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Storie di soldati di Mantova a cura di Costanza Bertolotti
Storia di Giovanni Azzali (1894)
Dati anagrafici: Nome e cognome: Giovanni Azzali
Data di nascita: 11 maggio 1894
Luogo di nascita: Curtatone (Mantova)
Luogo di residenza: Porto Mantovano (Mantova)
Professione: chierico seminarista
Statura: 1,67 m
Capelli: castani e lisci
Occhi: grigi Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg.
448, n. 2; Albo d’Oro degli Italiani Caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918,
vol.11, Lombardia, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato Libreria, 1932 p. 39;
lettere di Giovanni Azzali pubblicate in «Il cittadino», 9 luglio, 20 agosto, 3
ottobre 1915.
Azzali Giovanni di Angelo e Maria Farina, nasce l’11 maggio 1894 a Curtatone.
Alla visita di leva, tenutasi il 19 marzo 1914, viene mandato rivedibile per
oligoemia. Qualche mese dopo, nel novembre, viene dichiarato abile di seconda
categoria.
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In una lettera del 29 giugno 1915 indirizzata a don Celestino Battaglia di
Cittadella, egli esordisce rassicurando il parroco della propria salute: «Nulla
di male mi accadde nemmeno quando il dovere mi spinse alla pugna e ad
espormi al fuoco nemico. Io, dopo aver passato un momento di agitazione
non ebbi più paura. Su, coraggio, gridai ai compagni vicini, Dio sempre ci
accompagna».
Egli stesso si dice stupito della propria forza d’animo: «Ma come tanto
coraggio in me? Io sono piuttosto timido, un’arma da fuoco mi rabbrividisce,
eppure lo comprendo. Dio, al quale mi ero consacrato interamente mi ha dato
la forza, mi ha accompagnato sempre, mi ha salvato la vita. Qui si comprende
ciò che è l’uomo: un nulla. Dio solo è il signore di tutte le cose […]. Ridano gli
altri finché vogliono. Poveri infelici! Io ne vidi di questi esseri che vogliono
schernirsi da Dio, qui sotto il fuoco, dinnanzi alla morte imporsi ai compagni
e gridare: Guai a chi bestemmia, qui non si scherza!».
Queste righe attestano un fenomeno, che anche altri giovani di cui sono qui
raccolte le biografie ebbero a constatare e sui cui avremo modo di ritornare:
il risveglio spirituale che aveva portato molti soldati, allontanatisi dalla
religioni o ad essa indifferenti, a riaccostarsi alla fede in Dio.
Il mese successivo Azzali scrive al proprio compagno seminarista Giuseppe
Bergamini di Castelgoffredo:
Mio Giuseppino,
ora che tace il cannone e non odo più il crepitio della fucileria mi trovo più
calmo e contento. Ti mando quatto scarabocchi giacché tutti vogliono mie
notizie e il tempo per me è limitato assai; infatti quando il sole scompare e
l’oscurità si distende nella valle, bisogna dormire e non accendere lumi perché
si sarebbe visti e allora: sentiresti come fischiano le palle.
Tu credi che sia a riposo in un paese abitato, bello, con Chiesa, sacerdoti, ecc. e
invece… se vedessi ove sono io! Non c’è nessuno: solo la bellezza della natura, il
rumorio incessante dell’acqua che scende limpida e scintillante dalle rocce,
sollevano il mio spirito come una preghiera.
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Quello del conforto che viene ai soldati dalla contemplazione della natura è
un altro tema che ricorre spesso negli scritti dei soldati. Questi ultimi si
soffermano spesso nei loro scritti anche sull’esperienza della prossimità con
la morte e dell’impossibilità di soccorrere i caduti o di rendere ai morti i
dovuti onori: «se vedessi – scrive Azzali – come ti fa compassione chi ti
muore ai piedi senza che tu gli possa portare un aiuto, anzi forse sei costretto
a calpestarlo per passare avanti. Un giorno all’assalto di una trincea uno che
strisciava al mio fianco per non farsi vedere veniva trapassato al petto da una
palla. Io lo guardai, credevo fosse ferito perché gli uscivano rantoli angosciosi
e proseguii… Più tardi, quando la trincea era nelle nostre mani, io mi
rammentai del soldato caduto, rifeci il cammino sotto una pioggia torrenziale
e tra un pantano insanguinato e lo scossi, lo chiamai più volte, cercai di
sollevarlo, ma il poverino era cadavere…».
Egli informa quindi l’amico della Messa che viene celebrata «ogni mattina
sotto i rami di un albero gigantesco, in mezzo a un tappeto verde, scintillante
di migliaia i goccioline di rugiada che rifrangono i primi raggi del sole
nascente. […] Mai come ora – egli aggiunge – sentii la bellezza della nostra
Fede che qui sul campo di battaglia è la sola mia forza».
Il 23 settembre 1915 Azzali scrive a don Enrico Buzzacchi di Bonizzo,
scusandosi di non aver scritto prima, ma «qui – egli si giustifica – non si è
sicuri di stare in pace due ore». Infatti, egli prosegue:
un bel giorno venne un ordine, zaino in spalla e via… per dove? Per la trincea.
Per fortuna che ormai ci sono abituato e perciò non ho provato grande
impressione. Dunque di nuovo al fuoco, ma sempre allegri sao, perché insomma
io sono fatto così. Tolto quel breve tempo quando balza alla mente il tetto
nativo, le lagrime d’una madre troppo tenera, i sospiri del padre mio, un
avvenire che splende bello perché desiderato dopo lunghi anni di stenti e dopo
tante prove, allora sì sento quanto sia pesante la croce che Gesù mi pose sulle
spalle ma poi…oh, mio caro, anche il Calvario, la croce ha le sue attrattive e io
soffro volentieri perché forse il cielo è lì vicino, vicino assai… Ma tu lo sai qual è
il mio scudo… Come si combatte e si muore volentieri con una visione bella,
paradisiaca davanti agli occhi.
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Egli conclude facendo le sue congratulazioni ai compagni di Seminario, che
erano stati appena ordinati sacerdoti, e aggiunge: «Eh quella stola la sogno…
ma anch’io arriverò a portarla come te; me lo dice il mio cuore e la mia
fiducia nell’Immacolata».
Ad Azzali non sarà dato di realizzare la propria vocazione sacerdotale. Il 28
agosto 1917 (egli prestava allora servizio come aspirante ufficiale nel 254°
reggimento fanteria) cadrà in combattimento, sull’Altopiano della Bainsizza.
Il suo corpo non fu mai ritrovato.
Storia di Giulio Azzolini (1890)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Azzolini Giulio
Data di nascita: 6 settembre 1890
Luogo di nascita: Viadana (Mantova)
Luogo di residenza: Viadana (Mantova)
Professione: negoziante
Statura: 1,72 m
Capelli: neri e lisci
Occhi: grigi
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.
418/225; Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli
militari, matricola 1811; lettere di Mario Bertoni pubblicate ne «Il cittadino»,
31 luglio, 11 settembre, 17 settembre, 17 novembre 1915.
Giulio Azzolini, di Vittorio e Ernesta Avosani, nasce a Viadana il 6 settembre
1890. Alla visita di leva, effettuata il 26 aprile 1910, è dichiarato abile e
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arruolato di prima categoria. Il 30 ottobre 1910 è chiamato alle armi e
arruolato nel 5° Reggimento Fanteria. Richiamato alle armi in seguito alla
scoppio della guerra, il 4 novembre 1916 si trova presso il Deposito Fanteria
Parma Nord-Est.
Egli si trovava peraltro al fronte sin dall’estate del 1915, in località che non è
stato possibile precisare. Il 20 luglio di quell’anno egli invia infatti una lettera
al prevosto di Buzzoletto, scusandosi per non aver dato proprie notizie prima
di allora: «creda pure – si giustifica – ce qui del tempo libero ce n’è ben poco;
e non appena viene concesso, si sente più di ogni altra cosa il bisogno di
riposare, per l’incessante fatica». Dalla lettera si apprende che egli si trovava
in prima linea: «c’è da stare avanti all’aperta molti giorni e notti, essendo
sempre in pericolo – egli scrive – ; che la trincea è il nostro alloggio». Azzolini
chiede quindi al prevosto di rassicurare i propri cari al paese,
raccomandandosi in particolare «di non credere alle chiacchiere che possono
uscire sul conto dell’uno o dell’altro reggimento, che il più delle volte non
sono vere. Per esempio io so che di un reggimento si diceva che era decimato,
invece io posso assicurare che la notizia è priva di fondamento».
In una lettera del 28 agosto 1915 è lui stesso a rassicurare i genitori, che gli
avevano indirizzato una lettera dalla quale trapelava «una grande
inquietudine»: «non vi dovete lasciare vincere da certi tristi presentimenti
che alle volte assalgono, ma abbiate sempre fiducia che la fortuna mi segua,
come la fece fin qui. Forse fu la lettera di P. che vi turbò, come anche quella di
M.? Eppure vi dissi che non è vero niente, sono pure esagerazioni. […] Io non
mi so spiegare con qual gusto certuni mandano a dire simili sciocchezze.
Credete pure solo a ciò che vi dico io – egli ammoniva i genitori – che è la
pura verità e non vi tengo celato nulla».
Queste notazioni di Azzolini sulle false notizie che circolavano a proposito
dell’andamento della guerra sono assai significative. Com’è noto, su questo
fenomeno appuntò l’attenzione il grande storico Marc Bloch nelle sue
Riflessioni sulle false notizie della guerra (1921). La circolazione di false
notizie, che egli stesso aveva potuto constatare, partecipando al conflitto
come sergente di fanteria, è da Bloch interpretata come un sintomo del
«rinnovarsi prodigioso della tradizione orale, madre antica delle leggende e
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dei miti», che creò un ambiente favorevole alla fabbricazione e diffusione
delle «false notizie» che hanno circolato nelle trincee. Bloch ne svela i
percorsi, individuando nei grandi stati d’animo collettivi il sostrato che
consente ai pregiudizi di trasformare una cattiva percezione in leggenda.
Tornando ad Azzolini, egli prosegue la lettera narrando ai genitori quanto era
accaduto la notte precedente. Svegliati nel cuore della notte, la compagnia era
partita per ignota destinazione. Dopo due ore circa di cammino, giunse ai
piedi di un monte occupato dai tedeschi e «con movimento rapido» lo
accerchiò. Poi cominciò l’ascesa silenziosa «fin sotto le trincee nemiche; i
soldati si arrestarono «a pochi metri dalla linea degli avamposti». Nel
frattempo «con una cautela e un sangue freddo incredibili» alcune pattuglie,
che precedevano le truppe, erano riuscite a catturare i «piccoli posti
tedeschi», senza sparare un colpo, in modo tale che i nemici che stavano al di
sopra non si accorsero di nulla. Alcuni fuggirono lasciando le armi per
correre ad avvertire i propri compagni, ma furono attaccati dai fanti italiani,
appostati tra i cespugli. «Fra i diversi prigionieri fatti – racconta Azzolini – mi
capitò fra le mani uno stretto parente dei F. di Viadana, il quale tremava come
una foglia, temendo della vita […] Se vorrete dirlo ai F., credo che sarà bene
dicendo loro che è sano e salvo».
Il 29 agosto 1915, in una lettera indirizzata alla moglie Ernestina, così
esordisce: «Cara Ernestina, ti scrissi ancora giorni addietro, ma non so se ti
sia giunta, e ora ho trovato per combinazione un po’ di tempo libero e mi
diverto a scrivere, essendo questo il mio unico divertimento». Riemerge qui,
come in altre testimonianze prese in esame, il tema del ruolo
importantissimo che la scrittura di diari e di lettere rivestiva per i soldati: per
alcuni, come per Giulio Azzolini, essa costituiva uno dei pochi momenti di
svago, per altri un’occasione di meditazione e intimo raccoglimento da cui
era dato trarre consolazione e conforto.
Nella lettera alla moglie torna quindi a parlare del prigioniero parente dei F.
di Viadana, che Azzolini e un amico erano andati a trovare per confortarlo,
poiché sapevano che era molto impaurito. Queste notazioni sono assai
significative, perché attestano che i sentimenti dei soldati italiani nei
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confronti dei nemici non erano solo di odio o al ostilità, ma erano spesso
anche di vicinanza, comprensione e compassione.
Rievocando nuovamente l’episodio dell’accerchiamento del monte P., egli
descrive poi alla la natura dei fatti d’arme a cui egli aveva partecipato: «Qui la
guerra non è come sugli altri fronti; di stragi, ma è una guerra di tranelli, di
appostamenti, insomma è fantastica e romantica». Ciò lo porta a riflettere
sulla mutazione, si direbbe antropologica, che la vita a stretto contatto con la
natura, in luoghi solitari e impervi, costantemente esposti al pericolo, aveva
determinato nei i soldati: «Noi qui siamo già cambiati in modo incredibile.
Sembriamo tanti indiani già abituati a vivere nei boschi e non ci par vero che
ci debba essere ancora una vita tranquilla nei paesi e nella società. Se tu ci
vedessi di giorno su e giù per queste cime infinite, per viottoli non mai
praticati che dai camosci e lupi, sempre cogli occhi fuori dall’orbita, temendo
di un agguato, di un tradimento! […] Non esistono più comandi, si va avanti
coi soli cenni e non si sbaglia: si ha l’attività di una bestia ammaestrata».
L’analogia con gli animali o con i «selvaggi» viene ripresa nelle righe
successive: Azzolini dice che nottetempo «si striscia come serpi fra gli abeti
colle orecchie irte al minimo scuoter di frasche o di cespugli e colla sagacità
di una tribù di Pelle Rossa quando dà la caccia ai binachi». «È una guerra
fantastica davvero – egli conclude – romantica nel modo più strategico e
specialmente è la nostra vita che ha del brigantesco».
Il 4 novembre Azzolini narra ai famigliari una battaglia a cui aveva
partecipato: «durante una lotta così accanita si perdono i sentimenti. Si
vedono compagni che cadono da tutte le parti feriti o fulminati, i gemiti dei
moribondi, il fragor delle armi. E vi dirò che in un momento di a terra durato
circa un’ora, senza sparare mentre fischiavano le pallottole, granate, bombe
da ogni lato (cosa incredibile ma pur vera) io mi son addormentato). […] Io
credo che sia stato l’effetto dello sbalordimento o della stanchezza». Emerge
anche da questa lettera la passione per la narrazione che anima Azzolini. È lui
stesso del resto a osservare: «volendo narrare minutamente ogni cosa si
potrebbe fare un romanzo; ma invece – egli aggiunge – vi racconterò
esattamente ogni cosa a bocca se avrò la fortuna di tornare».
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Egli sarebbe tornato sano e salvo dai campi di battaglia, ma non prima di
altri quattro anni trascorsi sotto le armi.
Il 26 marzo 1917 è dichiarato disertore per essersi allontanato dal corpo la
sera del 25 marzo 1917. Denunciato al tribunale militare di Piacenza, viene
arrestato e incarcerato. Non sappiamo se fu condannato e quale l’entità della
pena; il procedimento giudiziario fu probabilmente sospeso. Nel 1934 egli
verrà infatti dichiarato esente da pena perché rientrato spontaneamente al
corpo nei termini stabiliti dal D.L. 10 dicembre 1917.
Il 19 aprile 1917 è incorporato al 48° Reggimento Fanteria e inviato al fronte.
Tra il luglio e il novembre 1917 egli passerà dal 62° Reggimento Fanteria al
248°, quindi al 150° e successivamente al 31°. Il 2 febbraio 1918 è
incorporato al 1° reparto mitraglieri e il 12 maggio nella 2102a compagnia
mitraglieri. Il 19 agosto 1919 viene infine inviato in congedo illimitato.
Storia di Alfredo Barbieri (1893)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Alfredo Barbieri
Data di nascita: 11 gennaio 1893
Luogo di nascita: Viadana (Mantova)
Luogo di residenza: Viadana (Mantova)
Professione: studente
Statura: 1,66 m
Capelli: neri e lisci
Occhi: grigi
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg.
444/18; lettere di Alfredo Barbieri pubblicate ne «Il cittadino», 15 luglio, 19
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settembre, 28 ottobre 1915; Archivio storico diocesano di Mantova, Indice
dei sacerdoti 1868, vol. I A-L.
Alfredo Antonio Barbieri di Angelo e Luigia Savazzi nasce a Viadana l’11
gennaio 1893. Alla visita di leva, effettuata l’8 maggio 1893, viene dichiarato
rivedibile di prima categoria per debolezza di costituzione. Successivamente
è arruolato soldato di prima categoria con la classe 1899.
Non è stato possibile reperire ulteriori notizie sulla carriera militare di
Alfredo Barbieri, ma di lui ci restano tre lettera inviate dal fronte e pubblicate
sul giornale cattolico «Il cittadino» di Mantova il 15 luglio, il 19 settembre e il
28 ottobre 1915. Da esse apprendiamo anzitutto che, quando fu chiamato alle
armi, Barbieri studiava presso il seminario vescovile di Mantova e serviva
come chierico nella parrocchia di San Matteo delle Chiaviche (Mantova).
Dalla lettera del 15 luglio 1915, indirizzata al prevosto don Chinali di San
Matteo delle Chiaviche, apprendiamo che Barbieri era partito da Piacenza il
21 maggio alla volta di Udine, da dove, dopo «varie tappe brevi e lunghe» era
giunto alle «antiche frontiere». Qui si fermò venti giorni, durante i quali ebbe
modo di terminare la lettura del trattato De Iustitia et Iure. «Ora – scrive il 15
luglio – sono tre settimane che mi trovo in vera guerra: le sezioni di sanità si
fermano a poca distanza dalla linea del fuoco. Ho avuto una settimana
terribile»: par dunque di capire che Barbieri – come già Ulderico Fulghieri,
anch’egli chierico teologo del Seminario – prestasse servizio nei corpi
sanitari. «Ora – egli prosegue – mi trovo da tre giorni in un bel paesello
italiano che dista tre ore di automobile da Cividale. Si rivede un po’ di
formaggio, di vino, salame, cioccolatte, ecc. Qui possiamo fare i bagni nel
fiume vicino e lavarvi la biancheria: ci sembra di rivivere. Il soldato in guerra
che arriva in questi paesi prova delle consolazioni che nessuno può
immaginare. Abbiamo una tenda circondata e coperta di rami frondosi
tagliati nel bosco e sul davanti abbiamo piantato, o meglio improvvisato un
tavolino per mangiare e scrivere. Questi paraggi sono totalmente messi a
frutta, ma essendo ancora acerbe, per ora scaviamo patate e le cuociamo
nelle nostre gavette». Egli informa inoltre don Chinali che al seguito della
compagnia vi era un cappellano militare, ciò che consentiva ai soldati di
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«udire la S. Messa ogni mattina». La messa veniva celebrata nella cappella del
cimitero, perché – egli precisa – «la bella chiesetta è cangiata in infermeria».
Il 19 settembre 1915, come apprendiamo da una lettera da lui indirizzata a
un compagno, Barbieri ha lasciato il campo e si trova da un mese in alta
quota: infatti, «non potendo sostenere la fatica di porta feriti, ho avuto un
impiego che mi tiene sempre sul monte». Egli non specifica quali mansioni gli
erano state affidate ma descrive il lavoro dei reparti di sanità, incaricati di
portare i feriti dai campi di battaglia al campo, posto a valle, scendendo per
sentieri sassosi a strapiombo sui burroni. Talvolta, prima di scendere,
toccava loro salire più in alto «fino alle trincee di prima linea»,
arrampicandosi sulle rocce nel fuoco nemico. Poi Barbieri prosegue nella
descrizione delle gioie e dei dolori della «vita da alpino» che egli andava
conducendo:
«nostri amici sono le aquile e i corvi, che oramai accorrono alle esalazioni dei
cadaveri umani sparsi in alto sul monte. Spesso siamo avvolti da fitte nubi e
in un solo giorno proviamo tutte e quattro le stagioni dell’anno. è un grave
disagio quando piove o nevica perché allora non valgono a ripararci neppure
le tende, piantate su piazzette scavate nel sasso. Del resto siamo abbastanza
coperti con abiti invernali.
Quando non ci sono feriti e tace il cannone, passiamo il tempo contemplando
questo panorama, sempre nuovo: monti d’ogni specie, delle colline che si
confondono con la valle verdeggiante, dove scorre il torbido Isonzo, fino alle
vette sublimi coperte di neve: in fondo la penisola d’Istria, l’Adriatico col
golfo di Venezia e le foci del Po e poi la vasta distesa della pianura veneto-
lombarda. È una bellezza di giorno e una è pace infinita nelle notti illuminate
dalla luna. Ma non durano troppo queste contemplazioni perché il cannone
nemico vien spesso a turbarci e anche adesso che ti scrivo i proiettili passano
spaventosamente nell’aria. Per quanto pensi che sono al sicuro non posso
impedire il tremito che mi assale».
Anch’egli, come Fulghieri, sottolinea che la fede in Dio «infonde coraggio e
consolazione in questi estremi pericoli» e osserva che le circostanze della
guerra avevano alimentato in molti soldati un rinnovato fervore religioso:
«molti di questi giovani spavaldi – nota Barbieri – ora che sono in pericolo
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non hanno alcuna difficoltà a rispondere al Rosario e venire ad udire a S.
Messa».
Circa un mese dopo, in data 11 ottobre 1915, egli scrive alla propria zia
informandola che, dopo quindici giorni trascorsi in montagna, quella mattina
era disceso al paese: «non per vantarmi, ma vi assicuro che sono divenuto un
alpino in piena regola. Col mio alpenstock facevo la strada a salti, passando
per burroni, valicando cime, attraversando boschi e sbucando di tra le piante
come l’uomo del bosco […]. Che paesaggio e che splendide viste a ogni
istante! La bella stagione ci porta vigoria e contentezza, infondendoci forza e
coraggio nei nostri doveri». Come già nella lettera precedente afferma che il
suo «più gran conforto e sostegno nelle fatiche inerenti a questa vita di
guerra» è il poter assistere alle funzioni religiose: «Oltre alla S. Messa
abbiamo ogni sera la recita del S. Rosario con la benedizione di quel Povero
Gesù Sacramentato, che si umilia a rimanere sempre rinchiuso in quella
cassetta da campo senza nessun indizio della sua presenza». Egli fa infine
cenno alla zia del ritardo che la guerra aveva imposto alla realizzazione della
propria vocazione religiosa: «Io vivo – egli aggiunge – col corpo in questi
luoghi di guerra, ma con l’anima e col pensiero fra i miei cari e in Seminario».
Alla conclusione del conflitto, Barbieri poté riprendere gli studi in Seminario
e infine coronare la propria vocazione. Il 20 maggio 1920 fu ordinato
sacerdote. Il suo primo incarico fu di coadiutore nella parrocchia di Sermide.
Nel 1934 fu nominato parroco della parrocchia di Portiolo, ove sarebbe
rimasto sino alla morte, avvenuta il 1 ottobre 1955.
Storia di Arnaldo Berni (1894)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Arnaldo Berni
Data di nascita: 2 giugno 1894
Luogo di nascita: Mantova
Luogo di residenza: Mantova
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Professione: studente
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
Diari di Arnaldo Berni e lettere da lui inviate alla famiglia durante la guerra.
La documentazione è conservata dal nipote Arnaldo Piccinini, residente a
Milano. Cfr. Il capitano sepolto nei ghiacci. Vicende della guerra 1915-18 sui
monti tra Stelvio e Gavia, a cura di Giuseppe Magrin, Bormio, Alpinia Editrice,
2001.
Arnaldo Berni nasce a Mantova il 2 giugno 1894 da Archinto e Lucia Menozzi.
Il padre era professore e personalità nota nell’ambiente intellettuale della
città. Poiché la madre morì quando Arnaldo era ancora in fasce, egli fu
cresciuto dalla nuova compagna di Archinto, Bice Catalani. Nel 1912 Arnaldo
consegue il diploma di ragioniere presso il Regio Istituto Tecnico di Mantova.
Grazie a una borsa di studio dell’Istituto Franchetti, poté frequentare la
Scuola Superiore di Commercio di Genova. Nella primavera del 1915, quando
è ormai prossimo all’esame di laurea, è chiamato alle armi e destinato alla
Scuola militare di Modena. Dopo pochi giorni si dice già stanco della vita
militare: «troppo lavoro, troppa disciplina», una «porca vitaccia d’inferno», a
cui però finisce poi per abituarsi.
Nell’ottobre 1915, conseguito il grado di Sottotenente, viene assegnato alla
46a compagnia alpini del battaglione “Tirano” del 5° Reggimento, che si
trovava sul Filon del Mot presso lo Stelvio. Durante l’inverno trascorso sul
Filon, Arnaldo scrive alla famiglia quasi quotidianamente, descrivendo la vita
in alta quota, dove «un vero paese [è stato] scavato e costruito nella roccia,
con le comodità che si possono avere». In un’altra lettera Aldo descrive il
campo come «un castello con le dipendenze sopra una rocca». A causa del
rigore del clima, le operazioni militari si riducono a ispezioni, perlustrazioni e
piccole scaramucce con gli austriaci. I soldati trascorrono molto tempo
rinchiusi nei rifugi a dormire, mangiare, cantare, giocare a carte. Regna tra gli
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ufficiali un’atmosfera di tipo goliardico. Aldo e altri ufficiali catturano un
corvo e lo addomesticano. Ricorre nelle lettere di Berni l’ammirazione
stupefatta per i paesaggi montani: «Ieri notte ho assistito al magnifico
spettacolo di una notte serena e lunare sui ghiacciai. Meritava di essere alla
guerra solo per vedere questo!», scrive il 17 ottobre. Ma anche i bei panorami
finiscono per venirgli a noia: «Per quanto la montagna sia bella ed
imponente, a lungo andare la stufa, specialmente quassù, dove non ci si può
muovere a proprio agio. […] Qui non fai altro che camminare avanti e indietro
per scaldarti i piedi».
Aldo trascorre a Mantova le feste natalizie e rientra al campo il 7 gennaio. Nei
primi mesi del 1917 si susseguono le valanghe, in cui perdono la vita decine e
decine di alpini. È il primo contatto di Berni con la morte ed egli ne è molto
scosso: «Pace all’anima loro e speriamo che queste disgrazie non abbiano più
a rinnovarsi. Intanto imparo a fare il becchino e il fabbricante di casse da
morto», scrive alla fine di febbraio.
Nel marzo 1916 passa alla 43 a compagnia del battaglione “Aosta”, restando
sempre stanziato sul Filon del Mot. Il 14 aprile 1916 prende parte
all’operazione che porta alla conquista dello Scorluzzo (2937 metri),
meritandosi due encomi solenni. Così rievoca la battaglia in una lettera del 17
aprile: «La sera del 14 ho provato proprio che cosa sia una battaglia con forze
considerevoli impegnate. Si avanza sotto un grandinare di pallottole e tra un
frastuono di cannonate veramente impressionante. Io non so ancora come sia
sano e salvo. […] Abbiamo avuto numerosi casi di congelamento […]. Io ho
fatto il possibile per migliorare la situazione per i miei uomini, facendo
costruire di notte e sotto la tormenta un ricoverino nella neve onde poterci
riparare un po’ ed alleviare le sofferenze». E aggiunge: «Il solo pensiero di
compiere un alto dovere per il bene della patria, il pensiero di farmi forte per
infondere tranquillità e sicurezza a’ miei soldati, mi fa sopportare, direi quasi
con gioia, ogni sacrificio!».
Il 18 giugno Berni è incaricato di spostarsi dal Filon del Mot al vicino passo
dell’Ables e da qui di salire e presidiare il Monte Cristallo (3500 metri), che
da pochi giorni è stato strappato agli austriaci. In una lettera Berni descrive la
propria ascensione al Cristallo: «una vera ascensione quale non ho mai fatto
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[…]. Mi sono arrampicato con corde fino a quasi 3500 metri, sempre su pareti
rocciose o di ghiaccio a picco sul versante della valle Zebrù». Sul Cristallo egli
trascorre la seconda metà del 1916 e il 1917, alternando periodi trascorsi in
vetta – con temperature che oscillavano tra il 20 e i 30 gradi sotto zero – ad
altri trascorsi sull’Ablès, a brevi periodi di riposo a Bormio. L’8 aprile, di
ritorno da un turno in vetta scrive ai famigliari: «su sei giorni ne o avuti
cinque di tormenta e sono stato sempre costretto a rimanere chiuso in
gallerie di ghiaccio. Coi patatucchi [gli austriaci] siamo andati abbastanza
d’accordo. Ora ci siamo avvicinati ancora di più: saremo a sessanta metri. Vi
garantisco io che le pallottole più pietose passano al massimo ad un metro
dalle orecchie e le altre rimbalzano tutte negli scudi d’acciaio da cui siamo
validamente protetti. Dunque niente paura. Quel poco di imprudenza che
avevo una volta, ho creduto metterla da parte per ora». I nemici li descrive
come «bestie, sporchi, tra il passamontagna, i capelli lunghi, la barba incolta e
la sporcizia, non si può capire – conclude – se siano uomini o scimmie». La
stanchezza ha ormai preso il sopravvento. Il 23 aprile, appresa la notizia della
chiamata della classe 1899, a cui apparteneva il fratello, commenta: «Così
anche Arturo ha finita la sua borghesia. Lui sarà contento, ma se ne accorgerà
quanto prima».
Nel novembre 1917 è promosso capitano: da una parte si rallegra perché
sollevato dai servizi più gravosi, dall’altra osserva che per quanto «la vita da
subalterno fosse più disagiata e faticosa», la preferisce «a quella attuale di
comandante, sul quale pesano troppe responsabilità!». Trascorre il Natale
1917 lontano da casa: «Io ardo dal desiderio di rivedervi e riabbracciarvi –
scrive ai genitori e alla sorella – . Quando torneranno i giorni lieti? […] Quante
volte penso a voi, miei cari, quante volte penso che si potrebbe essere uniti e
contenti…».
Il 9 gennaio 1918 assume il comando della 307a compagnia del Battaglione
Skiatori “Monte Ortler”, di nuova costituzione. Tra in 20 gennaio e il 10
febbraio trascorre alcuni giorni a Mantova in licenza.
L’11 maggio Berni scende con il suo reparto a Santa Caterina Valfurva: «Ho
lasciato i ghiacciai sui quali ho passato quasi due anni consecutivi, per venire
a trovare un po’ di verde… Si sente subito il beneficio del riposo, sotto tutti gli
179
aspetti», così scrive il 12 maggio. Il 10 luglio egli si trova al Rifugio del Gavia e
comanda la linea che va dal Tresero al Corno dei Tre Signori. Le lettere
inviate ai famigliari in questo intenso periodo preparatorio che precedette
l’offensiva del San Matteo sono brevi e interlocutorie. «Se sapeste come sono
occupato. Né di giorno né di notte ho un momento di quiete. Ci prepariamo
febbrilmente!», scrive il 29 luglio. Nell’agosto riparte con l’intero battaglione,
per andare a occupare il San Matteo (3678 metri), nel Gruppo meridionale
dell’Ortles. Alla vigilia dell’azione, prevista per il 13 agosto, raccomanda ai
famigliari di non impensierirsi se nei giorni successivi non avessero ricevuto
sue notizie. Dopo un lungo bombardamento di preparazione, cinque colonne
di alpini iniziarono la scalata ai sue monti e riuscirono a occuparli. Ad azione
conclusa comunica a casa che «tutto è andato bene».
Alla compagnia di Berni è ora affidato l’incarico di presidiare la vetta del San
Matteo , presidiando trincee ricavate nei ghiacciai. Il 31 agosto 1918 scrive
l’ultima lettera alla famiglia. Oltre ai «disagi imposti dalla natura, c’è il
continuo tormento da parte del nemico», che cerca di costringere gli alpini
italiani ad abbandonare la posizione. Aldo descrive lo stupendo panorama di
cui si gode da quell’altezza: «è una ridda fantastica di cime nevose, di
ghiacciai, di vette rocciose, di vallate verdi popolate di ameni paeselli». Infine
da voce al proprio stato d’animo: «Dai primi di questo mese ho lavorato e
faticato molto, ho dato gran parte delle mie energie e, in molti momenti, era
solo il mio entusiasmo (che non è mai venuto meno) e lo spirito di compiere
tutto il mio dovere che mi hanno sorretto. Non importa se tutto quello che ho
fatto, se tutto quanto ho sofferto non è stato o non sarà riconosciuto. Io sono
egualmente contento. Fra poco avrò la Croce di Guerra. Magra ricompensa
invero! Pari a quella che hanno coloro che, stando a qualche comando, hanno
fatto talvolta qualche capatina dietro la prima linea! Pazienza. Quando verrò
a casa, avrò tante cose da dire e mi sfogherò…». Ma il capitano Berni non
avrebbe più fatto ritorno a casa.
Il 3 settembre 1917 gli austriaci si lanciano al contrattacco e infine riescono a
recuperare le posizioni perdute. Nel corso della battaglia, un violento colpo
dell’artiglieria nemica colpisce la caverna di ghiaccio entro la quale si è
180
riparato Berni, che vi rimane sepolto. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e
giace ancora inviolato a 3700 metri di altitudine.
Storia di Giusto Bertazzoni (1893)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Giusto Bertazzoni
Data di nascita: 26 febbraio 1893
Luogo di nascita: Mantova
Luogo di residenza: Mantova
Professione: calzolaio
Statura: 1,64 m
Capelli: castani e lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.
441/27; lettera di Giusto Bertazzoni pubblicata ne «Il cittadino», 16 ottobre
1915.
Giusto Bertazzoni, fu Francesco e Caterina Vecchia nasce a Mantova il 26
febbraio 1893. Alla visita di leva effettuata il 17 marzo 1915 egli viene
dichiarato abile e arruolato di prima categoria.
Di lui non ci restano altre notizie, all’infuori di una lettera inviata ai genitori
nell’ottobre 1915. Dalla lettera si desume che egli era soldato di fanteria.
Nella lettera esordisce esprimendo la consolazione che gli arreca il poter
scrivere, dopo vari giorni che non dava proprie notizie, ai genitori che egli
immagina stessero in angoscia per lui. Non potendo palesare le ragioni di tale
silenzio, perché era proibito dalla censura dare troppo precisi ragguagli sulle
operazioni militari, egli si limita a comunicare: «siamo vittoriosi e ora mi
181
trovo in riposo, con perfettissima salute». Egli parla quindi del cognato. Per
quanto dispiaciuto nell’apprendere la notizia che presto anch’egli sarebbe
stato chiamato alle armi, egli invita a sopportare il duro sacrificio nel nome
della patria: «se la Patria chiama all’appello, bisogna andare con buona
volontà a salvarla da ogni pericolo e fare conoscere che cosa è il sangue
italiano». Del coraggio e del valore degli italiani lui stesso e i propri
commilitoni sono un fulgido esempio: «noi non temiamo le pallottole e posso
dirvi che sul campo di battaglia, sotto il fuoco micidiale dei cannoni e delle
mitragliatrici, non abbiamo indietreggiato un passo: invece abbiamo
conquistato terreno e l’abbiamo saputo mantenere, quantunque il nemico
continuasse a bombardarle trincee con cannoni di grosso calibro». Al fragore
del combattimento, fa da contrappunto il silenzio della notte rischiarata dalla
luna: «Terminato il combattimento – egli prosegue – alla sera sono rimasto in
vedetta con un bel cielo sereno, con una luna che faceva una luce quasi come
quella del giorno: non un colpo di fucile, non un colpo di cannone: silenzio
perfetto; era uno spettacolo straordinario».
Il pensiero va infine ai danni provocati dalla guerra e alla desolazione dei
villaggi bombardati e dei campi devastati: «mi piangeva il cuore nel vedere
un sì bel paese distrutto quasi completamente dai cannoni nemici: che non
vollero lasciarlo intatto per la paura che gli italiani se ne servissero per le
truppe! Una bellissima campagna coltivata che pareva un giardino, tutto
abbandonato».
Infine, l’esperienza della prossimità del nemico, che si palesa quando, nel
silenzio del notturno lunare, viene intonato «un bel coro». Sono gli austriaci
che cantano canzonette. «Ascoltai con attenzione che parole pronunciavano:
l’unica che intesi fu quella di dire che degli italiani non hanno paura». Rivolto
al compagno che stava di vedetta con lui, Bertazzoni bisbiglia sotto voce:
«Senti gli uccellini in gabbia che cantano!».
Storia di Mario Bertoni (1895)
Dati anagrafici:
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Nome e cognome: Mario Bertoni
Data di nascita: 9 settembre 1895
Luogo di nascita: Virgilio (Mantova)
Luogo di residenza: Virgilio (Mantova)
Professione: muratore
Statura: 1,61 m
Capelli: neri e lisci
Occhi: cerulei
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,
matricola 1811; lettere di Mario Bertoni pubblicate ne «Il cittadino», 24
agosto, 26 agosto, 9 ottobre, 11 novembre 1915.
Mario Bertoni di Leonzio e Angela Beduschi nasce a Virgilio il 9 settembre
1895. Alla visita di leva, tenutasi il 30 novembre 1914, è dichiarato abile e
arruolato di prima categoria e lasciato in congedo illimitato. Chiamato alle
armi il 12 gennaio 1915, è incorporato nell’86° reggimento Fanteria. Il 15
febbraio 1915 è nominato caporale. Il 24 maggio 1915, con la 9a compagnia
del 86° fanteria mobilitato, giunge in territorio dichiarato in stato di guerra.
Il 24 agosto 1915 invia al parroco di Pietole, Evaristo Mambrini, una lettera
in cui descrive la propria vita al fonte: «Noi combattiamo vicino a G. Gli
austriaci dalle loro posizioni dominanti vedono e seguono le nostre mosse, i
nostri progressi e sentono gradualmente e sempre più intenso il peso della
nostra forza e sanno che questa ineluttabilmente finirà per soverchiarli. Ma
resistono. Hanno sgombrato G. forse per risparmiarla o per farla risparmiare,
ne han fatto uscire, si dice, tutte le truppe e tutta la popolazione. La città
dunque appare deserta e parrebbe indifesa e pronta ad accoglierci. Essa è lì
con a lusinga di un’offerta.Ora qua è già incominciata una stagione brutta:
tutti i giorni piove e l’acqua scorre lungo alle trincee, ma ora non sentiamo
più né acqua né freddo e mi sono già abituato a qualunque intemperie. Ora è
183
già quasi un mese che bisogna mangiare una volta al giorno per non farci
vedere e anche alla notte; ora ci siamo e dobbiamo compiere il nostro
dovere».
Il 9 ottobre scrive ancora a don Mambrini: «Ora sono già passati 25 giorni di
riposo ed ora è arrivato quel giorno che io e tutti i miei compagni dobbiamo
ancora un’altra volta andare a compiere il nostro dovere e sempre coraggiosi
e con la grazia di Dio e della Madonna di ritornare sani e salvi tutti come nella
prima lotta fatta. Mentre io sto scrivendo siamo in attesa per la partenza […]
dobbiamo andare a dare il cambio a due battaglioni dello stesso nostro
reggimento […]». Il giovane affronta la prova che lo aspetta con coraggio: «il
soldato italiano – egli scrive – non deve avere paura di nulla, perché si è
sempre mostrato forte e sempre forte continuerà». Infine conclude
ricordando inoltre che il 20 settembre un frate aveva tenuto un discorso alla
truppa: «ci ha detto e raccontato tanti fatti antichi delle guerre e tante belle
cose e se noi continueremo a mantenere sempre la nostra fede in Gesù Cristo
saremo i vincitori e più presto arriveremo alle nostre porte dei confini
d’Italia».
L’11 novembre egli scrive di nuovo al parroco di Pietole, a cui racconta un
fatto d’ami verificatosi il 21 ottobre precedente:
«Il giorno 21 ottobre abbiamo fatto una avanzata ed è riuscita benissimo:
niente meno che siamo usciti fuori dalla prima linea gridando: «Avanti
Savoia!» combattendo fino alle ore 7 di sera e dopo il lungo combattimento
siamo riusciti a cacciar via i nemici dalla loro prima trincea, facendo molti
prigionieri, dei quali ne ho presi parecchi anche io. […] Non può immaginare
qual grande bombardamento ci sia stato i questi giorni: non si poteva
nemmeno muoversi dalla trincea […] ma del resto sempre colla grazia di Dio
ho avuto la fortuna di essere salvo e vittorioso e spero ora fra poco di avere il
cambio e chissà di avere anche la sorte di venire a casa qualche giorno in
licenza».
Il 7 dicembre 1915 Bertoni parte per l’Albania: imbarcatosi a Taranto, l’8
dicembre sbarca a Valona. Il 15 giugno 1916 si imbarca a Valona per essere
rimpatriato e sbarca a La Spezia. Il 10 dicembre 1916 è promosso caporale
maggiore zappatore. Il 4 giugno 1917 è fatto prigioniero nel fatto d’armi
184
dell’Ermada. Il 14 dicembre 1918 è rimpatriato in seguito all’armistizio e
trattenuto alle armi (nel 72°, poi nel 53°, quindi nel 112° reggimento
fanteria). Il 15 novembre 1919 è mandato in congedo illimitato.
Storia di Alceo Bombonati (1899)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Alceo Bombonati
Data di nascita: 1 maggio 1899
Luogo di nascita: Bagnolo San Vito (Mantova)
Luogo di residenza: Bagnolo San Vito (Mantova)
Professione: perito agrimensore
Statura: 1,70 m
Capelli: neri e lisci
Occhi: grigi
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,
b. 1 (1896-1900). Si veda anche il breve profilo biografico contenuto in
Riccardo Belfanti, L’architettura del consenso nel Mantovano: dalla città alla
Casa del Fascio. Uomini, progetti, tecniche, realizzazioni, tesi di laurea,
Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, a.a. 2008/2009, pp. 427-428.
Alceo Bombonati nasce a Bagnolo San Vito (Mantova) il 1 maggio 1899 da
Giuseppe e Amalia Mazzocchi.
Soldato di leva di prima categoria lasciato in congedo illimitato il 12 maggior
1917, il 14 giugno viene chiamato alle armi per mobilitazione in forza del
regio decreto 22 maggio 1915. È incorporato al 2° Reggimento Genio
(Zappatori) di Bologna. Il 15 ottobre è ammesso alla Regia Accademia
Militare di Torino quale allievo aspirante Ufficiale di complemento. Il 4 aprile
185
1918 è nominato aspirante Sottotenente di Complemento, arma del Genio, ed
assegnato al 6° Reggimento Genio (Ferrovieri). Il 14 luglio 1918 è nominato
Sottotenente di complemento. Il 13 ottobre 1919 è ricoverato all’Ospedale
Militare di Bologna, perché affetto da itterizia catarrale (la malattia verrà
riconosciuta dipendente da cause di servizio). Il 28 ottobre è inviato in
licenza di convalescenza per sessanta giorni. Rientrato al corpo il 27
dicembre. Il 1 agosto 1920 è collocato in congedo temporaneo.
In una nota del 27 maggio 1919 il capitano della 12a Compagnia ferrovieri del
Genio descrive il sottotenente Bombonati come «dotato di intelligenza e di
iniziativa, attivo, di buona volontà; è arrendevole verso i superiori – continua
il capitano – ed autorevole con gli inferiori, che sa comandare proficuamente
e da cui è benvoluto. Ha carattere buono, serio e leale». In una relazione del
novembre dello stesso anno il comandante della compagnia capitano Osvaldo
Bolzino lo ritrae come un giovane animato da «molto amor proprio». «Di
fronte a difficoltà e responsabilità – prosegue la nota – sa mantenersi calmo e
tranquillo. […] è ben voluto e rispettato dai propri dipendenti sui quali ha
ascendente morale per la fiducia che loro ispira. Ha molto senso pratico.
Possiede buona cultura generale […], conosce abbastanza bene i regolamenti
militari e meglio le istruzioni della specialità ferrovieri».
Nel 1920 Bombonati è decorato della Medaglia commemorativa nazionale
della Guerra 1915-1918 e della Medaglia interalleata della Vittoria.
Già diplomato perito agrimensore presso l’Istituto Tecnico di Mantova, l’11
settembre 1923 si laurea in Ingegneria Civile presso il Politecnico di Milano.
Nel 1929 realizza la propria abitazione a Bagnolo San Vito e nel 1934
ristruttura la locale chiesa parrocchiale. Nel 1935 redige il progetto per la
Casa de Fascio di Bagnolo, mai realizzato per ragioni finanziarie. Negli anni
Tenta ricopre la carica di Podestà a Bagnolo San Vito. Il 14 novembre 1939 è
ammesso all’esonero per la durata di tre mesi dalla data di richiamo alle armi
per mobilitazione in quanto ingegnere direttore del Consorzio di bonifica del
Medio Mantovano e pertanto indispensabile al funzionamento di tale
Consorzio.
Muore a Bagnolo San Vito il 13 maggio 1991.
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Storia di Luigi Castagna (1894)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Luigi Castagna
Data di nascita: 8 settembre 1894
Luogo di nascita: Cesole, comune di Marcaria (Mantova)
Luogo di residenza: Cesole
Professione: ortolano
Statura: 1,80 m
Capelli: castani e lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg.
445, n. 28; Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli
militari, matricola 4283; due cartoline indirizzate alla famiglia conservate
nell’Archivio del signor Amedeo Farina di San Cataldo (Mantova).
Luigi Castagna nasce a Cesole l’8 settembre 1894 da Mauro e Vitala
Mazzocchi. Sul registro di leva, in data 13 maggio 1914, è dichiarato
renitente. Il 30 maggio è revocata la nota sulla renitenza e viene dichiarato
abile ed arruolato di seconda categoria, quale unico figlio di padre non
entrato nel 65° anno d’età. Il 10 novembre 1914 è chiamato alle armi e
incorporato nel 9° Reggimento Artiglieria da Fortezza. In seguito allo scoppio
della guerra, è trattenuto sotto le armi. Nel febbraio 1916 è incorporato al 2°
Reggimento Artiglieria da Fortezza. Il 13 settembre 1916 è ammesso alla
Scuola di tiro per bombardieri.
Il 23 aprile precedente egli si trovava a Bagni di Sella (Alta Val Sugana), da
dove inviava una cartolina ai famigliari:
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Cari miei di famiglia,
sono sano come spero anche in voi tutti.
Oggi la stagione si è cambiata. Sono un paio di giorni che non si spara più, a noi
sembra di non essere più neanche in guerra. Sul biglietto che vi ho tagliato
nella lettera trovate la posizione ove mi trovo io. In questi giorni poi avrete
sentito le gravi battaglie in valle Sugana, fu il bombardamento che vi scrissi io
di tutta quella giornata. Ma non pensate che per noi artiglieri da fortezza non
fu nulla. Ora poi i tedeschi sono andati un po’ lontano. Spero di non aver più a
combattere.
Ancora spero nell’avvenire nel mio felice ritorno tra voi miei cari affetti.
Salutandovi vi bacio tutti con tanto affetto.
Vostro figlio Luigi
Scrivetemi sempre.
In un successivo biglietto scriveva:
Miei cari di famiglia,
sono sano come voglio così pure sperare in voi.
Oggi ricevetti una lettera della cugina Matilde, a quale mi diceva della sua
buona salute, ma mi annunciava la morte di un suo cognato e la partenza di
suo marito per il fronte. Si vede in generale che tutte le famiglie ora mai hanno
il loro dolore. Sarebbe tempo che finisse!
È da alcuni giorni insomma che qui non si ha un po’ di quiete. La stagione fa
potentemente soffoccante. Mai non piove. Se pur che l’uva non coltivata se
vedete quanta che ce ne. Se può venire matura allora sì che scorpacciata che mi
faccio.
Il biglietto non è datato, ma dai riferimenti alla calura e alla maturazione
dell’uva possiamo desumere che fosse il principio dell’estate. Quanto
all’anno, potrebbe essere il 1916 o il 1917. Le due cartoline danno voce al
sentimento di fatica e stanchezza che pervadeva allora il giovane Luigi, che
aveva all’epoca 22 o 23 anni. Tali documenti, e lo stato d’animo che esse
riflettono, ci permettono di farci un’idea delle ragioni che spinsero
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successivamente Luigi a cercare di fuggire da una situazione, che
probabilmente era divenuta per lui ormai insostenibile. Apprendiamo infatti
dal ruolo matricolare che il 13 luglio 1917 fu dichiarato disertore e
denunciato al Tribunale di guerra «perché l’8 luglio passava volontariamente
al nemico». Con sentenza del 15 agosto 1918 del Tribunale di guerra
dell’Intendenza della 7a Armata, venne condannato in contumacia alla pena di
morte mediante fucilazione alla schiena previa degradazione e al pagamento
delle spese processuali. Nel giugno 1919 la sentenza fu commutata nella pena
dell’ergastolo e nel 1920 confermata dal Consiglio di revisione del Tribunale
supremo.
Storia di Francesco Flisi (1892)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Francesco Flisi
Data di nascita: 7 ottobre 1892
Luogo di nascita: Viadana (Mantova)
Luogo di residenza: Viadana (Mantova)
Professione: contadino
Statura: 1,60 m
Capelli: castani e lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.
437/62; lettera di Francesco Flisi pubblicata ne «Il cittadino», 17 ottobre
1915.
Francesco Flisi, di Carlo e Luigia Sanfelici, nasce a Viadana il 7 ottobre 1892.
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Alla visita di leva, effettuata il 31 maggio 1912, è dichiarato rivedibile per
oligoemia. Nuovamente riformato per oligoemia con la classe 1894, il 16
ottobre 1915 è dichiarato abile e arruolato di prima categoria con la classe
1892.
Di lui non ci resta che una lettera, indirizzata al prevosto di Buzzoletto
(frazione di Viadana) e pubblicata sul giornale cattolico «Il cittadino» di
Mantova il 17 ottobre 1915.
Dalla lettera apprendiamo che Flisi si trovava al fronte da 60 giorni e che era
stato promosso al grado di caporale. «Ho fatto parte di diversi combattimenti
– egli scrive – ma per Grazia di Dio non mi è ancora accaduto niente di danno;
vivo sempre di speranza e fiducia nella divina provvidenza». Il suo pensiero
va quindi al giorno precedente la sua partenza e rievoca il dolore originato
dall’imminente distacco dagli affetti famigliari e dal pensiero dei rischi a quali
sarebbe andato incontro: «Mi rammento sempre, signor Prevosto, quelle
raccomandazioni fattemi il giorno che venni a trovarlo e salutarlo, che era la
vigilia della partenza; ricordo i baci e le calde lacrime di quel giorno
pensando alla famiglia che doveva abbandonare e ai pericoli che doveva
incontrare».
Nella seconda parte della lettera Flisi descrive al prevosto l’opera dei
cappellani militari, «i quali appena che un ferito è in condizioni gravi, sono
pronti ad avvicinarsi mettendo a loro il crocifisso sul petto e colla stola,
compie [sic] il dovere che spetta al sacerdote, e quando muore, prima di
sotterrarlo il Cappellano gli recita le preghiere dei defunti e gli dà la
benedizione. Tutte le feste e tutti i giorni il Cappellano celebra la Santa Messa
e quelli che possono appena, vanno ad ascoltarla e così si fa sul campo di
battaglia».
Poi Flisi viene a parlare dei rigori della stagione autunnale e delle condizioni
di vita dei soldati: «la stagione presentemente è bella, ma abbiamo passati 13
giorni di pioggia giorno e notte e ci toccava riposare su di un sasso; oh quanto
erano lunghe e penose quelle ore».
Infine egli chiede al prevosto di inviargli «qualche giornale» e nel congedarsi
si scusa della propria grafia «scritta un po’ in fretta» e che il prevosto
«sfortunato che ci vede poco» farà forse fatica a decifrare; al contempo egli
190
prega il prevosto: «quando mi userà la gentilezza di scrivere, scriva più
chiaro perché capisco poco la sua calligrafia». Una notazione che permette di
farci un’idea delle difficoltà che dovettero affrontare, come Flisi, molti altri
soldati, costretti, per comunicare con famigliari e amici, a servirsi di uno
strumento quale la scrittura, con il quale, pur non essendo analfabeti, non
avevano certo dimestichezza.
Storia di Ivanoe Fossani (1894)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Ivanoe Fossani
Data di nascita: 9 settembre 1894
Luogo di nascita: San Biagio di Bagnolo San Vito (Mantova)
Luogo di residenza: San Biagio di Bagnolo San Vito (Mantova)
Professione: meccanico
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
G. Longo, Giornalisti della rivoluzione. Ivanoe Fossani, Roma, Palombi, 1933:
Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 2135; Archivio di
Stato di Mantova, Pretura di Mantova, Registro sentenze, anno 1913, b. 72, n.
44 del 15 marzo 1913; Archivio di Stato di Mantova, Questura di Mantova,
Casellario politico centrale, b. 66; Archivio di Stato di Verona, Registro fogli
matricolari, f. 4101. Ivanoe Fossani, Una lettera di Ivanoe Fossani, in «Il
combattente mantovano», 6 novembre 1919; Archivio di Stato di Verona,
Tribunale di Guerra di Verona, procedimenti penali, anno 1916, fasc. 691;
Riccardo Fera, Ivanoe Fossani. Dirigente e storico del fascismo mantovano, tesi
di laurea, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, A.A. 2003-2004.
191
Ivanoe Fossani nasce il 9 settembre 1894 a San Biagio, una frazione del
comune di Bagnolo San Vito. Suo padre Angelo, nato a Mantova nel 1864,
era contadino e muratore. La madre, Lucia Benetti, nata a Bagnolo San Vito
nel 1870, era casalinga. Ivanoe è il primo di quattro figli. Dopo di lui Elisa,
morta a soli tre anni, Odorina, nata nel 1900 e Achille Edoardo, nato a
Mantova nel 1903, dopo che la famiglia, nell’ottobre del 1902, si era trasferita
dal paese al capoluogo.
A dodici anni Ivanoe Fossani deve lasciare la scuola perché il padre non può
più mantenerlo. Si offre come aiuto di un meccanico e viene assunto. Nel
1912 è iscritto nello schedario della Prefettura in quanto militante anarchico.
La polizia dice di lui: «È di mediocre condotta morale e civile, nell’opinione
pubblica riscuote mediocre fama, di carattere burbero ed ha poca
educazione, intelligenza e coltura. Frequentò la 3ª classe elementare, e non
ha titoli accademici. È fiacco nel lavoro dal quale ne ritrae il sostentamento.
Frequenta con assiduità la compagnia degli anarchici […]. È anarchico
convinto e fanatico di essere tale. È ascritto al partito anarchico nel quale
ha poca influenza». Il 15 marzo 1913 Fossani, che era stato sin dal
1911 un oppositore accanito della guerra di Libia, è condannato dalla
Pretura di Mantova a una settimana d’arresto per grida sediziose.
Come risulta dalla sentenza, il 18 agosto 1912 Fossani, insieme ad un gruppo
di compagni, aveva disturbato un corteo di reduci della Libia che sfilavano
per le vie della città tra il tripudio della folla gridando: «Abbasso la guerra!
Abbasso l’esercito! Abbasso gli ufficiali!». Il pretore, riferendosi a questi
giovani anarchici, aggiunge anche: «I prevenuti presenti hanno confessato di
avere gridato soltanto “Abbasso la guerra” e che «ciò si erano creduti in
diritto di fare, perché offesi nei loro sentimenti di pacifisti da quella
dimostrazione, che qualificarono una pagliacciata».
La militanza anarchica e la persecuzione che ne consegue costringono
Fossani, che non ha ancora vent’anni, ad abbandonare l’Italia. Come ricorda
il suo biografo Longo: «Valicata la frontiera svizzera [Fossani] va a piedi a
Lugano, in compagnia della sua grande miseria. Partecipando a comizi,
frequentando le università nelle quali si insegna la storia e la filosofia e la
192
sociologia da grandi maestri egli conosce i più grandi agitatori europei, da
Kropotktin a Lenin a Mussolini». In base alle carte di polizia, è possibile
affermare che, prima di riparare in Svizzera, Fossani si era recato in Austria,
dove subì una condanna a sette giorni di reclusione per lesioni in rissa,
comminatagli con sentenza dell’11 ottobre 1912 dal tribunale di Werfen. Il
fatto contestato si era verificato a Innsbruck ed era originato da un
«diverbio» tra Fossani e un «un italiano che [aveva dato] ragione agli
studenti austriaci».
Dopo un breve rientro in Italia, Fossani si porta in Svizzera, dove risiede
prima a Lugano e poi a Berna. Ritorna di certo a Mantova prima del 28
febbraio 1914, data nella quale è sottoposto alla visita di leva presso il locale
distretto militare, come risulta dal suo foglio matricolare. Da quest’ultimo
risulta inoltre che Fossani è incorporato nell’80° fanteria per il servizio di
leva il 13 novembre 1914, e quindi da quella data in poi risiede sicuramente
in Italia, visto che non è dichiarato renitente alla leva. Quando l’Italia entra
in guerra nel maggio del 1915, Fossani viene chiamato alle armi e giunge in
territorio di guerra il 23 maggio. È vero dunque, come sostiene Longo, che
Fossani fu tra i primi a giungere al fronte, ma non certo – come pretende il
suo biografo – che egli si fosse arruolato volontario. Longo sostiene inoltre
che Fossani avesse rifiutato i gradi di ufficiale e che avesse militato nel
corpo degli arditi, tuttavia tali affermazioni non risultano confermate dal
foglio matricolare, che non ne fa menzione.
Dal foglio matricolare apprendiamo invece che il 18 maggio 1916 il fante
Fossani è ricoverato in ospedale in seguito ad una ferita riportata in
battaglia. L’8 giugno viene trasferito nel Deposito convalescenza e tappa di
Verona. L’11 giugno si allontana dal luogo di cura e viene dichiarato
disertore. Quattro giorni dopo si costituisce, ma questo non lo salva dalla
denuncia, dal carcere militare e dal processo di fronte al Tribunale Militare
di Verona, davanti al quale giustifica così il suo agire: «Avevo richiesto il
permesso per andare a casa ma mi fu risposto che ciò era impossibile; erano
tredici mesi che non vedevo mia madre che è sempre sofferente, non
potevo resistere al desiderio di rivederla ora che mi trovavo a 40 km da lei.
Il giorno 11 sera presi il treno e andai a Mantova. Rimasi lì quattro giorni e
193
il giorno 15 mi presentai spontaneamente a questo deposito». Il tribunale
lo condanna a tre anni di reclusione per diserzione, ma sospende la sentenza
e lo rimanda al fronte, dove arriva il 3 settembre 1916.
Tornato al fronte, Fossani cambia più volte reggimento. Il 16 maggio 1917
viene nuovamente ferito e ricoverato nell’ospedale da campo. Di questo
episodio Longo dà un lunghissimo resoconto. Dalla biografia ufficiale si
apprende che durante l’offensiva sul Monte Cucco Fossani è con i primi, in
testa alla sua compagnia, nonostante le ferite che ha già riportato in battaglia.
La consegna è sgominare un covo di austriaci che spara con un cannone
sulle trincee italiane. Mentre avanza carponi sul terreno viene avvistato dai
nemici che aprono il fuoco su di lui e solo per miracolo riesce a salvarsi in
una buca prodotta da una granata. Da questa posizione l’eroico soldato
riprende la sua battaglia e comincia a lanciare le sue bombe contro il nemico:
«Il fante non ha paura. Non può avere più paura la sua volontà è tesa come
sono tesi i suoi nervi. Volontà e nervi hanno vinto l’istinto di conservazione.
Egli lancia le sue bombe. I nemici rispondono. Tutto è ridotto a una semplice
azione meccanica. A un tratto uno scoppio… nella buca. La gamba… scarpa e
fascia, carne e stoffa volano via in pezzi. La carne si è lacerata, si è
sbrindellata, dal piede alla coscia. Come una vecchia bandiera. Le schegge
sono conficcate ovunque. Il combattente vede tutto rosso. Non s’accascia,
s’inebria. Con più furore egli lancia le sue bombe. Sulle labbra gli erra un
ululato di dolore e di rabbia. Un altro scoppio nella buca. Il corpo del fante è
proiettato in alto, tre metri. E ricade pesantemente più in là. Egli non ha
ancora perduto i sensi ma non sente più il peso della carne martoriata. Sente
un urlo: lontano? Vicino? Savoia!» (Longo, op. cit., pp. 15-17).
L’episodio sul Monte Cucco segna la fine dell’esperienza bellica di Fossani.
Infatti egli verrà ricoverato successivamente negli ospedali di Udine, Milano,
Benevento e Caserta e non tornerà più al fronte. Gli verrà assegnata la
medaglia di bronzo con la seguente motivazione: «Si lanciava animosamente
nella trincea avversaria per scacciare un mucchio di nemici che ancora si
difendeva con una mitragliatrice e con bombe a mano. Rimasto ferito
incitava i suoi dipendenti ad avanzare».
Il 21 febbraio 1918 Fossani è ammesso ad usufruire dell’amnistia per il
194
reato di diserzione; l’8 aprile del 1920 viene posto in congedo illimitato e
gli vengono concessi 6 anni di pensione di guerra; nel 1928 ottiene una
pensione privilegiata di guerra a vita perché riconosciuto permanentemente
inabile al servizio militare per infermità proveniente da cause di guerra.
Infine, nel 1934, riuscirà a far cancellare dal suo foglio matricolare la
condanna per diserzione subita nel 1916, considerata ormai una macchia
infamante da Fossani, che nel frattempo aveva aderito al fascismo.
In effetti Fossani, che, a dispetto della scelta interventista, negli anni della
guerra aveva continuato a frequentare gli ambienti anarchici, nel
dopoguerra si era avvicinato ai gruppi nazionalisti, a supporto dei quali
aveva militato nell’imminenza delle elezioni del 16 novembre 1919. Dopo le
elezioni non si hanno più notizie di lui sino al 12 aprile 1920, allorché lo
ritroviamo tra i venti fondatori del Fascio mantovano di combattimento. Nel
giugno 1920 si impiega come redattore presso il quotidiano fascista «La
Voce di Mantova», di cui diviene in breve tempo direttore. Viene nominato
segretario del fascio di Ostiglia e quindi federale provinciale. Dopo
l’assassinio Matteotti a la conseguente riscossa dell’ala intransigente del
fascismo, Fossani, che negli anni precedenti si era avvicinato al gruppo
revisionista, è allontanato dal potere e costretto ad abbandonare la città. Si
trasferisce a Salsomaggiore e si impiega alla neonata «Voce di
Salsomaggiore», ma il settimanale ha vita breve e Fossani fa ritorno a
Mantova. A quest’epoca intraprende la stesura della sua opera principale,
La storia del fascismo mantovano, che sarà pubblicata…. Il libro è un fiasco
editoriale e non agevola il rientro del suo autore nell’ambiente politico
mantovano.
Fossani riesce tuttavia a rientrare in gioco proponendosi alla polizia come
informatore segreto presso la comunità italiana in Germania. Nel marzo
1927 si trasferisce perciò a Berlino per svolgervi il suo nuovo incarico. Di lì
a poco, a seguito della liquidazione dell’ala intransigente del Pnf, Fossani
viene reintegrato nella sua carica di direttore della «Voce di Mantova». Da
questo momento comincia la sua scalata ai vertici del partito: dapprima
nominato commissario del Fascio mantovano, egli entra quindi a far parte
del Direttorio Federale; assunta la carica di vice-federale, diviene il n. 2 del
195
partito a Mantova. Nel 1929 è nominato federale Zelindo Ciro Martignoni. Il
nuovo capo del fascismo mantovano opera un ricambio di classe dirigente,
in seguito al quale Fossani è nuovamente emarginato. Costretto ad
allontanarsi da Mantova, si trasferisce a Messina dove assume la direzione
della locale «Gazzetta», che manterrà sino al maggio 1943, quando la sede
del giornale è distrutta in un bombardamento aereo.
Dopo l’8 settembre 1943, Fossani aderisce alla Repubblica Sociale Italiana.
Al termine del conflitto viene arrestato e sconta alcuni mesi di carcere,
probabilmente per il reato di collaborazionismo con il nazifascismo.
Scarcerato, si stabilisce a Roma. Abbandonata la militanza politica, si dedica
all’attività artistica e consegue una certa notorietà come incisore di
monotipi.
Muore il 29 giugno 1961 ad Assenza di Brenzone, sul lago di Garda,
investito da una motocicletta nei pressi della sua casa.
Storia di Ulderico Fulghieri (1895)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Ulderico Fulghieri (o Fughieri)
Data di nascita: 2 dicembre 1895
Luogo di nascita: Gonzaga (Mantova)
Luogo di residenza: Gonzaga (Mantova)
Professione: studente
Statura: 1,70 m
Capelli: neri e lisci
Occhi: verdi
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,
matricola 741; lettera di Ulderico Fulghieri alla redazione del «Il cittadino»,
196
in «Il cittadino», 2 settembre 1915; lettera di Ulderico Fulghieri a don Enrico
Buzzacchi, pubblicata in «Il cittadino», 23 ottobre 1915.
Ulderico Fulghieri, di Domenico e Adele Bianchini nasce a Goito il 2 dicembre
1895. Il 19 novembre 1914, in seguito a visita di leva, è dichiarato abile e
arruolato di prima categoria, quindi inviato in congedo illimitato. Il 15
gennaio 1915 è chiamato alle armi e incorporato nella 4a Compagnia Sanità.
Il 21 marzo 1915 parte con la sezione sanità della 72a Divisione Fanteria
Reparto Someggiato di Sanità per gruppo alpino A. Il 23 marzo è dispensato
dal frequentare la scuola elementare perché munito di certificato di
promozione al terzo Liceo. Prima di partire per il fronte, egli studiava infatti
presso il Seminario vescovile di Mantova. Un frammento dell’esperienza
bellica vissuta dal giovane chierico e dei suoi commilitoni, ci è restituito da
due lettere che nel 1915 egli inviò dal fronte rispettivamente alla redazione
de «Il cittadino», il giornale dei cattolici mantovani, e all’amico don Enrico
Buzzacchi di Bonizzo.
Nella prima, datata 29 agosto 1915, egli descrive la speranza, il coraggio e
l’entusiasmo che la parola di Dio, predicata al fronte dai cappellani militari,
poteva infondere in soldati che erano stati strappati dai loro affetti più cari e
lanciati in un’esperienza terribile e luttuosa.
«oggi l’eco dei cannoni che si ripercuote giorno e notte nelle valli profonde
coll’impeto d’una bufera improvvisa, risuonò per noi meno triste e lugubre; i
giorni innanzi impauriva e ci faceva sognare, amaramente, nell’attesa febbrile
d’ogni scarica, la famiglia lontana, gli amici senza godere il sorriso d’un padre
che ci fosse accanto coll’affetto, col cuore e colla voce confortatrice,
risvegliasse ancora il caldo bacio della madre, la speranza, la pace perduta.
Oggi il nostro cuore esulta […]. Passò lo sgomento, si rasserenò la fronte
mesta e pensosa; il cannone tuonava ancora forte e nell’animo nostro
rinacque la speranza, il coraggio; le parole del padre ci commossero; egli pure
piangeva, dinanzi ad un povero altare da campo, dove Iddio degli eserciti
appariva nella luce più fulgida a benedir i nuovi figli».
Poche settimane dopo, il 13 ottobre 1915, egli scrive all’amico don Enrico
Buzzacchi di Bonizzo:
197
«Quanto mi torna caro rinnovare l’intima famigliarità dei giorni di Seminario!
Allora la croce era meno pesante; ora il sacrificio ci accompagna giorno e
notte e talvolta è grave. Sul diario notai le mie avventure; le raccolgo in un
notes ogni sera, su di un sasso informe, nell’ora del tramonto, quando il cuore
sente più forte la nostalgia della patria lontana e la preghiera esce dalle
labbra più fervorosa. Come si prega bene sull’Alpi! E se tu udissi i nostri
alpini nel silenzio della sera, inginocchiati nelle profonde cavità delle rocce
mormorare la preghiera del soldato, colla persona attratta ad un crocifisso,
ingiallito, prezioso ricordo della madre, della sposa all’ora tremenda
dell’addio, resteresti commosso fino alle lagrime».
Emerge anche da queste righe l’importanza che il giovane chierico attribuiva
al conforto della fede; ma, accanto alla religione, un’altra esperienza rivela in
questa pagina il proprio potere rasserenante: la scrittura. Non sappiamo se il
diario di Ulderico Fulghieri si sia conservato. Nella lettera a don Buzzacchi
egli ne trascrive un brano, ove rievoca un’avventurosa spedizione a cui aveva
partecipato il 16 agosto precedente per portare in salvo due soldati feriti
(come si ricorderà, Fulghieri faceva parte dei reparti sanitari):
La notte del 16 agosto era discesa sull’Alpi;[…] quella notte fu calma; il campo
aveva perduto l’aspetto terrificante del giorno innanzi; si dormiva sull’Alpi
come viaggiatori in attesa dell’alba, spinti là per contemplarvi uno spettacolo
nuovo, a godere di quella pace tutta singolare […]. A mezzanotte un rumore
leggiero di passi si avvicinò: una parola, uno sguardo fuggitivo rivolto al primo
che si affacciò fuori della tenda ci fece avvertiti di tutto; un istante dopo
eravamo già pronti per partire. […] il piccolo paese di B. che nella luce della
luna spiccava bene in tutte le sue capanne rovinate in gran parte dalle granate
nemiche. Là ci attendevano due nostri alpini feriti in un combattimento e
abbandonati dai nemici. L’impresa era difficile e richiedeva tutta la prudenza
possibile; partimmo incoraggiati dalla speranza di poterli salvare. Con noi
scesero giù due squadre di alpini armati; l’oscurità della notte per fitte
boscaglie che non lasciavano vedere un raggio di luce, la via angusta e
sconosciuta fu il primo ostacolo da superare […] Quando riapparvero le
capanne gli alpini in un gran semicerchio di prepararono alle ricerche. Si
198
temeva però una sorpresa ed ogni rumore, ogni cespuglio, richiamava la nostra
attenzione. Si giunse così agli ultimi casolari e nessuno si presentò; da ultimo
echeggiò nella valle una scarica di fucili; si vide un’ombra fuggire lontano e poi
nulla. Passò la notte, apparve l’aurora e i due eroi dormivano fra le nostre
braccia.
Questa non fu la sola avventura, ne ho altre ma per ora basta.
Non abbiamo altre notizie di Ulderico Fulghieri per il periodo che va dalla
fine di agosto del 1915 al 17 maggio 1918, quando, come si apprende dal
ruolo matricolare, è promosso tenente di complemento di fanteria. Dopo di
questa data si perdono nuovamente le sue tracce. Il suo nome non risulta
dell’Albo d’oro dei caduti lombardi della prima guerra mondiale, né pare
d’altra parte, da ricerche effettuate nello stato del clero della diocesi di
Mantova, che dopo la guerra egli avesse ripreso gli studi in Seminario e
abbracciato la professione sacerdotale.
Storia di Aldo Ganzerla (1892)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Aldo Ganzerla
Data di nascita: 23 febbraio 1892
Luogo di nascita: Revere (Mantova)
Luogo di residenza: Revere (Mantova)
Professione: ortolano
Statura: 1,70 m
Capelli: castani e ricciuti
Occhi: neri
Fondi di riferimento:
199
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.
436/18; lettera di Aldo Ganzerla pubblicata ne «Il cittadino», 23 ottobre
1915.
Aldo Ganzerla, di Emidio e Teofila Frigeri, nasce a Revere il 23 febbraio 1892.
Alla visita di leva, effettuata l’11 maggio 1892, viene dichiarato abile e
arruolato di prima categoria.
Non abbiamo altre informazioni sulla carriera militare di Ganzerla (non è
stato rinvenuto il ruolo matricolare). Notizie sulla sua esperienza di guerra si
possono desumere da una lettera che egli inviò l’8 ottobre 1915 al proprio
cugino don Buzzacchi di Bonizzo.
Caro cugino ed amico carissimo,
non ti puoi immaginare quanto fu grande il piacer mio nel vedere in mie mani,
ieri, un tuo scritto, aspettato da tempo con ansia. Sentii che è già la seconda
volta che mi scrivi, ma non ho avuto il bene di ricevere che l’ultima. Ti rispondo
subito, perché voglio leggerne spesso delle tue lettere, tanto care e gradite in
momenti così critici; tu poi compatirai le mie mal scritte. Che cosa vuoi, io non
ho studiato tanto, ma abbastanza però per esprimere più o meno bene i miei
sentimenti.
In queste righe d’esordio emergono anzitutto l’ansia e la trepidazione con cui
i soldati attendevano di ricevere missive da parte di famigliari ed amici o di
poter scrivere loro per dare notizie di sé, ma, ciò che è forse più interessante,
si affronta il tema, che abbiamo visto ricorrere di frequente negli scritti dei
soldati, della relazione che essi intrattenevano con una pratica comunicativa
a cui, anche i più istruiti, non erano adusi.
La lettera del cugino fa tornare alla memoria di Ganzerla gli anni spensierati
dell’infanzia, che si contrappone ad un tempo presente dominato dai dolori e
dagli orrori della guerra: «Faccio senza dirti – scrive Ganzerla – che ieri nel
leggere la tua lettera mi venivano in memoria tante cose passate in
compagnia, specialmente quando eravamo bambini, che ci stavamo sì
volentieri e ci divertivamo un mondo, quando ci raccontavamo l’un l’altro le
200
nostre storielle infantili. Quello era il tempo della spensieratezza, ma che
pure ci rendeva felici e contenti come Pasque. Quanta differenza ora!».
Ganzerla esprime in seguito la propria riprovazione la guerra e la speranza
che torni presto a regnare in Europa la pace:
Mi erano venute le lagrime agli occhi nel leggere in certi punti la tua cara
lettera e ti ringrazio con tutto il cuore delle preghiere che elevi al buon Dio
perché abbia presto a rispendere fra noi quell’iride di pace che da tempo è
desiderata dall’intera Europa. Oh si venga presto quel giorno fortunato e cessi
una buona volta questo conflitto europeo che è causa di tante lacrime che
copiose sgorgano dagli occhi di tutti. […] Se posso ritornare dalla guerra in
seno alla mia famiglia sano e pieno di vita come sono ora, per grazia del buon
Dio che fino adesso mi ha sempre protetto, ti assicuro che appena avrai la
grazia di ascendere per la prima volta l’altare per immolarvi l’agnello di pace,
verrò anch’io a farti corona e sarò ben lieto di passare in tua compagnia una
giornata allegra e dimenticare così tanti giorni passati in angosciosa
trepidazione. Oh dev’essere pur bella la calma dopo si procellosa tempesta!
Il ritorno della pace non potrà peraltro che dipendere dal trionfo della
giustizia, che per Ganzerla sarà fatta solo quando il nemico austro-germanico,
che egli ritiene il principale responsabile del conflitto, sarà sconfitto:
In quanto alla nostra situazione non posso dirti di più di quello che t’ho detto
altre volte. La giustizia deve trionfare ed è per questo che io spero tanto che i
tedeschi quanto gli austriaci presto o tardi saranno sconfitti completamente e
così loro che sono stati la rovina dell’Europa intera, finiranno una buona volta
col domandare essi per primi la pace.
Storia di Aldo Goldstaub (1898)
Dati anagrafici:
201
Nome e cognome: Aldo Goldstaub
Data di nascita: 27 giugno 1898
Luogo di nascita: Mantova
Luogo di residenza: Mantova
Professione: studente
Statura: 1,56 m
Capelli: castani e lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,
b. 1 (1896-1900).
Aldo Goldstaub nasce a Mantova il 27 giugno 1898 da Zevolun, detto Cino,
agente di negozio, e Pasqua Basevi, casalinga. All’epoca la famiglia Goldstaub
risiedeva a Mantova, in via Pomponazzo n. 12.
Soldato di leva di prima categoria lasciato in congedo illimitato il febbraio
1917, il 26 febbraio è chiamato alle armi per mobilitazione con R.D. 29
maggio 1915. Il 22 aprile inizia a frequentare la Scuola di Applicazione di
Fanteria di Parma, quale allievo Ufficiale di complemento. Il 3 ottobre 1917 è
aspirante Ufficiale di complemento nel Deposito del Reggimento Fanteria di
Mantova. Il 21 ottobre 1917 è incorporato al 113° Reggimento di Fanteria
Brigata Mantova. Il 16 gennaio 1918 è promosso Sottotenente di
complemento arma di Fanteria con anzianità 22 novembre 1917 e assegnato
al Deposito Fanteria di Verona. Il 27 aprile 1918 è incorporato al 6° Reparto
d’assalto (Deposito 66° Fanteria). Il 12 giugni 1918 è trasferito al 70° Reparto
d’assalto. Il 30 gennaio 1919 è promosso Tenente. Il 19 settembre 1919 è
incorporato al 79° Reggimento Fanteria e, a decorrere dalla stessa data, cessa
di trovarsi in territorio dichiarato in stato di guerra. Incorporato quindi nel
25° Reggimento Fanteria e successivamente nell’8° Reparto d’assalto, il 27
novembre 1920 rientra al Deposito del 79° Reggimento Fanteria. Il 13
dicembre 1920 viene collocato in congedo. Nel giugno 1921 chiede di essere
202
riassunto in servizio e viene assegnato al 72° Fanteria a Mestre. Il 30 maggio
1923 è inviato in congedo. Nel 1936 viene richiamato in servizio per due
settimane, per frequentare un corso di addestramento ai fini
dell’avanzamento di carriera. Il 17 settembre 1936 è promosso capitano. Il
27 luglio 1939 è collocato in congedo assoluto ai sensi dell’art. 5 del R.D.
dicembre 1938 n. 2111, che stabiliva che gli ufficiali in servizio permanente
del Regio esercito, della Regia marina, della Regia aeronautica, della Regia
guardia di finanza e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale,
appartenenti alla razza ebraica fossero dispensati dal servizio e collocati in
congedo assoluto.
Dopo l’8 settembre 1943 Goldstaub non presta servizio militare né collabora
con i nazifascisti nelle formazioni della RSI e pertanto nel dopoguerra non è
sottoposto a giudizio di discriminazione che nel dopoguerra colpì i militari
italiani che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si erano arruolati nelle
forze Armate della Repubblica Sociale, sia volontariamente, sia perché
militari di leva e/o richiamati.
Anzi, il 18 ottobre 1944, ai sensi dei decreti legge del 6 e del 20 gennaio 1944,
nn. 9 e 25, viene reiscritto nel ruolo del complemento con il grado e con il
posto di anzianità che aveva prima del congedo assoluto. Decorato della
Croce al Merito di Guerra, della Medaglia Interalleata della Vittoria, della
Medaglia commemorativa nazionale della guerra 1915-1918.
Dal fascicolo personale si apprende inoltre che aveva fatto parte delle Milizie
volontarie fiumane.
Dalla documentazione archivistica si desume infine che nel 14 giugno 1933
aveva sposato a Grosseto Jessie Padovani e che il 23 agosto 1934 era nato il
figlio Alfredo. Nel 1952 risultava residente a Bologna, ove era impiegato
presso la Delegazione del Tesoro della Banca d’Italia.
Storia di Cesare Grazioli (1897)
Dati anagrafici:
203
Nome e cognome: Cesare Grazioli
Data di nascita: 1897
Luogo di nascita: Goito (MN)
Luogo di residenza: nel 1921 risulta residente a Rodigo (MN)
Professione: contadino
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
Archivio dell’Associazione nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, Sezione
provinciale di Mantova, serie “24. Mantova. Deceduti”, busta “da Grandelli a
Gusberti”, fascicolo “Grazioli Cesare”; cartolina inviata da Cesare Grazioli al
padre Giovanni il 12 marzo 1918 dal campo di concentramento di Somorja in
Ungheria, conservata nell’Archivio di Amedeo Farina di S. Cataldo (Manova).
Cesare Grazioli, di Achille e Biolchi Margherita, nacque a Goito (Mantova) il
12 aprile 1897. Grado di istruzione: elementare. Grado militare: soldato.
Arruolato in data non nota nel 70° Reggimento Fanteria con deposito ad
Arezzo. Il 19 agosto 1917 sul Carso viene ferito ad entrambe le braccia. Viene
curato ad Ancona e a Urbino. Il 12 marzo 1918 è rinchiuso nel campo di
concentramento di Somorja in Ungheria, da dove invia la seguente cartolina
al padre Giovanni:
Carissimo Padre,
dandovi mie notizie che io mi trovo Prigionero [sic], dalla salute sto benissimo
come spero di avi e famiglia. Vi raccomando di favorirmi con più che potete di
un vaglia telegrafico, con qual pacchi di pane, e vi raccomando di non pensare
a me, più di pensare di mandarmi quello che vio [sic] chiesto più presto
possibile, io mi trovo in scieme [sic] con Martelli della Volta [di Volta
Mantovana]. Per tanto vi saluto e più saluti a tutti. Addio.
Il 4 gennaio 1920 Cesare Grazioli viene sottoposto a visita medica collegiale a
Verona per il conferimento di una pensione di guerra. Essendo riconosciuto
204
«affetto da callo osseo dell’avambraccio destro con limitazione di movimenti
di pronazione», viene assegnato alla nona categoria di invalidità e gli viene
riconosciuta una pensione di guerra per la durata di sei anni,
successivamente rinnovata. Il 23 gennaio 1921 si iscrive all’Associazione
Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, sezione di Mantova. Dalla scheda di
associazione egli risulta residente a Rodigo. Il 7 dicembre 1976 inoltra
all’Associazione domanda di «assistenza natalizia». Dalla richiesta si evince
che egli viveva solo e che la sua pensione di guerra ammontava a sole 36 mila
lire mensili (corrispondenti a circa 150 euro, al valore odierno della moneta).
Muore a Porto Mantovano (MN) nel 1979.
Storia di Iginio Marchini (1897)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Iginio Marchini
Data di nascita: 29 settembre 1897
Luogo di nascita: Sermide (Mantova)
Luogo di residenza: Puerto Limón (Costa Rica)
Professione:
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
Gli italiani nell'America Centrale, a cura di Ermenegildo Aliprandi e Virgilio
Martini, Santa Tecla (El Salvador), Escuela Tipogràfica Salesiana, 1932 e
Dizionario biografico degli italiani in Centroamerica, a cura di Dante Liano,
Milano, Vita e Pensiero, 2003, ad vocem.
205
Iginio Marchini è nato a Sermide, in provincia di Mantova, il 29 settembre
1897. Dopo pochi mesi dalla sua nascita, i suoi genitori emigrarono in Costa
Rica, dove si impiegarono nei cantieri di costruzione della ferrovia.
Nell’aprile del 1916 Marchini partì da Puerto Limón, sul piroscafo Europa,
per arruolarsi come volontario nell’esercito italiano e partecipare così alla
Prima Guerra Mondiale. Appena giunto a Mantova venne arruolato nel 65°
Reggimento Fanteria “Brigata Valtellina” di Cremona. Tre mesi più tardi fu
inviato sul Monte Croce e nel febbraio del 1917 fu trasferito alla 150a
Compagnia Mitraglieri “Regina” col grado di caporale e inviato a combattere
sul fiume Isonzo. Tra i suoi compagni d’armi vi era Giuseppe Angelo Roncalli,
il futuro Giovanni XXIII, del quale Iginio divenne grande amico.
Promosso sergente, prese parte ai combattimenti sul monte Smerli, a
Tolmino e a Caporetto (nell’attuale Slovenia), dove rimase ferito e fatto
prigionieri dai tedeschi. Venne trasferito al campo di concentramento di
Oberhoffen, in Alsazia. Il primo di ottobre del 1918 l’avanzata degli alleati
giunse fino a Strasburgo e Iginio Marchini riuscì a fuggire con alcuni
compagni dal campo di concentramento, grazie alla ritirata dei soldati
tedeschi. Fu raccolto dalle truppe francesi e trasferito in un ospedale militare
a causa di un trauma alla colonna vertebrale, conseguenza delle bastonate e
dei colpi ricevuti dai tedeschi durante la prigionia.
Marchini fu insignito della Croce di Guerra, della medaglia Interalleata e della
medaglia Reggimentale.
Nel dicembre dello stesso anno venne nuovamente rincorporato e mandato a
combattere in Africa, a Bengasi. A causa delle sofferenze alla schiena venne
rispedito in Italia, a Piacenza, dove lavorò al Magazzino Sussistenza Viveri
fino al giugno del 1920.
In luglio fu avvisato dal Distretto Militare di Mantova che in settembre
sarebbe scaduto il diritto all’imbarco gratuito per la Costa Rica. Nel frattempo
Iginio si era sposato e, non potendo pagare il biglietto per la moglie Angela
Talassi, chiese al Governo Italiano un aiuto, che gli fu negato. Costretto a
ricorrere a un prestito, il 23 settembre 1920 a Genova si imbarcò con la
moglie sul piroscafo Europa, lo stesso che quattro anni prima lo aveva
portato in Italia per partecipare alla guerra.
206
A San José Marchini aprì la macelleria “La Triestina”, che nel 1932, come
attesta un annuncio pubblicitario, era ancora aperta. Successivamente
impiantò anche una piccola fabbrica di insaccati.
Gli anni della Seconda Guerra Mondiale furono anni difficili per Iginio
Marchini e la sua famiglia, specialmente dopo il 1941, quando la Costa Rica
dichiarò guerra all’Italia fascista e alla Germania nazista. Durante una
manifestazione contro i due paesi europei il suo negozio venne saccheggiato
e bruciato e gli furono rubate le onorificenze che si era duramente
guadagnato sul campo di battaglia. Come molti altri italiani, lui e la sua
famiglia vennero deportati in un campo di raccolta e successivamente inseriti
in una lista “grigia” (la Costa Rica inseriva in una lista “nera” tutti gli italiani, i
tedeschi e i giapponesi che erano favorevoli ai loro regimi ed in una “grigia”
quelli che si dissociavano dalla Guerra). Solamente dopo molti anni riuscì a
ricostruire la sua attività, che seguì personalmente fino al 21 ottobre del
1977, quando morì. Le sue spoglie riposano in Costa Rica.
Storia di Renzo Massarani (1898)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Renzo Massarani
Data di nascita: 26 marzo 1898
Luogo di nascita: Mantova
Luogo di residenza: Mantova
Professione: musicista
Statura: 1,71 m
Capelli: castani ondati
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
207
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.
484/177; Lara Sonja Uras, Massarani Renzo, in Dizionario Biografico degli
Italiani, volume 71, 2008, ad vocem.
Renzo Massarani, di Giulio e Gina Colorni, nasce a Mantova il 26 marzo 1898.
Discendente di una delle più illustri e facoltose famiglie della borghesia
ebraica mantovana, partecipa come volontario alla prima guerra mondiale.
Alla visita di leva, effettuata a Roma il 20 gennaio 1917 – Massarani non ha
ancora compiuto 19 anni – è dichiarato abile e arruolato di prima categoria.
Dopo la conclusione della guerra riprende gli studi di pianoforte e di
composizione: nel 1918 prende lezioni da F. Schalk a Vienna; l’anno
successivo si trasferisce a Roma per studiare presso il liceo musicale di S.
Cecilia, dove nel 1921 si diplomò in composizione sotto la guida di Ottorino
Respighi.
Fascista convinto, nel 1922 partecipa alla marcia su Roma. A quest’epoca
risalgono le sue prime composizioni musicali e l’esordio dell’attività di critico
musicale. Divenuto direttore musicale del teatro di marionette di Vittorio
Podrecca, compie numerosi viaggi, tra cui uno in Sudamerica. Dopo il
matrimonio con Elda Costantini si stabilisce definitivamente a Roma, dove si
impiega presso l’Ufficio plagi della SIAE (Società italiana degli autori ed
editori). Nel 1930 partecipa al Festival internazionale di musica
contemporanea di Venezia, presentando al teatro La Fenice il poemetto per
voce e pianoforte Chad Gadyà, ispirato a un canto della Pasqua ebraica. Ben
inserito, a dispetto delle proprie origini ebraiche, nel contesto delle
istituzioni musicali del regime fascista, da cui riceve prestigiosi incarichi,
Massarani riscuote un notevole successo di pubblico e di critica. Delle sue
composizioni quest’ultima esaltò in particolare gli aspetti legati al ritmo e alla
forma, il lirismo e gli spunti popolareschi delle melodie.
Nel 1938, in seguito all’introduzione delle leggi razziali, vengono meno il
prestigio e l’influenza di cui Massarani godeva presso il regime, che mette al
bando la sua musica (buona parte della quale verrà distrutta nel corso della
seconda guerra mondiale). Egli è costretto a lasciare l’Italia ed emigra in
Brasile. Stabilitosi a Rio de Janeiro, inizia a collaborare con la Radio nacional
208
in qualità di orchestratore e con quotidiani e giornali come critico musicale.
Entra far parte dell’Academia brasileira de música.
Nel dopoguerra rifiuta la proposta di ritornare in Italia con la sua
riassunzione alla SIAE e impedisce l’esecuzione, la riedizione e l’accesso ai
manoscritti delle sue composizioni.
Muore il 28 marzo 1975 a Rio de Janeiro.
La maggior parte dei manoscritti di Massarani è custodita presso l’archivio
familiare e nel fondo a lui dedicato presso la Biblioteca nacional do Brasil.
Storia di Vittorio Mutti (1895)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Vittorio Mutti
Data di nascita: 13 luglio 1895
Luogo di nascita:
Luogo di residenza: Acquafredda (frazione di Mantova)
Professione: chierico seminarista
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
Lettere dal fronte di Vittorio Mutti, pubblicate ne «Il Cittadino», 7 luglio e 9
agosto 1915; La morte del chierico Mutti, in «Il Cittadino», 16 gennaio 1916;
Gli imponenti funerali del chierico Mutti, in «Il Cittadino», 20 gennaio 1916.
Frammenti della storia di Vittorio Mutti, chierico teologo del Seminario di
Mantova, ci sono pervenuti attraverso due lettere che furono pubblicate sul
giornale cattolico di Mantova, «Il Cittadino», nell’estate 1915, e attraverso
due articoli, pubblicati sullo stesso quotidiano nel gennaio 1916.
209
Il 7 luglio 1915, in una lettera indirizzata a don Tinelli di Acquafredda, egli
scrive:
M.R. Sig. Arciprete,
Deo gratias! Finalmente anche la posta militare è entrata nel suo giusto
binario! Ho ricevuto oggi due delle sue carissime lettere […]. Oh, quanta
consolazione, quanto coraggio mi infondono le sue nobili ed elevate espressioni!
Grazie, sig. Arciprete; anche qui alle trincee non de solo pane vivit homo. Però
mi fa meraviglia come ella, mentre di compiace del mio benestare, aggiunga: si
vera sunt exposita! Senta, è vero che non ci è concesso di dir tutto, ma le giuro
sul mio onore di soldato che quanto le scrivo di me corrisponde alla pura verità.
Forse le fa meraviglia la mia calma, la mia serenità, la mia costanza anzi il mio
entusiasmo?!... Veramente non so neppur io, come spiegare in me questo
fenomeno! Che vuole! Mi trovo proprio in grado di domandarle: ma quando
incomincia la guerra?!... Eppure tuona il cannone anche adesso, passano
cigolando sul capo gli shrapnel nemici, ma non mi scompongono. La mia
impassibilità desta meraviglia anche ai miei camerati e al mio tenente!... Del
resto per mantenersi in calma e nel morale non ci vuole una grande virtù. La
coscienza ed il sentimento del proprio dovere, Iddio poi fa il resto!
Sembra che i proiettili austriaci siano di carta pesta! Ci hanno sparati chissà
quanti colpi di cannone, senza mai cogliere nel segno e senza colpo ferire. Dal
primo sparo ci accorgiamo se il bersaglio siamo noi del Genio. Se sparano verso
noi andiamo a posto, in caso diverso si continua il lavoro di trincea osservando
e berteggiando con gioia i proiettili che scoppiano contro le rocce senza alcun
frutto. Stamane il cielo era nebbioso assai sotto di noi, giù per le valli sembrava
disteso un gran lenzuolo, e in alto avemmo la sorpresa di un aeroplano nemico.
Subito un nutrito fuoco di fucileria lo fece retrocedere in fretta ed io teneva
pronto, accarezzandolo, il mio moschetto, desideroso di forare un’ala a quella
poiana! Il cacciatore si trovava nel suo ambiente, ma non venne a tiro.
Noi lavoriamo quasi sempre di giorno, a fortificare e a far trincee, però nelle
posizioni in vista ai forti austriaci si lavora di notte e non vi è per noi del genio
nessun imminente pericolo. Ecco tutto. Mi affido però alle di lei preghiere,
mentre io ne sento e ne godo il frutto. Voglia far penetrare un po’ del di lei e del
210
mio coraggio nel seno della mia famiglia; dica a mia mamma che sia calma,
rassegnata, tranquilla, che io ritornerò […]
Doveri ed affettuosi saluti dal suo dev. Vittorio.
Il 17 luglio egli scrive di nuovo a don Tinelli:
Carissimo sig. Arciprete,
è ormai tardi. L’ombra è scesa fitta sotto il bosco ove trovasi la mia tenda e
l’eco affannosa di Monte C. di P. non ripete più il rombo cupo e lugubre del
cannone, ma sembra riposare, come un gigante stanco. Tutto invita alla quiete,
ma il cannoniere e l’alpino audace vigilano attenti. […] Ma io non posso
aspettare il nuovo sole per rispondere alla sua carissima lettera del 12
corrente. Or quindi le scriverò da qui, appoggiato al fusto di un cannone che qui
mi vuol raccontare l’eroismo di cui fu spettatore. Scriverò mentre un mio
collega mi rischiara il foglio con cerini man mano accesi. Oh quanto è vero che
gli amici si conoscono nel momento del periglio! […].
La ringrazio signor Arciprete degli auguri fattimi in ricorrenza del mio
compleanno. Oh davvero! Se Lei non me lo ricordava qui in mezzo al fragore
della battaglia ed allo strepito delle armi mi sarebbe forse sfuggita, sarebbe
passata inosservata quella nota gentile! Eppure ho proprio compiuto, il 13
luglio, i miei vent’anni, compiuti qui in trincea, in un vespro rosso di sangue,
tragico, pensoso, col moschetto vibrante fra le mani! Ho compiuto i vent’anni
mentre le granate foriere di morte passavano sibilando sopra il mio capo! Ma
Iddio era con me!! È una realtà che in certi momenti non si ha nessun conforto
se non quello della Fede […].
Sono tentato talvolta di offrirmi volontario in alcune imprese arrischiate. Ma
poi penso ch’io non sono arbitro della mia vita, la quale è congiunta con altre
esistenze. Tuttavia tengo a dichiararle che se venissi comandato, non sarei io il
soldato pauroso che vorrebbe ritirarsi, ma ubbidirei fino al sacrificio!
E così fece. Il 6 settembre, mentre a capo di una squadra del Genio compiva
«una delicata e pericolosa mansione», rimase ferito da un proiettile dum-
dum. L’imperversare del fuoco nemico lo costrinse a restare tutto il giorno al
211
suolo, tra i corpi dei compagni caduti. Appena poté, riuscì a trascinarsi
carponi in un luogo sicuro e a sottrarsi così alla mitraglia e a una pattuglia
nemica discesa per farlo prigioniero. La notte seguente restò accovacciato tra
i macigni, finché a giorno fatto venne avvistato e raccolto in fin di vita dalla
Croce Rossa. Fu ricoverato d’urgenza nell’ospedale di Padòla e poi a S.
Stefano di Cadore, da dove veniva trasferito a Milano nell’ospedale militare di
riserva. Apparentemente guarito dalle ferite riportate, fu dimesso e fece
ritorno a casa, ad Acquafredda. Morì il 14 gennaio 1920, a soli vent’anni, in
seguito a complicanze dovute ai frammenti di pallottola che non erano stati
estratti dal suo corpo. I solenni funerali di Vittorio Mutti si tennero ad
Acquafredda il 19 gennaio. Il parroco don Tinelli, con cui egli aveva
intrattenuto un’affettuosa corrispondenza dal fronte e che lo aveva assistito
amorevolmente durante la malattia, volle che fosse tumulato nella sua tomba
di famiglia.
Storia di Giuseppe Nardi (1896)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Giuseppe Nardi
Data di nascita: 17 maggio 1896
Luogo di nascita: Bozzolo (Mantova)
Luogo di residenza: Bozzolo (Mantova)
Professione: meccanico
Statura: 1,59 m
Capelli: castani e lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,
matricola 4360; lettera di Giuseppe Nardi pubblicata ne «Il cittadino», 13
novembre 1915.
212
Giuseppe Nardi, di Fausto e Clara Nardi, nasce a Bozzolo il 17 maggio 1896.
Alla visita di leva, effettuata il 24 settembre 1915 viene dichiarato abile a
arruolato di prima categoria. Il 21 novembre è chiamato alle armi e si
presenta al Distretto militare di Genova. È incorporato nel 94° Reggimento
Fanteria. Nell’autunno del 1915 egli scrive ai famigliari una lunga lettera
(pubblicata sul «Cittadino» di Mantova il 13 novembre), in cui descrive le
operazioni militari che tra al giugno e il novembre 1915 avevano visto
protagonista il 94° Fanteria nella zona di Plava (Slovenia). Plava fu infatti
teatro del Primo Balzo delle truppe italiane (il 5 giugno 1915 venne iniziato,
per opera della 3a Divisione, il passaggio dell'Isonzo) e della Prima battaglia
dell'Isonzo. Nei dintorni di Plava vennero poi combattute, tra il luglio e il
novembre del 1915 la Seconda battaglia dell’Isonzo e la Terza. Sono queste le
operazioni militari a cui Nardi fa riferimento nel proprio resoconto. Egli
scrive:
Genitori e fratelli carissimi,
mi perdonerete del mio lungo silenzio, tacendovi la mia vera posizione,
partendo dal confine per il fronte il 18 ottobre per portarci sotto il nemico per
l’avanzata generale sul Monte Cu[c]co. Non vi ho voluto dare questa notizia per
non rattristarvi di più, pensando a tante cose che mi potevano succedere.
Invece per grazia del buon Dio e della B.V. delle Grazie nulla mi capitò. Miei
cari, quando il giorno 17 ottobre vi domandai il pacco, credevo di rimanere
vicino a Cividale per un bel po’ di tempo, invece il giorno dopo partimmo,
portandoci a poco a poco vicino al nemico e il giorno 29 ottobre ci portammo,
passando l’Isonzo a Plava, subito in trincea di prima linea distante dal nemico
circa 100 metri. Il mangiare avevano paura di portarcelo, quindi mangiammo i
viveri di riserva e quelli dei caduti italiani e tedeschi. La razione era di mezza
pagnotta e una scatoletta di carne in conserva. Dei patimenti e sacrifici ne
abbiamo fatti abbastanza. La notte la passavamo nel fango o seduti su di un
sasso, tutti bagnati, continuando a far fuoco. Si dormiva poco essendo i
mangiasego a poca distanza e poi il freddo era abbastanza intenso. […]
Stamattina siamo sortiti dalle trincee sporchi e siamo andati a Plava e subito ci
213
distribuirono la posta. C’erano tre cartoline, una lettera di Gino e il pacco. Ho
gradito tutto volentieri. Cara mamma, sono felice sapendo di essere scampato
ad un grave pericolo.
Dopo aver chiesto alla madre di far celebrare una messa alla B.V. delle Grazie,
una a S. Antonio da Padova e una alla Beata Paola Montaldi (di cui ella gli
aveva inviato «una reliquia») per esaudire un voto da lui fatto prima della
battaglia, Nardi prosegue:
L’avanzata che abbiamo fatto è stata iniziata coi… regg. Fanteria. Il nemico era
chiamato il reggimento di «Ferro» ed erano soldati quasi tutti decorati, per cui
era difficile andarci incontro e allora hanno pensato di mandarci due dei
battaglioni del mio reggimento che il 16 giugno ha fatto levare le gambe agli
austriaci nell’avanzata di Plava. Gli austriaci sono molto arrabbiati col mio
reggimento. Se potessero farne di prigionieri li maltratterebbero, ma di farli
prigionieri non hanno e non avranno mai la grazia.Il mio reggimento è formato
tutto di toscani, che sono tutti feroci cogli austriaci.
Alla mattina del lunedì 1 novembre alle 6 aprimmo il fuoco sul nemico e dopo
andammo all’assalto alla baionetta. Il primo battaglione andò davanti, poi
dietro il terzo; la mia compagnia fu l’ultima e quella che ebbe le perite
maggiori. […] Fatti circa cento metri incontrai i primi morti e feriti, ma via
sempre per portarci al coperto. Sotto alle trincee nemiche abbiamo riposato un
poco, poi con slancio piombammo con baionetta in canna nelle trincee nemiche,
facendo prigionieri tutti quelli che vi erano.
Saltai addosso subito ad uno anche io e di corsa lo portai giù, al comando e poi
pian piano mi portai nella trincea conquistata, riparandomi bene dalle
intemperie perché qui sempre piove.
In un punto ci rimasi 6 giorni e 6 notti per mantenere la buona posizione
conquistata. Ora non sono più nel pericolo partiamo ora non s per dove. Vi
mando tanti saluti e baci a voi tutti di famiglia. Se avrò la grazia di potervi
rivedere vi racconterò altre cose. Di nuovo tanti baci a tutti voi, vostro aff.mo,
Giuseppe.
214
Il 7 dicembre 1915 scrive al fratello Gino, aggiornandolo sull’evoluzione della
situazione militare. I combattimenti che Nardi rievoca in questa lettera sono
quelli della Quarta battaglia dell’Isonzo (10 novembre-5 dicembre 1915), che
si concluse con la presa di Oslavia.
Mio carissimo Gino,
perdonami del mio ritardo nel darti notizie. La causa è questa: quando mi
trovavo nella zona di P… stavamo in attesa di cambiare posizione,
migliorandola, avendo bisogno di riposo. La sera del 22 novembre venne
l’ordine di partire all’istante per destinazione ignota. Noi soldati sapevamo di
andare in riposo ma invece si andava verso il nemico. Noi andavamo avanti lo
sesso contenti e arrivammo a S. F... Alla notte ci portammo sotto al nemico in
rinforzo a quelli davanti che stavano combattendo. Il giorno dopo ci portammo
in trincea distante qualche decina di metri dai mangia sego. Alle ore 11 circa il
nostro battaglione ebbe l’ordine di avanzare. Ci buttammo fuori e via al
galoppo per dare l’assalto alla baionetta. Fu subito una strage di tedeschi. La
posizione da prendere era difficile. Ci appostammo a circa dieci metri dal
nemico e riparandomi la testa dietro un sanno,cominciai il fuoco micidiale
insieme ai miei compagni. Le bombe a mano cadevano come la grandine ma
quasi tutte erano prese e rilanciate sul nemico, sicché si uccidevano con le loro
armi.
Combattemmo circa tre ore, poi con un magnifico assalto alla baionetta al
grido fatidico di «Savoia» piombammo sugli austriaci annientandoli.
Alla sera fummo ritirato per il freddo, ma il giorno dopo cominciò di nuovo
l’azione e riuscimmo di nuovo ad impadronirci delle trincee nemiche facendo
dei prigionieri.
Dunque come vedi, caro Gino, il tempo per scriverti era poco. Il paese che
abbiamo preso è O. ed ora siamo in attesa di andare in riposo e speriamo
questa volta sia riposo davvero.
Non abbiamo notizie di Nardi per il periodo compreso tra la fine del 1915 e
l’estate del 1918.
215
Il 30 agosto 1918 il Tribunale militare di Ancona lo condanna per diserzione
a tre anni di reclusione. In virtù dell’articolo 12 del R.D. 21 febbraio 1919 è
amnistiato. Il 5 ottobre 1918 è incorporato nel 249° Reggimento Fanteria. Il
primo gennaio 1919 è trattenuto alle ami in forza dell’articolo 133 del testo
unico della legge sul reclutamento del Regio Esercito. Il 19 dicembre 1919 è
inviato in congedo illimitato.
Storia di Angelo Parrilla (1899)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Angelo Parrilla
Data di nascita: 1 maggio 1899
Luogo di nascita: Longobucco (Cosenza)
Luogo di residenza: Mantova
Professione: studente
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
Le onoranze alla salma di Angelo Parrilla, decorato di Medaglia d’oro, in «Il
Giornale», Mantova, 25 novembre 1923; Roberto Mandel e Bruno Montanari
Storia popolare illustrata della Grande Guerra 1914-1918, volume V, Milano,
Armando Gorlini Editore, 1934; Federico Sacchi, Galleria dei Ricordi, in «La
Gazzetta di Mantova», 29 ottobre 1958; La M.O. Angelo Parrilla cadde nei
pressi di Conegliano, in «Fiamme Verdi», Periodico della sezione di
Conegliano dell’Associazione Nazionale Alpini, a. VIII, n. 5, settembre-ottobre
1968, pp. 1-2; Armando Rati, Dalle aule del Pitentino alle trincee. Storie di
Studenti Eroi nella Grande Guerra, Mantova, Sometti Editore, 2010, pp. 51-53.
216
Angelo Parrilla nasce a Longobucco, in provincia di Cosenza, il 1° gennaio
1899, da Giuseppe e Zeffira Catalani, primo di 7 fratelli, 6 maschi e una
femmina. Il 19 agosto 1916 la famiglia si trasferisce a Mantova, dove Angelo
già risiedeva da qualche tempo per frequentare il R. Istituto Tecnico “Alberto
Pitentino”: la madre infatti era originaria di Mantova; il padre era militare di
carriera (apparteneva a un reggimento di cavalleria) ed era anch’egli nato a
Longobucco nel 1865.
Si arruolò volontario qualche mese prima dell’arrivo della cartolina,
interrompendo gli studi. Seguì il corso Allievi Ufficiali presso la Scuola di
Fanteria di Parma. Nel 1917, nominato Aspirante ufficiale di complemento, fu
destinato al 113° fanteria della Brigata “Mantova”. Subito inviato al fronte,
sull’Altipiano dei Sette Comuni, combatté in Val Granezza, a Monte Melago e a
Pria dell’Acqua, riportando una ferita alla gamba destra. Dopo un breve
ricovero ospedaliero, rientrò al reggimento. Promosso Sottotenente, ai primi
di giugno raggiunse Carmignano di Brenta e quindi Selva del Montello e prese
parte alla battaglia del Piave, detta anche del Solstizio. Durante la battaglia,
scriveva alla madre: «Certo io non so come sia vivo; Tu mamma certamente
in quei momenti pensavi a me, e ciò mi ha salvato. Ho condotto i miei uomini
per ben sette volte all’assalto e tre al contrattacco! Abbiamo ancora salvato la
nostra Patria!».
Il giovanile entusiasmo lo spinse nell’agosto successivo a chiedere
l’assegnazione ai reparti “Arditi”, che ottenne: ai primi di ottobre fu destinato
al VI Reparto della 2a Divisione d’assalto. In un articolo pubblicato il 29
ottobre 1958 su «La Gazzetta di Mantova», Federico Sacchi, classe 1896,
ufficiale combattente della Brigata Mantova e invalido di guerra, così rievoca
il proprio incontro con Parrilla: «Ci stringemmo con effusione la mano e ci
abbracciammo. Mi accorsi subito che le sue mostrine non erano le verde-
giallo della Mantova, divisione alla quale anche lui avrebbe dovuto
appartenere. Erano bianche con il filetto verde del 72° Rgt. Gli chiesi: Sei del
113° e usi le mostrine deI 72°? - Mi rispose: La mia domanda è stata inoltrata
con parere favorevole al comando di divisione e spero che tra breve mi
assegneranno al Reparto divisionale degli Arditi.”
Il mattino del 24 ottobre ebbe inizio la battaglia di Vittorio Veneto con
217
l’attacco al Grappa, di cui il cruento scontro in cui Parrilla perse la vita, viene
considerato l’ultimo episodio. Parrilla, che alle prime ore del mattino del 29
ottobre aveva attraversato il Piave con la propria pattuglia per poi puntare al
Castello di Susegana, cadde in località Costabella, frazione di Conegliano
Veneto (Treviso), nel corso di un assalto a una fattoria in cui era asserragliato
un manipolo di soldati austriaci. L’edificio è stato identificato nella casa
colonica di proprietà della famiglia Dal Col, adiacente alla villa padronale a
quel tempo di proprietà della nobildonna Antonietta Zandonella Dall’Aquila
vedova Del Giudice (sul muro est della casa è tuttora affissa una lapide che
ricorda il fatto d’arme).
Sulla base delle testimonianze pervenuteci, tra cui quella del signor Enrico
Bozzoli di Conegliano Veneto, raccolta nel 1968, è possibile ricostruire la
dinamica dello scontro e le circostanze della morte del giovane studente
mantovano. Bozzoli sostiene tra l’altro che l’episodio si verificò il 29 ottobre e
non il 28, come concordemente riportato da tutte le fonti ufficiali (compresa
la motivazione della Medaglia d’oro). Quel giorno Angelo Parrilla si era spinto
con i suoi cinque arditi verso Costabella. Giunti nell’aia della casa dei Dal Col,
gli arditi si erano portati dietro il pozzo e quando Parrilla alzò la testa per
accertarsi della presenza dei nemici, questi aprirono il fuoco dall’interno
dell’edificio; il giovane ufficiale scrisse rapidamente un biglietto con la matita
e lo diede a uno dei suoi uomini per l’immediato inoltro al comandante. Poi,
approfittando di un attimo di tregua del fuoco di fucileria, assaltò d’un balzo
la casa con i restanti quattro arditi; la lotta dei pochi valorosi fu disperata
contro gli avversari in superiorità numerica. Atterrata la porta, il
sottotenente irrompe innanzi a tutti, il pugnale levato. Un ufficiale lo affronta
e rimane ucciso. Ma Parrilla viene assalito a propria volta a colpi di pugnale e
cade. Sopraggiunsero di lì a poco i rinforzi, allertati dal biglietto del giovane
eroe, e l’avanzata riprese aprendo la strada alle brigate «Sassari» e «Bisagno»
che alla mezzanotte di quel giorno entrarono in Conegliano.
Bozzoli scrive: «La mattina del 30 ottobre resi visita di omaggio commosso al
caduto italiano, composto e sereno nella pace eterna, disteso sul pavimento, con
ai lati due soldati austriaci pur essi morti, composti. Nessuno dei caduti
presentava all’apparenza visiva lacerazioni o strazio delle carni o degli
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indumenti; le sembianze dei visi, della testa e delle mani, davano positiva
dimostrazione che la morte avvenne violenta per proiettile o scheggia di bomba
nel tronco la cui penetrazione difficilmente appariva negli indumenti, anch’essi
privi di rilevanti macchie di sangue».
Angelo Parrilla è una delle quattordici medaglie d’oro assegnate ai Ragazzi
del ’99. La motivazione della decorazione recita: «Chiesto ed ottenuto il
comando della pattuglia di punta, composta da cinque arditi, alla testa di essa
precedeva il proprio reparto d’assalto. Avuto sentore della presenza di
imprecisate forze nemiche in un fabbricato, dopo averne mandato sollecito
avviso al proprio comandante, risolutamente e per primo si slanciava nel
fabbricato stesso, affrontando ne con insuperabile audacia, a colpi di bomba a
mano, i difensori di gran lunga più numerosi. Alla violenta reazione di questi,
impegnava, insieme coi suoi, una accanita mischia, corpo a corpo, abbattendo
un ufficiale avversario. Pugnalato a sua volta, continuava disperatamente, coi
suoi arditi, nella strenua ed impari lotta, mettendo fuori combattimento
numerosi nemici, finché crivellato di colpi, gloriosamente cadde, fulgido
esempio di eroico valore. Castello di Susegana 29 ottobre 1918. Bollettino
uff.— disp. 91 del 1919».
Il 25 novembre 1923 la salma di Angelo Parrilla, proveniente dal cimitero di
Conegliano, fu traslata a Mantova. Un manifesto pubblicato dal Comune di
Mantova annunciava l’evento: «Cittadini! Dalla zona di guerra dove col suo
sangue segnò i nuovi confini della Patria, torna, esamine spoglia, il tenente
Angelo Parrilla , Medaglia d’oro al V.M. Studente del nuovo R. Istituto Tecnico,
Ufficiale degli Arditi, ebbe sempre vivo il culto dell’ideale, sempre ardente la
fede nel grande avvenire d’Italia. Oggi, accogliendo con rito solenne la Salma
del giovane generoso, piegando sul Suo feretro tutte le nostre bandiere, noi
riaffermeremo la gratitudine della Nazione verso uno dei più puri e nobili
eroi che alla Gran Madre nell’ora del supremo cimento, diede in olocausto la
vita. E questo omaggio reverente esprima l’anima di tutta la Patria che
rinnovellata da sacrificio, consacra nei secoli il nome e la gloria dei suoi figli
migliori».
La cittadinanza partecipò numerosa e commossa alla celebrazione, la cui
cronaca fu pubblicata dal «Giornale» di Mantova: «Il feretro, portato fuori dal
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tempio a spalle da decorati e da ex compagni di scuola del povero
“Angiolino”, era stato posto su un affusto di cannone tirato da sei cavalli
montati da artiglieri. Sopra la bara avvolta nel tricolore, era stato collocato il
ritratto di Parrilla, ornato di fronde di alloro. Nel piazzale dei giardini aveva
espresso l’accorato saluto della cittadinanza il Sindaco, quello delle forze
armate il generale che comandava il presidio. Il padre Giuseppe, trattenendo
a fatica le lacrime, si inginocchiò e abbracciò per l’ultima volta a bara».
Due anni dopo, la salma fu traslata per la definitiva sepoltura nel sacello che
veniva allora consacrato.
Storia di Aspero Diofebo Preti (1898)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Aspero Diofebo Preti
Data di nascita: 19 aprile 1898
Luogo di nascita: Sermide (Mantova)
Luogo di residenza: Sermide (Mantova)
Professione: portalettere
Statura: 1,63 m
Capelli: neri lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,
matricola 13245.
Aspero Diofebo Preti, di Vittorio e madre ignota, nasce il 19 aprile 1898 a
Sermide.
Alla visita di leva effettuata il 30 novembre 1917 è dichiarato abile e
arruolato di prima categoria. Chiamato alle armi per mobilitazione il 15
220
gennaio 1918, è incorporato nell’80° Reggimento Fanteria. Denunciato per
reato di diserzione al Tribunale militare di guerra dell’Intendenza della
Quinta armata, il 16 maggio è condannato a due anni di reclusione.
L’esecuzione della pena è sospesa per la durata della guerra. Il primo giugno
1918 è incorporato nel 28° reggimento fanteria mobilitato. Il 18 giugno è
ferito in combattimento a Collalto,: per la precisione, è colpito da pallottola di
fucile al pollice sinistro. Viene ricoverato nell’ospedale di Bologna. Il primo
dicembre 1919 è inviato in congedo illimitato perché riconosciuto
permanentemente inabile al servizio militare. Il 20 dicembre 1922 sono
dichiarati cessati per amnistia l’esecuzione e gli effetti penali della condanna
inflittagli nel 1918.
Storia di Giuseppe Previdi (1896)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Giuseppe Previdi
Data di nascita: 20 febbraio 1896
Luogo di nascita: Castelbelforte (Mantova)
Luogo di residenza: Castelbelforte (Mantova)
Professione: contadino
Statura: 1,62 m
Capelli: neri e lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, Sezione provinciale di
Mantova, serie “39. Mantova deceduti”, busta “da Ponzi a Priori”.
Giuseppe Previdi nasce il 20 febbraio 1896 a Castelbelforte (Mantova), da
Ariodante e Rosa Zanardi.
221
Soldato di leva di prima categoria in congedo illimitato, il 23 novembre 1915
viene chiamato alle armi e incorporato nel 24°, quindi nel 212° Reggimento
Fanteria. Il 30 agosto 1917 viene ferito in combattimento a Hoje, nell’attuale
Slovenia. Riporta una ferita da pallottola e una frattura al braccio destro. È
ricoverato in luogo di cura, quindi inviato in licenza straordinaria di sei mesi.
Il 22 giugno 1918 rientra al Deposito. Il collegio medico di Chieti, che in data
18 luglio 1918 lo sottopone alla visita, riscontra una perdita della
funzionalità delle dita della mano destra, un’atrofizzazione dell’avambraccio
e una semianchilosi del gomito destro e gli assegna una pensione vitalizia di
terza categoria. Nel luglio del 1919 è congedato perché riconosciuto
permanentemente inabile al servizio militare. Nel dopoguerra è autorizzato a
fregiarsi del Distintivo d’onore istituito con circolare 182 G.M. 1917 e della
Croce al merito di Guerra e del Distintivo d’onore per mutilati.
Informazioni relative alle operazioni militari a cui Previdi prese parte in
qualità di ciclista e porta ordini nel 1916 sono desumibili da un rapporto
informativo redatto il 19 maggio 1936 dal colonnello Giulio Pirola, che nel
1916 comandava il 3° Battaglione del 212° Reggimento Fanteria. Pirola
asserisce che Previdi partecipò, tra l’altro, alla conquista del trincerone del
Sabotino situato tra il fortino e la valle ???? e alla conseguente cattura di 800
prigionieri (7 agosto 1916); al passaggio dell’Isonzo a sud di S. Marco sopra
una passerella costruita con materiali di fortuna (9 agosto); alla conquista
della posizione di Santa Caterina, avvenuta alle prime ore del mattino dell’11
agosto. Il colonnello ricorda inoltre che il Previdi lo accompagnò, con pochi
altri, «in una arrischiata ricognizione eseguita sulle pendici nord-ovest del
Sabotino e sul fondo valle dell’Isonzo tra S. Marco e Plava». In seguito al
trasferimento sul Carso del 212° Reggimento, «Previdi – attesta il colonnello
– partecipò con esso alle azioni per la presa di Nova Vas e Hudi Log».
Ulteriori dettagli fornisce il capitano di complemento Umberto Prato, che il
25 aprile 1936 indirizza alla Sezione provinciale di Mantova
dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra una dichiarazione
relativa al servizio prestato da Previdi nel 3° Battaglione del 212°
Reggimento Fanteria tra il giugno 1916 e l’agosto 1917. Egli descrive il
giovane soldato mantovano come un «giovane pieno di amor patrio, vivace,
222
ardimentoso e molto preciso nel disimpegno degli incarichi a lui affidati». Il
capitano Prato ricorda in particolare che Previdi ebbe modo di dimostrare il
proprio valore in tre occasioni: dapprima «nelle epiche giornate della presa
di Gorizia (6-16 agosto 1916) specie per la conquista della collinetta di S.
Caterina, alle falde del monte S. Gabriele»; quindi «nei sanguinosi
combattimenti sul Carso, davanti alle posizioni di Oppachiosella [Slovenia]
(19 settembre-18 ottobre 1916); infine «nelle giornate di asprissime lotte
sostenute sull’altopiano della Bainsizza davanti alle posizioni di Hoje e di
Veternik dal 27 agosto 1917 in poi». Fu in quest’ultimo frangente – ricorda il
capitano Prato – che Previdi, incaricato di portare ordini del Comando di
Reggimento ai rispettivi Comandi di Battaglioni «noncurante del pericolo,
sotto nutrito fuoco nemico di artiglieria, mitragliatrici e fucileria, rimase
ferito da pallottola di fucile riportando frattura dell’osso del braccio destro,
che – scrive Prato – ricordo come se fosse ora, gli fasciai io stesso alla men
peggio facendo uso del suo e del mio pacchetto di medicazione». Prato
aggiunge infine: «Buono ed affezionato i ricordò nei primi tempi di degenza
in ospedali scrivendomi con mano sinistra, poi non ebbi più notizie».
Dal fascicolo conservato presso l’archivio dell’ANMIG non è dato sapere della
vita che Previdi condusse dopo la conclusione del conflitto. Sappiamo solo
che nel secondo dopoguerra egli risiede a Milano, in corso Roma n. 23, e
svolge la professione di impiegato. Nel fascicolo è inoltre contenuta una
lettera manoscritta che Previdi inviò inviata il 25 ottobre 1948 al presidente
dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invaldi. Previdi vi stigmatizza un
discorso tenuto pochi giorni prima (23 ottobre) dal deputato Ivan Matteo
Lombardo e riportato sul giornale «Avanti!». A parere dell’estensore della
lettera, Lombardo aveva espresso «giudizi offensivi che ledono l’onorabilità
dei mutilati di guerra e dei reduci là, ove precisamente dice che le aziende
sono gravate anche dalle imposizioni per l’assunzione obbligatoria dei
mutilati e dei reduci». Previdi sollecitava il presidente dell’ANMIG a levare
«formale vibrata protesta per questi insulti» nella convinzione che essa
sarebbe stata approvata «dalla gran massa dei mutilati e reduci».
Storia di Vittorio Renoldi detto Belòchio (1894)
223
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Vittorio Renoldi detto Belòchio
Data di nascita: 3 ottobre 1894
Luogo di nascita: Acquanegra sul Chiese (Mantova)
Luogo di residenza: Acquanegra sul Chiese (Mantova)
Professione: contadino
Statura: 1,69 m
Capelli: biondi e lisci
Occhi: grigi
Fondi di riferimento:
Testimonianza orale di Vittorio Renoldi raccolta da Gianni Bosio ad
Acquanegra l’11 dicembre 1965. Il nastro originale è conservato presso
l’Istituto Ernesto De Martino di Firenze, Fondo Ida Pellegrini; una versione
parziale del racconto è contenuta nel disco 33 giri Addio padre. La guerra di
Belochio, di Palma e di Badoglio, a cura di P. Boccardo, G. Bosio, T. Savi,
Milano, Edizioni del Gallo, 1966. La trascrizione del racconto in dialetto
acquanegrese e la traduzione in italiano si trovano in Gianni Bosio, Il trattore
ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, a cura di
C. Bermani, Bari, De Donato, pp. 45-56. Altre informazioni sulla
partecipazione di Belòchio alla guerra sono state desunte da: Archivio di
Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Liste di leva, reg. 447, n. 31;
Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,
matricola 33290; Tullio Savi, Vittorio Renoldi detto Belòchio, in «La Comune
di Acquanegra sul Chiese», Bollettino non periodico della Lega Culturale, 16
ottobre 1966, pp. 8-9.
Vittorio Renoldi nasce ad Acquanegra sul Chiese il 3 ottobre 1894 da Leandro
ed Erminia Facchinelli. Il 16 maggio 1914 viene sottoposto alla visita di leva
ed è dichiarato abile e arruolato di prima categoria. Dopo essere stato inviato
in congedo illimitato, nel settembre dello stesso anno è rinviato in congedo
224
provvisorio in attesa del congedo del fratello Guglielmo della classe 1890. Il 5
novembre 1914 è chiamato alle armi per effetto del comma 2 della Circolare
1907 del Giornale militare 1914 ed arruolato nel 6° Reggimento Fanteria. In
seguito allo scoppio del conflitto viene trattenuto alle armi. Il 5 giugno 1917 è
incorporato nel 139° Reggimento Fanteria. Apprendiamo dalla testimonianza
di Gianni Bosio che Renoldi combatté sul Carso, a Cervignano, a Monfalcone
al Sabotino, a Seibusi, a Gradisca, a Grado, a Sagrado, a Doberdò, a Dosso Faiti.
Lo stesso Bosio riferisce che egli si distinse «per coraggio e astuzia anche fra
gli Arditi».
Nell’agosto 1917 viene mandato in licenza e fa ritorno ad Acquanegra. Il 31
agosto dello stesso anno è imputato del reato di diserzione e denunciato al
Tribunale di guerra. Pochi giorni dopo, il 7 settembre, si presenta
spontaneamente al corpo, ma il 23 ottobre viene comunque condannato a
due anni di reclusione. L’esecuzione della pena viene sospesa per la durata
della guerra. Il 13 novembre 1917 passa in forza al deposito del 10° Fanteria
perché ricoverato nell’Ospedale militare di Torino. Il 30 dicembre è inviato in
licenza straordinaria di convalescenza per giorni 11 e il successivo 16
gennaio rientra al corpo con giustificato ritardo. Dopo la conclusione della
guerra, il 3 luglio 1919, lo troviamo ricoverato all’Ospedale militare
principale di Verona. Nell’agosto successivo è inviato in licenza di
convalescenza di sei mesi. Rientrato al deposito nel febbraio 1920, alla fine di
marzo è ricoverato all’Ospedale militare di Torino. Gli viene concessa una
nuova licenza di convalescenza di sei mesi, al termine della quale rientra al
deposito. Il 26 ottobre 1920 è inviato in congedo illimitato.
Ricorda Gianni Bosio che ad Acquanegra sul Chiese negli anni del dopoguerra
i bambini trascorrevano le sere d’estate ad ascoltare le «interminabili storie»
narrate dai reduci: «non fatti, episodi, cronache, ma lunghe fabulazioni, come
per racchiudervi l’arco delle sofferenze. Fango e pidocchi, gelo e acqua, e la
fame, una grande fame, e la paura dei cecchini e il terrore dei tedeschi».
Belòchio, dotato dell’arte di raccontare, è tra questi cantori. Quando rientra
ad Acquanegra dopo il congedo, comincia a narrare ai compaesani le proprie
peripezie. «Ascoltate signori chi sono i vigliacchi colpevoli di questa guerra»:
così egli esordiva, apostrofando il pubblico. Dopodiché cominciava a cantare,
225
accompagnandosi con l’organetto, la canzone Ascoltate o popolo ignorante
(sull’aria di Addio padre). L’11 dicembre 1965 Gianni Bosio registrò al
magnetofono la performance di Belòchio. Bosio registrò anche la narrazione,
fatta da Belòchio in dialetto acquanegrese, di quando egli fu imputato di
diserzione e mandato davanti al tribunale di guerra (una versione parziale
del racconto è compresa nel disco Addio padre).
Sappiamo dunque che nell’agosto 1917 Belochio, «che si era battuto dal
primo giorno sul Carso», viene mandato in licenza. Egli decide di prolungare
il soggiorno di qualche giorno per aiutare – egli dice – la famiglia nei lavori di
campagna (ma anche, puntualizza Bosio, «per stare con gli amici, andare in
giro a bere, cantare fino a notte tarda»). Alla fine si mette in viaggio, con altri
sette o otto compaesani, per far ritorno al fronte. Ma fa poca strada, perché al
ponte sul Chiese di Canneto una pattuglia dei carabinieri lo ferma e gli chiede
di esibire la licenza. Belòchio, sapendo che «gh’éra l’urden de Cadorna che
dopo ventiquatr’ure de ritàrt i’a tiràa iò de la sguasa [li fucilavano]»,
tergiversa per un po’, ma a fronte delle insistenze dei due carabinieri, li
aggredisce e li disarma. A questo punto dice ai compagni di scappare per la
strada che portava a Calvatone; quanto a lui si sarebbe diretto verso Piadena.
Rientrato al reparto, il capitano, che gli voleva bene, (mentre il maggiore non
lo poteva vedere a tal punto che – dice Bèlochio – «’ulie cupàal, ma ghe lo mai
caada» [volevo ammazzarlo ma non ci sono mai riuscito]) lo interroga sulle
ragioni del ritardo. «G’ò la famìa, l’è en disàster, i gh’ìa bisogn» - risponde
Vittorio. Due giorni dopo viene arrestato e informato da un caporale che
sarebbe stato processato: «o vaca madona!» esclama Belòchio, che confessa:
«g’ò ciapàt ‘na püra e sè che sie iü de quèi spiritùs». In attesa del processo,
Vittorio sconta ventiquattro giorni di carcere a Sacileto [forse Saciletto i
provincia di Udine]. Il giorno del processo – egli racconta – «i ne tira fora d’en
suteràneo en quatòrdes […] ligàt cu la cadena cusè du per du». Vittorio viene
interrogato per dodicesimo (i primi dieci imputati erano stati condannati alla
fucilazione e l’undicesimo all’ergastolo). Un colonnello, puntandogli addosso
un «canüciàl» (Belòchio allude forse a un monocolo), sentenzia: «a casa avete
fatto i vostri porchi comodi e qua li sconterete». Lo salva dalla condanna a
morte la «buonacondotta» che egli aveva tenuto sino ad allora, confermata
226
dal suo capitano, che nel proprio rapporto aveva assicurato che il soldato
Renoldi si era sempre distinto negli attacchi. Viene condannato a vent’anni,
poi commutati a due. Nei mesi successivi alla sentenza, ogni qual volta si
teneva una fucilazione di un soldato condannato a morte, Belòchio viene
chiamato a presenziare: «se te gh’ìet mia mangià, te ‘egniet a casa te mangiaet
mia po’» , così egli commenta lo spettacolo raccapricciante a cui era costretto
ad assistere. Un giorno davanti al plotone di esecuzione passa un soldato di
Parma, che Belòchio conosceva:
«l’era lò sentàt su la scragna cusè, l’à saludàt toc i so pütei, l’à ciamàt el prim
pütèl – el ghe n’ìa tré u quater – so muiér so pader e so mader e po’ dòpu el
g’à dumandàt la gràsia de daga ‘na sigarèta, àrda la sént de forsa, la gente
forte, l’à tiràt do canade e po’ el gà dìt “sparate vigliacchi italiani”». Quando
fucilano un uomo, conclude Belòchio di fronte a tanto orrore, «la tèsta la vò
en taint tòc, en tanc tuchelì».
Storia di Mario Renzanigo (1898)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Mario Renzanigo
Data di nascita: 1898
Luogo di nascita:
Luogo di residenza:
Professione: studente
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
227
Necrologio apparso su «La Provincia di Mantova», 17 giugno 1919; Caduti e
decorati di guerra mantovani, 1915-1918, Mantova, Editrice S.T.E.M., 1922, p.
98.
Mario Renzanigo, fu Luigi, classe 1898, studente del Regio Istituto Tecnico “A.
Pitentino” di Mantova, allo scoppio della guerra interruppe gli studi e si
arruolò volontario. Ciclista ad Ala, aspirante ufficiale dei Bersaglieri sul
Carso, fu ancora aspirante sul Monfenera, dove conquistò la medaglia
d’argento, quindi sottotenente a Zenzon. Promosso tenente, il 17 giugno 1918
«cadeva fra le opposte linee sull’Ecchele in quella mirabile difesa degli
altipiani e restava là nel tumultuare della battaglia con la spina dorsale
spezzata, senza soccorsi, finché lo riportava nelle nostre file il suo caporal
maggiore tra il fuoco infernale delle mitragliatrici. E aveva ancora tanto
animo da confortare il caporale: “Coraggio Tiberi, presto tornerò fra voi!”. Ma
non tornò». Quando giunse all’ospedale di Fontanella di Conco era già spirato.
Aveva 19 anni e mezzo.
Il suo nome è inciso sulla lapide collocata il 9 maggio 1937 nell’atrio
dell’Istituto Tecnico Pitentino in onore dei 35 studenti dell’ITES caduti nella
prima guerra mondiale. La lapide recita «Morti per la patria rivivono qui
donde mossero al sacrificio e alla gloria MCMVX-MCMXVIII».
Storia di Oliviero Sandri (1898)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Sandri Oliviero
Data di nascita: 6 aprile 1898
Luogo di nascita: San Giovanni in Persiceto (Bologna)
Luogo di residenza: Mantova
Professione: studente
Statura: 1,74 m
Capelli: castani e lisci
228
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.
484/239; Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli
militari, matricola; Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano (AR), lettere di
Oliviero Sandri alla famiglia (1915-1922).
Oliviero Sandri, di Luigi e Silvia Piazzi, nasce a San Giovanni in Persiceto il 6
aprile 1898. Il 3 febbraio 1917, egli viene dichiarato abile e arruolato di
prima categoria «senza visita perché arruolato volontario per la durata della
guerra nel 114° Reggimento Fanteria». Allo scoppio della guerra, nel 1915,
Sandri, infiammato da spirito patriottico, si era infatti arruolato volontario,
contraffacendo il proprio documento d’identità. Scoperta la sua vera età, egli
viene rinviato a casa. Riparte l'anno dopo per andare in trincea, vive la disfatta
di Caporetto e la resistenza sul Piave, fino alla vittoria. Della storia di Oliviero
Sandri sono straordinario documento le molte lettere che egli inviò dal fronte
ai famigliari tra il 1915 e il 1922. Non è stato possibile visionare la
documentazione, conservata presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano,
ma si è scelto comunque di redigere una brevissima biografia di Sandri, la cui
vicenda, in virtù della propria singolarità e della rilevanza della
documentazione pervenutaci, potrà essere approfondita nella prospettiva di un
ulteriore sviluppo del progetto Giovani 14.
Storia di Antonio Soldi (1896)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Antonio Giuseppe Francesco Soldi
Data di nascita: 7 novembre 1896
Luogo di nascita: Castel d’Ario (Mantova)
229
Luogo di residenza: Castel d’Ario (Mantova)
Professione: studente in medicina
Statura: 1,70 m
Capelli: neri e lisci
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,
b. 1 (1896-1900).
Antonio Giuseppe Francesco Soldi nasce a Castel d’Ario il 7 novembre 1896
da Arnaldo Stefano Soldi e Teresa Maria. Soldato di leva di prima categoria
lasciato in congedo illimitato il 14 settembre 1915, nel no, il 23 novembre
dello stesso anno Soldi, allora studente in medicina, viene chiamato alle armi
e arruolato con il grado di caporale nella 4a Compagnia Sanità con la
mansione di aiutante. Il 22 marzo 1916 viene promosso sergente. Il 4 giugno
1916 viene inviato in zona di guerra in servizio presso il 35° Ospedaletto da
campo someggiato dislocato a Drezenca, zona Monte Nero di Caporetto. Il 25
ottobre 1917, in seguito alla battaglia e alla successiva rotta di Caporetto,
viene fatto prigioniero. Rimpatriato dalla prigionia il 20 ottobre 1918 e
trattenuto alle armi per mobilitazione in forza dell’articolo 133 del Testo
Unico delle leggi sul reclutamento del regio esercito, il 14 gennaio 1919 è in
servizio presso il Campo di concentramento ex prigionieri di guerra di
Mirandola. Il 7 febbraio 1919 gli è concessa una licenza speciale di sei mesi;
nel dicembre 1919 è inviato in congedo illimitato.
Il 3 luglio 1921 consegue la laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università
di Bologna. Dal primo gennaio 1928 è Direttore Primario presso l’Ospedale
Civile di Gonzaga e, a decorrere dalla stessa data, a Gonzaga presta servizio
come medico chirurgo. Il 29 gennaio 1935 consegue il diploma di
specializzazione di Pediatria presso l’Università di Modena. Il 20 aprile 1939
è dispensato dal richiamo alle armi per mobilitazione in quanto medico
chirurgo di Gonzaga. Il 13 febbraio 1941 è destinato all’Ospedale Militare di
230
Padova per servizio di prima nomina della durata di un mese, che espleta
effettivamente tra il maggio e il giugno 1941. Il tenente colonnello medico
Saverio Versori, che in data 1 primo settembre 1941 redige il profilo
caratteristico del tenente Soldi, lo descrive come un «esperto chirurgo, dotato
di buona coltura e di buona tecnica, agguerrito da lunga pratica. […] Modesto
– precisa il relatore – sa farsi rispettare ed amare dai colleghi e dal personale
dipendente per la sua attività, per la sua educazione e per i suoi sentimenti
patriottici».
Il 2 febbraio 1942 Soldi consegue la specializzazione in Ortopedia presso
l’Università di Milano.
Il 13 dicembre 1951, in forza della Circolare ministeriale n. 0/200/3 S.G.
aprile 1950, riceve un rimprovero da parte del Ministero della Difesa per
aver giurato fedeltà alla Repubblica Sociale Italiana.
Storia di Maro Taraschi (1895)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Mario Taraschi
Data di nascita: 3 febbraio 1895
Luogo di nascita: Gazoldo degli Ippoliti (MN)
Luogo di residenza: Gazoldo degli Ippoliti (MN)
Professione: «impiegato avventizio» (all’epoca della sua associazione
all’ANMIG, nel 1921)
Statura:
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
Relazione di Guerra del mutilato Taraschi Mario, in Archivio dell’Associazione
Mutilati e Invalidi di Guerra, Sezione provinciale di Mantova, Serie “Soci
231
morosi 1863”, busta M-Z, fascicolo “Taraschi Mario”. La relazione non è
datata, ma sulla base di riferimenti testuali (riferimento al sistema
podestarile) e di altri documenti conservati nel fascicolo a lui intetstato,
possiamo supporre che sia stata redatta nel 1930 circa. La relazione consta di
27 pagine dattiloscritte.
Nato a Gazoldo degli Ippoliti (MN) il 2 febbraio 1895 da Taraschi Calpurnia e
da padre ignoto. Arruolatosi volontario nel Regio Esercito nel 4° Battaglione
Ciclisti-Torino del 4° Reggimento Bersaglieri, il 1 giugno 1915 partì per
Spilimbergo sul Tagliamento (Pordenone), ove rimase fino alla metà di
agosto del 1915. Il 4° Battaglione Bersaglieri Ciclisti fu quindi destinato a
Ronchi di Monfalcone (Gorizia): qui restò fino al 19 ottobre 1915. Nella sua
relazione Taraschi narra alcuni episodi di guerra, in cui trovarono la morte
propri commilitoni, tra i quali il bombardamento del palazzo del Comando di
Divisione in cui perse la vita il caporale Cesare Azzi (classe 1893) di
Castellucchio di Mantova. Un altro episodio ebbe luogo ai primi di settembre,
quando in prima linea «infierivano gli attacchi e i contrattacchi». Taraschi,
che era stato posto a capo della guardia che doveva prestar servizio al bivio
per Ronchi e Monfalcone, avvistò l’auto reale, con a bordo «S.M. IL RE
D’ITALIA», appressarsi al bivio: si affrettò a schierare la guardia e a ordinare
il presentat-arm in onore al sovrano, ma l’auto non era ancora arrivata al
bivio quando il sopraggiungere di un proiettile costrinse il drappello
capeggiato da Taraschi a rifugiarsi in un fossato vicino. Uscito dal rifugio, egli
vide l’auto reale «mentre faceva la curva della strada avendo così certezza
che nulla di grave era avvenuto».
Il 19 ottobre il battaglione a cui apparteneva Taraschi fu mandato in prima
linea, in località Cave di Seltz: «Partimmo con animo sereno – egli scrive – e
persuasi che l’ora era giunta per dar alla patria quanto chiedevaci». All’alba
del 21 ottobre partirono per andare a occupare la posizione loro assegnata:
«Si camminava curvi e quasi strisciano a terra per tenerci nascosti il più
possibile». Nell’ascesa furono superati da un reggimento di fanteria, di cui
faceva parte un soldato, il quale, sentendo Taraschi parlare in dialetto
mantovano, lo riconobbe quale suo compaesano: «mi chiese: di dove sei?
232
Mantovano, di Gazoldo degli Ippoliti, Anch’io diss’egli e pronunciammo il
nome e cognome, ma non ci conoscevamo, egli abitava al capoluogo ed il
sottoscritto alla frascione [sic] e nulla più si disse perché il suo reparto
cominciò a salire. Questi era Corradini Otello, l’attuale podestà di Gazoldo
degli Ippoliti».
Il plotone, di cui Taraschi faceva parte, piazzato «in un punto di fronte al
monte Cosich», subì svariate perdite. Poiché i soldati semplici erano quasi
tutti feriti, il sergente mandò Taraschi di vedetta, sebbene quest’ultimo fosse
caporale. La postazione che egli occupava cominciò ben presto a esser colpita
dal fuoco nemico: «di quando in quando guardavo dalla feritoia – egli ricorda
– ed il nemico ben presto s’accorse che ero troppo imprudente e ciò a mezzo
degli apparecchi che dicevasi fosse provvisto e che certo è a ritenersi verità
perché subito venni fatto segno a fucilate». Alle fucilate seguirono le bombe;
la quarta andò a battere contro la mura costruita con sacchetti pieni di sassi,
che si trovava alle spalle di Taraschi: «Qui posso dire – egli osserva – che lo
spirito di presenza tante volte salva da morte certa»: portatosi istintivamente
il braccio dietro la nuca, a protezione di quella parte del capo che non era
coperta dall’elmetto, una scheggia gli colpì l’avambraccio sinistro. Dopo che
gli fu prestato un primo soccorso al Posto di medicazione, Taraschi fu inviato
all’ospedale di Terzo e da qui, con il treno ospedale, a quello di Cremona
Seminario, dove fu sottoposto a un’operazione chirurgica per l’asportazione
della scheggia. A Cremona ricevette la visita dei propri famigliari. Venne
quindi trasferito all’ospedale di Nocera Pagani, in provincia di Salerno. Dopo
dieci giorni di licenza, fece ritorno al Deposito del 4° Bersaglieri a Torino, ove
rimase per due mesi perché ritenuto «inabile alle fatiche di guerra». Ai primi
di luglio del 1916 fu inviato al fronte, a rinforzo del 2° Battaglione Bersaglieri
Ciclisti, schierato in Trentino. Dopo poco il 2° Battaglione fu trasferito sul
Carso. Nel corso del trasferimento Taraschi fu coinvolto in un incidente
ciclistico, riportando una contusione al ginocchio sinistro: passò quindi otto
giorni all’ospedale e dieci al convalescenziario. Dopodiché fu reintegrato al
2° Battaglione Bersaglieri e inviato a Gorizia per prestare servizi di retrovia.
In seguito ad un aggravamento dell’infiammazione del ginocchio fu spedito,
con treno ospedale, a Milano, ove rimase due mesi. Dopo ulteriori quaranta
233
giorni di licenza, venne reintegrato al 2° Bersaglieri di stanza a Roma, quindi
al 70° Battaglione di marcia, infine al 20° Bersaglieri, che venne inviato in
Trentino. Il reggimento si accampò ai piedi del monte Cimone. Ai primi di
luglio del 1917 fu trasferito dal battaglione marciante alla compagnia ciclisti,
che partì per dar rinforzo al 4° Battaglione Bersaglieri Ciclisti, che si trovava
a Udine. Da Udine il battaglione avanzò verso il fronte, nei pressi di Sagrado,
ma fu poi nuovamente inviato in Trentino, nei pressi di Asiago, «dove
dicevasi – spiega Taraschi – che doveva iniziare una grande offensiva
nemica». Il 27 ottobre 1917, all’una di notte suonò l’allarme: i soldati si
prepararono per la partenza e, carichi di viveri e munizioni, inforcarono le
biciclette. Strada facendo, cominciarono a giungere loro notizie sugli
avvenimenti di Caporetto. Arrivati all’imbrunire nei pressi di Udine, la
mattina successiva ripresero il viaggio sotto la pioggia battente. A causa di un
guasto alla bicicletta, Taraschi, insieme con altri soldati, rimase attardato
rispetto al gruppo principale, di cui si perdettero le tracce. A questo punto
della relazione si colloca la narrazione di un’azione di guerra di cui Taraschi
fu protagonista: non essendo riusciti a ritrovare il proprio battaglione,
Taraschi e i soldati posti sotto il suo comando, nel timore di essere
considerati disertori, si presentarono a una compagnia del 2° Battaglione
ciclisti. Qui ricevettero l’ordine di andare di pattuglia. Mentre espletavano il
servizio di perlustrazione e vedetta, videro arrivare un’auto austriaca:
sospettando che «sulla macchina vi fosse qualche ufficiale che tentasse
entrare nella nostra linea per persuadere i militari ad abbandonare le armi
asserendo che la guerra era finita», Taraschi ordinò di aprire il fuoco contro
l’auto che, colpita, precipitò in un fossato. L’auto trasportava – a detta di
Taraschi – il Generale austriaco Beckman che nell’imboscata perse la vita.
A questo punto Taraschi, con i due o tre soldati rimasti con lui, venne
coinvolto nella caotica ritirata delle armate italiane conseguente alla rotta di
Caporetto. Dopo tre giorni di viaggio, durante i quali dormì sui fienili delle
cascine incontrate lungo la strada, giunse nei pressi di Treviso, dove si
trovava il Comando di divisione. Inviato di nuovo al fonte, sul Tagliamento, il
battaglione a cui Taraschi era stato assegnato fu costretto a una nuova
estenuante ritirata attraverso le montagne. Allontanatosi dal battaglione con
234
alcuni compagni, per trasportare ad un posto di soccorso un compagno ferito,
dopo qualche giorni riuscì a rientrare al Comando di divisione. Il 27
novembre 1917 venne inviato in prima linea sul Piave, nella posizione Monte
Tomba Monfenera. Il 30 novembre, con cinque bersaglieri, fu collocato in un
punto della trincea, che egli giudicò assai pericoloso «perché per una trentina
di metri era piano ed in linea retta col Piave» e perciò facilmente
individuabile dal nemico: «consci della cattiva posizione scelta, – egli scrive –
rimanemmo fermi, ma melanconici perché dubitavasi assai e temevasi venir
presi di mira». Ciò che effettivamente accadde. Verso le 13 e 30, la trincea fu
colpita da una bomba, la cui esplosione provocò una carneficina. Taraschi,
gravemente ferito a un piede, ebbe la prontezza di spirito di fasciarsi la
gamba per arrestare l’emorragia, quindi si trascinò fuori dalla trincea. Fu
trasportato da un compagno al più vicino posto di medicazione e da qui in un
ospedale da campo di Possagno Veneto, dove subì l’amputazione della gamba
destra al terzo inferiore. Fu quindi trasferito all’ospedale di Vigevano. Mentre
si trovava a Vigevano un sabato mattina apprese dalla «Domenica del
Corriere» la notizia che i Regi Caranbinieri avevano ucciso il generale
Beckman, «quando invece ciò – puntualizza Taraschi – era avvenuto per
opera del sottoscritto colla propria squadra». Come si apprende dalla
documentazione contenuta nel fascicolo nominativo conservato nell’Archivio
dell’Associazione Mutilati e Invalidi di Guerra di Mantova, nel 1930 Taraschi
inviò copia della propria Relazione di guerra alla «Domenica del Corriere»
perché la pubblicasse e ristabilisse la verità. Tuttavia il giornale non
acconsentì alla pubblicazione.
Nel maggio 1919 Taraschi venne congedato e assegnato alla quarta categoria
delle pensioni di guerra. A conclusione delle proprie memorie egli precisa:
«Inscritto al Fascio dal 9-9-1921. Squadrista dalla prima formazione delle
squadre d’azione. Partecipò ai fatti di Volta Mantovana e alla Marcia su
Roma».
Storia di Luigi Trazzi (1897)
235
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Luigi Trazzi
Data di nascita: 23 agosto 1897
Luogo di nascita: Poggio Rusco (Mantova)
Luogo di residenza: (Mantova)
Professione: non nota (titolo di studio: diploma di ragioniere)
Statura: 1,68 m
Capelli:
Occhi:
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Brescia, Fascicoli ufficiali,
b. 1 (1896-1900).
Luigi Trazzi nasce a Poggio Rusco il 23 agosto 1897 da Luciano e Giuseppa
Belluzzi.
Soldato di leva di prima categoria lasciato in congedo illimitato dal 3 giugno
1916, il 26 settembre viene chiamato alle armi per mobilitazione in forza del
Regio Decreto 22 maggio 1915. Arruolato nel 7° reggimento Fanteria, il 17
novembre è Allievo Ufficiale di Complemento nella Scuola Militare di Modena.
Il 6 agosto 1917 prende servizio quale aspirante Ufficiale di Complemento
nella nona compagnia dell’8° Reggimento Bersaglieri di Verona. Il battaglione
eseguiva allora delle fortificazioni in seconda linea sul Col dei Stombi (nei
pressi di Cortina d’Ampezzo). Promosso Sottotenente di Complemento di
Fanteria, il 10 novembre 1917 viene fatto prigioniero in seguito al fatto
d’armi di Longarone. Nella battaglia di Longarone furono fatti prigionieri, dai
tedeschi e dagli austriaci, tra i nove ed i diecimila soldati italiani.
Gli italiani, in ritardo di quattro giorni rispetto al ritiro programmato, si
erano arresi di fronte a un nemico numericamente inconsistente, tanto che
l'episodio ebbe un vasto clamore a Roma e ci fu successivamente una
inchiesta promossa dallo Stato Maggiore, allo scopo di capire le motivazioni
236
di tale resa di massa. È assai significativo a tal proposito che nel fascicolo di
Trazzi si ritrovi un attestato rilasciato dal Ministero della Guerra nel 1919,
che certifica che «Nessun addebito può esser fatto, tanto dal lato penale
quanto dal disciplinare, al Sottotenente di Complemento Trazzi Luigi, per le
circostanze della lui cattura avvenuta il 10 novembre 1917 e per il tempo
passato in prigionia di guerra».
Il 10 dicembre Trazzi 1918 viene rimpatriato e inviato al Campo di
concentramento per ex prigionieri di guerra di Mirandola. Centinaia di
migliaia di soldati italiani che avevano trascorso mesi o anni nei campi di
prigionia degli Imperi Centrali al loro rientro furono costretti a una nuova ed
ingiusta forma di detenzione: quasi 270.000 uomini furono trattenuti, per
diverse settimane, nei Campi di concentramento di Mirandola, Castelfranco
Emilia e Gossolengo4.
Il 27 gennaio 1919 Trazzi rientra al deposito dell’8° Reggimento Bersaglieri;
alla fine dell’anno viene promosso Tenente e nel maggio 1920 posto in
congedo.
Da una memoria redatta a Verona il 20 maggio 1919 dal maggiore Fidi, già
comandante del 38° Battaglione Bersaglieri, apprendiamo ulteriori
particolari relativi al carattere di Luigi Trazzi e agli eventi che precedettero la
sua cattura. Fidi descrive l’aspirante ufficiale con tali parole:
«Disciplinatissimo, dimostrò subito volontà, sveltezza, intelligenza
nell’esecuzione di lavori campali affidatigli sulla Linea Rossa, ma ammirevole
sotto il tiro dell’artiglieria avversaria, tendente a disturbare i nostri lavori.
Queste doti, miste ad una cura meticolosa dei propri uomini, gli valsero la
stima e l’affetto dei suoi subordinati. Verso la metà di settembre 1917 –
prosegue il maggiore – il Battaglione si recò in prima linea e al suo plotone fu
affidato un tratto difficile sulla posizione detta “Punta del Naso”. Quando la
sua posizione, verso i primi di ottobre, venne bombardata di fianco e alle
spalle da un rapido tiro d’artiglieria nemica, ebbi occasione di rilevare nel
prefato ufficiale una serenità di spirito che gli valsero anche l’ammirazione
degli altri suoi superiori immediati e dei suoi colleghi. Durante il periodo di
trincea ebbe ad effettuare utili pattuglie di ricognizione, molto difficili per la 4 Cfr. Fabio Montella, Prigionieri in Emilia. I campi di concentramento per i militari italiani liberati dal nemico alla fine della Grande Guerra, Il Fiorino, 2008.
237
troppa vicinanza del nemico. Verso la fine di ottobre venne nominato sotto
tenente di complemento con anzianità 21 settembre 1917. Più lodevole la sua
condotta quando il 25 ottobre 1917 fu [il documento manoscritto è lacerato]
una rettificazione di linea con una ritirata sulla Linea Rossa. In detta
occasione la sua opera energica fu preziosa, come quella di tutti gli altri
ufficiali, mediante la quale tutto il Battaglione poté uscire completamente
illeso dalla zona battuta dal nemico. Fisicamente robusto e snello compì
lodevolmente la marcia di ritirata del 1917. Partecipò al combattimento di
Longarone e per quanto il suo comandante di compagnia cadesse gravemente
ferito, egli condusse più volte all’assalto il suo plotone con ammirevole
risolutezza e sprezzo del pericolo, finché sopraffatto dal numero superiore
dei nemici venne fatto prigioniero».
Trazzi fu decorato della medaglia commemorativa nazionale della guerra
1915-1918, istituita con R.D. n. 1241 in data 29 Luglio 1920. La decorazione
della Croce di Guerra gli fu invece negata. Nel luglio 1962 Trazzi inoltra al
Distretto militare di Verona un’istanza affinché, in virtù della sua
partecipazione al fatto d’armi di Longarone (10-11 novembre 1917), gli
venga rilasciata la Croce di Guerra, che aveva omesso di richiedere «nel
lontano 1919 dopo la smobilitazione e il congedo». Il riconoscimento del
servizio militare prestato gli avrebbe permesso di maturare «un utile periodo
ai fini della pensione relativa all’impiego in Istituzione di Pubblica
Beneficienza quale Segretario dell’Ospedale Civile di Poggio Rusco». Il
Distretto militare di Verona negò la concessione della decorazione,
informando Trazzi che «alla S.V. non compete la concessione della Croce al
Merito di Guerra, in quanto nel conflitto 1915-1918 non è stata in trincea per
un periodo minimo di un anno come stabilito dall’art. 3 circ. 171 G.M. 1918».
È deceduto a Piove di Sacco il 29 gennaio 1992.
Storia di Ruben Trotti (1898)
Dati anagrafici:
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Nome e cognome: Ruben Trotti
Data di nascita: 25 febbraio 1898
Luogo di nascita: Rodigo
Luogo di residenza: Rodigo
Professione: industriale
Statura: 1,69 m
Capelli: biondi e ondulati
Occhi: castani
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Verona, Distretto militare di Mantova, Ruoli militari,
matricola 12929.
Ruben Trotti, di Luigi e Angela Questua, nasce a Rodigo il 25 febbraio 1898.
Nel febbraio 1917 viene dichiarato abile al servizio militare e lasciato in
congedo illimitato. Chiamato alle armi per mobilitazione in forza del R.D. 22
maggio 1915, il 28 febbraio 1917 si presenta al distretto militare di Torino. Il
9 marzo – ha da poco compiuti 19 anni – è ammesso al volontariato di un
anno e incorporato al 6° Reggimento Artiglieria da Fortezza. Il 20 giugno
1917 è promosso caporale. Il 4 novembre 1918 si trova «in zona
d’armistizio». Il 1 gennaio 1919 è promosso sergente. Il 16 settembre 1920 è
inviato in congedo illimitato. Il 25 agosto 1921 si presenta al Distretto
militare di Mantova. Il 6 ottobre 1924 è iscritto sul ruolo 71 B della forza in
congedo dell’Artiglieria pesante del Distretto Militare di Torino.
La biografia di Ruben Trotti riveste un interesse non tanto per la sua storia
militare, quanto perché nel dopoguerra egli divenne proprietario di una delle
più note e fiorenti industrie alimentari italiane, la Bertolini.
L’azienda “Antonio Bertolini” era stata fondata nel 1911 nella frazione Regina
Margherita a Collegno. Il fondatore, Antonio Bertolini, aveva stabilito il primo
nucleo dell’azienda in una casa – prossima alla Chiesa di SS. Monica e
Massimo – dove aveva collocato una ruota sulla Bealera Becchia per azionare
la “pista”, ovvero la macina per le spezie. Gradatamente l’azienda s’ingrandì e
239
si trasferì nel sito di Corso Francia n.109. Nel 1935 alle redini della società
subentrò il Commendator Ruben Trotti, cognato di Antonio Bertolini, che
aveva sposato la sorella di Ruben, Adelaide. È peraltro assai probabile che già
prima della guerra Ruben fosse impiegato nell’azienda del cognato, come
lascia pensare la professione di «industriale» indicata sul foglio matricolare,
nonché il fatto che, quando, nel febbraio 1917, viene chiamato alle armi, egli
si presenta al distretto militare di Torino.
Abile imprenditore, nel corso degli anni Trotti riuscì a far diventare la
Bertolini un’azienda leader nel settore delle spezie e del lievito. Dal
matrimonio fra Ruben Trotti ed Emilia Chazallettes – esponente di un’altra
importante famiglia di industriali di Regina Margherita – nacque nel 1922
Carmi Trotti, che affiancherà nel corso degli anni il padre nella gestione
dell’azienda.
Storia di Luigi Zambelli (1892)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Luigi Zambelli
Data di nascita: 10 dicembre 1892
Luogo di nascita: Monzambano (Mantova)
Luogo di residenza: Ponti sul Mincio (Mantova)
Professione: contadino
Statura: 1,69 m
Capelli: castani e lisci
Occhi: grigi
Fondi di riferimento:
Archivio di Stato di Mantova, Distretto militare di Mantova, Leve militari, reg.
437/62; lettera di Luigi Zambelli pubblicata ne «Il cittadino», 26 ottobre
1915; Albo d’Oro degli Italiani Caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918,
240
vol.11, Lombardia, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato Libreria, 1932, p.
904.
Luigi Pellegrino Zambelli, di Isidoro e Domenica Bompieri, nasce a
Monzambano il 10 dicembre 1892.
Viene dichiarato abile e arruolato di prima categoria alla visita di leva
effettuata il 7 giugno 1892.
Il 18 ottobre 1915 scrive ai genitori:
Genitori carissimi,
anche stamattina mentre infuria un intenso fuoco di artiglieria da parte nostra,
mi accingo a scrivere per darvi miei notizie.
Grazie a Dio, anche dopo un così lungo periodo di vita disagiata, la mia salute è
sempre florida e l’appetito tremendo. Come sapete è dal 21 di luglio che sono in
linea di fuoco sempre sul fronte Carnico, tranne dieci giorni di riposo avuti in
trincea. Ho incontrato dei pericoli terribili e, per fortuna di Dio, tutti li ho
scampati.
Vi vorrei raccontare tante cosette, ma la censura non mi permette. Solo vi dico
che affronto ogni disagio con animo sereno, con coraggio e con la speranza di
ritornare presto fra le vostre braccia sano e salvo, dopo aver combattuto per
mesi e mesi su queste vette nevose il tanto odiato nemico. E allora non avrò più
bisogno di far parlare la penna: a voce vi racconterò i giorni della mia più bella
gioventù trascorsa in grotte come conigli.
Genitori carissimi con piacere vi devo far noto una cosa. In questi luoghi lontani
dalle famiglie, dagli amici, dai parenti, quella religione che in tempi più pacifici
era stata abbandonata specialmente dalla gioventù, oggi, mentre tutto il
mondo è travolto in un immenso dolore, si è fatta sentire ed anche il più
incredulo soldato, oggi è un fedele cristiano.
Il nostro Cappellano di tanto in tanto ci viene a trovare e ieri, giorno di
domenica, qui in trincea abbiamo assistito ad una magnifica cerimonia
religiosa: la S. Messa, ed alla fine di questa, circa un centinaio di soldati,
compreso me, abbiamo fatto la S. Comunione ed assieme a questa lettera vi
mando il ricordo della comunione fatta sul Fraikofel.
241
Come vi ho scritto in altre cartoline, attendiamo il cambio e circola la voce che
questa volta, se avrò grazia di ritornare giù, avremo un lungo riposo.
Termino col salutarvi affettuosamente tutti in famiglia. Vostro amato figlio
sergente,
Zambelli Luigi
Anche Zambelli, come altri soldati, attesta il risveglio religioso che si era
verificato al fronte, nelle trincee e sui campi di battaglia, e che aveva spinto
molti giovani a riavvicinarsi alla fede tradizionale, da cui si erano allontanati.
Possiamo immaginare per questi soldati la religione costituisse anzitutto una
fonte di conforto che permetteva loro di affrontare con animo più sereno i
cimenti quotidiani, proiettando in una prospettiva ultraterrena la precarietà
della propria vita, messa costantemente in pericolo; dalla lettera di Zambelli
emerge d’altro canto il ruolo della religione in quanto apportatrice di civiltà
in luoghi e tempi che parevano regrediti a una primitiva barbarie e tra
uomini ridotti a una condizione bestiale («in grotte come conigli» - scrive
Zambelli).
Il sergente Luigi Zambelli morirà il 20 settembre 1916 nell’ospedale da
campo n. 45 per ferite riportate in combattimento. Egli prestava servizio nel
145° reggimento fanteria.
Storia di Emilio Zappellini (1890)
Dati anagrafici:
Nome e cognome: Emilio Zappellini
Data di nascita: 12 novembre 1890
Luogo di nascita: San Benedetto Po (MN)
Luogo di residenza: San Benedetto Po (MN)
Professione: contadino
Statura:
Capelli:
242
Occhi:
Fondi di riferimento:
Emilio Zappellini, Memoria Vita Militare, scritta su un taccuino da tasca di cm
7x12 con copertina in cartoncino nero. Il manoscritto occupa le prime
quindici pagine. Il taccuino è attualmente in possesso degli eredi di Emilio
Zappellini. La Memoria è stata pubblicata in Fabio Piccagli ed Emilio
Zappellini, Scritti di vita militare, di guerra e di prigionia, 1914-18, a cura di
Giancorrado Barozzi, San Benedetto Po, 2000. Da integrare con il ruolo
matricolare
Emilio Zappellini è nato il 12 novembre 1890 a San Benedetto Po, dove è
morto l’11 dicembre 1960.
Arruolato nel 4° Reggimento Bersaglieri ha partecipato alla guerra italo-turca
nel 1911, alla prima guerra mondiale e alla seconda come richiamato nella
riserva. Ha prestato servizio per complessivi 92 mesi.
Le prime 7 pagine del suo taccuino sono occupate da un elenco di luoghi tra
cui i Luoghi da Richiamato 8 agosto 1914 sino al 22 Novembre 1914 e i
Luoghi da Richiamato 10 maggio 1915 sino al 10 agosto 1919. A quest’elenco
di luoghi fa seguito la Memoria Vita Militare vera e propria, che non si
configura come una narrazione consequenziale, circostanziata e dettagliata
dell’esperienza militare dell’autore, bensì come un elenco di veloci
annotazioni e brevi, quasi lapidari, commenti, preceduti da una data. A
differenza di narrazioni lunghe e coerenti, scritte a molti anni di distanza dai
fatti narrati e che pertanto forniscono un resoconto rielaborato a posteriori
di tali fatti, la tipologia di narrazione autobiografica, di cui il taccuino di
Zappellini costituisce un esempio caratteristico, è il frutto di una
registrazione condotta in presa diretta, nel momento stesso in cui gli eventi si
producono o poco dopo, e per di più in una condizione precaria, come il
frangente bellico, che soprattutto ai soldati semplici, qual era Zappellini, non
lasciava tempo e agio per dedicarsi alla scrittura. In questa luce si può
comprendere il carattere estemporaneo e lacunoso degli appunti di
Zappellini, i quali peraltro, se da una parte permettono una ricostruzione, per
243
quanto sommaria, della biografia del soldato – ad integrare la quale si
dovrebbe ricorrere al ruolo matricolare –, rivestono un’importanza rilevante
perché permettono di farsi un’idea dei giudizi e delle impressioni che un
giovane contadino ricavò dagli eccezionali eventi a cui ebbe a partecipare.
La memoria può essere suddivisa in tre parti: la prima riguardante gli
avvenimenti occorsi tra il 21 settembre 1914 (data della prima annotazione)
e il 9 novembre 1917, allorché Zappellini fu fatto prigioniero; la seconda
riguardante la prigionia in Ungheria, in Galizia e infine in Belgio, durata dal
novembre 1917 al novembre 1918; la terza, inerente il viaggio di ritorno in
Italia dopo la conclusione della guerra.
Nell’autunno 1914 Zappellini si trova ad Aviano (Pordenone), dove il
Reggimento di cui fa parte è impegnato – almeno così pare di comprendere –
in esercitazioni militari: «tattiche», marce, riviste. Di queste settimane egli
sottolinea soprattutto la fatica della vita militare: il 15 ottobre 1914 registra:
«Partiti dall’accantonamento tattica con Cavalleria e Artiglieria durata ore 8
ritornati ore 2 Faticosissima», mentre il 4 novembre, annotando che quel
giorno avevano marciato da Aviano a Caneva «con passo forzato», commenta:
«arrivato all’accantonamento più morto che vivo». Un altro aspetto che
emerge dalle note di Zappellini relative a questo periodo è la percezione del
contrasto tra le condizioni di vita dei soldati e quelle degli ufficiali. Il 18
ottobre, in una notte «burrascosissima con vento e pioggia», egli è di guardia
a Villa Policretti: mentre all’interno della villa «Signorine ed Ufficiali»
danzano allegramente sulle note di un’armonica, egli si sente « immerso nel
dolore facendo questa vitaccia».
Il 20 maggio 1915 Zappellini è a Brescia, da dove parte con due muli diretto a
Bugliacco. Tre giorni dopo, il 23 maggio, il suo reggimento partì a mezzanotte
da Siano (?) ed arriva alle ore sei del giorno successivo a Cadria (Brescia), che
si trovava allora in prossimità del confine austriaco. Il 1 giugno nuovo
trasferimento da Magasa (BS) a «Montagna Tremalla» (forse Zappellini allude
al Passo del Tremalzo, nei pressi di Tremosine, in provincia di Brescia) . Il 19
giugno trascorse l’intera giornata a caricare sacchetti per la trincea «sotto
gran pioggia»: «Memorabile», egli commenta. Dall’inizio di luglio del 1915
egli si trova a Storo, in provincia di Trento: qui egli ricorda di aver visto «Sua
244
Maestà V.E. III». Nel luglio dell’anno successivo è a Tiarno in provincia di
Trento. Il 31 luglio racconta di aver assistito alla fucilazione di un artigliere il
quale, essendo ubriaco, aveva accoltellato l’aiutante maggiore e due altri
artiglieri. Un’altra annotazione riguardante la giustizia militare è del 23
settembre 1916: «Questa sera a Bezzecca furono fucilati 5 Bersaglieri ed un
Cap. Maggiore per aver abbandonato una quota sorpresi dal nemico».
Il 9 novembre 1917 Zappellini viene fatto prigioniero a Villanova di
Longarone. La sera stessa a lui e agli altri prigionieri «fecero passare il Piave
a guado con l’acqua che sopravanzava il ginocchio». Della reclusione nel
campo di concentramento di Ostffyasszonyfa in Ungheria Zappellini ricorda
soprattutto «gran fame e freddo memorabile». Il 9 dicembre registra: «Questa
notte […] da sentinella tedesca fu ucciso un nostro compagno perché dalla fame
si era avvicinato alla cucina per rubare un po’ di patate».
Il 6 gennaio 1918 Zappellini parte da Ostffyasszonyfa e, dopo 8 giorni di
viaggio «assai tribulato» a bordo di un caro bestiame», arriva a Bučač nella
Galizia asburgica (nell’attule in Ucraina). La fame lo attanaglia a tal punto che
l’11 gennaio è costretto a cedere un asciugamano, «l’unico ricordo della mia
cara Teresa», in cambio di un tozzo di pane. Il 18 marzo i prigionieri partono
da Bučač per Libramont in Belgio. Per sottrarsi alle disumane condizioni di
detenzione Zappellini si finge malato e viene ricoverato all’ospedale di Namur:
scoperta la simulazione di malattia, trascorre in prigione «11 terribili giorni».
Il 17 giugno Zappellini e altri undici prigionieri partono da Ampsin (oggi nel
comune di Amay) per Liegi. Egli ricorda le manifestazioni di solidarietà della
popolazione belga: «le dimostrazioni che si facevano i belga erano una cosa
commovente ci regalavano ogni cosa, fiori baci, una cosa da piangere». Il 23
giugno 1918, al convalescenziario di Liegi, Zappellini incontra un certo
«Tenedini dell’Ospedaletto (Mantova)», che apparteneva allo stesso reggimento
di suo fratello e gli parlò di lui. Pochi giorni dopo, ad Ampsin, tentò invano di
essere esonerato dal lavoro per malessere: «Da un sergente Ungherese pigliai
tante botte una cosa incredibile e ci dovetti andare». Nell’autunno del 1918 egli
riceve, dopo mesi di silenzio, notizie da casa: «mi arrivarono oggi – scrive il 28
settembre – 7 cartoline in una volta che gioia piansi dalla contentezza».
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Insieme alle cartoline arrivarono anche un vaglia, che gli fu pagato in marchi e
otto pacchi di cibo.
L’ultima parte della Memoria riguarda il viaggio di ritorno dal Belgio all’Italia,
dopo la conclusione della guerra (dal 2 novembre 1918 al 10 dicembre 1918).
Il 2 novembre 1918 Zappellini lascia Ampsin; tre giorni dopo arriva a
Libramont, da dove la sua compagnia d’appartenenza riparte il 10 novembre
diretta al confine germanico. La «grande rivoluzione che vi era in Germania»
(egli allude alla rivoluzione di novembre che seguì il tracollo dell’impero
guglielmino) impedisce loro di attraversare la frontiera e li costringe a
cambiare percorso, dirigendosi verso la Francia. Il 19 novembre è a Verton,
«dove finalmente – egli scrive – ci incontrammo con gli Americani». Il 5
dicembre arriva al campo di concentramento di Cala Galera, nei pressi di
Orbetello. L’ultima nota è del 10 dicembre: «Oggi da Orbetello venni
all’accampamento sopra un Biplano per poco non morii dalla paura. Mai più».