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La Newsletter settimanale del 1° ottobre 2015TRANSCRIPT
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L'AVVENIRE DEI LAVORATORI La più antica testata della sinistra italiana, www.avvenirelavoratori.eu Organo della F.S.I.S., organizzazione socialista italiana all'estero fondata nel 1894 Sede: Società Cooperativa Italiana - Casella 8965 - CH 8036 Zurigo Direttore: Andrea Ermano
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e-Settimanale - inviato oggi a 44398 utenti – Zurigo, 1 ottobre 2015
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IPSE DIXIT
Eleanor Roosevelt con il manifesto della
Dichiarazione universale dei diritti umani
L’Assemblea Generale,
Guidata dagli scopi e dai principi espressi nella Carta delle Nazioni
Unite,
Richiamando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la
Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la
Convenzione sui Diritti del Bambino,
Richiamando anche le risoluzioni sulla questione della pena di morte
adottata nell’ultimo decennio dalla Commissione sui Diritti Umani in
tutte le sessioni consecutive, l’ultima essendo la 2005/59, con cui la
Commissione ha esortato gli Stati che ancora mantengono la pena di
morte affinché la aboliscano completamente e, allo stesso tempo,
stabiliscono una moratoria delle esecuzioni,
Richiamando inoltre gli importanti risultati conseguiti dalla ex
Commissione sui Diritti Umani sulla questione della pena di morte, e
contemplando che il Consiglio sui Diritti Umani possa continuare a
lavorare su questo problema,
Considerando che l’uso della pena di morte attacca la dignità umana
e convinti che una moratoria sull’uso della pena di morte contribuisca
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alla promozione e allo sviluppo progressivo dei diritti umani, che non
c’è alcuna prova conclusiva del fatto che la pena di morte abbia un
valore deterrente e che ogni errore o fallimento della giustizia, con
l’implementazione della pena di morte, è irreversibile e irreparabile,
Accogliendo le decisioni prese da un crescente numero di Stati
nell’applicare una moratoria sulle esecuzioni, seguita in molti casi
dall’abolizione della pena di morte,
1. Esprime la sua profonda preoccupazione riguardo la continua
applicazione della pena di morte;
2. Invita tutti gli Stati che ancora hanno in vigore la pena di morte
a:
(a) Rispettare gli standard internazionali per fornire clausole
che salvaguardino la protezione dei diritti di coloro che
affrontano la pena di morte, in particolare gli standard minimi,
come previsto nell’allegata risoluzione 1984/50 del 25 maggio
1984 del Consiglio Sociale ed Economico;
(b) Fornire al Segretario Generale le informazioni relative
all’uso della pena capitale e l’osservanza delle clausole di
salvaguardia della protezione dei diritti di coloro che devono
affrontare la pena di morte;
(c) Restringere in modo progressivo l’uso della pena di
morte e ridurre il numero dei reati per i quali essa è prevista;
(d) Stabilire una moratoria sulle esecuzioni con lo scopo di
abolire la pena di morte;
3. Invita gli Stati che hanno abolito la pena di morte a non
reintrodurla…
Organizzazione delle Nazioni Unite
New York, 18 dicembre 2007
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EDITORIALE
Contro la pena di morte
di Andrea Ermano
Nel suo storico discorso di fronte al Congresso degli Stati Uniti, papa
Bergoglio ha detto che la "nostra responsabilità di proteggere e
difendere la vita umana… mi ha portato, fin dall’inizio del mio
ministero, a sostenere a vari livelli l’abolizione globale della pena di
morte. Sono convinto che questa sia la via migliore, dal momento che
ogni vita è sacra, ogni persona umana è dotata di una inalienabile
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dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro
che sono condannati per crimini".
Francesco parla al Congresso USA
Dopodiché, l'altro ieri notte a Jackson, nello stato della Georgia, è stata
giustiziata tramite iniezione letale Kelly Renee Gissendaner, 47 anni,
mandante dell'assassinio del marito. Per questa notte è prevista, in
Virginia, l'esecuzione di Alfredo Prieto, 49 anni, colpevole di aver
ucciso nove persone tra il 1988 e il 1990.
Occhio per occhio, dente per dente?
Ma che dire allora del diciannovenne saudita Ali al Nimr, colpevole
solo di aver protestato contro il governo del suo paese?
«Ali Mohammed al Nimr, nipote di un assai famoso oppositore
sciita al regime dell’Arabia Saudita, aveva 17 anni quando, nel
febbraio 2012, venne arrestato per aver preso parte a una
manifestazione nella provincia di Qatif, ed è stato condannato a morte
il 27 maggio scorso», scrive Paolo Mieli, facendo presente che nel
regno mediorientale «il ritmo delle esecuzioni si è intensificato al
punto che nel maggio scorso è stato pubblicato un bando per il
reclutamento di otto nuovi "funzionari religiosi" da adibire al taglio
delle teste. Lo scrittore Tahar Ben Jelloun ha minuziosamente descritto
cosa accadrà ad Ali al Nimr il giorno dell’esecuzione: "Sarà decapitato,
poi crocifisso, e infine lasciato agli uccelli rapaci e alla putrefazione".
Come accadde, scrive Ben Jelloun, al grande poeta sufi del decimo
secolo, Al Halla: il suo corpo fu evirato, crocifisso e lasciato marcire al
sole. Un’abitudine non nuova, dunque».
Ali Mohammed al Nimr
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Be', in effetti, questa "abitudine", come scrive Mieli, non è nuova. Ma
non è estranea nemmeno alla cultura giuridica di casa nostra. Ebbe
applicazione massiccia in altri tempi, in conformità con quanto sancito
dal diritto romano nei casi di ribellione e brigantaggio. Nel 71 a.C. gli
schiavi insorti con Spartaco vennero crocifissi lungo la via Appia,
sicché da Roma a Capua il viandante poteva "ammirare" seimila corpi
sanguinanti, morti o morenti, appesi ai legni, a monito contro la
sedizione.
Un secolo dopo, accade a Gerusalemme che un ebreo di nome
Yeshua, un predicatore e taumaturgo semi-sconosciuto ai cronisti
dell'epoca, sia condannato a morte dal praefectus Pilato. La sentenza
viene eseguita dai soldati romani. Ma l'ennesima crocifissione stavolta
inaugura, come tutti sanno, un tenace movimento di dissidenza
religiosa e morale anti-pagana noto sotto il nome di Cristianesimo. Il
quale Cristianesimo però, dopo un paio di secoli, diviene religione di
Stato. E in quanto tale stabilisce una serie di dogmi, contraddire i quali
è considerato un delitto grave. Ritornano così in campo cristiano le
usanze del potere pagano: la propaganda assassina, la discriminazione,
la persecuzione, la tortura, la messa a morte, la strage.
Quando porge la man Cesare a Piero,
Da quella stretta sangue umano stilla:
Quando il bacio si dan Chiesa ed Impero,
Un astro di martirio in ciel sfavilla.
Questi versi del Carducci – ben oltre la polemica risorgimentale –
riassumono un meccanismo della catastrofe umanitaria sempre in
agguato ogni qual volta la res publica smarrisca il suo fondamento
d'imparzialità e di prudenza.
Certo, non è indifferente se il potere costituito s'identifica
ideologicamente con la religione del divo Augusto o di Nerone, della
dea Ragione o dell'Autodafé, della Fratellanza universale o della
Grandezza nazionale… I contenuti e le forme di una cultura, come il
suo grado di tolleranza/intolleranza e di sapienza/insipienza,
posseggono un peso enorme. Ma, quando il potere costituito tende al
potere costituente e viceversa, "da quella stretta" allora poi comunque
"sangue umano stilla".
L'esempio più macroscopico di ciò si ha nei diciotto secoli di
antisemitismo europeo. All'inizio di questa vicenda, nel clima di nuova
armonia tra Chiesa e Impero, la responsabilità (romana) della
crocifissione di Gesù Cristo è senz'altro scaricata sugli Ebrei, i quali di
qui in poi valgono, collettivamente e di generazione in generazione,
quale "popolo deicida". Una leggenda infame che inizia nel secondo
secolo e finisce vent'anni dopo Auschwitz, nel 1965, con la
dichiarazione Nostra Aetate, e non senza qualche residua ambiguità:
"Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la
morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua
passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei
allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo".
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Roma, Stazione Tiburtina, 18 ottobre 1943
1023 Ebrei romani deportati ad Auschwitz
Oggi noi incontriamo insormontabili difficoltà a immaginarci che tutto
questo è stato, ed ha avuto luogo in Europa.
Giustamente inorridiamo nell'assistere alle pratiche – della
crocifissione, della decapitazione, della lapidazione – tuttora in vigore
nel mondo islamico.
Giustamente ci sentiamo molto vicini a papa Francesco quando
condanna la pena di morte, e molto lontani dai funzionari di giustizia
della Georgia della Virginia incaricati di praticare l'iniezione letale ai
condannati.
Ma molti nostri concittadini europei fanno fatica a comprendere per
quale ragione un omicida non debba essere a sua volta giustiziato. Un
premier europeo, per esempio, si è detto favorevole alla reintroduzione
della pena di morte "se la maggioranza della gente pensa che questa
rappresenti una difesa più efficace contro il dilagare della criminalità".
Non è improbabile che un po’ di gente si chieda che cosa ci sia di
sbagliato in questo ragionamento, indubbiamente errato.
Secondo il credo populista la democrazia possiede un semplice e
fondamentale aspetto egualitario: "uno vale uno".
Ma, se "uno vale uno", allora una grande maggioranza di "uni" (caso
limite: tutti gli "uni" meno "uno") dovrebbero poter disporre di
quell'"uno" e quindi, per esempio, decidere di avere il sacro diritto di
eliminarlo con un'iniezione letale, o anche tramite qualche altro
metodo più o meno brutale.
Anzi, se ne ammazzate "uno" per educarne mille, allora il metodo
brutale, oggi saudita e ieri europeo, non sarebbe forse addirittura
preferibile a quelli attualmente in vigore negli USA? In fondo, la gente
s'impressiona di più per una crocifissione che non per una puntura…
In realtà, questo groviglio mentale resta inestricabile finché non ci
disponiamo a pensare alla democrazia in senso moderno, non cioè
come a un "uno vale uno", ma come a una specialissima eguaglianza
tra valori infiniti. Ogni "uno" deve valere infinitamente. Nel senso che
ciascuna persona umana possiede un proprio inalienabile valore
assoluto. Un valore che non può essere rifunzionalizzato
populisticamente nella disponibilità di ciò che pensa la "maggioranza
della gente".
No, non lo si può fare!
Né in rapporto alla lotta per la legalità né in rapporto a qualsiasi altra
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"santa" causa.
MUSEO DI ROMA
IN TRASTEVERE
Andy Rocchelli
Stories Dal 30 settembre al 15 novembre 2015
MUSEO DI ROMA IN TRASTEVERE
Piazza S. Egidio 1b
Al Museo di Roma in Trastevere, dal 30 settembre al 15 novembre
2015, una mostra racconta attraverso i suoi lavori più significativi,
realizzati fra il 2009 e il 2014, il percorso fotografico di Andy
Rocchelli, il fotoreporter ucciso insieme al freelance russo Andrej
Mironov il 24 maggio 2014 a Sloviansk, nell’est dell’Ucraina.
La mostra è promossa dall’Assessorato alla Cultura e allo Sport di
Roma-Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, a cura di Cesura in
collaborazione con 3/3. Con il patrocinio e il supporto dell'Ambasciata di
Svizzera in Italia e di SpazioReale Monte Carasso, Cantone del Ticino.
Per informazioni:
www.museodiromaintrastevere.it
SPIGOLATURE
Another Brick
in the Wall…
di Renzo Balmelli
MURI. Quando i Pink Floyd composero il celebre "The Wall", pietra
miliare del rock impegnato, l'Europa da est a ovest era ancora tagliata
in due da una frontiera di mattoni, simbolo delle barriere materiali o
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metaforiche che hanno deturpato e deturpano la storia dell'umanità. Da
allora il mondo è cambiato, ma non come si sperava. Per un muro che
crolla, altri cento ne sorgono tra l'astio e i sospetti. Non sorprende
quindi che a quasi quarant'anni dalla prima pubblicazione, l'opera dei
Floyd conservi intatto tutto il suo potenziale e continui a fare riflettere
con rinnovata intensità grazie al film di Roger Waters, da poco nelle
sale, dedicato all'album omonimo della band inglese. Fin dall'antichità
l'uomo ha sempre costruito barriere materiali e psicologiche a difesa
del proprio territorio e del proprio potere in nome di ideali spesso assai
discutibili. Magari è vero che i muri servono a proteggere dalle
intemperie, ma nel momento in cui assistiamo all'odissea dei profughi,
ben più numerosi sono quelli della disperazione contro i quali si
infrangono le speranze.
IMMAGINE. A proposito di muri vecchi e nuovi solleva interrogativi,
a loro volta vecchi e nuovi, l'esito delle elezioni in Catalogna che si
presta a varie chiavi di lettura. Difatti se da un lato questo voto tende a
confermare l'ampiezza del sentimento separatista, senza essere tuttavia
un plebiscito, dall'altro porta acqua al mulino degli eurodisfattisti che
sulla disunione, l'esclusione e la nostalgia delle piccole patrie ci
campano alla grande. Il verdetto delle urne, pur senza autorizzare
conclusioni definitive, sembra infatti marcare, oltre a un serio
problema interno per la Spagna, l'inizio di un percorso che si muove in
senso contrario rispetto a quello originale , ormai lontano dal progetto
politico e culturale dei padri fondatori. E proprio questi sono oggi i
limiti dell'Unione, poiché l'Europa "immaginata" da chi la tenne a
battesimo – annota Ilvo Diamanti su Repubblica – "è rimasta appunto
un'immagine, un orizzonte lontano".
VERTICE. Nel Medio Oriente le possibilità sono due. O l'incombente
minaccia dell'Isis, frutto di tante cose oltre che di una palude mediatica
senza precedenti, riesce, obtorto collo, a riavvicinare Washington e
Mosca unite contro il comune nemico dopo due anni di gelo, oppure
nella regione in cui opera potrebbero presentarsi condizioni non
lontane da quelle di una terza guerra mondiale. Che la vasta zona
compresa tra la Libia, l'Iraq e la Siria sia il teatro di ogni sorta di
prevaricazione è ormai evidente anche agli occhi di chi preferisce
guardare altrove. Impedire che la situazione possa degenerare fino al
punto di non ritorno dovrebbe essere una preoccupazione più che
sufficiente per consigliare ad Obama e Putin di farsi folgorare sulla via
di Damasco e di non lasciare a metà il brindisi e il faccia a faccia che
dovrebbero suggellare la strategia condivisa sulla sorte di Assad. A tale
proposito le posizioni sono ancora parecchio lontane, ma a dispetto
delle divergenze è lecito pensare che a nessuno dei due farebbe piacere
trovarsi il califfato davanti alla porta di casa.
VEEMENZA. Tutto sommato sono tra le più tranquille del panorama
continentale, ma ciò non deve indurre a credere che le elezioni per il
rinnovo del parlamento federale svizzero, in programma il 18 ottobre,
servano unicamente a confermare la tradizionale e immutabile
governabilità di un Paese che non ama gli scossoni e non conosce crisi
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ministeriali. Dalle urne non usciranno esiti sconvolgenti , dato questo
che sondaggi alla mano appare assai probabile. Le oscillazioni saranno
però una radiografia degli umori prevalenti tra la popolazione rispetto
ai temi che maggiormente la preoccupano: il franco forte, la
controversa libera circolazione della manodopera estera, i rapporti con
l'Europa -piuttosto convulsi di questi tempi - l'afflusso dei migranti , la
protezione delle frontiere. Su questi argomenti, di forte contenuto
emotivo, la temperatura elettorale è salita alle stelle sotto la spinta dei
populisti che ne hanno fatto il soggetto centrale se non l'unico della
loro campagna con una veemenza pari a quella delle famigerate
iniziative anti stranieri di Schwarzenbach negli anni Settanta che
spaccarono in due la Confederazione. Agli altri e in particolare alla
sinistra il compito di impedire che si trasformino in una ossessione.
PAROLE. Funambolo della politica, Matteo Renzi non passa certo
inosservato quando si muove sul palcoscenico internazionale dove i
commentatori provano a sviscerare la personalità del premier che si
professa di sinistra però senza mai spiegare esattamente come. Alla
CNN è stato addirittura accostato a Bill Clinton e Tony Blair, due
pezzi da novanta della terza via liberal-socialista rimasta però una bella
incompiuta. In uno slancio di modestia, dopo questo paragone il
premier si è detto pronto a fermarsi e a lasciare finendo diritto diritto
nelle fauci della satira, feroce e irriverente. Se avessimo saputo che era
così facile, sai quanti esempi avremmo potuto sfornare ogni giorno
hanno detto i Crozza di turno con un'allusione carica di significati.
Tanto più, che l'esclamazione "In America, in America", cara a non
pochi onorevoli, sembra essere la versione italiana del famoso appello
"A Mosca a Mosca" della letteratura russa in cui i personaggi
intessevano le loro reti di rapporti, il loro gioco di parole.
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LAVORO E DIRITTI
a cura di www.rassegna.it
Disoccupazione in calo,
ma non tra i giovani
L'Istat rileva un nuovo calo del tasso ad agosto, sceso all'11,9%.
Sorrentino (Cgil): "Dati confortanti solo se si stabilizzeranno e
comunque contenuti visti gli ingenti incentivi alle imprese". Intanto
risale la disoccupazione giovanile: ora è al 40,7%.
“Gli andamenti sull'occupazione, se si stabilizzeranno, sono certamente
un dato confortante, ma comunque appaiono contenuti visti i
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considerevoli incentivi previsti in legge di stabilità per le assunzioni
2015, che hanno avuto un effetto incrementale, ma bisogna vedere
quanto duraturo”. È questo il commento della Cgil, per bocca della
segretaria confederale, Serena Sorrentino, agli ultimi dati
sull'occupazione diffusi dall’Istat.
Nell’ultima rilevazione pubblicata ieri, mercoledì 30 settembre,
l’istituto di statistica ha infatti segnalato un nuovo calo nel tasso di
disoccupazione, che si è attestato all'11,9% ad agosto. Secondo i dati
provvisori, la flessione è di 0,1 punti percentuali rispetto al mese
precedente e di 0,7 punti rispetto ad agosto 2014. Nei dodici mesi la
disoccupazione diminuisce del 5%, con 162mila persone in meno in
cerca di lavoro.
Torna ad aumentare invece la disoccupazione giovanile, che arriva
ad agosto al 40,7% (+0, 3% su luglio), restando comunque sotto il dato
di agosto 2014 (-2,3 punti). Gli under 25 disoccupati sono 631mila,
13mila in più rispetto al mese precedente.
Secondo Serena Sorrentino, “il dato relativo alla disoccupazione
giovanile indica scarsa propensione dell'impresa ad investire sul futuro.
Se il governo vuole dare un segnale vero che questa è #lavoltabuona e
che l'#italiariparte metta in legge di stabilità incentivi sull'occupazione
aggiuntiva per le imprese che investono, vincolandoli all'innovazione e
prevedendo la loro restituzione in caso di licenziamento di quel
lavoratore prima dei tre anni”, sostiene la segretaria Cgil.
“Quanto al jobs act - prosegue la dirigente sindacale - rappresenta un
regalo in più all'impresa che assumerà con gli incentivi risparmiando il
30 per cento del costo del lavoro per tre anni potendo però licenziare
liberamente anche senza giusta causa. Quindi è comprensibile che le
imprese esultino, ma i lavoratori sanno che hanno perso diritti
fondamentali”. “Sul jobs act, comunque, - conclude la segretaria
confederale - la partita non è affatto chiusa, i diritti vanno riconquistati
e la contrattazione lo sta già facendo: nelle 325mila unità, infatti, ci
sono anche assunzioni fatte con accordi sindacali che disapplicano le
tutele crescenti”.
Da Avanti! online www.avantionline.it/
Prime bombe russe
Putin nella palude siriana?
di Maria Teresa Olivieri
Mosca non voleva rimanere esclusa dalla costruzione della nuova Siria,
ma soprattutto non poteva rimanere esclusa dai giochi in Medio
Oriente mentre un paese amico come la Siria viene riorganizzato
dall’Occidente con in testa la Casa Bianca. Così dopo il discorso
davanti all’Onu, Putin passa dalle parole ai fatti. Stamattina il
parlamento russo, su richiesta di Putin, ha dato il via libera e sono
iniziati i raid aerei di Mosca sulla Siria. A darne conferma
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l’amministrazione americana, che è stata avvertita dal Cremlino prima
degli attacchi (contatti sono stati inoltre avviati tra Usa e Russia per la
gestione dello spazio aereo al fine di evitare scontri). “L’unico modo
giusto di lottare contro il terrorismo internazionale è agire in anticipo,
combattere e distruggere miliziani e terroristi sui territori già occupati
da loro e non aspettare che arrivano a casa nostra” ha commentato da
parte sua il presidente Putin.
Alla base della decisione di Putin ci sarebbe la preoccupazione per
l’aumento dei foreign fighters, combattenti dell’area dell’ex Unione
Sovietica che sono andati in Siria, sono tornati a casa e costituiscono
una diretta minaccia. Ma secondo i la Casa Bianca quella di Mosca “è
improvvisazione”, tanto che gli attacchi aerei russi si sono concentrati
nelle province di Hama, Homs e Latakia, ma non in aree controllate dai
jihadisti dello Stato islamico. Tanto da lasciar intendere che sotto le
bombe russe sono finiti obiettivi diversi dai combattenti dello Stato
islamico e che quindi i russi hanno agito in appoggio ad Assad contro
tutti i suoi oppositori, più che contro lo Stato islamico.
La speranza per gli Stati Uniti, che nel frattempo hanno dovuto
sospendere i raid aerei per evitare sovrapposizioni con le operazioni
russe, è che Putin finisca impantanato in una nuova guerra così come
successo agli Usa, ma il capo dell’amministrazione presidenziale russa,
Serghei Ivanov, ha spiegato che le operazioni dell’aviazione russa si
svolgeranno in “un arco di tempo definito” e “non potranno andare
avanti indefinitamente”. “In Siria in queste ore si sta creando uno
spiraglio di via di uscita”, ha commentato dal Consiglio di Sicurezza
Onu il Ministro degli esteri Paolo Gentiloni. “Una transizione politica
graduale che però non dia vita a un vuoto di poteri come successo in
Libia, e prima della Libia, in Iraq”, ricalcando le affermazioni di Renzi
di questi giorni.
Diversa la posizione dei francesi che non vogliono certo che la Siria
finisca nell’orbita di Putin, la procura di Parigi ha aperto un’inchiesta
sui presunti crimini commessi dal regime di Damasco di Assad tra il
2011 e il 2013 sulla testimonianza di un ex fotografo della polizia
militare siriana, fuggito dal paese nel 2013 con 55mila fotografie che
proverebbero gli abusi e le brutalità commesse durante il conflitto. La
Francia, inoltre, punta a sottolineare che le bombe russe hanno in realtà
come obiettivo non l’Isis ma l’opposizione siriana. “Se hanno colpito a
Homs, come sembra”, ha affermato una fonte militare di Parigi, non è
lo Stato islamico l’obiettivo ma probabilmente i gruppi di opposizione.
Ciò conferma che “i russi vanno più in aiuto di Assad che contro
l’Isis”, a supporto della tesi di Parigi anche il capo della Coalizione
nazionale siriana, il principale gruppo politico di opposizione ad
Assad, Khaled Khoja. Secondo Khaled Khoja nei raid aerei russi sulla
Siria sarebbero morti almeno 36 civili e le bombe hanno colpito zone
dove i combattenti dello Stato islamico e Al Qaeda non sono presenti.
“Tutti gli obiettivi colpiti dai raid aerei russi a nord di Homs erano
civili” ha scritto Khaled Khoja, sul suo profilo Twitter. “Le zone
colpite nelle operazioni aeree russe a Homs sono le stesse in cui lo
Stato islamico combatteva ed è stato sconfitto già un anno fa”.
Mosca si affretta, nel frattempo, a dare per “legittimo” il suo
intervento, facendo sapere che è stato il presidente Assad a chiedere
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“l’aiuto militare” di Mosca, anche per quanto riguarda specificamente
l’invio di aerei. “D’accordo con la decisione del comandante supremo
delle forze armate della Federazione russa, Vladimir Putin, le forze
aeree russe hanno cominciato oggi bombardamenti mirati contro
obiettivi dello Stato islamico sul territorio della Repubblica araba
siriana”, ha annunciato un portavoce del ministero della difesa di
Mosca citato dall’agenzia di stampa Interfax.
Vai al sito dell’avantionline
La Fondazione Socialismo
La rivista Mondoperaio
promuovono il convegno
Fiducia nel futuro Una riflessione a 60 anni dal piano Vanoni
Roma, 6 ottobre alle ore 17:30
Istituto della Enciclopedia Italiana - Sala Igea
Piazza della Enciclopedia italiana, 4
Presiede: Luigi Covatta
Introduzione: Gennaro Acquaviva
Giuseppe De Rita, Programmare per costruire
Giulio Sapelli, Presente e futuro nella impostazione del Piano
Vanoni
Enrico Morando, Programmazione e politica nella storia
repubblicana
Piero Craveri, Vanoni e l’occasione mancata dai socialisti
liberali e riformatori
Giuliano Poletti, Il futuro impossibile senza autorevolezza
della politica
Info e accrediti:
Fondazione Socialismo - tel.: 06 85 300 654,
e-mail: [email protected]
www.fondazionesocialismo.it/
Da MondOperaio http://www.mondoperaio.net/
Cambiare verso alla Rai
di Celestino Spada
Da quando, nel 1994, Angelo Guglielmi (che aveva portato RaiTre al
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successo professionale e di pubblico) fu accusato sull’Unità, da
intellettuali ed “esponenti della società civile”, di aver fatto “in realtà”
il gioco di chi aveva appena vinto le elezioni, il ruolo di direttore della
terza rete televisiva della Rai si è rivelato scomodo. Se ne ha riprova in
questi giorni, che vedono l’attuale direttore e i responsabili di alcune
rubriche giornalistiche sotto attacco perché “non si sono accorti che
nel Pd è stato eletto un nuovo segretario il quale è diventato anche
premier” (on. Michele Anzaldi): fino a essere qualificati di
“camorrismo giornalistico” (dal presidente della Regione Campania,
Corriere della sera del 29 settembre).
La giostra che ne sta seguendo nell’opinione e nelle istituzioni è,
come al solito, a tema fisso: chi comanda nella e sulla Rai e le sue
strutture editoriali (una per una): se il partito “di riferimento”, il
Parlamento, lo stesso ente radiotelevisivo. A documentare ancora una
volta la tossicità dei rapporti fra politica, professione e impresa
radiotelevisiva instaurati con la riforma del 1975, e l’incapacità ormai
ultradecennale dei partiti di risolvere i problemi da essi stessi generati:
una constatazione che varrebbe anche nel caso che a finire sotto
attacco non fossero programmi che onorano il servizio pubblico e chi
ci lavora, come nel caso di Report e di Presadiretta. Diciamo la verità:
quando si ha in testa un partito tutto impegnato a perseguire obiettivi e
scelte concrete di cambiamento della società italiana, non vengono in
mente cose come queste.
FONDAZIONE NENNI http://fondazionenenni.wordpress.com/
Mauro Ferri (Roma, 15 marzo 1920 – 29 settembre 2015)
Con lui scompare un altro esponente
della famiglia socialista nenniana
di Giuseppe Tamburrano
È morto Mauro Ferri , nato a Roma il 15 marzo del 1920. La sua
presenza sulla scena politica italiana è stata lunghissima, ed ha
ricoperto un gran numero di cariche pubbliche: da Sindaco di Castel
San Niccolò, a componente del Comitato Politico Centrale del Psi
(sempre riconfermato), partito nel quale è eletto deputato per cinque
legislature consecutive, fino a diventare Segretario del PSU dopo la
scissione ( ma rientrò presto nel PSI ).
Nel 1972 è nominato Ministro dell’industria nel secondo governo
Andreotti e nel 1979 è eletto al parlamento europeo, dove ricopre la
carica di Presidente della commissione giuridica prima e della
Commissione Istituzionale poi. Nel 1986 è eletto al Consiglio
Superiore della Magistratura e l’anno successivo è nominato giudice
costituzionale dal Presidente Cossiga. Nel 1995 è nominato Presidente
della Corte Costituzionale.
Concluso il periodo nella Corte entra nel 1996 come Socio
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Fondatore nella Fondazione Nenni e vi rimane fino alla morte,
partecipando anche negli ultimi tempi, in cui si muoveva con estrema
difficoltà, a tutte le riunioni del Consiglio di Amministrazione dando
ogni volta il suo determinante contributo ai lavori del consiglio stesso.
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L’analisi
Le elezioni catalane
Una lezione politica istituzionale per l’Italia
di Felice Besostri
Il risultato delle elezioni catalane di domenica 27 settembre 2011 ha carattere
costituente secondo la parola d’ordine dei partiti catalanisti indipendentisti (CDC-
ERC, con lista unica ”Uniti per il Sì”, con il sostegno di due piccole formazioni
scissioniste del PSC e dell’UDC, e CUP (“Candidatura di Unità Popolare”) dopo che
il Governo con l’avallo del Tribunale Costituzionale aveva dichiarato illegittimo il
referendum istituzionale indetto per il 2014 sostituito da una consultazione popolare
senza valore legale. Col senno di poi le forze politiche contrarie alla secessione della
Catalogna si pentiranno perché il referendum aveva due quesiti. Il primo sulla
dichiarazione di sovranità, cioè il passaggio da Comunità Autonoma (per intendersi
come una Regione Autonoma italiana, tipo Sicilia) a stato sovrano (Land tedesco o
Cantone svizzero) . Il secondo se questo stato dovesse essere non solo sovrano ma
anche indipendente. Un processo con similitudini con quello che portò alla
dissoluzione dell’U.R.S.S. in quanto le chiusure alle dichiarazioni di sovranità,
accelerarono quelle di indipendenza: in teoria una dichiarazione di sovranità è
compatibile con una soluzione federale, che era ed è la posizione dei socialisti
spagnoli, PSOE, e catalani, PSC. In base alla rappresentanza parlamentare gli
indipendentisti ed alleati hanno una chiara maggioranza. Junts pel Sì (CDC,ERC e
alleati) ha 62 seggi, che sommati ai 10 di Candidatura d’Unitat Popular, una forza
politica di sinistra alternativa, rappresentata nell’assemblea parlamentare della
Generalitat dal 2012 con 3 seggi, costituisce una maggioranza di 72 seggi su 135. In
percentuale di voto, con una partecipazione storica del 77,44% (2012 69,6%, 2010
58,8) : una chiara controtendenza rispetto all’Italia e alla Grecia) le due liste
indipendentiste raggiungono, invece, il 47,78% (JxSì 39,57%+ CUP 8,21%) , che
non è la maggioranza assoluta, ma più omogenea dei contrari.
La Catalogna non si è fatta impressionare dai sistemi elettorali italiani: ha un
sistema elettorale sostanzialmente proporzionale con una soglia d’accesso provinciale
del 3%, quindi più bassa dell’Italikum, che ha la stessa percentuale, ma nazionale. I
seggi sono distribuiti su base provinciale con il Metodo d’Hont, che favorisce le liste
più votate, non esente da distorsioni. Nelle elezioni precedenti del 2012 uno degli 85
seggi della provincia di Barcellona è costato 47.500 voti, mentre con appena 20.900
14
voti si conquistava uno dei 15 seggi della provincia di Lerida. Con 30.900 voti si
conquistava un seggio su 18 a Terragona, mentre a Girona, con 17 seggi totali, ci
volevano 29.500 voti per averne almeno 1. Questi rapporti seggi voti hanno nel
passato favorito la CiU (CDC+UDC) di Pujol rispetto al PSC-PSOE, che si
contendevano la direzione del governo, in altri tempi: per esempio nel 2006 il PSC
era il primo partito in percentuale con il 37,85% dei voti ma il secondo in seggi
avendone 52 a fronte dei 56 di CiU con il 37,7%: stessa situazione nel 1999 con il
PSC al 38, 21% e 52 seggi e CiU con 56 seggi e il 38,05%.
Con queste elezioni 2015 il panorama politico è totalmente cambiato e la
Catalogna non assomiglia alla Spagna del Parlamento eletto nel 2011 e neppure a
quello che uscirà dalle elezioni del dicembre 2015, per il quale le previsioni si son
fatte più difficili. L’asse politico in Catalogna non è più contrassegnato dalla
contrapposizione destra/sinistra e neppure da una tripartizione destra-centro-sinistra,
ma da indipendentisti/non indipendentisti (una definizione questa che è già un segno
di debolezza, che in un referendum sì/no potrebbe influenzare il risultato, se per
esempio i federalisti optassero per il no o per la non partecipazione al voto o scheda
bianca. La legge referendaria potrebbe tenere conto per la proclamazione della
maggioranza dei voti o dei votanti e/o pretendere come validante un quorum di
partecipazione degli aventi diritto: tutte questioni da risolvere nell’arco temporale,
che gli indipendentisti si sono dati di 18 mesi e che dipenderà anche dal nuovo
governo centrale, se dovrà essere una soluzione unilaterale o bilaterale. La
discriminazione indipendentista spiega il successo della lista civica di centro destra
Ciutadans (C’s) contraria all’autodeterminazione catalana e la singola lista con il
maggior successo: 2012 7,57% e 9 seggi vs 2015 17,91% e 25 seggi. Alle prime
elezioni catalane del 1980 i partiti rappresentati in Parlamento erano 6, tra cui, con 2
seggi anche un Partito socialista andaluso. Nel 2015 soltanto 6 liste hanno ottenuto
rappresentanza, ma espressione di coalizioni, che rappresentano almeno 9/10
formazioni politiche. Nel 1980 la sinistra era chiaramente maggioritaria con 74 seggi
o anche 72, per non contare i socialisti andalusi, PSC 33 seggi+ PSUC (la versione
catalana dei comunisti spagnoli) 25 + ERC (Sinistra Repubblicana Catalana) 14, ma
divisa tanto che ERC votò, insieme alla destra spagnolista di CC-UDC, per la
Presidenza di Jordi Pujol. CiU la formazione unitaria nazionalista catalana
tradizionale, quella che ha retto più a lungo il governo autonomico con 8 legislature
su 10, si è spaccata, in quanto, sia pure di misura, la UCD non ha accettato un
processo unilaterale di indipendenza. La UDC con un misero 2,51% come tale non è
rientrata in Parlamento e una parte, Demòcrates de Catalunya si è alleata con la CDC
di Mas contribuendo alla vittoria di “Uniti per il Sì”, e a contenerne la perdita in
percentuale rispetto al 2012. Nelle precedenti elezioni, infatti Convergència i Unió
aveva il 30,70% e 50 seggi, ma 11 erano UCD, e la ERC il 13,70% e 21 seggi, infatti
hanno governato in coalizione , togliendo dal 44,4% del 2012 il 2, 51% di UCD
2015, avrebbero dovuto ottenere lo 41,89%, mentre il guadagno in seggi rispetto al
punto di partenza è innegabile , perché i 71 seggi di CiU+ERC erano in effetti 60.
Un’altra formazione scissionista socialista Moviment d'Esquerres (Movimento delle
sinistre) , di provenienza del PSC ha contribuito al successo, in che misura lo
potremo sapere solo con la biografia dei futuri parlamentari. La grande sconfitta è la
sinistra tradizionale sia di provenienza socialista, PSC-PSOE, che comunista (PSUC-
PCE) : una sinistra che nel 1980 aveva 58 (PSC 33+ PSUC 25) seggi su 135, ma che
già nel 1988 ne aveva 47. PSC 41 e PSUC 6, inaugurando così le maggioranze
assolute di CiU e Pujol finite con la vittoria del socialista Pasqual Maragall nel 2003.
Le elezione anticipate del 2006 riconfermarono la guida socialista della Generalitat
di Catalogna, con Josep Montilla a capo di una coalizione tripartita Partit dels
Socialistes de Catalunya (PSC) , Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e
Iniciativa per Catalunya Verts-Esquerra Unida i Alternativa (ICV-EUiA) , come la
15
precedente. Nel 2010 i socialisti sono sconfitti, ma è tutta la coalizione di sinistra ad
essere punita dagli elettori con 22 seggi in meno, di cui 11, la metà, imputabile a
ERC e 9 al PSC. Dalla sconfitta del scendendo2010 la sinistra tradizionale non si
rimetterà il PSC scende nel 2012 al 14,43% e a 16 seggi da 20, per concludere
paretito la parabola nel 2015 al 12,72% e 16 seggi, ormai terzo partito, dopo essere
stato il secondo o il prima con percentuale di voto anche superiori al 38,1% e 52
seggi. Tuttavia le formazioni a sinistra del PSC non hanno avuto maggior fortuna,
recuperando le perdite socialiste in minima parte. Nel 2003, ottenendo 9 seggi si
presentavano uniti EA (Esquerra Alternativa,) e ICV, che nelle elezioni del 1999
aveva fatto alleanza con i socialisti in alcune circoscrizioni provinciali eleggendo
complessivamente 5 parlamentari. EUiA, esclusa dal Parlamento catalano nel, 1999,
con l’unificazione con ICV, formazione che comprende i Verdi, trae vantaggio dalla
dinamica unitaria e, infatti, uniti conquistano 12 seggi nel 2006, ma scendendo a 10
nel 2010 e avendo il miglior risultato con 15 seggi e il 9,90% nel 2012. Una dinamica
positiva che si è interrotta con il 8,93% e 11 seggi nel 2015, ma in unione con
Podemos che alle municipali del maggio 2015 lasciavano sperare in un risultato di
ben maggiore consistenza e comunque ben lontano dai migliori risultati del PSUC in
Catalogna e di Izquedia Unida in Spagna. A sinistra un solo successo è
incontrovertibile quella della lista CUP (Candidatura per l’unità popolare) con 10
seggi e il 8,21% Guadagna 7 seggi, rispetto al 2012, elezioni dove aveva superato la
soglia con il 3,48%, ma la forza è di essere decisivo per la maggioranza
indipendentista. Il suo successo deriva dalla chiara scelta per l’autodeterminazione
della Catalogna e per il rifiuto di una consiste quota dell’elettorato della EUiA
(Sinistra per l’Unità e l’Alternativa) con Podemos, considerato un movimento
populista, quindi non di sinistra. Un giudizio analogo di squalifica ideologica,
radicato anche nella sinistra italiana nei confronti del M5S. In Italia, come in Spagna,
per fare propria l’esortazione rosselliana (“ oggi in Spagna, domani in Italia”) la
sinistra dovrebbe interrogarsi se è possibile una sconfitta del Partito della Nazione,
senza un’alleanza con il M5S , ma soprattutto per quale incapacità di analisi e/o
mancanza di radicamento sociale non sia stata in grado di percepire, raccogliere e
rappresentare quelle pulsioni di rinnovamento politico-sociale radicale, che i
movimenti come M5S e hPodemos esprimono. A sinistra la per la prima volta, nhel
superato la percentuale del PSC, se nella lista indipendentista unita conservasse la
percentuale del 2012 (13,7%) , ma non potrà mai raggiungere le percentuali più
elevate del PSC 37%/38% pur avendo superato con più del 16% nel 2003 e nel 2006
le percentuali del PSC del 2012 e 2015. Si conferma che la sinistra in Catalogna
come consenso popolare è in progressiva diminuzione dal 1980, sia pure in diversa
composizione, ma nel corso degli anni è stata capace di andare al governo con
coalizioni, ma in solo due occasioni, 2003 e 2006,, ma soltanto nel 2003, a differenza
del 2006, essendo il PSC il primo partito e il suo candidato alla presidente il più
votato.. Il candidato alla presidenza della Genaralitat è il leader del Partito vincitore,
ma i catalani hanno mantenuto l’elezione del presidente dal parlamento. Una legge
elettorale proporzionale con una bassa soglia d’accesso e una forma di governo
parlamentare hanno consentito alla Catalogna di governarsi, di compiere scelte anche
in coalizione e di trasformare il sistema politico. In 35 anni si sono avute quattro
legislature anticipate rispetto alla scadenza quadriennale 1992-1995, 2003-2006 e
2010-2012 e 2012-2015. La prossima sarà piena di tensioni e lo scontro con il
governo centrale , il Parlamento nazionale e il Tribunale Costituzionale sarà
affrontato contando su una maggioranza parlamentare vera e non frutto di premi di
maggioranza arbitrari, ma di una partecipazione del 77,44% degli elettori. Dalla
Catalogna arriva anche una lezione per la Lega Nord, la cui parola d’ordine
secessionista non ha avuto molto seguito. CiU era una lista unitaria di partiti moderati
in politica economica e sociale, tipicamente centrista e cattolica popolare, capace di
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aggregare nel progetto formazioni di sinistra, come ERC, anche estrema come CUP,
che ha sottratto voti a EUiA. La Lega, invece, ha fatto una scelta di destra come
programmi ed alleanze e poi manca nel nord il fattore della lingua, che in Catalogna,
da fattore di esclusione individuale e di divisione tra città e campagna in
appartenenza comunitaria. Fino alla vittoria del socialista Maragall i socialisti erano
penalizzati alle elezioni autonomiche, perché i residenti originari da altre regioni non
partecipavano a quelle elezioni, ma solo a quelle nazionali e municipali assicurando
al PSC la supremazia in quelle elezioni: la più forte delegazione parlamentare
catalana in Madrid e il controllo della Municipalità di Barcellona e della sua area
metropolitana. Una tristezza vedere come quel capitale politico sia stato dissipato,
soprattutto per colpa del PSOE.
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