri), il numero di turisti vittime di bande di criminali specializzati ad esempio nella vendita di “pietre preziose" che risultan o di nessun valore. I generali con le loro belle dichiarazioni ed il governo di Anand con la sua buona volontà non hanno fatto nulla per reimporre dei principi alla vita pubblica del Paese ed a frenare la tendenza generale alla corruzione, all'immo ralità, all'anarchia. Nessuno dei grandi problemi che oggi affliggono la Thailandia, dalla povertà al dilagare dell'Aids, dall'ingiustizia sociale alla violazione dei diritti umani è stato veramente affrontato. La Thailandia resta in verità uno dei Paesi “meno governati dell'Asia", un Paese dove, nonostante la presenza di una vasta ed anche ben addestrata amministrazione statale, niente viene davvero fatto per difendere la società dai suoi mali più vistosi come il lavoro infantile e la prostit uzione (circa 600 mila donne, molte minorenni sono in questa professione), e per proteggere il pubblico contro l'aumento di incidenti provocati dall'assoluta mancanza di rispetto per le più elementari misure di sicurezza. Un anno fa un camion che tra sportava gas è esploso a pochi metri da uno dei più grandi alberghi della città, carbonizzando 100 persone. Due settimane fa altre 100 persone sono affogate di notte quando un ferry, sovraccarico di gente, è stato tagliato in due da un altro battello . “La colpa è dei passeggeri. Noi non possiamo stare a guardare giorno e notte chi rispetta i regolamenti", ha detto il responsabile della capitaneria del porto. Negli ultimi anni la Thailandia ha subito una immensa trasformazione. Il semplice boom immobiliare e la speculazione edilizia hanno creato ulteriori disequilibri fra uno strato di ultra.ricchi che abitano nella città e la massa dei poveri che sono ancora nelle campagne. I valori tradizionali del buddismo vengono sempre più sfidati e r impiazzati da quelli dettati da una ondata di violenza e materialismo. Fra le masse dei thailandesi si diffonde un senso di disorientamento ed il Paese, un tempo regno “del sorriso", ha oggi uno dei più alti tassi di suicidi nel mondo. “L'avidità dom ina ormai ogni aspetto della nostra vita politica, economica e sociale" scrive Sutichial Yoon, direttore del quotidiano “La Nazione". La Thailandia vanta ancora la sua tradizione religiosa della non violenza e della compassione, ma ha uno degli ind ici più alti di crimini commessi con armi da fuoco (6000 all'anno rispetto a 50 in Malesia) e condona la nuova politica della polizia di “giustiziare" a vista i criminali latitanti: in un anno più di 100 “sospetti" sono stati ammazzati dalle forze de ll'ordine mentre cercavano di “sfuggire all'arresto". I critici “Questo Paese avrebbe davvero bisogno di un buon governo, ma non è certo da queste elezioni che lo avremo . dice un professore di scienze politiche all'Università Chulalonkom .. Biso gna

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aspettare che questi generali se ne vadano". Per il momento non ne hanno alcuna intenzione. Giorni fa il generale Sunthorn, presidente della giunta che detiene il potere, ha detto che “il prossimo ministro dovrà essere un militare". Per la gent e che oggi va alle urne è stato un modo per ricordarsi che, qualunque saranno i risultati, quella thailandese resterà una “democrazia guidata"... almeno fino al prossimo colpo di Stato. Tiziano Terzani

Stampato in Firenze

Marzo 2003

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