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ALBERTO MERINI Piccoli viaggi in treno

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Alberto Merini Piccoli Viaggi in Treno

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AALLBBEERRTTOO MMEERRIINNII

Piccoli viaggi in treno

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© 2007 by CLUEBCooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Merini, AlbertoPiccoli viaggi in treno. – Bologna : CLUEB 200779 p. ; 21 cm.ISBN 978-88-491-2971-7

CLUEBCooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna40126 Bologna - Via Marsala 31Tel. 051 220736 - Fax 051 237758www.clueb.comFinito di stampare nel mese di novembre 2007da Legoprint - Lavis (TN)

Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessunaparte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo,inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consensoscritto dei detentori dei diritti.

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INDICE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag 7

Sono di un’altra generazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

L’incontro con la guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14

Il primo viaggio in treno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17

Quando iniziammo ad andare in treno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20

Amore clandestino, in cuccetta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23

Gli zii di Sicilia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26

Il mondo attraverso il finestrino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30

Le stazioni, 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

Le stazioni, 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36

Bico e Gummi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38

La valigia dei migranti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41

Altri incontri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44

Incantesimo nello scompartimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46

Le attrici e gli attori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48

La donna con lo chemisier . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50

Amore e morte lungo le rotaie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53

I cellulari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56

Il piacere della carrozza ristorante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59

Sparatoria in viaggio. Come in un film . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62

La grande abbuffata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65

Leggere in treno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68

Il ritardo. Una specialità italiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 69

Lungo la valle del Reno: in treno da Bologna a Pistoia . . . . 72

Il tempo del ritorno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77

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Premessa

Questi racconti sono stati pubblicati dal Corriere della Seradi Bologna da martedì 31 luglio a domenica 2 settembre2007, nella rubrica “Il viaggio di chi resta”.

È stata la prima volta che ho scritto racconti per ungiornale. Per una vasta platea di lettori uniti dal trascor-rere l’agosto in città. Un’esperienza interessante. Ho im-parato molte cose: ad esempio, a scrivere testi sempre di3900 caratteri. Di conseguenza, ad usare il Computercome un prezioso collaboratore: in un secondo conta leparole che hai scritto, sottolinea in verde quello che nongli piace (anche il Computer ha i suoi gusti) e in rosso glisbagli. Non dà fastidio, lo fa per il tuo bene. Con frec-cette ed altri tasti puoi fare rapide correzioni: ricordarsisempre di salvare!, asciughi il testo, togli il superfluo. Poiimpari che hai un impegno giornaliero da rispettare e tra-sformi l’impegno in una divertente avventura, una sfida.Per fortuna solo una volta ho conosciuto il bianco, ilvuoto: “e ora cosa scrivo?”. Poi l’ho superato: credo che siauna di quelle inibizioni che noi riferiamo al narcisismo,alla necessità di essere i più bravi di tutti. Di solito mi ve-nivano in mente mille storie e il problema era quale de-cidere di scrivere. Ho appreso a dialogare per telefono-

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grande invenzione il cellulare- o per e-mail con una per-sona mai vista: ci trattavamo da amici: Alessandro, il mioriferimento al Corriere.

Avevo inviato i racconti per la prima settimana e me nestavo comodamente a Milano quando Alessandro mi tele-fona: “Ma questi racconti non sono di 3900 caratteri, e ilprimo deve andare in stampa fra poco!”. Avevo speditoquelli sbagliati. Noi psicoterapeuti siamo sempre sospettosicon questi sbagli: Freud ci ha scritto sopra un libro: “Psico-patologia della vita quotidiana”. Poi da Milano ho rime-diato, ma è stato un momento di apprensione.

Tutti i giorni era divertente aprire il giornale: sopra il rac-conto c’era sempre una foto diversa: quale sarà quella dioggi? Il commento per immagini mi piaceva molto. Ancheil logo treno-libro che caratterizzava la serie mi sembrò in-dovinato. Come le poche frasi che qualcuno, Alessandro,immagino, metteva in grassetto. I teorici della comunica-zione queste cose le studiano e le sanno, ma, come lettoreinteressato le ho scoperte scrivendo i raccontini. Fra l’altroè un ben curioso lavoro di squadra fra persone che non si co-noscono.

Per parlare di treni credo sia utile divertirsi a viaggiarcisopra. Sicuramente a me piace. Non ricordo una partico-lare passione da piccolo per quelli elettrici. Alessandroscrisse di un racconto che il viaggio in treno era una meta-fora della vita. Se il viaggio non è solo trasferimento da unposto all’altro, arrivare a, ma è parte costitutiva dell’andare,con il tempo che trascorre e i luoghi che cambiano, sonod’accordo perchè in treno, luogo collettivo come lo è la vita,accadono molte cose. A stare attenti, se si è un po’ fortu-nati, si possono gustare piccoli piaceri, fare piccole ma in-

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teressanti conoscenze e conversazioni. Possono accadere pic-cole avventure o disavventure.

In macchina si è soli, per l’aereo non parlerei di viaggio,ma di un trasferimento, le crociere in mare possono esserebellissime, ma è come andare al parco dei divertimenti.Forse il treno è rimasto l’unico mezzo per conoscere le per-sone e i luoghi che si incontrano e si attraversano. Tuttavia,dato che il principio della civiltà moderna è quello di ese-guire i compiti più velocemente possibile, stanno trasfor-mando anche i treni in aeroplani e tutto questo non saràpiù possibile. Questi raccontini sono quindi un ricordo diun’epoca, forse già delle favole.

Per la loro pubblicazione in questo libro ho cambiato al-cune cose, poche. Ne ho aggiunto uno brevissimo, sui libri.

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Sono di un’altra generazione

Alla stazione di Torino, solitario viaggiatore di un sabatopomeriggio di luglio, attendevo la partenza dell’interregio-nale (linea pessima la Torino-Bologna-Torino) passeggiandosul marciapiede, alla ricerca di improbabili refoli di vento.

Risate e voci attirano la mia attenzione: un gruppo di ra-gazzi (3 ragazzi e 2 ragazze) sta attraversando il vagone. Ve-dono la mia valigia sulla reticella, si fermano, la prendonoe ripartono.

“Ehi!” I cinque, belle fattezze e sicuramente del luogo,buttano la valigia per terra e, sempre festosi e ciarlieri, pro-seguono lungo il treno. Salgo e presidio il posto. Non si samai. Interrogativi cui non so dare risposta. Ladri di valigiecomandati da un losco individuo che ricatta i loro genitori:a sera bisogna portarne un certo numero se no botte o ri-torsioni sui genitori. La tratta delle valigie. Magazzini pienidi valigie rubate, milioni di calzini e mutande usate: da ri-vendere agli extracomunitari? Oppure si tratta di un rito,di un’azione sacrale che segna l’ingresso nell’adolescenza.Ingresso come momento di crisi. Ricordi di rituali esotici,ma anche di un film americano dove ragazzi si sfidano inmacchina verso un precipizio: credo “Gioventù bruciata”con James Dean. Per i torinesi la valigia ha un valore sim-

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bolico, che so, di contenitore e quindi organo genitale fem-minile ( ci starebbe con l’ingresso nell’adolescenza ) o valesolo l’atto di coraggio legato al furto? Dopo la partenza, miaccorgo che hanno preso la bottiglietta dell’acqua e il gior-nale: spontanei insulti.

Continuo ad essere più o meno l’unica presenza del va-gone. Annotta. A Piacenza salgono inaspettate torme di ra-gazzi e ragazze: alcune mi sembrano bambine. Jeans tagliatial ginocchio, larghi bragoni, magliette sbrindulle, capelli difoggia e colori curiosi, catene, specie di scarpe da basket equelle che, credo, si chiamino anfibi. Non so perché, matutte senza laccetti. Molti cani al seguito, generalmentegrossi e marroni.

Così a Fidenza, Parma… ad ogni stazione salgono nutritigruppi di giovani abbigliati alla stessa maniera e accompa-gnati da cani. Non ne ho mai visti così tanti. Ignoravo que-sto amore per gli animali. I cani pagano il biglietto? C’è unamostra? Prima di Piacenza mi ero accorto con dispiacere chetutte le toilettes erano chiuse. Ma i cani, dove la fanno?

Non ci sono controllori o addetti di qualche tipo. D’altraparte non riuscirebbero nemmeno a passare: il treno è let-teralmente zeppo di ragazzi e cani. Due di loro sono distesisulle mie scarpe. Un po’ sbavano. Chissà se mordono. Adogni modo resto immobile.

Dai finestrini aperti entrano vortici di vento caldo, manon esce la puzza, nostra e dei cani. Le tendine schioccanocome fantasmi impazziti. Sono l’unico senza cani e con ilaccetti alle scarpe: una presenza assolutamente anomala.Devo dire qualcosa? Stabilire rapporti? Fantasie su attivitàda antropologo quando sono io l’eccezione che loro po-trebbero studiare: razza in estinzione degli uomini dai lac-

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cetti. Vengo affettuosamente ignorato. A Bologna scen-diamo tutti. Sono contento di essere arrivato. Bologna, cittàdei giovani e dei cani. Non credevo rappresentasse una cosìgrande attrattiva per il sabato sera. Stupito, quasi commossoe orgoglioso. Come stormo di uccelli, si allontanano rapi-damente e non ne rimane neanche uno.

È caldo, quel caldo umido e appiccicoso tipico di Bolo-gna.

All’uscita, una fila mai vista in attesa dei taxi. Volti stan-chi, sudati. Valigie per terra. Sul piazzale non ci sono auto-bus e, per strada, non passa nemmeno una macchina.

“Mi scusi, ma è successo qualcosa?” “C’è il Rave party”“Cos’è il Rave Party?” “Una manifestazione musicale sui ca-mion: è tutto bloccato.” Ritmi in lontananza. “Vede quellasignora anziana che parla al telefonino? Il marito da un’oraè fermo a porta S. Isaia. Non fanno passare nemmeno le bi-ciclette.”

Telefono a mia moglie di non preoccuparsi e vado a dor-mire nell’albergo di fronte alla stazione.

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L’incontro con la guerra

Uno psicoanalista inglese scrisse che è meglio avere parentifastidiosi che non averne affatto. Anzi, i parenti fastidiosisono una risorsa perché i bambini, ecc. I miei parenti fasti-diosi erano i nonni paterni che risiedevano a Firenze. Ot-time persone, per carità, soprattutto a ripensarci oggi, masempre serie e compassate. Quelle che a tavola bisognavastare composti e parlare solo se interrogati. Non ricordo unloro sorriso o un gesto d’affetto. La nonna, poi, credo por-tasse la veletta anche a letto. Per il compleanno del nonnoo genetliaco, come dicevano loro, si andava a trovarli: unariunione generale, con obbligo di partecipazione.

Così, anche in quella primavera del ’42, mia madre ed iopartimmo in treno da Roma, ove in quel tempo si risiedeva.Solo noi due perché mio padre faceva la guerra. Come quasitutti i padri dei miei amici. Della guerra sapevo pochissimo:l’aspetto più rilevante era il furto dei padri. Poi, attribuivoalla guerra il fatto che Topolino, il mio settimanale preferito,aveva smesso di pubblicare le storie di Disney e che non tro-vavo più i fumetti dell’Uomo mascherato e di Mandrake. E,infine, si era cominciato a mangiare male: il “pane nero”, lacioccolata finta ed altre spiacevolezze. Quando andavo al-l’edicola a comprare i miei giornalini mi capitavano sotto gli

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occhi i titoli dei quotidiani che parlavano sempre di glo-riose vittorie dell’Asse. Non ricordo che mi entusiasmassero.Probabilmente ero io che, arrabbiato con la guerra, non vo-levo sapere nulla, ma è anche vero che in casa non se ne par-lava: di mio padre sapevo genericamente che era lontano,ma non mi veniva detto dove. Le piccole lettere che gli in-viavo le indirizzavo alla Regia Marina Italiana. Sospettavoperò qualcosa perchè, quando c’erano le amiche e capitavoin salotto, con grande tempestività mia madre avvisava chec’erano i “tetti bassi” e la conversazione proseguiva in fran-cese. Odiavo essere definito un “tetto basso”. Era chiaro chei grandi sapevano cose che io non dovevo sapere. Vidi il ma-nifesto di Boccasile con la faccia del soldato inglese che ori-glia e la scritta “Il nemico vi ascolta, tacete” per un po’pensai che anche noi bambini facessimo parte dei nemici.

A Firenze la festa ebbe luogo. Ripartimmo il giorno dopo.In treno c’erano molti militari: la cosa mi stupì perché lipensavo sempre a combattere in luoghi lontani.

I nonni ci avevano fatto preparare un cestino con piccolipanini al prosciutto ed altri con la marmellata. In un ther-mos del tè leggero. Stavamo mangiando quando l’ufficialeche sedeva accanto a mia madre disse, indicando con lamano il finestrino: “Guardi, signora, lassù, un aereo! Chissàdove va?”. L’aereo si abbassò verso di noi. “È un aereo ne-mico!”, gridò seccamente l’ufficiale alzandosi in piedi, “Viain corridoio!” Afferrò me e mia madre e ci spinse verso laporta. Cominciò il terribile urlo dell’aereo in picchiata: perla prima volta udii l’urlo della guerra.

Il treno continuava a correre. Pensai a una galleria dovenasconderci. Un boato fece oscillare paurosamente il va-gone, si ruppero tutti i finestrini. Frammenti di vetro ovun-

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que. “Mancati!, commentò professionalmente l’ufficiale, ciha mancati e di molto!, ora tornerà a mitragliarci, ma verràdall’altro lato.” Attraverso l’intrico di corpi concitati che af-follavano il corridoio ci guidò fermamente nello scompar-timento e ci fece stendere per terra. Si sdraiò sopra di noi,reggendoci protettivamente con le braccia. Sentimmo nuo-vamente l’urlo e una specie di scoppiettio:TA-TA-TA-TA-TA! Il pavimento ebbe dei sobbalzi. Il rombo si affievolì escomparve. Non so quanto rimanemmo distesi. L’ufficialeera diventato pesantissimo. Soffocavo. Provai a muovermi.Sentii qualcosa di caldo che mi colava sul collo e sulla fac-cia. Pensai al thermos: doveva essersi rotto. Qualcuno urlò.Movimenti. Ripresi a respirare. Mia madre mi abbracciò.Mi accorsi di essere tutto bagnato di rosso.

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Il primo viaggio in treno

Almeno per quelli della mia generazione, il treno è ancoraimportante non solo come mezzo di trasporto, ma come si-gnificato. “Guarda il treno!”, viene spontaneamente da no-tare all’amico, quando ne passa uno, ma non poniamoattenzione all’aereo che, ronzando in alto, attraversa il cielo.

Di notte, basta solo il fischio lontano di un treno perprovare un attimo di struggente nostalgia. Nell’immagi-nario costruito fin da piccoli, il treno e il viaggio riman-dano all’andare via, alla separazione: qualcuno va equalcuno resta. Diventare grandi, uscire dalla casa dei ge-nitori, ad esempio, ma il treno ci ricorda anche quando, dapiccoli, venivamo messi a letto e lasciati soli: di notte il fi-schio lontano è il treno-mamma che se ne va. Prima dellaguerra si viaggiava molto poco: il primo viaggio in trenonon si scorda mai, pensavo. Ma, quando cominciai ad in-terrogare gli amici mi accorsi che non era proprio così.Quasi tutti (ma non tutti!) ricordavano un viaggio da pic-coli, ma non potevano giurare che fosse il primo. Anchecoloro che avevano abitato in diverse città, non ricorda-vano come ci fossero arrivati. Molti ricordi di quando si èpiccoli, vengono chiusi in certi armadi mentali ardui daaprire. Ci vorrebbe qualcuno a cui chiedere ma, quando si

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è diventati i primi della fila, possiamo interrogare solo noistessi.

Omar Sylla mi raccontava che, in Senegal, i re e i loro di-scendenti hanno i Griots: persone che vivono in famiglia ilcui compito è ricordare tutti gli avvenimenti significativi.Generazioni di Griots che, all’interno della cultura orale, sitrasmettono gli accadimenti della famiglia di padre in fi-glio. Comodo chiedere al proprio Griot: “Quando ho fattoil primo viaggio?”, “Dove sono andato?”, e così via.

Un mio amico, Gianni, è invece sicuro del suo primoviaggio in treno: lui è quasi un primo della fila perchè pos-siede una vecchissima zia di straordinaria memoria, la zia-griot, che ha confermato. Fra tutti quelli che ho ascoltato,è il primo viaggio più bello.

Avviene verso l’autunno del 1946. Gianni abita con tuttala famiglia a Sasso Marconi, in un alloggio di fortuna per-ché la sua casa, come quasi tutte le case di Sasso, compresala stazione, è andata distrutta sotto vari bombardamenti:volevano colpire ponti e ferrovia.

Ha sei anni e deve andare a Bologna a farsi visitare dalProf. Caliceti. Il caso vuole che, proprio in quei giorni, stiaper essere riattivato il collegamento ferroviario con Bolo-gna: si va in treno! Avvenimento veramente straordinario: ilprimo viaggio in treno con il primo treno che riparte dopola guerra e le sue distruzioni. La vita che riprende: un ri-cordo del tutto particolare.

Gianni, molto emozionato, quasi non dorme. La svegliaè alle cinque, la partenza è alle sei.

La stazione è costituita da un simbolico casottino dilegno. Il treno è composto da una locomotiva a vapore contender e due vagoni merci. Nel primo prendono posto i pas-

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seggeri, nel secondo le merci. Gianni ricorda l’immensitàdella locomotiva, gli stantuffi rumoreggianti e fumiganti.L’atmosfera di festa, bandiere, una piccolissima banda im-provvisata con fisarmonica e tamburo, il sindaco con la fa-scia che dice belle cose fra gli applausi. Il capotrenoappoggia una campestre scaletta a pioli al vagone e il piccolodrappello di passeggeri sale: soprattutto operai addetti allaferrovia. C’è ancora tantissimo lavoro da fare a Casalecchioe a Bologna. Dentro, o seduti per terra o in piedi: l’avven-tura costa, ma ne vale la pena. Gianni, su indicazione dellamamma che teme per i calzoni, sta in piedi volentieri. Menovolentieri si allontana dallo sportello aperto ed attraversatoda una sbarra di ferro protettiva. È l’unico posto da doveguardare fuori, ma si può vedere anche stando un po’ di-scosti. Sbuffi, fischi, scuotimenti e si va. Ogni tanto uncolpo di vento porta un po’ di fumo nel vagone. Il trenoprende velocità: meglio delle giostre! Il macchinista, per unacomprensibile gioia, aziona in continuazione il fischio. Piùci si avvicina a Bologna e più aumentano le distruzioni. Èmattino fatto quando si giunge a destinazione. Taxi, S. Or-sola. Tutto a posto.

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Quando iniziammo ad andare in treno

Arrivammo a Bologna nell’autunno del ’48. Avevo 14 anni.La guerra era passata senza morti in famiglia. Era già molto.

Andammo a risiedere in una palazzina. Quando en-trammo nel nostro appartamento c’erano odore di vernicee tracce di tempera sulla palladiana. Tutto nuovo: abitavamola ricostruzione. Fummo fortunati a ritrovarci vivi e giovaniquando il mondo andava dicendo: “ L’orrore è finito, ora sideve vivere.” Proprio in quell’età in cui si cominciava a scal-pitare per uscire dai rassicuranti confini della famiglia. Vivie giovani proprio quando tutta Bologna era percorsa da unavoglia ingorda di stare insieme, amoreggiare, ballare, tiraretardi. Di notte la città sfolgorava di luci. A Sud, le colline,alberate e incolte, dichiaravano la loro disponibilità ad ac-coglierti nel verde: “ andiamo su in collina con la vespa a farl’amor, oh che batticuor!” dice una mia vecchia canzone, “Ginetta “, che racconta quegli anni. Fino quasi al terminedei ’50, i miei amici ed io – i cui genitori giocavano abridge, va detto – fummo fortemente impegnati a vivere,curiosando qua e là. Il jazz, soprattutto, ma anche la pit-tura, il teatro, il go-kart…nel senso di suonare, dipingere,recitare, gareggiare. La scoperta degli scrittori americani:Faulkner, Scott Fitzgerald, Hemingway: anche per noi fu

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una “Festa mobile”. A Bologna tutto sembrava tranquillo,sicuramente non c’era quell’allarme sociale, oggi così mar-cato. Si girava per ogni dove finendo la serata da Lamma(salsicce, fagioli e birra) o al ristorante della stazione (ta-gliatelle e un certo robusto vino rosso). La città si accorgevadegli studenti universitari solo nei 2-3 giorni della “Festadelle matricole”, quando ci si pavoneggiava sotto il Pava-glione indossando i cappelli con il colore della Facoltà e, ipiù anziani e titolati, con pennacchi e mantelli. C’era la sfi-lata dei carri, semplicissimi e artigianali e si andava al ci-nema gratis. Le matricole rasentavano i muri. Solo qualcheschiamazzo di ubriachi durante le notti della Festa. Durantel’ultima Festa a cui partecipai, comparve la Celere con gliidranti: le cose stavano cambiando.

Pensavamo al futuro senza preoccupazione, addiritturacon spavalda allegria, convinti che, senza guerra, tutto sa-rebbe stato possibile. Dalla fine dei ’40 iniziammo anche aviaggiare. Da soli, intendo, senza genitori. Sono più di cin-quanta anni che vado per treni. Da quando c’era la terzaclasse con i sedili di legno, i biglietti erano dei piccoli car-toncini che alcuni dormienti infilavano nel nastro del cap-pello e i cestini di Bologna erano inarrivabili. Si raccontavache c’era gente che veniva a Bologna in treno solo per gu-starseli: certe straordinarie lasagne e polli arrosto. Col cap-pelluccio a visiera e la giacca a righe attraversata da unarobusta cinghia di cuoio, sciamavano i facchini sui marcia-piedi delle stazioni.

Molte cose sono cambiate, molte sono scomparse, ma ilpiacere dei piccoli viaggi in treno è rimasto immutato.

E poi, anch’io oggi abito il futuro. In treno, il controllorelo vedo di rado. La prima volta che avevo la sigla del bi-

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glietto nel telefonino è passato sia all’andata che al ritorno.Una grande soddisfazione: APSBTR-APSNMR.

Stavo andando in agenzia a fare il biglietto per Milanoquando Fabio, amico di un mio figlio, suggerì: “Lo fac-ciamo da casa con la carta di credito e te lo trovi sul cellu-lare.” Quella prima volta sono salito sul treno un po’ incertocirca il mio biglietto virtuale: è bello sperimentare il futuro,pensavo, ma andrà bene questa novità? Tutti hanno sempreil biglietto. Io poi sono vecchio e queste cose vanno beneper i giovani… Al ritorno ero tranquillo anzi, quando è ar-rivato il controllore, ho smanettato il cellulare e, con osten-tata nonchalance, l’ho mostrato senza una parola.

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Amore clandestino, in cuccetta

Viaggiare, oh, era bello viaggiare. Ma non come si diceoggi, per turismo. Sicuramente non eravamo Tucci o Chat-win, ma nemmeno clienti di Alpitour. Si partiva e si andavaa conoscere quello che la piccola età e, soprattutto la guerra,avevano tenuto nascosto. Cosa c’è al di là delle Alpi, oppureoltre il mare? Era sempre un promessa mantenuta di feli-cità. Bastava poco: le persone, gli odori, i cieli nuovi. Forseallora avevamo fiducia ed eravamo capaci di guardare conmeraviglia. Ma il cielo della Francia del sud aveva davverodelle proprie limpide tonalità festose che gli impressionisticonoscevano bene. Tonalità molto diverse dai nuvolosi cieliinglesi, come quelli dipinti da Constable. Ma c’era di piùperchè allora, le donne francesi, ad esempio, erano vestitediversamente da quelle inglesi e da quelle italiane e così perle automobili. In Italia vedevi Fiat –la Topolino-, AlfaRomeo, Lancia. In Francia Peugeot, Renault, Citroen, percui, solo dal traffico, a Parigi entravi subito a far parte di unfilm di Jean Gabin. Oggi, in tutte le città c’è l’identico me-scolone di macchine, comprese quelle che vengono dal-l’oriente. Così per i negozi, il bere, il mangiare, gli odori ei profumi. A Barcellona si gustavano tutti quei buoni piatti,con largo uso di aglio, il cui nome abbiamo imparato suc-

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cessivamente da Pepe Carvalho, a Parigi, ostriche e Musca-det, a Berlino certe straordinarie cotolette con contorno dispaghetti, a Stoccolma aringhe in tutte le salse. Oggi le ostri-che le trovi al supermercato dove arrivano per aereo, cometrovi tutti i vini del mondo. Con Internet ti mandano a casaquello che vuoi. Anche per queste piccole cose, quando an-davi in quei paesi ti sentivi in un altrove, nuovo, da esplo-rare. Con la globalizzazione, tutto il mondo si assomiglia ecapisco quelli che, per il piacere della conoscenza, vanno neisuoi angoli più remoti. Capisco ancora di più quelli che sibattono per far vivere i prodotti locali.

Mi hanno sempre colpito quelle foto della Cina dove si ve-devano strade percorse da migliaia di uomini con l’identicocappello e lo stesso vestito-divisa, sulle stesse biciclette, cheandavano a mangiare lo stesso riso. Credo che sarebbeuguale se vestissero Armani.

Per andare in Spagna o in Francia occorreva il passaporto,si espatriava. Per quei luoghi, allora lontani perchè scono-sciuti, si viaggiava in treno: lento, ma sicuro. Quella fu lastagione dei viaggi in Europa sulla strada ferrata. L’auto-mobile e l’aereo vennero dopo. Ho conosciuto persone chehanno utilizzato la nave per attraversare l’oceano, ma lafretta rese ben presto l’aereo il protagonista assoluto di queigrandi viaggi.

A volte mi sono trovato a dovermi arrangiare perché inqualche “paese straniero”, ero rimasto senza soldi. Senzanemmeno sapere come era successo. Ora è impossibile checapiti. Carta di credito, e via. Allora, ai privati, nemmeno ibonifico bancari. ( arrangiare = lavare i piatti e, quando an-dava bene, fare il cameriere).

Cuccetta di seconda classe: sei posti, tre per lato. Oggi

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non ci andrei, non fosse che per la schiena, ma allora anchele cuccette erano una possibile avventura. Un volta, in unoscompartimento tutto pieno, mi trovavo nella cuccetta alta,a sinistra entrando. Piccolo cuscino d’ordinanza e il sacco infondo ai piedi. In quella di mezzo del lato opposto, una ra-gazza carina, francese. Passata la frontiera, prima di spegnerela luce, due parole e un sorriso. Gli altri 4 erano un gruppoorganizzato e inquadrato che faceva programmi.

Non so quando, mi svegliò con garbo ed allegria, sopra dime. Ad un certo punto, con tutto il movimento che ne seguìcaddi dalla cuccetta:un urlo trattenuto, ma rimasi attaccatocon una mano. Mi arrampicai, gli altri nemmeno si sve-gliarono. Verso l’alba tornò agilmente al suo posto. Succe-devano queste cose in quegli anni. L’idea di “sesso sicuro”non esisteva proprio, c’era solo quella di sesso.

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Gli zii di Sicilia

All’inizio degli anni ’50, quando eravamo presi dalla fre-nesia di viaggiare e conoscere, non si andava solo al di làdelle Alpi, ma nella nostra bellissima Italia.

Due amici, Luigi e Antonio, avevano degli zii a Sciacca, glizii di Sicilia, che li avevano ripetutamente invitati. Nel-l’estate del 1954, credo fosse luglio, mi aggregai e partimmo.Il nostro bagaglio era rappresentato soprattutto da bevandee derrate alimentari: sulla carta il viaggio era lunghissimo,più di 24 ore, e ci eravamo adeguatamente attrezzati. Ov-viamente non mancavano le carte da gioco. Vagone di terzaclasse perché, data la distanza, il biglietto era caro. Di con-seguenza, sedili di legno. Ma eravamo giovani e allegri. Finoa Napoli non successe nulla di particolare. Arrivati versosera, cambiarono il locomotore: misero una locomotiva avapore. Come purtroppo avemmo modo di osservare alungo, era la 685, la più bella, quella tutta nera con le ruoterosse. Dissero che solo la Napoli-Salerno non era ancoraelettrificata, ma la 685 ci portò fino in Sicilia. A Napoli l’al-legria era scemata: credo avessimo impiegato 12 ore e no-nostante molte chiacchiere, vari spuntini e interminabilipartite a carte, la fatica e la noia si facevano sentire. Ave-vamo stretto rapporti cordiali con tutto il vagone composto

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soprattutto da giovani che, emigrati in Svizzera, Germaniae anche in Francia, tornavano in Sicilia per rivedere i fami-liari. Tutti portavano dei regali, in particolare ricordo un ra-gazzo con un enorme pacco: “È un orologio a cucù per miamadre, rispose con fierezza al mio interrogativo, ad ogni oraesce S. Giorgio, e ogni mezzora i soldati a cavallo.” Parla-vano in dialetto siciliano, ma ci si intendeva benissimo. Noi,con la nostra fresca licenza liceale, guardavamo con ammi-razione costoro che se la cavavano da soli, lavorando al-l’estero. E loro ricambiavano raccontando meraviglie deiposti, del cibo, delle donne. Solo molto più tardi conobbila verità della sofferenza. Ma, forse, quei giovani emigratierano veramente entusiasti della loro esperienza. Da Napolia Salerno ci mettemmo un tempo infinito. Scendemmo ariempire le borracce di acqua dalla fontanella della stazione:le bottigliette di minerale, allora, non esistevano proprio.Nel Bar riuscimmo a mettere le mani su due paste secche ealcune caramelle. I nostri amici comprarono invece dei fia-schi di un certo vino nero, grosso e sgarbato che loro beve-vano con esclamazioni di gioia e che a noi parve pessimo.C’era un’afa da foresta birmana. Con i finestrini aperti cimettemmo a dormire. All’alba, invece che in Sicilia, ci sve-gliammo a Battipaglia. Un torrente era straripato abbat-tendo pali della ferrovia e sconvolgendo tratti di binario.Mentre stavano ripristinando la linea era sopravvenuto unguasto tecnico. A posteriori, quel fatto costituì un sinistropresagio della alluvione che, di lì a pochi mesi, il 25 ottobre,avrebbe colpito Salerno, Vietri e Cava, provocando morti edistruzioni.

Del nostro piccolo incidente non sapemmo altro. Ma dis-sero di non muoverci dal treno perchè poteva ripartire da un

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momento all’altro. In effetti ogni tanto la locomotiva fi-schiava, facevamo qualche centinaio di metri e ci si fermava.Con quei piccoli avanzamenti trascorremmo tutto il giorno.Tutto il giorno sotto il sole. Eravamo grigiastri per il fumodella 685 che entrava a folate nelle gallerie: quando ci sof-fiavamo il naso, il fazzoletto diventava nero. Ma eravamoanche bianchi di polvere, graziosamente portata dal ventocaldo con sentore di fieno. Cominciavamo a puzzare vera-mente. I gabinetti erano diventati la peggior cosa delmondo, non solo per i liceali di Bologna. I viaggiatori,quando si fermava, cominciarono a scendere dal treno.Dopo i primi che cercavano di infrattarsi, la gente comin-ciò a fare i propri bisogni sulla scarpata, con le spalle altreno, ma in bella vista.

Quando dal treno si vedevano un paesino o delle case, ipiù volenterosi correvano a fare rifornimento di qualsiasicosa: vino, acqua, pomodori, frutta. Uno arrivò con unaciambella appena sfornata. Il tutto veniva spartito: c’eramolta solidarietà nel nostro vagone, ma, credo, in tutto iltreno. La corsa ai viveri, almeno per noi giovani, da ne-cessità era progressivamente diventata, anche un gioco,una gara. Antonio e pochi altri erano scesi dirigendosiverso una casa colonica distante qualche centinaio dimetri. Improvvisamente il treno partì per fermarsi dopoalcuni chilometri. Conoscendo le doti atletiche di Anto-nio, non eravamo per nulla preoccupati quando, in unanuvola di polvere, li vedemmo arrivare stipati su un mo-tofurgone. Il contadino, ci disse Antonio, dopo averliriempiti di derrate alimentari, aveva voluto accompagnarlia tutti i costi. Queste sortite ci permisero di scoprire l’af-fettuosa ospitalità e generosità degli abitanti: non solo nes-

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suno volle mai un soldo per quello che ci dava, ma si ve-deva che lo faceva con gran piacere.

Verso sera arrivammo allo Stretto, traghettammo e, il mat-tino dopo, eravamo a Palermo. Ci imbarcammo per Ca-stelvetrano su un curioso trenino a vapore: scartamentoridotto e un solo binario. Quando era lanciato credo si viag-giasse a venti chilometri all’ora. Eravamo in un film we-stern. Mancavano solo gli indiani o Buffalo Bill. DaCastelvetrano a Sciacca viaggiammo su un treno ancora piùpiccolo, che andava ancora più piano. Le vetture sembra-vano quelle dei tram con le panche lungo le pareti e i viag-giatori che si guardavano. Noi eravamo molto guardati.Lerci e puzzolenti giungemmo dagli zii di Sicilia suscitandoesclamazioni e commenti che solo la penna di Camilleri sa-rebbe in grado di raccontare. Ma con molta acqua e moltosapone tornammo come prima.

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Il mondo attraverso il finestrino

Siamo nel mondo guardando: vedere per credere. Le luci,le distanze, le maniere di guardare sono infinite. Noi stessiesistiamo nello sguardo dell’altro.

Però non si può mai sapere cosa si vedrà. Spesso non c’ètempo per voltarsi. Anche gli antichi lo sapevano bene: Ti-resia vide Atena nuda che faceva il bagno: la dea, stizzita, loaccecò. Andò anche peggio ad Atteone. A caccia in unbosco, scostò un cespuglio e si trovò davanti Artemide chesi rinfrescava in una fonte. In un batter d’occhio la dea lotrasformò in un cervo che i cani dello stesso Atteone sbra-narono. La moglie di Lot, troppo curiosa, si voltò a guardaree fu trasformata in una statua di sale. Semele volle vedere ilfulgore di Zeus, suo amante divino, e ne fu incenerita. Ne“La finestra sul cortile” di Hitchcock, forse il più bel film sulguardare, il fotoreporter James Stewart, con la sua frenesiadi vedere tutto, rischia grosso: salvato all’ultimo istante. Masolo perché non c’erano di mezzo gli dei. Solo perché gli deinon vengono più fra noi.

Insomma, guardare è bello, ma non si può mai sapere cosasi vedrà e cosa ne verrà. Così, per strada, se c’è qualcosa distrano, ci voltiamo da un’altra parte, dimentichiamo quelloche abbiamo visto. Preferiamo guardare con prudenza, guar-

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dare cose sicure già viste o preparate da altri, da esperti: foto,quadri, film, paesi esotici, città d’arte e, soprattutto, televi-sione.

Dal finestrino di un treno è diverso, quasi un’occasioneirripetibile. Domina il paesaggio: colline, fiumi, mari, paesi,montagne… Passiamo veloci, non visti e possiamo assu-merci la responsabilità e la gioia di guardare e di vedere “lamutezza meravigliosa del mondo” (Calasso, a proposito del-l’ultimo quadro di Tiepolo).

Le prime ferrovie (brevissime: Napoli-Portici, 7,5 chilo-metri) iniziano ad essere costruite intorno al 1840. Fino adallora, e per molti altri decenni, ci si spostava a piedi, sucarri tirati da cavalli e sull’acqua. In pratica i più non si spo-stavano dalla propria casa, conoscevano solo i propri luo-ghi.

In uno spassoso film del 1956, “ Totò, Peppino e la… ma-lafemmina”, i due attori, abitanti di un imprecisato paesinodel sud, vanno a Milano a rintracciare un nipote. Convintiche a nord fosse freddissimo e che Milano non appartenesseall’Italia, nonostante la stagione estiva escono dalla stazioneintabarrati in pesanti cappotti con collo di pelliccia, guanti,sciarpe e colbacchi e si rivolgono a una esterrefatta guardiainterpellandola in un francese maccheronico.

Il treno, primo mezzo di trasporto di massa, ha reso pos-sibile conoscenza e comunicazione. Dal finestrino abbiamoconosciuto l’Italia. Ancora oggi il treno rimane il migliormezzo per guardare com’è il mondo, stando comodamenteseduti.

In macchina è più utile stare attenti alla guida (oh, i cel-lulari! ), in aereo si sale rapidamente sopra le nubi e si vedeil cielo.

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Verso sud, da Rimini si comincia a vedere il mare. Primaa tratti, poi una presenza costante, a volte più vicina, a voltepiù lontana. È l’“Adriatico selvaggio che verde è come i pa-scoli dei monti”. Sempre diverso a seconda delle ore e dellestagioni. Calmo, corrucciato, in burrasca, con barche o len-tissime navi all’orizzonte. Più avanti, lontano a destra, ilGran Sasso…

Verso nord, grazie anche al treno, ne sappiamo di più ri-spetto a Totò e Peppino.

Quando si esce da una città, le case costeggiano la ferro-via. Nessuno è mai affacciato alle finestre: forse non ne pos-sono più dei treni. In certe ore del giorno e con una certaluce, ci si può trovare dentro a quegli spazi impossibili delle“piazze d’Italia” di De Chirico.

Di notte esplode improvvisa dal buio la corsa di luce dellepiccole stazioni. Per spegnersi subito fra strisce di lievi scin-tille.

Luci di case lontane evocano atmosfere infantili: la tavolaapparecchiata, “via bianchini, numero cuscini”, “stella, stel-lina, la notte si avvicina”: dove sei, mamma!

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Le stazioni, 1

Le stazioni ferroviarie mi sono sempre piaciute. Via vai dipersone ovunque: nell’atrio, sui marciapiedi, nelle saled’aspetto. Capannelli davanti ai tabelloni cartacei degli ar-rivi e delle partenze, altre persone con il naso in aria perquelli elettronici: clac, clac, clac, ad ogni movimento di trenitutto si riordina. Tutte con la tipica espressione di chi parte,le loro brave valigie, i vestiti che cambiano con le stagioni.Nulla, come i tanti vestiti, ti informa dei cambiamenti. Chifa la fila alle biglietterie, molti anche in quelle fai-da-te, chicompra i giornali, chi le caramelle. Uomini, donne, giovani,anziani, neri, bianchi, gialli: la stazione è un’inchiesta so-ciologica visiva sui cambiamenti della popolazione. Primadelle vacanze c’è un’impennata. Ammiro la professionalitàdegli addetti alle informazioni: giovani signore con bam-bini, fra un bambino e l’altro: “ Mario, stai vicino allamamma!”, “ Lucia, adesso ti gratto la schiena “ (lo fa), pon-gono quesiti che a me sembrano difficilissimi, su orari, coin-cidenze, partenze di traghetti e contemporaneamente conil cellulare informano qualcuno delle risposte. Ammiroanche queste mamme. I treni sono sono lì davanti. Alcuniarrivano, “ Non oltrepassare la linea gialla “, ne scendonopersone, anche solo a fumarsi una frettolosa sigaretta, altre

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salgono. Il treno riparte per scomparire alla prima curva.Contrariamente agli areoporti, le stazioni ferroviarie sonoluoghi concreti di comunicazione, ancora legati all’espe-rienza del vedere, toccare, annusare, del capire l’insieme. Inaeroporto giustificati controlli, le valigie che prendonostrade misteriose e, a volte, non tornano più, e tu che ti ri-trovi dentro l’aereo senza sapere come ci sei arrivato.

Fra tutte le stazioni, la più affascinante e misteriosa èquella di Milano, opera dell’architetto Ulisse Stacchini. Nontanto l’edificio esterno che, con qualche doratura, potrebbeessere una scenografia dell’Aida da proporre a Zeffirelli, madentro. Tre volte metalliche, quella centrale altissima e slan-ciata, delimitano un ampio spazio, prodigiosa astronave di-segnata da Syd Mead. In alto e di fianco miriadi di vetri tiinformano del cielo. Elegante civetteria delle vetrate verdialla base. Acciaio e vetro, solida leggerezza. Echi ottocente-schi di borghesia, lavoro e progresso. Treni allineati, esilisotto le volte, ma pronti a raggiungere città, a trasportareuomini per ogni dove. Qui, un mondo a parte: la realtà veraè fuori, laggiù in fondo, dove i treni entrano ed escono senzastrepito. Alle spalle invece la realtà pubblicitaria enorme eincombente: basta non guardare.

La nostra stazione è invece veramente brutta. Edifici bassi,con tetto e senza, alternati. Disposti ad U da un bambinoalle prese con le vecchie costruzioni di legno.

Stazioncina triste, da paese campagnolo: mediatori, to-scani spenti, vacche, maiali. Casomai siamo stati una cittàdi acque: seterie, concerie, tintorie, tuttalpiù lavandaie.

Poi il bugnato giallino, le bifore, il portichetto pretenziosoe la puzza oleosa di fritto, che ristagna nel piccolo spazio. Èbrutta anche e soprattutto in rapporto alle stazioni di altre

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città. Non, ovviamente, a quelle di Torino, Milano,Roma…,ma nel Nord, a città paragonabili per dimensioni:a Genova, ad esempio, Venezia o Firenze. Non solo le lorostazioni sono più belle, molto più belle, ma quando il viag-giatore esce all’aperto si trova di fronte a grandi spazi. A Ve-nezia c’è il Canal Grande. Da noi una micragnosa piazzettacon bandiere, dieci, da distributore di benzina, zeppa dimacchine, bus, taxi e cataste di biciclette, rapidamentechiusa da una strada trafficatissima che si spegne contro unamuraglia di alberghi. Impressione soffocante, anche dav-vero, dato il traffico e i gas. Nel piazzale la città non ti ac-coglie, ma ti respinge, ti soffoca. E dire che, poco più in là,c’è la meraviglia di Piazza Maggiore.

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Le stazioni, 2

La RAI mi aveva invitato a Roma ad una trasmissione sullasalute. Avevo da poco pubblicato un libro che trattava delrapporto medico-paziente, con allegato video dove alcunescenette illustravano le varie tipologie di tale rapporto. Al-lora era una novità. Gli organizzatori ne intendevano mo-strare 2 o 3 che io avrei commentato. Così avvenne: unodei tanti interventi all’interno di un articolato programma.Al termine mi aspettava il taxi. “Alla stazione Tiburtina.”“Stia attento, dotto’, ce so’ brutte compagnie.” “Grazie, madevo solo prendere il treno delle 0,30 e in stazione non ci stoproprio. Anzi mi raccomando perché è l’ultimo treno”.

Vado di fretta al tabellone a controllare il binario e mi ac-corgo che, proprio quel giorno, il treno era stato soppresso.Il primo treno utile era alle 6’30. Qualche imprecazione.Passo a vedere la sala d’aspetto dove faccio conoscenza conle “brutte compagnie”, quelle che, di solito, dormono instazione perché non hanno altri posti dove andare. Poveri,in primo luogo, della specie barboni o, con termine più leg-gero, clochards; qualche nero, allora erano ancora pochi; di-versi tossici inquieti, con gli occhi stralunati. Almeno trepersone con problemi psichici: per il mio mestiere le rico-nosco a vista. Tutti con stravaganti abbigliamenti d’accatto

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e sacchetti di plastica come bagaglio. Un pungente sentoredi ovile anche se siamo abbastanza sparsi nell’ampio locale.

Che ci faccio in questo caravanserraglio col mio vestitinoda diretta TV? Chiamo un taxi e cerco un albergo? Sonostanco e penso che nei luoghi protetti per la notte tutti sonoben accolti, perchè resi uguali dal bisogno. Decido di re-stare e dormo tranquillamente tutta la notte. Qualcuno,verso le sei, mi sveglia gentilmente avvertendomi che il miotreno è in arrivo.

Per la mia formazione professionale, andavo regolarmentea Zurigo. Arrivavo puntualmente alle 6,30. Doccia in lo-cale sobriamente elegante, di stile nordico, all’interno dellastazione. Pulizia da sala chirurgica. Tutto efficiente e fun-zionante compresa la regolazione istantanea della tempera-tura dell’acqua. Rubinetterie luccicanti. Spruzzi a piacereper ogni dove. Ciabattine. Teli candidi, quelli che ti asciu-gano. Phon. Ristorato, passavo alla splendida incertezzadella scelta: dove fare la colazione?, Di cosa ho voglia? Tregrandi sale luminose, con i soffitti alti e decorati: da 5, 10e 15 franchi. Nella prima sala, caffè, the, cioccolata, aran-ciate, roba dolce; nella seconda si aggiungevano frutta, for-maggi e uova in varie cotture; nella terza wurstel, salumi,affettati. Ogni sala aveva i suoi profumi, i suoi colori, le sueofferte, le sue seduzioni. Ogni sala manteneva le sue pro-messe.

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Bico e Gummi

Parlerò di due animali, Bico e Gummi, perché hanno a chevedere con gli incontri in treno. Solo un accenno perché,insieme ad altri amici, saranno protagonisti di propri rac-conti.

Bico è un gatto. Un’amica lo chiamò così perché è biancoe nero: bicolore. Comparve durante un’estate intorno allenostre case di campagna: stiamo in una specie di borghettosu un colle. Arrivava verso sera, trovava un piatto con buonicrocchini, mangiava e andava via. Era un gatto senza pa-drone, snello e con bellissimi occhi. Le orecchie smangiate,quasi a strisce indicavano una vita di combattimenti. Forse,dopo tante lotte, ricercava la vicinanza dell’uomo. Ungiorno arrivò con una brutta ferita sul collo, vicino al-l’orecchio sinistro. Mia moglie lo curò. Diventammo amicie, alla fine dell’estate, lo portammo con noi in città. Ora èfelicemente membro della famiglia. Si chiama Bico Merini.È sempre stato affettuosamente socievole con gli umani, ma,col tempo, ha acquistato il senso dell’ospitalità: quando lasera torno a casa, mi accoglie sulla porta affilandosi le un-ghie sullo stoino. Se ci troviamo con gli amici, al momentodel commiato, ovunque si trovi, si presenta all’ingresso, escesul pianerottolo e segue attentamente l’uscita di tutti.

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Solo quando arriva Valeria, la nostra amica veterinaria,dalla quale ha ricevuto qualche necessaria cattura, fugge alpiano di sotto e si siede vicino alla sua cassettina dei bisogni.

Conosco gatti che, se avvertono una minaccia esterna, sinascondono negli armadi, sotto i cassettoni o i letti. Duenostri amici hanno un gatto, Bloomberg, al quale non piaceviaggiare. Appena avverte aria di partenza, scompare e nonlo si trova più. Gli amici hanno discusso fra loro ed elimi-nato tutti quei segni che potevano indicare la partenza.Anzi, fino all’ultimo fischiettano e svolgono banali attivitàquotidiane. Ovviamente la gabbietta è l’ultima cosa a com-parire. Ma non è un ostacolo da poco.

Sotto questo aspetto Bico è molto tranquillo: entra da solonella gabbietta aperta e vi si accoccola comodamente. Ri-mane invece un mistero la funzione protettiva della casset-tina dei bisogni: rappresenta la mamma?, o, come diciamoin gergo, l’ “oggetto di attaccamento”? Gummi è un cane.Nero, di taglia media. Nelle nostre camminate sulle colline,per arrivare ai sentieri si passa davanti a una bella villa il cuigiardino segue la strada per un certo tratto. Per diversi mesiquesto cane ci accompagnava dietro la rete ringhiando edabbaiando come un forsennato. Noi lo salutavamo e glichiedevamo se faceva così per abitudine o se aveva specificimotivi contro di noi. Rispose a suo modo: uscì dal giardinoe ci venne dietro. Quella volta, quando mi avvicinai, ab-baiò. Ma poi diventammo amiconi. Imparammo anche ilsuo nome. Adesso, quando passiamo è già fuori che ciaspetta o basta chiamarlo che arriva di gran carriera: nelgiardino deve avere una sua uscita segreta. Una delle primevolte ci impressionò lanciandosi come un fulmine rin-ghiante in mezzo a un gruppo di mountain bike. Una se-

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conda volta, nel bosco, sentimmo urlare:” Oh mio dio!”,proprio così, “oh mio dio!”. Era un ciclista per terra, inmezzo all’erba. Ci raccontò che una pantera nera l’aveva ag-gredito. Per fortuna non si era fatto niente ed anche la bici-cletta era intatta: molta erba e foglie, quasi un cuscino.Allora chiamai Gummi e, come diceva mio padre con ter-mine marinaresco, gli feci un “cazziatone”, di quelli brutti.Da allora ha smesso di importunare i ciclisti; anche i vian-danti non lo interessano più. Corre felice per il bosco e suicrinali e, ogni tanto, torna indietro a vedere se siamo sem-pre vivi. Qualche volta, a giudicare dallo strepito, trovaqualche animale, ma basta un fischio e torna alla base. Perogni camminata richiede una carezza. Al ritorno, quandopassiamo davanti alla villa, gli intimiamo: “vai a casa tua!”Di solito ci va.

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La valigia dei migranti

Non sono tante le occasioni di conoscere persone nuove,ascoltare esperienze e idee diverse dalle tue. I congressi, unavolta le Feste dell’Unità. I ricevimenti, oggi definiti party,non sono proprio fatti per confrontare idee: “no martini,no party”, recitava una pubblicità.

Il treno offre un’interessante occasione: intanto sei libero.Non sei obbligato a parlare con nessuno: se hai un libro av-vincente stai con lui tutto il tempo e così se ti vuoi perderenel paesaggio o fantasticare. Però, ben presto si diventa com-plici dell’avventura che ogni viaggio comporta. Viene vo-glia di sapere chi sono i tuoi compagni. Quelli più simpatici,almeno.

Oggi racconterò di persone alle quali mi lega un debitodi riconoscenza, perchè mi diedero da pensare, stimolaronola mia curiosità, mi insegnarono cose che, più avanti, mi fu-rono anche utili per il mio lavoro. Persone incontrate neltempo, ma unite dal fatto che da giovani erano emigrate alnord, nelle fabbriche. Vistomi attento e interessato, conl’asciuttezza di Cesare o la temerarietà di Erodoto, (De mi-grazione nordica, ad esempio, oppure: Le storie. Libroprimo. L’arrivo a Milano) mi hanno fatto partecipe dellaloro avventura. Mi insegnarono cosa è la migrazione.

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Mi raccontavano della fabbrica, delle difficoltà dei primitempi. Gente che aveva sempre lavorato nei campi, se-guendo il tempo delle stagioni, si trovò a fare i conti conl’orologio, con l’implacabile marcatempo.

Molti ricordavano il problema dell’abitazione: oggi siguardano con sospetto i magrebini, allora capitava a loro, iterroni, i marocchini d’Italia. E li truffavano, affittando agruppi numerosi case malridotte, con i muri scrostati e ilcesso nel cortile: prendere o lasciare. Mi raccontavano dellavita grama che conducevano nelle grandi città che facevanoloro paura. Risparmiando su tutto, per mandare i soldi acasa. Della solitudine affettiva e sessuale, quest’ultima soloincrinata da sporadici e veloci incontri a pagamento. Con isensi di colpa per l’azione compiuta e i soldi sottratti allafamiglia. Ma c’era il lavoro, la straordinaria sicurezza dellapaga che faceva superare tutte le difficoltà.

A tutti i conoscenti che, dal sud, arrivavano in quelle città,si affidava la famosa valigia marrone di fibra, tenuta insiemeda robuste corde -molti lettori l’avranno vista, se non per-sonalmente utilizzata- che conteneva un tesoro: provole,pane, soppressata…Non si trattava solo di mezzi di sussi-stenza, ma a posteriori, dai loro ricordi si capiva che posse-deva il forte significato simbolico di legame con il paesed’origine: il profumo del pane era il profumo della casa,della moglie, della madre. Poi, piano, piano avevano co-minciato ad apprezzare il risotto con l’ossobuco, la cassoelae il cibo delle valigie di fibra aveva perso quell’aspetto di ne-cessità dei primi tempi. Erano arrivate le mogli e nati i figli.Avevano comprato la casa. Molti si erano messi in proprio,avevano creato una propria attività. Alla fine, si erano inse-riti o, come si dice oggi con un brutto temine, si erano in-

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tegrati: “Integrazione, parola amara…”, canta Paolo Contein “Naufragio a Milano”. Quando li incontravo in treno sipresentavano come sereni pensionati settantenni, con i pro-blemi di tutti, che andavano al sud in vacanza, nella casacon uliveto e vigna, comprata con i risparmi. Poi sarebberotornati al nord dove i figli, sposati, lavoravano. Dove sta-vano crescendo i nipoti. I decenni trascorsi non avevanocancellato dal volto i nobili tratti da antichi romani, da uo-mini della terra.

Gli stessi problemi, molto appesantiti da provenienze lon-tane e diversi credi, li avrei trovati in anni successivi nei mi-granti che arrivavano al Centro. Appesantiti anche dal fattoche costoro non ricevono la famosa valigia. Hanno la Mo-schea, ma è tutta un’altra cosa. Forse, quando trasmette-ranno i profumi, i cellulari potranno sostituirla.

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Altri incontri

In treno si incontrano anche donne belle, intelligenti e dagliocchi inquietanti, alle quali, fuori da un treno, non mi per-metterei mai di rivolgere la parola. In treno è diverso. Forseperché è prestabilita la durata dell’incontro, che è quella delviaggio. Forse perché è implicito che all’arrivo ognuno vadaper i fatti propri. Almeno, ho sempre pensato così e mi sem-bra che sia un pensare comune. Con un po’ di fortuna sipossono avviare piacevoli conversazioni con qualche tracciadi intimità. Nel senso che non ci si deve preoccupare di es-sere sempre “politicamente corretti”, limitandosi ai temi deltempo, della situazione economica mondiale o, con cautela,del lavoro che si svolge. Se proprio non ci si deve costante-mente esibire, o fare colpo, affermare la propria eccellenzae superiorità o, per converso, se non ci si spaventa per unnonnulla, ma ci si lascia un po’ andare, per un breve temposi stabilisce una curiosa relazione. Non si è amici, ma nem-meno estranei o reciprocamente indifferenti: è una piccolamagia che può verificarsi in treno. Ovviamente non accadesempre: con alcune donne si coglie uno sforzo educato di in-trattenerci, per gentilezza o anche per ingannare il tempoin attesa dell’arrivo, ma con altre si avverte proprio il piacerereciproco di chiacchierare, di ascoltare e dire, la piccola gioia

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del parlare affettivo. Questi ultimi incontri hanno sempreavuto per me un significato, li ricordo con piacere. Mi ca-pita, a volte, di ripensare alla signora del viaggio a Bari o aquella del viaggio a Napoli. Sono piacevoli presenze nei mieiricordi.

Anche quando siamo sdraiati in un prato a guardare lenuvole che passano – un cavallo!, una donna seduta!, unelmo! – non siamo mai soli. Qualcuno ha paragonato la no-stra mente a un cielo stellato, nel quale le stelle sono tuttele persone significative che abbiamo conosciuto. Alcune piùbrillanti, altre meno. A volte, il cielo può rannuvolarsi op-pure, come in città, è troppo luminoso e le stelle non si ve-dono, ma sono sempre insieme a noi.

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Incantesimo nello scompartimento

Entrai nello scompartimento. L’unico occupante era unadonna giovane e bella con una selva di capelli castani. Salu-tai e mi allungai sulla poltrona con grande piacere: erostanco morto. “Lei è uno psicoanalista o un attore”, mi in-terpellò subito con un gran sorriso. I suoi occhi verdi miscrutavano con allegra curiosità: “Ho indovinato?” Ora, do-vete sapere che la stanchezza derivava dal fatto che per tuttala giornata avevo lavorato in una trasmissione di PatrizioRoversi e Syusy Blady che si chiamava “Condominio me-diterraneo”. I due protagonisti mi erano simpatici e le lorotrasmissioni pure. Mi avevano chiesto di svolgere una partedel tutto marginale, quella dello psicoanalista che, in ognipuntata, rispondeva a qualche domanda e la proposta miaveva divertito. Il luogo delle riprese era a Roma, in ungrande loft, pieno di scene e, soprattutto, di gente: attori, fi-guranti, fotografi, macchinisti… Ogni tanto arrivava qual-che personaggio: c’era chi doveva prendere parte allatrasmissione, ma i più solo per salutare Roversi e Blady:grida, abbracci, effusioni. Il ricordo è quello di un’allegraconfusione, di un gran via vai, abbigliamenti dei più vari eun gran vociare: come diavolo faranno, mi chiesi nella miaignoranza di cose televisive, a fare un programma sensato.

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Poi lo vidi in TV e rimasi colpito. Mi avevano sistemato suun finto balcone prospiciente su una finta piazza. Mi fu ri-chiesto di avere un’espressione sorridente e, per il micro-fono, di stare leggermente proteso in avanti sulla ringhierae inclinato verso destra. Assolutamente immobile, anchequando parlavo. Mi parve di capire che l’immobilità fossefondamentale, ancora più importante di quello che avreipotuto dire. Di fianco a pochi centimetri, avevo un riflettoreluminoso, ma anche bello caldo. Dalla piazza qualcuno miponeva una domanda “psicologica” divertente alla quale cer-cavo di rispondere “da psicoanalista” con altrettanto brio.Ogni scena durava pochi minuti. Dopo scendevo e mi ri-posavo: una sigaretta, due chiacchiere, in giro qua e là. Midiedero anche il famoso cestino: “A dottò, senta chebbuono!” Non ricordo quante volte feci su e giù, fatto stache, con una certa sorpresa del regista, ad un certo punto siscoprì che avevamo registrato tutte le scene previste per ognipuntata. A missione compiuta, la stanchezza arrivò di colpo:treno, casa.

Quando risposi alla mia piacevole interlocutrice che do-veva essere almeno una strega per aver indovinato propriotutto, non fu molto sorpresa: “Sono brasiliana e da noi lamagia è molto praticata.”Scese a Firenze dove l’aspettava ilfidanzato. Prima però mi baciò. Un bacio magico e appas-sionato. Rimasi stordito per il resto del viaggio.

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Le attrici e gli attori

In treno ho incontrato attori e attrici. Un tempo con fre-quenza maggiore. Forse ora viaggiano con altri mezzi, op-pure i nuovi non li conosco. Recentemente solo unbellissimo Dario Fo con un veleggiante panama a tesa larga.Nel passato Alberto Sordi, di classica eleganza: giacca dicammello, camicia azzurra, cravatta. Marcello Mastroianniin un sobrio vestito grigio. Vittorio Gassman, Paolo Stoppa,Monica Vitti, Rina Morelli, Laura Antonelli… Non misono mai sognato di intavolare una conversazione. Non perqualche forma di timore.

Gli attori sono fatti della materia dei sogni, abitano loschermo, il palcoscenico, un’altra realtà dalla quale possonoraccontare di tutto, attraversare il tempo e lo spazio. Io, lospettatore, fermo nel buio della sala, partecipo a tempo de-terminato a questa piacevole magia. Un gran privilegio. Ri-spettando le regole. Se si trovano per caso assieme a me inplatea, non mi interessa sapere chi sono. Anzi, per poter ri-petere altre magie, altri sogni non voglio proprio sapere chisono e cosa fanno nella vita al di qua dello schermo. Miserve il mistero. Una volta mi capitò di assistere in una villaprivata ad una recita goldoniana, con bravi attori professio-nali. La scena era rappresentata dalla villa stessa e dal suo

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giardino. Dopo si svolse una cena in piedi. Fu molto strano,quasi irreale, mescolarsi agli attori, passati dalle parrucche edabiti settecenteschi, ai vestiti dell’oggi. Parlai tranquilla-mente solo con la regista.

In modo piacevolmente lieve, ne “La Rosa purpurea delCairo”, Woody Allen ci ha illustrato i problemi che nasconoconfondendo finzione e realtà. Oggi sembra esserci inveceuna grande voglia di far parte dei sogni, anche se alquantoscadenti come quelli televisivi delle isole e dei grandi fra-telli. Se ne vuol far parte per guadagnare qualcosa, o perchèci si sente soli e ignorati, o perchè per molti l’esistenza hasenso solo apparendo? Non so.

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La donna con lo chemisier

Alla mia destra sedeva un uomo di un’ottantina d’anni, dal-l’occhio vivace e l’espressione arguta. Indossava con eleganzaun abito chiaro, camicia bianca e cravatta. Stava leggendo iSaggi di Montaigne: “Sarà la quinta volta che lo riprendo,mi aveva detto poco prima, e ogni volta trovo qualcosa dinuovo.”

Alla mia sinistra, un commerciante sui 70 anni. Un po’sovrappeso. Portava una camicia a maniche corte e panta-loni blu. Era assorto nei cruciverba della Settimana Enig-mistica. Di fronte a lui, la moglie lavorava all’uncinetto conevidente abilità. Portava un comodo abito chiaro di seta conpiccoli disegni. Un po’ datato, ma elegante.

Al suo fianco, di fronte a me, un giovane dal fisicoasciutto, sui 35 anni. Vestiva una maglietta nera e pantalonigrigi di tessuto leggero. Portava occhiali da vista grandi, conla montatura nera. Volto interessante, aveva l’aria di quelliche si sporgono in avanti a conoscere la vita. Sicuramenteun intellettuale. Stava leggendo Il grande Gatsby, di Fran-cis Scott Fitzgerald.

Il treno si era fermato ad una stazione. Noi tre anziani ave-vamo appena iniziato a parlare blandamente dell’euro,quando la porta dello scompartimento si aprì e una voce fem-

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minile, bassa e conturbante, disse: “Buonasera. Permesso?”Ci voltammo e ammutolimmo. Anche il giovane, assorto nelsuo Gatsby, colpito dall’improvviso silenzio, guardò.

Era alta, vestita di nero: uno chemisier di lino leggero,semplice e di taglio perfetto che ricadeva morbidamente.Sui 34-35 anni. Sorrise in modo quasi impercettibile, im-mobile sulla soglia per qualche secondo, in attesa della no-stra risposta. Quell’accenno di sorriso diffuse un eccitantesenso di aspettativa nello scompartimento. Aveva occhiverdi e la bella bocca segnata appena da un rossetto chiaro.Si diresse verso il posto libero, passando con leggerezza frale tante gambe. Fermò, con gesto aggraziato ma sicuro, ilgiovane che si stava alzando per aiutarla. Sistemò il borsonedi cuoio sulla reticella. Nel movimento, il vestito si sollevòe si stirò un poco, sottolineando corpo e gambe. Si mise se-duta e guardò fuori dal finestrino mentre il treno si andavaavviando. Un po’ imbarazzati ci demmo collettivamente uncontegno, riprendendo letture e uncinetto.

Ma non era facile staccare gli occhi da lei. Nello scom-partimento si accesero le luci.

Si voltò verso il giovane chiedendo qualcosa in un mor-morio. Forse del libro che stava leggendo, perchè le fu pas-sato. A voce più alta, accennò al film, tratto dal libro, conRedford. Il giovane le chiese se fosse stata mai innamoratadell’affascinante attore. I loro volti si erano avvicinati. Ora,la conversazione era solo un sussurro. Il resto dello scom-partimento cercava di ascoltare trattenendo il fiato. L’ot-tantenne sedeva rigido, del tutto immobile, fissando unpunto sopra le teste dei due. Il commerciante si era sportosenza vergogna. Ma non era il discorso che interessava. Stavaaccadendo qualcosa.

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Il giovane le sussurrò in un orecchio e lei rise, rise felice-mente con la bocca, con gli occhi, con il corpo. Gli sfiorò ilbraccio con un dito. Lui le carezzò la mano. Si tenevanostretti con gli occhi, del tutto complici. Sempre più vicini,ridendo e sfiorandosi. Lo scompartimento cominciò lette-ralmente a ribollire, nessuno riusciva più a stare fermo: illavoro della signora era diventato tutto un castrone.

Il treno rallentò, luci esterne annunciarono una stazione.I due si alzarono improvvisamente, spinti da un’unica forza.Presero le valigie e uscirono. Quando il treno riprese la suastrada, li vedemmo sul marciapiede poco illuminato, ab-bracciati, si baciavano.

“Diciamolo pure, commentò sorridendo l’ottantenne,sono felice per quei due ragazzi, ma anche per me e, credo,per tutti noi. Ci hanno fatto un gradito e inaspettato regalo:cose belle, pulite, il desiderio, la sessualità.”

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Amore e morte lungo le rotaie

Il treno si era fermato a Salbris, nella Francia meridionale.Ero stato ad Orleans da certi colleghi e avevo scelto di tor-nare in Italia su una linea secondaria che attraversava luoghie paesaggi che non conoscevo. Era una di quelle belle gior-nate con il cielo alto e inoffensivi cordoni di nuvole al-l’orizzonte.

Accompagnato, quasi sospinto da una moltitudine di per-sone festanti, un giovane uomo attraversò il marciapiede.Nel gruppo si rideva, ci si abbracciava, qualcuno cantava.L’uomo salì sul predellino e si rivolse alla piccola folla che sizittì immediatamente: “Vado a prendere Marie!, urlò, vadoa prendere Marie! Stasera sarà una grande festa!” Tutti si mi-sero ad applaudire, a gridare “vive la vie! vive la liberté!”,qualcuno lanciò in aria il berretto: sembrava di essere in unfilm. Anche il Capostazione guardava e sorrideva. L’uomosalì e si affacciò al finestrino: TOM, TOM, TOM !, gli spor-telli si chiusero. Il Capostazione fischiò e diede il via liberacon la paletta. Sul marciapiede, che lentamente si allonta-nava, la piccola folla era esplosa in saluti sbandierando unamerceria di fazzoletti colorati. “Marie, Marie”: qualcuno in-tonò la canzone di Becaud: ben presto tutti la cantavano.

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“A stasera!, A stasera!” ripeteva l’uomo sporgendosi e agi-tando le braccia.

Aveva circa 30 anni. Non molto alto, magro, capelli scurie volto fiero segnato da due profonde pieghe attorno allabocca. Vestiva di nero. La camicia bianca era chiusa al colloda un fazzoletto a quadri bianchi e rossi.

“ Ebbene, messieurs, disse rivolgendosi a me e a Bertrand,l’altro passeggero dello scompartimento, vi sarete chiesti ilmotivo di tutto questo scompiglio. È un bellissimo motivo:vado a prendere Marie, la mia fidanzata che non vedo dacinque anni, torniamo e domattina ci sposiamo. Io sonoFrancois.”

Bertrand ed io ci scambiammo un’occhiata: dalla partenzanon avevamo avevamo parlato altro che di vini e preliba-tezze. “ Brindiamo” dissi, alzandomi a prendere uno Cha-teau dalla valigia. “L’avevo preso per festeggiare il ritorno,ma questa mi sembra un’occasione decisamente migliore!”Con altrettanta rapidità Bertrand aveva tirato fuori dallaborsa una grossa pagnotta, un pasticcio di carne e un robu-sto coltello munito di cavatappi. “Dovete sapere, continuòFrancois, che sono stato cinque anni in galera, del tutto in-nocente. Avete visto come la pensano i miei familiari e imiei amici. Una rissa, un tale accoltellato, mai visto in vitamia. Passavo di lì e, come tutti, avevo un coltello. Scappai,si scappa sempre, ma, per mia sfortuna, caddi nelle bracciadei flics. Ma ora tutto questo non conta più. C’è Marie chemi aspetta, che mi ha aspettato per tutto questo tempo per-ché le ho proibito di sporcarsi venendo a trovarmi in galera.Ero io che dovevo andare a prenderla. Da uomo libero.Sono uscito stamattina ed eccomi qui. Questa è la mia sto-ria, messieurs, la storia di Marie e di Francois.” Fra chiac-

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chiere, tartine e vino arrivammo in vista del paese di Marie.Francois divenne tirato, nervoso, quasi scostante: l’appros-simarsi dell’incontro dopo cinque anni di attesa stava pe-sando. “Signori, annunciò l’altoparlante, per chi deveprendere una coincidenza si avverte che il treno si fermeràal terzo binario anziché al primo.” Quando entrammo instazione ci salutò in fretta e uscì dallo scompartimento. Iltreno non era ancora del tutto fermo che lo vedemmo sulmarciapiede. “Francois!” gridò una donna lontano. “Marie!”le rispose. E, con Marie negli occhi si gettò, saltò sui binariverso di lei. Accadde tutto in un attimo: il fischio lacerantedel treno in corsa, lo stridore dell’inutile frenata, gli urli.L’ultima cosa che vidi di lui fu un frammento di stoffabianca e rossa che sfarfallava lungo i vagoni. Ci fermammofino al giorno del suo funerale. Qualche mese dopo, un col-lega di Orleans mi scrisse che Marie non ce l’aveva fatta: siera buttata dal ponte della ferrovia.

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I cellulari

Pochi uomini, generalmente anziani, leggono. Molti gio-vani hanno il computer portatile e fanno cose. Altri, di so-lito ragazzini, hanno l’i-Pod: auricolari a posto, spesso adocchi chiusi, ascoltano musiche misteriose accompagnan-dole con piccole grimaces del volto. Quasi tutti hanno ilcellulare. Il cellulare è arnese decisamente democratico e tra-sversale al genere, all’età e alle culture: femmine e maschi,giovani, adulti e vecchi, italiani e stranieri. Da dieci anniquesti ultimi aumentano ad ogni viaggio: neri elegantissimi,famigliole di asiatici, donne con il velo, uomini baffuti dallosguardo fiero… Il treno - spazio ristretto - è sempre più co-smopolita. Finalmente trovo quell’atmosfera da porto le-vantino che fantasticavo da piccolo, leggendo libri diavventure. Quando in molti parlano all’unisono nei lorocellulari, la suggestione è molto forte. Alla partenza, il ca-potreno raccomanda con voce suadente di tenere bassa lasuoneria per non disturbare. Un viaggio in treno, anchebreve, è invece un’ottima occasione per ascoltare tutti i tipidi suoneria esistenti: sono tenute a tonalità altissima. Nonè vero che sono soprattutto gli anziani ad alzare il volume,causa la inevitabile sordità. È questione collettiva perché pertutti si pone l’angoscioso interrogativo esistenziale: “E se

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perdo la chiamata della mamma?” (dell’amante, amico,nonno, ecc.). Anche il tono di voce dei parlanti è general-mente alto: ci si deve far sentire dall’interlocutore lontano.Curioso, poi, per un popolo omogeneizzato dalla TV, l’usosfrenato del dialetto che ripropone antiche divisioni. Spe-rano di non farsi capire? Invece non si capiscono davverogli altri, gli stranieri. Parlano linguaggi ignoti. Almeno lasuoneria potrebbe indicare la nazione: l’arpa per gli irlan-desi, il sitar per gli indiani, la cornamusa per gli scozzesi ecosì la balalaica, le nacchere, il tamburo, il mandolino…Forse è meglio di no, si finirebbe per litigare. Personalizzatela vostra auto!, colori, cerchioni… ma è sempre la stessa au-tomobile. Così per i cellulari: è sempre lo stesso trillo oscampanio.

I possessori di cellulari occupano il tempo messaggiando,controllando i messaggi, facendo e ricevendo telefonate. Siva da quelle brevi e fondamentali tipo: “Sono io, sto en-trando in stazione.” ad altre, la stragrande maggioranza, checi rivelano interessanti conversazioni di affari o di compra-vendita di immobili o affascinanti storie familiari… tran-ches de vie udibili solo in treno. Problemi nei tratti ingalleria: cade il segnale: volti frastornati e attoniti. Unavolta, prima di rendersi conto di avere un pubblico che pen-deva dalle sue labbra, un signore elegantemente vestito stavaorganizzando una terribile trappola ai danni di… Resosiconto, si alzò di scatto e, con nostro rammarico, scomparvedalla vista, sempre parlando al cellulare in modo concitato.Chissà com’è andata a finire. Altri, sempre più numerosi,ad alta voce e con linguaggio coprolalico, fanno partecipidi faccende personali, del tutto prive di interesse, tutto ilvagone pullman. Nuove forme di esibizionismo o semplice

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diffusione della parolaccia? I discorsi telefonici di vari per-sonaggi, avvalorano quest’ultima ipotesi.

Un giovane dalla faccia simpatica gettò nell’angoscia tuttolo scompartimento parlando al cellulare con una ragazzache, capimmo ben presto, intendeva suicidarsi. Il giovane,serenamente inquieto, saggio, ascoltava e parlava, ma scrissealcuni numeri di telefono, il suo nome e quello della ra-gazza. Così andammo in corridoio ad avvertire. Evidente-mente, non voleva coinvolgere medici e forze pubbliche.Riteneva più utili se stesso e gli amici. Aveva ragione. In-fatti, dopo quasi un’ora, la stessa ragazza annunciò che co-storo erano arrivati, ma aveva già rinunciato all’idea.Quando la telefonata terminò, applaudimmo e ci congra-tulammo con grande gioia.

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Il piacere della carrozza ristorante

Appena posso ci vado. Quando la distanza è quella giusta.Quando da una stazione all’altra, trascorrendo i chilometri,cambia il cielo e il paesaggio e la terra e le case; quando,sceso dal treno, sei arrivato in un altrove. Hai viaggiato. DaBologna, almeno Torino a Nord e Roma a Sud, meglio Na-poli o Pescara. Ovviamente viceversa.

Non sono mai stato al ristorante andando a Milano. Uncaffè o, tuttalpiù, un aperitivo. Ma quando c’era il Sette-bello e il barman preparava cocktail. Oggi servono un friz-zantino in un flut di plastica.

Al ristorante, invece, -salvo un triste periodo qualche annofa- c’è sempre lo stesso menu che, per me, è un amico cheracconta di viaggi: maccheroni al pomodoro e basilico, sca-loppine con patate, la piccola, ma variata bottiglia di rosso(si può raddoppiare), la frutta. Ci sono state novità intro-dotte nel tempo, come gli spaghetti al pesto o l’arrosto ditacchino, ma sono rimasto fedele ai maccheroni e alle sca-loppine. Forse, in un ristorante fermo, si avrebbe qualcosada dire (sui maccheroni, credo, mai). Ma è anche il luogoche fa il cibo: salsicce e patate fritte in un rifugio delle Do-lomiti, ostriche in una spiaggia della Normandia, carne inuna churrascaria di Rio… Così maccheroni e scaloppine

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sono sublimi e irripetibili in una carrozza ristorante che,scuotendo appena, va. Mangiare in treno corona il viaggio.Ma prima e dopo devi avere il tempo di leggere il giornale,guardare il paesaggio, ascoltare lo scorrere delle rotaie, di la-sciarti andare a pensieri leggeri o appisolarti. Poi l’annuncioche la serie è servita: se sono due preferisco la seconda. Tialzi, attraversi i vagoni reggendoti ai sedili, percorri il bar esei arrivato. Ti accolgono persone ben vestite e di cordialeprofessionalità. Il tavolino con la tovaglia bianca. Il menu.Il fiore. Tristissima, invece, l’esperienza sull’Eurostar di man-giare al tuo posto con il vassoietto di plastica a scomparti,guardando lo schienale del sedile davanti. Mi è capitato unavolta e mi è bastato. Non so nemmeno se sia ancora in uso.Come su gli aerei. Sicuramente volevano suggerire l’idea deltreno volante, veloce come un aereo. Queste trovate qual-cuno le studierà.

Non che su gli aerei si mangi meglio, almeno in classe tu-ristica, oltre la quale non sono mai andato. Ma almeno sul-l’aereo sei fra le nuvole e c’è sempre un po’ di emozionecome condimento. In prima classe, dove volano i nababbie le persone spesate, si favoleggia di caviale e champagne,ma mi sembra eccessivo. Continuo a preferire il mio vagone.Una bella sorpresa mi capitò una volta andando al sud, nonricordo se a Roma o a Napoli. Arrivai in un elegante vagonetirolese. Austriaco, mi precisò il cameriere. Pranzai conbuoni vini e cibi locali. Contro la cattiva globalizzazione,non sarebbe male, ogni tanto, far transitare un vagone dellaComunità ( oggi c’è da scegliere ) con relativi cuochi, cucinae cantina.

Di solito si mangia da soli, ma può capitare che, quandoci sono molti avventori, qualcuno venga al tuo tavolo. Al-

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lora è questione di fortuna o della simpatia o meno che il ca-meriere ha provato per te. Una volta una donna molto bellaed elegante venne al mio tavolo, apparentemente per caso.“Permette?”, disse e, appena seduta, si attaccò al cellulare. Ioguardavo fuori dal finestrino, sorseggiando il mio rosso,come aperitivo. Quando terminò la seconda telefonata e giàsi affaccendava alla tastiera le dissi, più o meno: “Perbacco,quanto è impegnata!”. Forse aspettava solo che qualcunointerrompesse quella frenesia manageriale, oppure tuttequelle telefonate servivano a darsi un contegno con l’estra-neo, non so. Fatto sta che, da quel momento le telefonatecessarono e ci raccontammo un sacco di belle cose. Quandoarrivò a destinazione notammo che ci dispiaceva un po’, masolo un po’, separarci. Così ci augurammo un futuro in-contro in qualche carrozza ristorante.

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Sparatoria in viaggio. Come in un film

Ho sempre apprezzato i libri gialli, quelli fatti bene. Anchei film: Il mistero del falco con Bogart; Marlowe il poliziottoprivato con Mitchum; o Chinatown, I tre giorni del Con-dor, ecc. Il giallo, oltre a raccontare una storia e un am-biente, spesso molto bene, ovviamente stimola ad indagare,valutare, cogliere indizi.

Per diversi anni rimasero in funzione i vecchi vagoni ri-storanti: legni di mogano, velluti rossi, lampade liberty chediffondevano una piacevole e soffusa luce giallognola, deltutto intonata all’ambiente. L’atmosfera alquanto irreale ecinematografica creata da quegli ambienti fermi nel tempo,mi suggerivano sempre fantasie avventurose, specificamenteda film giallo. Un ispettore, a volte Maigret, a volte Poirot- con mio dispiacere un Marlowe di Chandler o un JackVincennes di Ellroy non potevano essere in quegli ambienti-stava indagando su un misterioso assassinio ed era sicuroche il colpevole si trovava in quel momento nel vagone ri-storante: era uno degli avventori. Dal suo tavolo lanciavaocchiate di sottecchi sugli avventori intenti al cibo, alla ri-cerca di atteggiamenti sospetti, tali da tradire il colpevole.C’è chi mangia con feroce raffinatezza, chi spiluzzica, chi sibutta sui maccheroni come se fosse digiuno da una setti-

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mana per ordine medico, chi, come fanno i gatti per ata-vica abitudine, si volta improvvisamente a controllare glialtri avventori, chi vuole sostituita la pietanza con formag-gio, chi beve solo acqua e chi ci dà dentro al vino…In-somma, c’è molto da osservare. Ovviamente l’ispettore eroio e, in quel bellissimo gioco, trovavo sempre l’assassino.

Poi, una volta, anche se non così bella come il gioco, l’av-ventura capitò davvero. Stavamo andando a Parigi con iltreno che partiva da Bologna alle 21,05, il Palatino. Quandoentrammo nella carrozza ristorante, tutti guardavano versol’ultimo tavolo di destra: i suoi occupanti, due uomini e duedonne, parlavano a voce alta, a tratti “si sganasciavano dallerisate”, di quando in quando le donne uscivano in gridolinie urletti, alzandosi di scatto dalle sedie, come stuzzicate otoccate o solleticate. Insomma, un vero e proprio bailamme.Le donne erano molto belle, appariscenti, di chiome fluenti,vestite più da sera che da viaggio, con ampie scollature egioielli a profusione. La numerosa e incongrua serie di bot-tiglie e bottigliette che occupava il tavolo - dal Camparisoda, al whisky, allo champagne - rendeva ragione della ru-morosa allegria: erano brilli e sessualmente eccitati. In ef-fetti, ci confermò un attempato e desolato cameriere,avevano cominciato a bere appena partiti da Roma, ma soloda poco si erano così scatenati. Le garbate sollecitazioni allamoderazione da parte del maitre, ci disse, non avevano sor-tito alcun effetto: erano clienti, affermavano, e dovevano es-sere serviti. Ma, aggiunse il cameriere, presto sarebbero staticostretti a rifiutare altri alcolici e a chiamare il capotreno.Era molto costernato, affermò, perché da quando servivanei treni, non aveva mai visto uno spettacolo simile e maisubito la vergogna di dover chiamare il capotreno per ri-

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portare l’ordine nel loro vagone. Borbottò anche qualcosasugli arricchiti e le donne di facili costumi. Più o meno aquesto punto, il maitre si avvicinò al tavolo dei quattro e,con risolutezza e a voce alta, annunciò che, da quel mo-mento non avrebbe più servito bevande di sorta. L’uomovicino al finestrino estrasse con rapidità una pistola edesplose due colpi al soffitto. Il maitre, con indubbio corag-gio e sorprendente agilità, si gettò su costui disarmandolo.Il compagno tentò una reazione, affiancato dalle donne cheiniziarono a lanciare qua e là le bottiglie. Ma ormai, viag-giatori e camerieri compatti, ci eravamo lanciati a dar manforte al maitre. Soprattutto il troppo alcol ingerito rese de-bolissima la resistenza dei quattro.

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La grande abbuffata

Il pranzo più ricco e apprezzato fu imbandito e spazzolatocon cadenze chapliniane sulle ferrovie francesi, nella trattaParigi-Bologna.

Ero andato per la prima volta a Londra. Era con meun’amica. Ben presto la città si rivelò assolutamente affasci-nante e non ci lasciava più partire. Le strade, il Tamigi, Tra-falgar square, Piccadilly Circus, la Torre, il Tube,straordinaria metropolitana, i parchi, ma anche il Cameo,un piccolo cinema ove proiettavano in continuazione car-toni animati, la gente in giro, compresi gli uomini con bom-betta e ombrello e gli indiani con i turbanti colorati.. I soldiperò erano quelli che erano. Così, dopo qualche settimana,acquistati i biglietti per il ritorno in treno, decidemmo diprolungare al massimo il soggiorno ricorrendo ad alcuni ac-corgimenti. Sguatterammo entrambi per un fine settimanaguadagnando qualche pounds e ci mettemmo ad una si-gnificativa dieta alimentare ed alcolica. In pratica, da quelmomento, la colazione mattutina che la padrona della ca-mera ci passava con generosa e tradizionale abbondanza, co-stituì l’unico apporto calorico giornaliero. Tale rigorosadieta non ci parve rappresentare un problema. Accanto allasua motivazione, c’era anche il fatto che, in quegli anni, a

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Londra il cibo non rappresentava certo un’attrazione. Me-glio: per i nostri gusti si spendeva molto per mangiare malee bere peggio: in genere acqua o the perché un bicchiere divino costava come un’auto di lusso. La famosa birra si po-teva bere solo la sera ed era orribilmente calda e marron-cina. Il piatto più gustoso era rappresentato da merluzzo epatate fritte, serviti nel classico cono di carta da giornale.Come pasto quotidiano, hamburgers e cheeseburgers.

Al momento di partire, con gli ultimi scellini acqui-stammo in un sordido negozietto mele verdi e gallette peril viaggio.

Londra, Dover. Praticamente digiuni, fummo tra i po-chissimi assolutamente insensibili al beccheggio e al rolliodella nave. Sul ponte di coperta, ben piantati sulle gambe,guardavamo affascinati le grosse onde della Manica e il volodei gabbiani. Calais, Parigi.

Qui successe il disastroSarà stato il cambiamento di clima, o l’improvvisa consa-

pevolezza che eravamo arrivati nella patria del buon man-giare e del buon vino, ma fu soprattutto per colpa degliastuti responsabili della ristorazione ferroviaria francese. Co-storo, a conoscenza delle frustrazioni alimentari dei viag-giatori provenienti d’oltre manica, avevano sguinzagliatoper il treno addetti in elegante giacca gallonata che elenca-vano ed illustravano poeticamente delizie di ogni tipo. Fattosta che il nostro virtuoso progetto “mele-gallette” andò infrantumi, fu polverizzato da un’improvvisa fame, una famevorace, micidiale, irrefrenabile. Il fatto era che non avevamonemmeno un soldo. Passammo velocemente in rassegna al-cune ipotesi di immediato guadagno fra le quali un furtocon destrezza e l’offerta di prestazioni sessuali da parte della

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mia compagna. Devo dire che la sua proposta mi com-mosse. L’educazione ricevuta rivelò in quell’occasione la suaforza perché riuscimmo a scartare tutte le ipotesi, una piùdisonesta dell’altra. Ma non rinunciammo. Al grido di “vadacome vada”, lo ricordo come se fosse ieri, ordinammo: patéde foie gras, filetto al sangue con cavolini di Bruxelles e pa-tate, piatto misto di formaggi, mousse di cioccolato, Médoce Calvados.

Alla fine mi rivolsi ad un signore italiano di aspetto di-stinto e facoltoso diretto a Milano e gli chiesi di anticiparmii soldi del pranzo. A Milano ho molti amici, dissi, andiamoda loro in taxi a nostre spese. La qui presente signorina ri-marrà con lei come garanzia per il tempo che salirò a farmidare i soldi da restituirle. Non sembrò particolarmente fe-lice, ma pagò il conto. Forse, con antica cavalleria, non vollemettere in imbarazzo la “presente signorina” o volle farsibello. Devo dire però, che ci tenne d’occhio per il resto delviaggio.

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Leggere in treno

Il più antico documento scritto della nostra letteratura è la“poesia” di Ciullo di Alcamo, quasi mille anni fa. Da allora cisiamo sempre più familiarizzati con quei segnetti neri sulla pa-gina, che possono raccontare di tutto, farci provare ogni emo-zione. La lettura è una piacevole attività, è un modo piacevoledi passare il tempo, di uscire dalla realtà fattuale o invece di ap-profondire la conoscenza di noi stessi o di quanto ci cir-conda… Machiavelli, leggendo, dimenticava ogni affanno e,addirittura, la paura della morte. Generalmente leggiamo dasoli, immaginando, creando volti, persone, ambienti. Sonoconvinto che il treno rappresenti il luogo ideale per la lettura.Già il viaggio, l’andare in un altrove evocano le stesse sensa-zioni del libro: l’avventura, l’ignoto, l’incertezza. Poi, nelloscompartimento si è soli, ma in compagnia. Condizione per-fetta per lasciarsi andare alla fantasia, mettersi nei panni deipersonaggi, soffrire e gioire assieme a loro: “Ah, siete voi, caroamico, - disse Porthos -. Come trovate che mi sta quest’abito?A meraviglia, - rispose d’Artagnan -, ma io vengo a proporviun abito che vi starà ancora meglio. Quale? Quello di luogo-tenente dei moschettieri.” È bello leggere libri in treno. Ognitanto, guardando bene dal finestrino, si possono vedere i mo-schettieri che, a cavallo, si stanno dirigendo verso Chantilly.

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Il ritardo. Una specialità italiana

Senza alcun dubbio, i ritardi concernono il tempo: si do-veva arrivare o partire a una certa ora, a certi minuti e invecenon è andata così. E si hanno varie conseguenze, general-mente negative. Del tempo, filosofi e fisici se ne sono oc-cupati fin dall’antichità. È un tema affascinante, maassolutamente fuori dalla portata di questo scritto. Tutta-via, qualcosa va pur detto, sul tempo. Ad esempio, può es-sere utile sottolineare che il problema dei ritardi non è meraquestione ferroviaria. Da una parte rimanda a uno specificoconcetto o coscienza del tempo di noi occidentali del qualeparlerò, dall’altra, proprio per questo, il ritardo fa parte dellanostra esperienza quotidiana: a tutti è capitato di arrivarein ritardo ad un appuntamento, a capire una questione, atogliersi di mezzo… quest’anno la primavera tarda a venire:vorremmo che tutto avvenisse al tempo stabilito, ma non èsempre così. Però questi ritardi accadono di rado: la prima-vera arriva in ritardo di quando in quando. In Italia invecequesto non accade per i treni. Forse non tutti, ma nella miaesperienza i treni arrivano e spesso anche partono in ritardo.Con una certa ostinata costanza, che lascia stupiti, quasiammirati. Come faranno? Perché da Bologna a Milano unEurostar accumula un ritardo di 20 minuti, quando tutto

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sembra essere andato liscio? Torniamo alla nostra coscienzadel tempo. Essa è nata intorno all’anno mille con l’orologiomeccanico: è il “tempo del mercante” che, con l’estendersidelle sue operazioni commerciali, si accorse di avere biso-gno di misurare il tempo. Ma, ha osservato qualcuno, gliorologi non si limitano a misurarlo, ma creano, produconotempo. “Il tempo è, fra tutte le nostre invenzioni, osservaAusterlitz, un personaggio di Sebald, senz’altro la più arti-ficiosa.” Fatto sta che l’uomo dell’occidente tecnologico èprogressivamente diventato schiavo dell’orologio, ne è con-dizionato: impegni, agende piene, scadenze, orari…Forsequalcuno riesce ad uscire da quel tempo, quando è in va-canza, forse, ma sicuramente nel lavoro viviamo nel tempodell’orologio, dobbiamo rispettare le sue rigide leggi: per inostri migranti interni, abituati al tempo lungo della na-tura, al tempo segnato dall’alternanza dei giorni e delle sta-gioni, la prima difficoltà fu l’incontro con il rigidomarcatempo della fabbrica. Per altri popoli, non ancora in-vasi dalla tecnologia, il tempo è una categoria molto piùflessibile, elastica, soggettiva: hanno una diversa coscienzadel tempo. Rimanendo nel campo dei trasporti, a Dakar,città civilissima, per quello che ho potuto vedere le corrieree i treni partono quando… sono pieni. Dell’ora di arrivonon se ne parla proprio. Un amico mi raccontò diversi annifa che prese un treno a Giacarta, la capitale dell’Indonesia.La stazione, imponente, di stile vittoriano era dotata di ungrande cartellone meccanico delle partenze. Quando chiesel’ora di arrivo nella località dov’era diretto, fu guardato concuriosità: lo straniero stravagante. Non riuscì a saperlo. Ov-viamente l’ora di arrivo non interessava nessuno. Oggi, inEuropa, i treni viaggiano puntuali. Perché in Europa vige il

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tempo dell’orologio. In Italia sembra di no: “Stiamo arri-vando a…, ci scusiamo con i signori viaggiatori per il ri-tardo di… minuti”, recita con una certa tristezza ilCapotreno all’altoparlante. Sappiamo che, oltre un certo ri-tardo, si può chiedere il rimborso. A parte l’iter per otte-nerlo, è magra consolazione per chi ha perso le coincidenze.Vien fatto di invocare una capacità tutta italiana per il ri-tardo, qualcosa di specifico. Forse, protesa nel Mediterra-neo, l’Italia risente del tempo africano. Però i migranti chearrivano da quel continente imparano in fretta il nostrotempo del lavoro… Deve proprio essere una nostra caratte-ristica genetica.

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Lungo la valle del Reno: in treno da Bologna a Pistoia

“Bologna è una vecchia signora, coi fianchi un po’ mollicol seno sul piano padano ed il culo sui colli…”, canta Guc-cini con una delle sue folgoranti immagini. Un “culo” ab-bastanza vasto che tuttavia, ancora oggi, non riesce adoccupare tutto il verde. Basta poi salire, anche a piedi, a villaChigi per vedere tutto il via vai di colline che, lontano, infondo a destra, sono chiuse dal Corno alle Scale e, un po’più in là, dal Cimone. Oltre c’è il Tirreno. Davanti si indo-vinano Firenze, Prato, Pistoia. Seguendo i fiumi o sbalzandoin calanchi le colline diventano Appennino, ma non è facilecapire quando. Allora, prendiamo il treno e andiamo a ve-dere. Si parte dalla stazione Centrale o da quella di Casa-lecchio. Fino al 1934, quando aprì la Direttissima, laPorrettana, che stiamo per percorrere fino a Pistoia, eral’unico tratto ferroviario che univa Nord e Sud. Siamo par-titi da poco quando, verso Sasso Marconi, si apre una sortadi maestoso ingresso delimitato a sinistra dal Monte Mario,che si prolunga nella Rocca di Badolo e nel Monte Adone,e a destra dalla Rupe, alla base della quale striscia la ferro-via. Con qualche timore. In mezzo scorre il Reno che, inquel punto, riceve il Setta. Un po’ prima, sulla riva destra del

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Setta, si apre l’imbocco dell’acquedotto romano. Scavatotutto in galleria, raggiunge Bologna in 19 chilometri e leporta ancora acqua. A distanza di oltre 2000 anni.

E voilà. Con una certa teatralità inizia il vero viaggio nel-l’Appennino. Niente più coltivazioni intensive, fattorie, villepatrizie, vigneti estesi: si segue esattamente il Reno delimi-tato in entrambi i lati dall’Appennino. Nei pendii i boschisono spaccati in verticale dai calanchi e, in orizzontale, dapareti di rocce. Al tramonto si trasformano in luccicanti ca-scate e schegge e strisce d’oro. Un paesaggio di “bellezza di-messa, severa, per nulla appariscente”, scrive Vitali. Unpaesaggio aspro, vagamente malinconico, molto lontanodalle eleganze dei vicini colli toscani, un tempo cari agli in-glesi ed oggi a troppi. Eleganze un po’ stucchevoli quandoti affacci su morbide colline ben lavorate, decorate in cimada snelli cipressi che si stagliano contro il cielo e su strade,possibilmente sterrate, che si snodano languidamente at-traverso ben allineate vigne e piantagioni di ulivi secolari.Inarrivabile mix di natura-cultura.

Da noi domina la stessa natura di quando chi vi abitavaveniva tirato su a castagne, c’erano streghe eorchi e si rac-contavano storie cupissime di assassini e feroci briganti.Dove, ancora oggi, poco è coltivato e gli alberi antichi,querce, carpini, lecci, castagni, faggi…, continuano a farla dapadroni. I briganti hanno rappresentato un bel problema inqueste valli. A migliaia, rubavano, uccidevano, esigevano ilpizzo. Ma erano anche utilizzati dai signori per i loro giochidi potere e godevano di una specie di impunità. Uno dei capiche, alla testa di una grossa banda, spadroneggiò per cinqueanni, fu Aloisio Pepoli che si diceva fosse figlio naturale delConte Guido. Come racconta Carducci, in quegli anni, su

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ordine di Sisto V, venne ucciso il Conte Giovanni Pepoli, Se-natore di Bologna. Una questione di vendette e di potere: ilConte rivendicava il fatto che Castiglione come feudo im-periale dipendeva solo dall’Imperatore. Il papa non era d’ac-cordo. Allora il fatto fece molto scalpore.

Cammino da anni in questi boschi. Sembrano quelli diRobin Hood perché compaiono improvvisamente, come fi-gure di sogno, branchetti di cinghiali, caprioli, daini, a volteanche cervi, e certe serpi che si credono chissà chi e si driz-zano soffiando. La più bella camminata fu quella de “La viadegli dei”. Cinque giorni da Sasso a Firenze con due amici,in mezzo ai monti e ai boschi. Emozionante tappa quelladalla Futa alla Toscana. Sul Monte Gazzaro faceva freddo eci avvolgeva la nebbia: ci sentivamo tutti Meissner. In cima,al riparo di un muro e dentro una scatola di ferro, c’eraanche il libro delle firme.

Dopo Sasso, dall’altra parte del Reno, arrampicata sullacosta, una bianca chiesa romanica. In certe giornate, tra lepiante del bosco, si vedono luccicare elmi e armature: sonole truppe dei ricchi conti di Panico che, nel giugno 1306,diedero una solenne batosta ai prodi guerrieri del Comunedi Bologna. Un fiumiciattolo, il Rio della Sconfitta, ricordal’evento. Poco dopo, questa volta dalla nostra parte, il pia-noro della città etrusca di Marzabotto. Gran bel posto peruna città. Non ci sono ruderi di qualche valore, ma l’im-pianto urbano è pressoché intatto, tanto che, percorrendo lestrade, si riconoscono le abitazioni, le botteghe artigiane,l’Acropoli, i cimiteri… In un mattino di sole di primavera,ponendosi al centro della città con gli occhi socchiusi si vedelo stesso paesaggio che i nostri progenitori guardavano 2500anni fa. Capita di essere trasportati nel tempo.

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Ancora il Reno che, a tratti, scompare dietro gli alberi,l’Appennino, i boschi, i calanchi. Tènere stazioncine dove siodono allegre grida di bimbi e il canto dei galli. Vitali par-lava del nostro Appennino riferendosi a Morandi e agli stra-ordinari olii e acquaforti di Grizzana, per sottolineare lasintonia fra il pittore e questa natura. Morandi è il piùgrande, ma anche altri bolognesi, come Luigi Bertellinell’800 e Nino Bertocchi, il più giovane, hanno colto laparticolare bellezza delle nostre colline, dei calanchi, deifiumi.

Fra queste montagne (Marzabotto, Grizzana e, più lon-tana, Monzuno) dalla fine di settembre ai primi di ottobredel 1944, fu attuata dalle SS del maggiore Reder l’insensatastrage di 1830 civili, la maggior parte dei quali costituita dadonne, vecchi e bambini.

A Porretta si cambia. Salgono e scendono viaggiatori. Sipuò proseguire o prendere una corriera e andare verso imonti: Corno alle Scale (1945 m) e Cimone (2165 m). LeCascate del Dardagna meritano di essere viste: si parte daMadonna dell’Acero, si arriva al Dardagna e si sale costeg-giando le cascate. I più intrepidi possono proseguire per ilLago Scaffaiolo (1775 m), un tempo lavatoio per i ricchiabiti delle streghe e degli orchi. Al Cimone, si deve propriosalire in cima: tempo permettendo il panorama è inegua-gliabile: dal Tirreno all’Adriatico, dal Monte Bianco alleAlpi Giulie. Si parte dal Laghetto della Ninfa e, lasciando adestra la seggiovia, in tre ore si è in vetta. Camminando, cisi ristora con lamponi e mirtilli, presenti in gran quantità.Proseguendo, invece, verso Pistoia, la ferrovia si addentranei boschi sempre più fitti. Il Reno è proprio lì, accanto aibinari. Dopo Ponte della Venturina la valle si restringe fino

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a ridursi a due verdi pareti. Le gallerie si susseguono. Im-provvise uscite su gole che si aprono verso il cielo. Quantialberi! A volte, in alto, dei falchi. A Pracchia, il punto di va-lico a 615 metri, le pinete danno l’impressione di montagnaseria. Siamo saliti di 26 metri al chilometro, ma non ce nesiamo accorti. Si comincia a scendere, a vedere in fondo laToscana: “all’uscire dalle nere profonde gallerie, i viaggia-tori attoniti si fanno ai vetri delle carrozze, dominando collosguardo a volo di aquila il piano toscano verde di oliveti, ele cupole di Pistoia che laggiù, dorate dal sole, galleggianosui vapori rosei a riflessi d’opale.” (A. Rubbiani, 1880)

Se si va in compagnia, ci si può fermare a Mulino del Pal-lone, microscopico paese sorto durante la costruzione dellaferrovia e rimasto tale e quale: un’atmosfera inconsueta, disolitudine. Forse, noi di città faremmo fatica ad abitarci. Bi-sognerebbe chiedere a Guccini che vive beatamente neipressi: a Pavana. In una tabaccheria-trattoria Catia e Rocco,lei ai fornelli e lui ai tavoli, servono buoni piatti tradizionali.Catia ha un volto antico che ricorda quelli tratteggiati daLeonardo a sanguigna.

Poi si prosegue o si torna indietro: i treni passano rego-larmente. A Pistoia, bei posti da vedere e invitanti trattorie.

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Il tempo del ritorno

Si viaggia, in treno, per andare da qualche parte. In va-canza, in viaggio di nozze, in qualche città a trovare l’amicoo i parenti, o l’amante. Qualcuno sostiene l’utilità del-l’amante lontana, in un’altra città. È più difficile essere ri-conosciuti. Quello degli amanti, la telefonata dal treno,l’incontro in vagone letto…, è un bel tema, bisognerà trat-tarlo, una di queste volte. Ovviamente si prende il treno permotivi di lavoro. Però, prima o poi si torna. Forse solo i mi-granti non tornano più. Quando uno decide di lasciaretutto per andare a stare meglio è difficile che torni. Mi co-struisco la casa e poi torno, mi dicono al Centro. Ma pas-sano gli anni e sono sempre qui. Torna chi ha fallito, non cel’ha fatta o viene rimpatriato a forza. Oppure torna chi haavuto successo, come gli italiani del Sud che ho incontratoin treno, ma torna in villeggiatura: in realtà vive sempre alNord.

Prima o poi si torna, anche se si cerca di prolungare il sog-giorno come nella “Grande abbuffata in treno”. C’è chitorna di malavoglia. Come Annibale che, racconta PaoloRumiz, dopo 15 anni di “soggiorno” italiano, è costretto atornare a Cartagine. Altri tornano volentieri, come Darwin,dopo cinque anni trascorsi a bordo del Beagle, nonostante

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la meraviglia delle cose osservate da vicino. Altri tornano,diciamo così, per ragioni mediche: i soldati svizzeri, com-battenti valorosi e molto richiesti, quando, al soldo di qual-cuno, andavano a guerreggiare in terre molto lontane, siammalavano di “nostalgia”, stranissima malattia che ogginon esiste più: si poteva anche morire, ma si guariva im-mediatamente tornando in patria. Ma l’eroe del nostos, delritorno è Odisseo, Ulisse. Dopo aver fatto vincere la guerraai Greci, con il famoso inganno del cavallo, impiegò diecianni per tornare ad Itaca, l’isola della quale era il re. Dovel’aspettavano la moglie Penelope e il figlio Telemaco. Fati-cosissimo ritorno tra fascinose isolane, sirene ammaliatricie cattivissimi giganti con un solo occhio. Però era protettoda Atena. Senza la Dea avrebbe fatto naufragio il giornodopo la partenza. E Omero non avrebbe potuto scriverel’Odissea. “Considerate la vostra semenza - fa dire Dante adUlisse - fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir vir-tute e conoscenza.” Ma questa arroganza di conoscere, co-noscere oltre il limite, questa hybris, lo fa affondarenell’inferno. Ulisse è figura oltremodo complessa che, giàprima di Dante, aveva interessato filosofi e drammaturghi.Semplificando un po’, c’è l’Ulisse dantesco che cerca la co-noscenza e l’Odisseo omerico che esprime amore per il paesenatio e attaccamento alla famiglia. Altrimenti, perchè Odis-seo torna a casa? Non era piacevole Calipso? D’altra parte,se non siamo proprio “bruti” ogni viaggio, come ho cercatodi raccontare in questi miei brevi scritti, ci fa conoscerequalcosa, contiene un pezzetto dell’Ulisse di Dante. Ancheun piccolo viaggio in treno può essere un’avventura.

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca - scrive Kavafis -

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devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure ein esperienze.”

Allora si torna a casa. Si arriva in stazione e, reggendo lavaligia, si scende dal treno. Si rivedono con piacere le per-sone e i luoghi conosciuti. Noi, io e i miei dodici lettori,partiti per un breve viaggio sul treno-Corriere della Sera-Bologna, torniamo a casa. Non di malavoglia come Anni-bale, ma nemmeno spinti dalla nostalgia o da urgenza ostruggente desiderio. Come quando una vacanza è finita.Ma è anche opportuno tornare a casa perché, a differenza diOdisseo, non abbiamo una dea che ci protegga nei viaggitroppo lunghi. È anche utile per non peccare di arroganzacome Ulisse e finire il folle volo all’inferno. Come è capitatoanche ad Achab. Devo dire, però, che ho bei ricordi, misono divertito: il viaggio è stato “fertile in avventure e inesperienza”. Così spero anche per i miei dodici lettori.

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