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La predica dipinta. Gli affreschi del Trionfo della Morte e la predicazione domenicana di Lina Bolzoni Storia dell’arte Einaudi 1

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La predica dipinta.Gli affreschi del Trionfo della Morte e la predicazione domenicana

di Lina Bolzoni

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:in Il Camposanto di Pisa, a cura di Clara Baracchini eEnrico Castelnuovo, Einaudi, Torino 1996

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Indice

1. I mobili confini della predicazione in volgare 4

2. L’autorità del predicatore e il modello del deserto 10

3. Parole e immagini: i modi della recezione 16

4. Le voci che ‘parlano’ in volgare e la qualità dello sguardo 24

5. Immagini per la memoria e la meditazione 30

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1. I mobili confini della predicazione in volgare.

Al Vasari, l’inserzione delle scritte entro le scene delTrionfo della Morte nel Camposanto di Pisa decisamen-te non piaceva. E ci costruisce intorno, per spiegarla einsieme metterla alla berlina, una vera e propria storiache inizia a Pisa, nella chiesa di San Paolo a Ripa d’Ar-no: qui Buonamico Buffalmacco lavora in compagnia diBruno di Giovanni, «celebrato anch’egli come piacevo-le uomo dal Boccaccio». Poiché Bruno

si doleva che le figure che in essa faceva non avevano il vivocome quelle di Buonamico, Buonamico, come burlevole,per insegnargli a fare le figure non pur vivaci ma che favel-lassono, gli fece far alcune parole che uscivano di bocca aquella femina che si raccomanda alla Santa [cioè a sant’Or-sola] […] La qual cosa, come piacque a Bruno e agl’altriuomini sciocchi di que’ tempi, così piace ancor oggi a certigoffi che in ciò sono serviti da artefici plebei come essi sono.E di vero pare gran fatto che da questo principio sia passa-ta in uso una cosa che per burla e non per altro fu fatta fare,conciosiaché anco una gran parte del Camposanto, fatta dalodati maestri, sia piena di questa gofferia1.

L’uso delle scritte viene posto sotto l’insegna dellabeffa e inserito in una prestigiosa tradizione letteraria

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(«celebrato anch’egli come piacevole uomo dal Boccac-cio»); diventa anche emblema di una rozzezza intellet-tuale che cerca una facile scappatoia al problema dellavivezza della rappresentazione, prendendo alla letterauna metafora e dilatandola («fare le figure non pur viva-ci ma che favellassono»).

Da queste pagine del Vasari possiamo cogliere, maga-ri per antitesi, alcune suggestioni. Buffalmacco occupaoggi un posto di primo piano negli studi che cercano diricostruire la paternità degli affreschi pisani (che l’auto-re delle Vite attribuiva ad Andrea Orcagna)2. Da lonta-no e beffardo suggeritore di una rozza commistione diparole e di immagini, Buffalmacco si presenta ai nostriocchi come uno dei protagonisti dell’impresa. Non solo:se Vasari aveva proposto una chiave di lettura basatasulla beffa, sul comico, sul riso, l’intera operazione pisa-na, lo vedremo, si fa carico di un messaggio esattamen-te capovolto, esprime cioè una cultura della penitenza incui il riso appare come una tentazione diabolica3. Potrem-mo vedervi, paradossalmente, l’ultima di quelle beffeper le quali, come ci racconta il Boccaccio, Buffalmaccoera famoso.

La tendenza prevalente fra gli storici dell’arte, attual-mente, colloca gli affreschi negli anni Trenta del Trecen-to. Questo permette di individuare un insieme di testi checi offrono, a molteplici livelli, una preziosa chiave di let-tura: sono i testi prodotti nel convento domenicano diSanta Caterina di Pisa); fra di essi troviamo il volgarizza-mento delle Vitae patrum di Domenico Cavalca (1270 ca. -1342), opera indicata come fonte delle grandi scene dellaTebaide già nel manoscritto quattrocentesco in cui si con-serva gran parte delle epigrafi esposte a Pisa4. Fondato nel1221, il convento diventa, a partire dagli anni Settanta delDuecento, forse per intervento dello stesso san Tomma-so, un importante centro di studi teologici, filosofici e let-terari. Dotato di una buona biblioteca, particolarmente

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ricca proprio negli anni Trenta del Trecento, il conventomanda i suoi giovani più promettenti a studiare a Bologna,a Oxford e a Parigi; coltiva al suo interno – come ci testi-monia la cronaca – la musica e la miniatura, e svolge unruolo di assoluto rilievo quale committente di opere arti-stiche5. Intrattiene, inoltre, fitti rapporti con la vita dellacittà (agevolati dal fatto che per più di quarant’anni, frail 1299 e il 1342, i vescovi sono domenicani)6, svolgendofra l’altro attività didattica (i laici sono ammessi alle lezio-ni di teologia), organizzando confraternite e, soprattutto,predicando.

È per noi interessante notare che ai primi decennidel secolo, ovvero al periodo in cui si procede alla costru-zione del Camposanto e se ne avvia la decorazione pit-torica, risalgono le prime grandi raccolte di prediche involgare. Si tratta o delle trascrizioni (reportationes) diprediche dette – come nel caso di Giordano da Pisa(1260-1310)7 – o della rielaborazione di un ciclo di pre-diche scritte dallo stesso predicatore, così da farne ancheun repertorio di predicabili, un modello per gli altri con-fratelli, oltre che un testo leggibile anche dai laici: è ilcaso degli scritti del Cavalca e di Iacopo Passavanti(1302-57). Siamo di fronte a una svolta importante, a ungrande salto di qualità. La predica in volgare, quando èrielaborata e scritta dal predicatore stesso, passa dadiscorso di consumo, che si brucia nel breve spazio dellacomunicazione orale, a modello, a discorso di ri-uso8; nelcaso che il testo sia stato tramandato dalle reportationes,questo significa che tra il pubblico cittadino è presentenon solo chi è desideroso, ma anche capace di trascriverela predica, così da poterla conservare, leggere, medita-re9. Questa vicenda, strettamente intrecciata con l’ori-gine della nostra prosa letteraria, riguarda da vicinoanche l’ideazione degli affreschi, la loro progettazione einsieme la creazione di un pubblico cittadino in grado, adiversi livelli, di «leggere» gli affreschi, di farsi coinvol-

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gere in quel circuito fra parole e immagini – e fra imma-gini esteriori e immagini interiori – che il programma degliaffreschi richiede, prevede e anzi si sforza in ogni mododi produrre e di controllare. Allo stesso tempo, questosalto di qualità che, come si diceva, si verifica nei primidecenni del Trecento, è il punto di arrivo di una lunga ecomplessa vicenda: dei contrasti, delle fratture, delleesclusioni violente che tale processo comportava, anchela nuova fase di immagini, e di parole dette e scritte involgare di cui qui ci occupiamo, mantiene memoria etracce più che visibili.

Testi come quelli del Cavalca e del Passavanti sonostati oggetto di culto di una secolare tradizione puristache vi ha contemplato la purezza delle origini, lo splen-dore di una lingua letteraria nella sua fase primordiale.La degustazione puramente linguistica dei testi si è poiintrecciata a una lettura di tipo antologico, per cui sisono isolati gli exempla, le parti narrative che, in confor-mità ai tradizionali canoni della storia letteraria, eranole uniche parti interessanti in quanto prodromi dellanarrazione novellistica10. Se da un lato la stagione didegustazione puristica ha prodotto, fra Sette e Otto-cento, gran parte delle edizioni di testi che sono atutt’oggi disponibili, dall’altro è interessante, e al con-tempo paradossale, notare come il modo in cui la nostratradizione letteraria si è rapportata a queste fonti abbiafinito con il ripetere, con altri metodi, la logica di cen-sura e di violenta selezione da cui quegli stessi scrittierano nati. I testi volgari di predicazione e di edifica-zione a noi pervenuti sono, infatti, solo la punta di uniceberg: questo vale sia in rapporto con il complessodella predicazione orale, sia, soprattutto, perché queitesti sono il frutto di uno scontro molto duro, di unalotta senza tregua contro altre forme di predicazione, dicui quasi non ci sono rimaste tracce: la predicazione deilaici, delle donne, dei profeti del millennio, dei movi-

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menti ereticali. Proprio questi ultimi, anzi, avevano sco-perto e ampiamente utilizzato quel formidabile stru-mento di comunicazione di massa che era l’uso del vol-gare11. Nonostante che dall’813, nel Concilio di Tours,la Chiesa avesse chiesto ai vescovi di predicare «in rusti-cam romanam linguam», è vero, tuttavia, che tale indi-cazione era rimasta largamente disattesa fino al xiii seco-lo, quando gli ordini mendicanti si impegnano in unapredicazione capillare che, sia pure con cautele e resi-stenze, ricorre al volgare, indirizzandosi dunque allemasse cittadine con quello strumento che aveva garan-tito agli avversari larga capacità di penetrazione. I dome-nicani, in particolare, affiancano alla campagna antiere-ticale un forte impegno di divulgazione del sapere ela-borato negli studia. È una scommessa difficile: si trattadi comunicare in volgare un ricco patrimonio di culturascolastica, pensata, oltre che detta e scritta, in latino. Itesti delle prediche – e lo si vede bene soprattutto inGiordano da Pisa – vengono così a collocarsi per moltiaspetti in una zona di frontiera, i cui confini vengonodi volta in volta negoziati. Intanto i confini tra volgaree latino: i predicatori domenicani usano gli schemi pre-visti nei manuali, insegnati cioè dalle artes praedicandi,ma al contempo li modificano, li semplificano, e fannoi conti con la nuova letteratura volgare; inoltre, al disotto e dentro la veste volgare della predica, permaneuno schema logico-retorico latino che infatti scandisce imomenti centrali dell’articolazione del testo. Ma i con-fini diventano mobili e rischiosi all’interno stesso deicontenuti della predicazione, nel momento in cui si trat-ta di scegliere tra due esigenze contrapposte: divulgareun sapere che sia utile alla salvezza e all’elevazione delleanime e proteggere le sottigliezze della dottrina dallacontaminazione con il volgo. Si pone in moto, così, unintenso sforzo di traduzione linguistica e concettuale chetende alla comunicazione e insieme mette in scena se

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stesso, e quindi il margine di diversità, di non traduci-bilità, che separa il mondo del predicatore da quello delsuo pubblico.

Vediamo, ad esempio, come Giordano da Pisa ricor-ra ai termini più astratti della filosofia scolastica abbas-sandoli e rapportandoli al livello del pubblico, della suaesperienza quotidiana:

La carità si è forma ne l’anima. Forma forse non inten-dete bene: forma non è pur quella del calzaio o de la bir-retta. Ben son queste alcun modo di forma, ma formachiamano i savi quella ch’è in tutte le cose, per la qualetutte l’operazioni si fanno12.

La censura, in un discorso che si rivolge al pubblicocittadino, nei confronti delle «suttilissime cose e tuttele più profonde, e quelle di sommo lume»13, è una com-ponente della predicazione cattolica e diventa, nel con-creto dell’esperienza, una sorta di linea mobile da defi-nire di volta in volta in rapporto con le reazioni delpubblico. Leggiamo cosí, nella XXXII predica del Qua-resimale fiorentino, le lamentele di fra Giordano controchi, per ignoranza, ha dedotto dalle prediche prece-denti la non esistenza del libero arbitrio, e vi trovia-mo pure delle indicazioni su come gli uditori si possa-no premunire per perseverare nella retta via anchequalora abbiano udito cose superiori alla propria capa-cità di comprensione, e quindi pericolose14.

A qualche decennio di distanza, nei testi del Caval-ca, la diffidenza verso le «sottigliezze» predicate al pub-blico torna rafforzata e ampliata:

Quelli che si gloriano di essere tenuti e reputati – leg-giamo nella Disciplina degli spirituali, scritta dopo il 1333– spesse volte lasciano di predicare le cose utili e necessa-rie, e vanno predicando sottigliezze, novitadi e loro filo-

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sofie, le quali non solamente non giovano agli uditori, mapiuttosto gli mettono in questione e in errore, e i vizii, iquali erano da tagliare e da curare, non toccano15.

Il difficile equilibrio fra divulgazione filosofica eteologica e indottrinamento morale che fra Giordanoaveva perseguito, appare decisamente spostato, nel testodel Cavalca, sul versante della predicazione morale.

Ma soprattutto – a marcare la dimensione di lonta-nanza dal pubblico – il predicatore rivendica l’unicitàdella sua missione e della sua investitura. Nei passi incui la predica fonda l’autorità di colui che la espone, siritrovano con molta chiarezza le tracce di quelle predi-che altre che sono state spazzate via, le parole di queilaici che credevano nell’eretica dottrina della possibilitàdi un contatto diretto e personale con la Sacra Scrittu-ra. Afferma ad esempio fra Giordano:

Grande pericolo ad avere l’uomo ad ammaestrarealtrui! Ma sommo si è ad ammaestrare ne la Scrittura Santa,nelle pìstole, ne’ vangeli, perciò che in ciò s’apartiene la salu-te e la perdizione. Sono molti i matti, calzolaiuoli, pillic-ciaiuoli, e vorrassi fare disponitore de la Scrittura Santa.Grande ardimento è, troppo è grave offendimento il loro!E se questo è negli uomini, si è nelle femine maggiormen-te, però che .lle femine sono troppo più di lungi che .ll’uo-mo da le Scritture e da la lettera; e trovansi di quelle che.ssi ne fanno sponitori de la pìstola e del vangelio. Grandeè la follia loro, troppo è la loro scipidezza16.

Brani come questi, o come quelli in cui il Cavalcabeffeggia la superbia, le stolte pretese degli «idioti»,degli illetterati, che pretendono di discutere le Scrittu-re17, servono anche a comprendere il modo di guardaregli affreschi del Camposanto che i predicatori cercanodi costruire: lo spettatore, nel momento in cui si con-

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fronta con le immagini che hanno a che fare con il desti-no ultimo dell’uomo, con «la salute e la perdizione», perriprendere le parole di fra Giordano, è costretto a ricor-rere alla mediazione del predicatore, della Chiesa. Unapersonale esegesi delle immagini sarebbe un atto di peri-colosa superbia, quasi di eretica tentazione: l’occhio cheguarda gli affreschi deve nutrirsi della memoria delleparole del predicatore. Non solo, come vedremo, il giocoche si crea negli affreschi tra immagini e scritte è fattoin modo da guidare la recezione, da incanalare la lettu-ra in un’unica direzione: a rafforzare tutto questo, inter-vengono potentemente il principio di autorità, la vio-lenta polemica contro le folli pretese degli eretici, larivendicazione, da parte del predicatore, dell’unicitàdella sua investitura.

2. L’autorità del predicatore e il modello del deserto.

Oltre allo specifico status del predicatore, qualco-s’altro conferisce autorità al testo della predica. Chefosse possibile un rapporto diretto fra Scrittura e laiciera stato, ed era, come si diceva, componente essenzia-le della diabolica sfida lanciata agli eretici. Il predicato-re cattolico – domenicano in primo luogo – utilizza unastrategia testuale che garantisce la verità della media-zione da lui compiuta fra il testo sacro e il pubblico: intal modo, l’auctoritas non deriva soltanto dalla sua per-sona, ma dalla struttura stessa della predica. Le tecni-che del sermo modernus, insegnate dalle artes praedican-di, forniscono, infatti, sia gli strumenti per costruire lapredica, sia il metodo che garantisce la qualità del pro-dotto. Il versetto biblico da cui si prendono le mosse, ilthema, viene sottoposto a una serie di divisioni e ulte-riori suddivisioni; con un uso incrociato dei diversi sensidella Scrittura e delle partizioni scolastiche, si fa così

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crescere l’albero della predica, con i suoi diversi rami,dalla radice del passo biblico. In un predicatore colto eraffinato come fra Giordano, queste procedure vengo-no non solo impiegate, ma anche esibite, proprio percostruire, a più livelli, l’autorità del sermone. Si creal’impressione che il testo della predica non sia altro chela naturale scaturigine del testo divino, cosicché il pre-dicatore diventa un puro strumento:

È tanta la verità de la Scrittura Santa che, come dettoè, una parola non potrebbe preterire che non si adem-piesse… E però il predicatore, il pastore, quando dice laparola di Dio, odila con grande diligenzia, però ch’egli nonci ha a che .ffare neente, se non come la penna a lo scri-vere: lo scrittore è lo scrivano, non la penna. Così è delpastore, che non dice da .ssé: è a .mmodo del canale chenon ha l’acqua da sé, ma da la fonte. E così il pastore ècome il canale, che la Scrittura entra per lui da la fonte dela Scrittura, e versa al popolo18.

Le tecniche previste dalle artes praedicandi diventano,poi, motivo apologetico: se da un lato la predica, e le suecondizioni materiali, costringono fra Giordano a ritaglia-re solo alcune delle infinite ricchezze che ogni passo dellaScrittura contiene in sé19, dall’altro le tecniche di divisio-ne e di classificazione vengono esibite come procedureadeguate, come strumenti grazie ai quali è possibile rica-vare dal luogo biblico tutto ciò che serve per orientarsimoralmente nella vita quotidiana. Si veda, ad esempio, laterza predica del Quaresimale fiorentino, la prima delle dueche hanno come thema il versetto evangelico «puer meusiacet in domo paraliticus et male torquetur». L’introdu-zione sottolinea la funzione della Quaresima, tempo utilealla purificazione dal peccato. Per questo, dice fra Gior-dano,

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si è mestieri che .ssi conoscano tutte le circonstanzie etutti gli accidenti del peccato, acciò che .ssi possanocurare e vietare. E a vedere le circonstanzie del peccato,sì sono cinque, le quali tutte si mostrano per ordine inquesto infermo. Cinque cose dice il vangelo di questoinfermo: che primieramente e’ pone la persona de lo’nfermo, quando dice puer; apresso pone il modo, quan-do dice iacet…; apresso pone il luogo quando dice in

domo…; apresso fa menzione de la ’nfertade, quandodice paraliticus…; apresso pone la pena, quando dice et

male torquetur20.

Appare qui con chiarezza che la divisione del themanon ha solo la funzione logico-mnemonica di sottolinearele fasi di sviluppo del discorso: essa dimostra che ilpasso biblico concentra in sé, ordinatamente, tutto ciòche all’uomo serve di sapere. La predica rende esplicitoappunto tale ordine, lo fa diventare visibile e applicabi-le; allo stesso tempo, si diceva, fonda anche la propriaautorità.

Tutto questo, come già si accennava, ha una rica-duta sul modo in cui gli affreschi del Camposanto sipresentano alla recezione del pubblico cittadino: lavista non potrà essere immediata e diretta, ma dovrà,per così dire, farsi attraversare dalle parole del predi-catore.

C’è un altro aspetto della predicazione domenicana,quale si svolge a Pisa nei primi decenni del secolo, checostruisce l’autorità del predicatore, ne sottolinea l’alte-rità rispetto al pubblico cittadino e influenza da vicinolarga parte delle scene rappresentate. Le immagini chedescrivono la vita dei padri nel deserto hanno la lorofonte iconografica, come già si ricordava, nelle Vitaepatrum volgarizzate dal Cavalca. L’importanza che esseassumono negli affreschi del Camposanto, la loro giu-stapposizione, insieme naturale e violenta, alle scene più

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raffinate della vita cittadina (la nobile cavalcata che tornadalla caccia), si spiegano anche con alcuni motivi essen-ziali della predicazione domenicana già presenti, ad esem-pio, nei primi anni del secolo, nei testi di fra Giordano.Il luogo ideale del predicatore non è la città, ma il deser-to. L’atto stesso del predicare si presenta come conces-sione dolorosa, seppur necessaria; impone di andare frala gente, di strapparsi alla pace della solitudine monasti-ca, di affrontare, in una sfida quasi sovrumana, la cor-ruzione della città: «Onde non ci ha cosa migliore che ’lfuggire la gente: non si fa se non ai fortissimi, ai grandicampioni, ai perfetti, lo stallo de la città, acciò cheammaestrino gli altri»21. Le parole del Vangelo di Mat-teo sulla tentazione di Cristo nel deserto (Mt., 4) offro-no a fra Giordano l’occasione per denunciare i pericolidella vita urbana e per proporre a tutti il modello – alme-no spirituale – della vita eremitica nel deserto:

Stette Cristo tra bestie e con angeli, fuggie gli uomi-ni, fuggì il mondo, a dàrete exemplo che .ttu déi fuggirela gente e andare al diserto. Questo diserto può essere lacella tua, la casa tua, la camera tua… e però quegli chevogliono campare è mistieri che tutti escano del mondo oandàndosine al diserto o a la religione o fuggendo la gentein cheunque modo puoi, però che ’l dimonio ci è troppoforte. E la ragione si è per li molti aiutatori ch’egli ha: ogniuomo è uno atatore del demonio a farti cadere e pericola-re. E però che ne la città sono le molte genti, però v’è ilgrande pericolo, per li molti atatori del demonio: fuggen-do la gente fuggi tanti nemici22.

Il deserto diventa dunque l’immagine emblematicadi una scelta di vita, o almeno di una condizione di iso-lamento interiore, che rende possibile la meditazione ela contemplazione. In questo senso i predicatori dome-nicani lo propongono come ideale anche ai laici:

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E però vi dico: meglio vedi stare in camera tua, e pen-sare di Dio, e contemplare di Lui, che andare discorrendoqua e là, o a spedali, o dovunque altro ti piace. E spezial-mente è pericolo alle giovane questo andare attorno scor-rendo. Vero è che visitare le chiese, e gli altri luoghi pie-tosi è una cosa molto buona; ma pur quello è l’ottimacosa, perocché solo l’amore di Dio è quello che fa l’uomogiusto23.

Queste parole di fra Giordano trovano precisa cor-rispondenza in un altro testo:

avvegnaché siano da commendare quelli che stando nelsecolo intendono all’opera della misericordia e della vitaattiva, o in servire gl’infermi, o in ricevere i forestieri, oin altre buone opere, pure nientemeno queste opere nonsono senza alcun pericolo e non sono così nobili, perocchésono congiunte e intendono a cose corruttibili e a materiaterrena. Ma quegli che studia nell’esercizio della mente edà opera alla contemplazione, è da giudicare molto miglio-re, perciocché questo cotale apparecchia nel suo cuoreluogo dove lo Spirito Santo vegna ad abitare24.

La coincidenza è per noi molto significativa: ilbrano citato è tratto dalle Vite de’ santi Padri del Caval-ca, in particolare dalla predica che san Giovanni Ere-mita, ormai in punto di morte, indirizza ai monaci.Vediamo allora che la straordinaria ampiezza narrativacon cui gli affreschi del Camposanto rappresentano laTebaide ha radici profonde e lontane: è la concretizza-zione di un luogo ‘altro’, è la rappresentazione di unadimensione che, storicamente lontana nel tempo e nellospazio, è però chiamata a rivivere nella dimensioneinteriore, dentro (e al contempo fuori da) la vita citta-dina. È interessante sottolineare che, nel momento stes-so in cui la predicazione domenicana si è fortemente

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radicata nella città, facendo i conti con le trasforma-zioni intervenute a livello economico, sociale e cultu-rale25, essa costruisce una propria dimensione di alteritàriproponendo il modello del deserto, già presente –come accennato – in fra Giordano e collegato al fasci-no della meditazione, della vita ascetica e contemplati-va. Se con Cavalca, e con gli affreschi del Camposan-to, il motivo del deserto avrà una vera e propria esplo-sione narrativa, così da tradursi in una serie di exemplavisualizzati e proposti al pubblico cittadino, a fine seco-lo, nel convento di Santa Caterina, la linea asceticatrionferà in un testo molto raffinato, interamente dedi-cato a un’esperienza tutta interiore e individuale: è ilColloquio spirituale di Simone da Cascina (1390 ca.), ilquale insegnerà a costruire immagini interiori che gui-dano alla purificazione morale e all’esperienza mistica26.La grave crisi legata allo Scisma d’Occidente fa senti-re evidentemente il suo peso e al contempo radicalizzauna tendenza antica.

3. Parole e immagini: i modi della recezione.

La città è dunque per il predicatore domenicano ilsuo luogo di azione e, insieme, il terreno di uno scon-tro. Nello spazio cittadino, il predicatore entra in con-correnza con altri personaggi che attirano l’attenzionedel pubblico e che rappresentano una cultura del tuttoalternativa: la cultura del riso e del piacere. «In verità– scrive il Cavalca – grande giudicio di Dio è questo cheveggiamo molti piuttosto correre a’ giullari ed a udire evedere le loro ciance, che bisogna poi che la paghino, cheandare a udire il predicatore che dà poi loro il perdo-no»27. La concorrenza del giullare si fa particolarmentepericolosa nei momenti critici della vita:

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Con gli loro canti a modo di sirene – scrive sempre ilCavalca – fanno addormentare i miseri peccatori nelle tem-peste del mare di questo misero mondo, sicché non s’av-veggano quando caggiono nello inferno. E come avvienemassimamente a molti infermi, i quali dovendo pensare del-l’anima ed ordinare i fatti loro, e piagnere i peccati loro,fanno venire i giullari e cantori e ballerini per passar tempoe fuggire i pensieri della morte; e così muoiono i miseri ne’peccati, e vanno da quello canto all’eterno pianto28.

«Fuggire i pensieri della morte»: esattamente oppo-sto è il messaggio proposto dalla predicazione domeni-cana e dagli affreschi del Camposanto: sia nelle imma-gini che nelle scritte in volgare che le accompagnavano,la morte vi appare libera, potente, imprevedibile, pron-ta a colpire chi non si cura di lei e a disdegnare coloroche, in preda a un’ottica tutta terrena, la invocano comeestremo rimedio ai loro mali. Essa celebra il suo trionfosui ceti più elevati della città e demistifica la follia delmodello di vita cortese cui si ispirano, modello di vitache nell’affresco è puntualmente citato e rappresentatonelle due scene raffiguranti la brigata dei giovani nelgiardino e l’elegante cavalcata che, al ritorno dalla cac-cia, incontra i tre morti. Proprio alla dama con il cagno-lino seduta nello splendido giardino, una delle epigrafiin volgare indirizza del resto quell’epiteto di «feminavana» riservato dal Cavalca alle donne che si divertono,dandosi ai canti e ai balli: donne che, insieme ai giulla-ri, vengono a formare una chiesa diabolica, fino a incar-nare le bestie di cui parla l’Apocalisse 29.

Fra la predicazione domenicana e gli affreschi delCamposanto si può dunque individuare una precisa cor-rispondenza tematica. Ma c’è un altro aspetto impor-tante da sottolineare: al di là dei contenuti, ciò che col-lega le prediche agli affreschi del Trionfo della Morte èun preciso codice retorico, attraverso il quale si cerca di

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influenzare anche la recezione delle immagini. Questocodice attraversa, per così dire, i diversi strumentiespressivi usati (le parole dette, scritte, esposte negliaffreschi, le immagini dipinte) perché è interessato adagire sul pubblico, a costruire cioè immagini interiori cheinfluenzino e modellino di sé le facoltà dell’anima (l’in-telletto, la memoria e la volontà, secondo uno schemadi derivazione agostiniana destinato a larga fortuna e anumerose elaborazioni e variazioni). La comunicazione,inoltre, si compie a più livelli, selezionando i moltepli-ci messaggi che una stessa immagine può trasmettere aseconda dello status culturale (e sociale) del destinatario.Gli affreschi comprendevano infatti sia epigrafi volgariin versi sia alcune iscrizioni latine, purtroppo in granparte perdute. Questa struttura, evidentemente, com-portava la divisione del pubblico in almeno tre catego-rie: gli analfabeti, chi sapeva leggere solo il volgare, chisapeva leggere anche il latino.

Nel primo caso entrava in funzione la capacitàcomunicativa, l’immediatezza di rappresentazione checaratterizza l’immagine dipinta. Ad essa la Chiesa avevadedicato una secolare attenzione, ravvisandovi il libroper chi non sa leggere, la cosiddetta predica senza paro-le (muta praedicatio)30. L’effetto sprigionato dalle soleimmagini veniva mediato, come si accennava, dal ricor-do delle parole dei predicatori. Queste sottolineavano inprimo luogo l’importanza della memoria delle pene infer-nali, del terrore suscitato dal pensiero dell’Inferno. Trale cose più efficaci in tal senso, aveva detto ad esempiofra Giordano, è porre di fronte agli occhi del peccatorela pena che gli spetta per i suoi peccati. Per questo:

Ha ordinato la legge e i savi che a tutti i peccati siaposta la pena che .ssi conviene a ciascheduno: chi fa ilmicidio, gli sia tagliato il capo; chi è furo, sia impiccato;e così a tutte l’altre. E non solamente è utile questo

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modo, ma più utile è quando, non solamente a parole oper ordine, ma quando si mostra agli occhi il giudicio nelquale egli incorrerà s’egli pecca. E però si pongono colàle forche acciò che .lle veggi e che .tti mettano paura etimore. E oltre .mmonte, ne la Francia, non s’osa maispiccare nullo impiccato, ma tanto vi sta quanto puòattenérvisi, e però le forche loro sempre ne sono piene, etal’otta ne vedresti ben quattrocento òmini tutti impic-cati, quando sessanta, quando quaranta, e quando cosìch’è una de le più orribili cose di questo mondo pur avedere. Questo s’usa tuttodì di là da’ monti, per tutta laProenza e per tutta Tolosa e per quelle parti, e questefanno acciò che .ttu veggi dinanzie agli occhi la pena e lasentenzia che .tti verrà per lo malfare. Onde quello nonè altro a dire se non: «Guàrdati bene, o tu omo, da pec-cato, acciò che tu non vegni a questa sentenzia tu».

Così è spiritualmente. Sonti posti in exemplo e dinan-zi agli occhi le forche infernali… E però se gli uomini lesi recassero a la memoria, non peccherebbono per certo31.

Possiamo riandare alle parole di fra Giordano men-tre osserviamo le scene infernali del Camposanto. Lediverse bolge, i tremendi supplizi così analiticamenterappresentati, la presenza di personaggi legati a recentivicende della città (come l’antipapa Nicolò V che fra il1329 e il 1330 era stato a Pisa)32 dovevano suscitare nel-l’animo dello spettatore la stessa reazione che nei sud-diti francesi creava la lunga, interminabile sequela degliimpiccati. La giustizia terrena si rispecchia nella giusti-zia divina; in entrambi i casi, il rapporto che si crea fraesibizione del castigo e prevenzione della colpa è iden-tico. Le parole del predicatore appaiono ispirate a unaferma fiducia nella forza persuasiva dell’orrore33 e sve-lano molto bene il gioco di rinvii tra immagini suggeri-te dal sermone e immagini effettivamente viste. Leseconde sono senza dubbio più efficaci («più utile è

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quando, non solamente a parole o per ordine, ma quan-do si mostra agli occhi il giudicio»), tanto che, in uncerto senso, si dà loro la parola («onde quello non è altrodire»); viceversa, possiamo pensare, le prime potrannoappoggiarsi sul ricordo di immagini sensibili, dilatandocosì il loro effetto, la loro capacità di persuadere e disconvolgere.

Sullo spettatore trecentesco analfabeta che guardagli affreschi del Camposanto, inoltre, il ricordo degliammonimenti del predicatore agisce non solo nel sensofortemente emotivo e morale che abbiamo appena visto,ma anche a livello cognitivo. La predica, infatti, gli hatrasmesso una serie di dati del sapere contemporaneoche gli permette di decifrare anche immagini che allospettatore medio del nostro tempo appaiono piuttostoastruse. Consideriamo, ad esempio, la Cosmografia,dipinta da Piero di Puccio nel 1391. In essa, Dio padresostiene fra le sue braccia i cerchi concentrici della terra,degli elementi, dei pianeti, dei segni zodiacali, dellegerarchie angeliche; sotto l’immagine è scritto un sonet-to in volgare; nella cornice, in corrispondenza dei diver-si personaggi, compaiono alcuni tituli in latino, oggi pur-troppo indecifrabili; nei due angoli in basso, sant’Ago-stino e san Tommaso tengono aperto un libro con iscri-zioni latine, su cui poi ci fermeremo.

La descrizione analitica di quella che si credevafosse la struttura del mondo, doveva essere un ingre-diente abbastanza usuale della predicazione, visto chese ne sono conservate tracce consistenti negli scritti difra Giordano e del Cavalca. Nel xliii capitolo dell’E-sposizione del simbolo degli Apostoli (scritta dopo il1333), ad esempio, il Cavalca descrive dettagliatamen-te le gerarchie angeliche, paragonandole alle gerarchieterrene; in questo modo, egli dice, ne facilita la com-prensione, assicurando anche alle seconde, riteniamo, lasanzione divina che deriva dalla loro capacità di rispec-

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chiare un ordine celeste. Anche nelle prime predicheche, nel 1304, fra Giordano dedica alla Genesi, la strut-tura del cosmo è minutamente descritta; solo l’angelo,commenta a un certo punto l’autore, ha nella sua mentetutto l’universo:

Lo intendimento dell’Angelo è come una tavola chev’è dipinta la figura interamente con nobili colori. Que-sta tavola c’incominciamo a scrivere noi, e a dipignerequando incominciamo ad avere intendimento, ed insinoche ci viviamo, sempre ci arroghiamo; ma noi non com-piamo di scriverla tutta, né di dipignerla interamente,perocch’è sì grande questa tavola, che non si può maicompiere di dipignerla in questo mondo; sì è grande, e sìè copiosa, sì che ci sono a porre tanti colori, ch’è unamaraviglia34.

Dal punto di vista concettuale, fra Giordano non faaltro che sviluppare il tema aristotelico e scolastico del-l’intelletto come tabula rasa: le immagini che usa sonoperò di grande suggestione proprio se accanto vi collo-chiamo idealmente il dipinto della Cosmografia di Pierodi Puccio. La scena realizzata dal pittore ci appare allo-ra come qualcosa che rende visibile al pubblico cittadi-no quella pittura che solo l’intelletto angelico contienenella sua interezza e che la predica di fra Giordano deli-nea attraverso le parole, dipingendola a poco a pocosulla tabula della mente degli ascoltatori.

Lo spettatore analfabeta di fine Trecento, dunque,poteva con ogni probabilità decifrare la Cosmografia gra-zie alle informazioni che i predicatori gli avevano tra-smesso, associandole a un’idea di ordine e di gerarchiaarmoniosa35. Chi poi sapeva leggere il volgare, potevaintegrare l’impressione suscitata dal ricordo delle predi-che e dall’immagine col testo del sonetto ad essa sotto-stante:

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Voi che avvisate questa dipinturadi Dio pietoso sommo Creatore,lo qual fe’ tutte cose con amore,pesate, numerate ed in misura,in nove gradi angelica natura,inello empirio cielo pien di splendore,colui che non si muove ed è motore,ciascun cosa fece buona e pura,levate gli occhi del vostro intelletto,considerate quanto è ordinatolo mondo universale; e con affettolodate Lui che l’ha sì ben creato;pensate di passare a tal dilettotra gli Angeli, dove è ciascun beato. Per questo mondo si vede la gloria,lo basso, e ’l mez[z]o e l’alto in questa storia36.

Il messaggio a questo punto si fa più elaborato: l’i-scrizione in versi guida la lettura dell’immagine e insie-me la moralizza, utilizzando anche reminiscenze dottequali i pesi e i numeri armoniosi dell’universo, motivocaro al neoplatonismo cristiano, oltre a temi ed espres-sioni di derivazione dantesca37. Il sonetto, inoltre, richia-ma e rafforza il messaggio già presente in una delle iscri-zioni che nel Trionfo della Morte commentano l’Inferno:

Guàrdavi il cielo et intorno ve si giramostrandove le sue bellece eterne,et l’ochio vostro pur ad terra mira38.

Ancor più sofisticato è il messaggio che la Cosmo-grafia trasmette a chi sa leggere anche il latino. Il libroaperto che san Tommaso regge, trascrive infatti unacitazione della Summa theologica in cui si esaltano l’u-nità e l’ordine del mondo, mentre l’iscrizione posta sullibro retto da sant’Agostino, tratta dal De civitate Dei,

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dice: «Ad opera Dei pertinent Angeli unde et ipsi suntilla lux quae diei nomen accepit»39. Si richiama così unacomplessa questione teologica, legata ai rapporti fra Dioe gli angeli, e fra questi e la creazione del mondo. Il rife-rimento è alla dottrina ufficiale della Chiesa, qual erastata definita nel Concilio Lateranense del 1215; il fattoche si sentisse il bisogno di ribadire quella dottrina iniscrizioni esposte al pubblico, anche se riservate ai «let-terati», fa sospettare che si volesse contrastare una visio-ne dualistica del mondo a cui si erano ispirate – e forseancora ispiravano a Pisa – varie eresie40. In ogni caso, sitrattava di un problema teologico delicato, di una diquelle «suttilissime cose», come avrebbe detto fra Gior-dano, che era pericoloso esporre al volgo.

L’esempio ora illustrato ci mostra chiaramente comeil circuito che si crea tra le immagini dipinte e le paro-le (scritte e dette, e quindi ricordate) sia tale da sele-zionare il pubblico, da garantire cioè al prodotto la capa-cità di trasmettere messaggi via via più complessi inrelazione ai diversi tipi di pubblico possibile. Un codi-ce analogo doveva regolare la comunicazione nell’affre-sco del Trionfo della Morte. Qui, purtroppo, molte dellescritte in latino sono andate perdute o risultano illeggi-bili; di altre è difficile valutare l’antichità. Le relazionifra immagini e parole scritte nei diversi registri lingui-stici dovevano essere molto ricche. Possiamo farceneun’idea sulla base di due cartigli sorretti da due figureche erano collocate a sinistra, nella cornice superiore:uno scheletro reggeva la scritta «Secundus natus Abel,primus mortuus», mentre una figura maschile che sem-bra rivolgersi verso di lui portava la scritta «Primusnatus Kayn, primus homicida»41. Con questo espedien-te si ricordano, ha scritto Lucia Battaglia, «eventi estra-nei al testo figurativo, ma implicati sul piano della medi-tazione dottrinaria e teologica», quelle vicende bibliche,cioè, per le quali la generazione umana appare fin dal-

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l’inizio segnata dal peccato e dalla morte42. E proprio quisi trova la chiave, secondo Chiara Frugoni, della novitàiconografica che contrassegna la Morte:

per la prima volta rappresentata come potenza autonoma,non ha ancora l’aspetto di scheletro disseccato, a simbo-leggiare senza alcuna implicazione religiosa la condizioneumana, come apparirà nei successivi Trionfi; è sentita anco-ra come conseguenza del peccato dei Progenitori, per cuiassume connotati demoniaci: orrida vecchia con le mani edi piedi artigliati e le ali di pipistrello.

I due cartigli con le scritte latine prima ricordati ser-vono a «sottolineare il suo collegamento con l’Infernopunitore»43. L’uso del latino introduce, per così dire,un’ulteriore dimensione che, oltre a risalire alle originidella storia umana, arricchisce gli elementi con cui con-siderare, interpretare, meditare le immagini e le scrittein volgare che le accompagnano. Di questa divisionedei ruoli che le diverse competenze linguistiche creano,di questa specie di sipario teatrale che si apre su molte-plici dimensioni di senso e di interpretazione, è indizioanche la collocazione delle scritte, i diversi luoghi che ilvolgare e il latino occupano: se nella cornice superiore ipersonaggi ‘parlano’ in latino, nella cornice inferiore, agiudicare dai pochi frammenti superstiti, ‘parlano’ involgare.

4. Le voci che ‘parlano’ in volgare e la qualità dello sguardo.

Vediamo ora come funziona il nostro codice in rap-porto al pubblico che sa leggere solo il volgare. Le scrit-te antiche – conservate per lo più attraverso una tradi-zione manoscritta – sono in versi e hanno un preciso rap-

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porto con le immagini dell’affresco. Esse non narrano,ma moralizzano: non costituiscono, dunque, un sempli-ce «doppio» della pittura, un puro rispecchiamentoscritto delle immagini, ma cercano di controllare e indi-rizzare quella tensione che, come ha scritto Butor, sicrea quando sono compresenti i due poli della pittura edella scrittura44.

Le voci che parlano nelle epigrafi in verso sono didiverso tipo, così da costruire intorno alle immagini undenso reticolato. Per riprendere una classificazione pro-posta da Giovanni Pozzi, possiamo ravvisare la presen-za di quattro situazioni comunicative45. In cinque testiabbiamo un colloquio che si svolge tra personaggi inscena: si vedano il rimprovero dell’angelo alla «feminavana», l’ammonizione che l’eremita e il morto rivolgo-no alla brigata a cavallo e il dialogo fra la Morte e glistorpi che la invocano46. Sono situazioni teatrali, comedel resto aveva già notato lo Schlosser: «La intima con-nessione tra pittura e parola ha qualcosa del drammaantico»47.

Molto meno rappresentata è la situazione in cui unpersonaggio in scena si rivolge a un pubblico assente: nelprimo caso è la Morte a prendere la parola («io nonattendo [ad altro] che a spegner vita»), mentre il secon-do caso crea qualche problema. Nel sonetto che iniziacon una citazione dantesca («Fede è[t] substantia decose sperate»)48, la Fede parla in prima persona, ma nonla vediamo rappresentata. Poiché in un’iscrizione che sidoveva collocare tra l’Inferno e il Giudizio Universale, laSuperbia è chiamata radice di ogni male, origine dunquedei sette vizi capitali, il Morpurgo ha ritenuto che ilnostro sonetto vi si contrapponesse, in quanto la Fedesi presenta alla guida delle sette virtù principali; lo stu-dioso formulava quindi l’ipotesi che una prima versio-ne degli affreschi raffigurasse le figure allegoriche deivizi e delle virtù, le quali «dominassero dall’alto la rap-

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presentazione dei loro effetti nell’uomo»49.Un’unica epigrafe rientra con sicurezza nel caso in

cui un personaggio fuori scena si indirizza a un perso-naggio in scena: è il sonetto che inizia «Vergine pudi-cha, sancta Marina»50; il «tu» permane però solo nellaprima quartina, per essere poi sostituito dalla terza per-sona. Un altro sonetto è indirizzato alla Superbia e aglialtri vizi capitali, e pone i problemi iconografici di cuisi diceva sopra.

Le restanti scritte – e quindi la netta maggioranza– rientrano in una situazione didascalica: una voce fuoricampo si rivolge a un personaggio fuori campo, chepuò essere, come per lo più accade, identificabile nellospettatore oppure in un’entità astratta (la «maledecta,inimica luxuria» nei versi che introducono la vita disant’Alessandra51 e la «quieta sancta et pura solitudine»nell’iscrizione che fa da proemio alle scene della Tebai-de52 ). Dunque, la voce fuori campo è quasi sempre por-tatrice di un messaggio carico di autorità, anche se nelsonetto dedicato alla Superbia e ai vizi capitali («Super-bia d’ogni male è la radice») l’uso della prima personaplurale annulla le distanze, rappresentando un perico-lo che tutti coinvolge:

Tucte ci fanno iniuriaper noi mandar la giù ce dan la spinta53.

Attraverso una molteplicità di strategie comunicati-ve, le scritte, si diceva, moralizzano le immagini cari-candole di un valore esemplare. La recezione viene inca-nalata, pertanto, in un’unica direzione, obbligando lospettatore-lettore a convincersi dell’inevitabilità delleconseguenze provocate da certi comportamenti, così daagire di conseguenza: come nell’exemplum, la narrazionecoinvolge sia l’interpretazione che la scelta pragmatica54.A tale scopo tende l’incalzare argomentativo che carat-

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terizza molte delle epigrafi, con formule ricorrenti: il«se» all’inizio di verso indica il nesso ineluttabile esi-stente fra il peccato e la dannazione55; nella stessa posi-zione sono per lo più collocati «or», «dunque», «adun-que», seguiti da un imperativo, che vuole come trascinarecon sé quel cambiamento morale di cui si è dimostrata lanecessità56.

La tecnica discorsiva impiegata si lega strettamen-te alla visione delle immagini, anzi, a un modo preci-so di guardarle. Le epigrafi in versi, infatti, puntano atrasformare l’immagine sensibile in immagine menta-le, a caricare la prima di significati morali e di tensio-ne emotiva così da renderla capace di operare sullediverse facoltà della mente. Motivo ricorrente nelleepigrafi è infatti il «guardare fisso»57: il fissare l’atten-zione – e, materialmente, la vista – su di un particola-re, è la condizione che permette la metamorfosi del-l’immagine, è ciò che innesta la corrispondenza tra ilvedere con gli occhi del corpo e il vedere con gli occhidella mente. Ad esempio, in riferimento all’Inferno sileggeva:

O peccator che in questa vita stai, involto se’ nelle mondane cure, pon mente fiso a queste aspre figureche in questo obscuro Inferno traggien guai. Chosì com’elle son, così serraise non ti penti del mal che facto hai58.

E, a commento della divisione fra eletti e reprobi nelGiudizio Universale, si leggeva:

Anima savia, se ben miri fiso

il futuro tempo del divin giudizioe li boni che son electi al Paradisoet li rei dannati allo eterno supplicio,

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la vita tua nel mondo serà perfectasequendo la virtù lassando il vitio59.

Appare chiaro da questi esempi come il circuito crea-tosi fra parole e immagini carichi le seconde di un’altradelle caratteristiche che contraddistinguono la narra-zione esemplare: nel momento in cui l’immagine vienemoralizzata e diventa immagine interiore, essa si collo-ca in una dimensione in cui passato, presente e futurocoincidono60. Gli affreschi, infatti, permettono di vede-re il futuro eterno del giudizio divino e il presente eter-no dei morti. Lo spettatore vi può dunque proiettare ilsuo presente e il suo passato, così da modificare il suofuturo61. Il gioco con le diverse dimensioni temporali, lanecessità di elevarsi a un punto di vista che permetta diunificarle, è del resto leitmotif anche del topos dell’in-contro tra vivi e morti di cui il Camposanto pisano pre-senta una versione quanto mai ricca e innovativa62: unanobile brigata a cavallo incontra tre cadaveri, ormai instato di progressiva decomposizione. Uno di questi cosìsi rivolge a uno dei nobili cavalieri:

Tu che mi guardi et sì fiso mi miri, vedi quanto io son ladio al tuo conspecto, quantunque che tu sii chiaro giovanecto, pensalo or prima che Morte ti tiri. […]Sì come hora se’ dèi ben pensar che io fui; ma il mondo amico ad ciascheduno è poco, venir pur dèi a questo punto et luoco63.

Io sono quel che tu sei stato, dice dunque, come pre-visto dalla tradizione, il morto al vivo, e tu sarai quel cheio sono adesso.

Alla brigata a cavallo si rivolge anche un altro per-

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sonaggio: un eremita, tradizionalmente confuso con sanMacario:

Se vostra mente serrà bene accorta

tenendo qui la vostra vista fitta, la vanagloria ci sarà sconfictae la superbia vederete morta. Et voi serrete ancor di questa sorta! Or observate la lege che v’è scripta64.

Vediamo qui in funzione il codice già descritto, chemette in moto i sensi molteplici del «vedere» insiemealle dimensioni del tempo. Come nel brano di fra Gior-dano sugli impiccati, inoltre, dell’immagine si parla conil linguaggio proprio alla scrittura: «observate la lege chev’è scripta».

La qualità della vista svolge dunque, nel nostro codi-ce, un ruolo essenziale: solo una vista ben orientata puòcreare un ponte tra esteriorità e interiorità, tra corpo eanima, tra senso e intelletto65. Si capisce allora perchéDomenico Cavalca, nello Specchio di croce (scritto dopoil 1333), riconduca l’intera vicenda del peccato e dellaredenzione alla qualità dello sguardo: «contro al disor-dinato sguardo della donna, cioè d’Eva, che sguardò illegno vietato, e parvele bel frutto, … Cristo per satisfarea quel vano sguardo, volle avere li occhi fasciati e vela-ti»66. Nello stesso tempo, sia negli scritti del Cavalca chein quelli di fra Giordano, proprio l’importanza dellavista sembra dare nuova dignità all’opera del pittore,associandola in qualche modo a quella di Dio67:

nulla cosa può essere sozza, che Idio faccia… onde il fangoe il letame e il loto non è cosa immonda, tutte sono utili enecessarie: il letame ingrassa la terra, e del loto si fanno piùcose utili. E è questo a .mmodo de’ colori, i quali tutti sonobelli; se vi n’avesse nullo sozzo, il dipintore il gitterebbe via;

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e però bello è il nero, bello il rosso, il bianco, il verde, il pali-do e tutti. Così tutte queste creature sono necessarie e bellenel luogo loro, ché Idio non può fare cosa immonda68.

E in un altro passo il «mirar fiso» viene presentatocome tipico del pittore, e insieme come simbolo di quel-la concentrazione, di quel distacco dal mondo che l’a-nima deve praticare per raggiungere la sapienza:

l’anima hae poca virtude, e è sì stretta la virtù sua, chenon che a molte cose, ma pur a due non può intendere auna volta… ché stando l’uomo bene intento a udire, nonvede, e se l’omo mira bene fiso, come ’l dipintore, suonala campana e non l’ode, e non se ne adà69.

Un parallelo tra l’immagine dipinta o scolpita e quel-la creata da Dio è usata dal Cavalca nella Medicina delcuore ovvero trattato della pazienza (ante 1333) permostrare la gravità dell’omicidio:

e perché dicemmo che l’uomo è immagine di Dio, pensi-no quelli che questa immagine dispregiano, quanto Iddiol’ha per male, poiché veggiamo che ogni scultore o dipin-tore, ed ogni altra persona porta tanto impazientemente,quanto la sua scultura o dipintura gli sia non solamentedisfatta, ma pur biasimata70.

5. Immagini per la memoria e la meditazione.

La parola, come abbiamo visto, guida a diversi livel-li la costruzione e la recezione dell’immagine visiva. Sitratta di far interagire fra di loro strumenti che hannocome fine quello di modellare l’interiorità: questo è pos-sibile attraverso la costruzione di immagini che sidispongano negli spazi della mente secondo modalità che

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venivano praticate e insegnate da due arti per moltiaspetti convergenti: l’arte della memoria e quella dellameditazione. L’intreccio fra queste componenti si puòosservare da vicino in un autore che, come abbiamovisto, svolge un ruolo di primo piano nel programmadegli affreschi del Trionfo della Morte: Domenico Caval-ca. Il predicatore riassumeva spesso con componimentipoetici i suoi trattati dottrinali, così da facilitarne lacomprensione e il ricordo (qualcosa di simile alla fun-zione svolta dalle epigrafi in versi del Camposanto). Siveda ad esempio l’epilogo del Trattato della pazienza: inun sirventese, rivolto a quella che egli chiama «suormia», insegna alla donna a costruire un edificio interio-re in cui ospitare lo Sposo divino. Dovrà associare viavia alle diverse parti – alle mura, al solaio, ecc. – cia-scuna delle virtù che deve praticare71. Infine, scriveCavalca,

Acciò ch’ei [lo Sposo] volentier con teco seggia,dipingi questa casa, e storieggia:la memoria dei Santi fa ch’ei veggiain te formata. Sia nella mente croce figurata, l’immagin della Donna disegnata, d’ogni altro Santo sia istoriata, e ben dipinta. La virtù di ciascun vi sia distinta, ma fa che la dipinghi di tal tinta, che pur nel modo mai diventi stintala figura72.

Il Cavalca ripropone la corrispondenza tra immagi-ne sensibile, dipinta, immagine mentale e quella cheguida la trasformazione interiore fino all’ascesi mistica.L’edificio interiore riccamente dipinto, che la poesiacostruisce, richiama alla nostra mente un edificio reale

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che sarebbe stato splendidamente decorato pochi annidopo: il Camposanto pisano. Il sirventese sposta sul ver-sante dell’interiorità e dell’ascesi individuale lo stessocodice delle immagini che negli affreschi si offre allosguardo e alla fruizione di un vasto pubblico cittadino.

Il testo del Cavalca che presenta la versione piùricca del gioco fra visività, memoria e meditazione è loSpecchio di croce. Vi si assiste a una continua contami-nazione fra il modello della scrittura e quello iconico,quasi a far toccar con mano come entrambi siano, con-temporaneamente, necessari e insufficienti, o almenopuramente strumentali. Il titolo allude appunto a que-sta duplicità dell’opera. È un libro, scritto in volgare perle persone «idiote» o molto occupate, che si modella su(è uno specchio di) un’immagine: quella di Cristo croci-fisso, che «quasi in brieve contiene perfettamente quel-lo che ci è bisogno d’imparare»73, e lo comunica dunquea chi guarda e a chi legge. Il testo usa l’immagine di Cri-sto come proprio sistema di memoria, collocando neisuoi loci, ordinatamente, il contenuto dei diversi capi-toli («ponendo diverse sentenze, considerazioni, e simi-litudini, secondo l’ordine degli infrascritti capitoli»)74 eimprimendo così, nell’animo del pubblico, un’immagi-ne capace di trasformare profondamente tutte le facoltàinteriori. La croce, dice Cristo, «sarà una cosa sì effi-cace, e di tanta virtude, che io trarrò a me il cuore del-l’uomo con ogni sua potenza, e con ogni suo movimen-to. Così trarrò lo intelletto, che abbia che pensare: loaffetto, che sia tratto puramente a me amare: e la memo-ria, che mai non mi possa dimenticare»75. I luoghi dellacroce diventano occasione per ricordare i diversimomenti della Passione, per meditarli e trarne esempicontro i vizi.

Il rimando parola-immagine diventa davvero verti-ginoso nel xxxvi capitolo, intitolato Come Cristo stacome libro aperto, nel quale è scritta ed abbreviata tutta la

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legge e specialmente tutta la carità del prossimo. Prenden-do alla lettera la metafora del libro della vita, Cavalcala applica infatti al Cristo crocifisso; a questo punto, illibro, per così dire, si incarna in lui, lo rilegge attraver-so la materialità delle proprie componenti. Scrive ilCavalca:

Perché noi abbiamo detto che egli è libro, veggiamos’egli è così fatto, e s’egli è figura di libro. Tutti sappia-mo che ’l libro non è altro che pelli d’agnello ben rase,legate fra due tavole, ed è scritto quasi per tutto di lette-re nere, ma li principali capoversi sono lettere grosse ver-miglie76.

A questo punto ogni elemento della definizioneviene applicato al Crocifisso, per cui, ad esempio, le let-tere nere sono i segni delle percosse, mentre i capover-si vermigli sono le piaghe sanguinanti77.

Il codice delle immagini si rivela dunque partico-larmente complesso e raffinato in un predicatore, e inun ambiente, che svolgono un ruolo essenziale nellaprogettazione degli affreschi del Camposanto. I testiletterari prodotti nel convento di Santa Caterina si col-locano pienamente all’interno di questo codice: bastiaccennare che nello Specchio della vita del Cavalca èforte l’influenza del Lignum vitae di san Bonaventura,un testo pensato anche per essere tradotto in una formamista di pittura e di scrittura, come puntualmenteavvenne per secoli nei manoscritti, negli affreschi enelle vetrate delle chiese78. Altre immagini presenti neltesto del Cavalca – quali quelle di Cristo «come uomoinnamorato e come cavaliere armato» – sono di analo-ga natura: non solo esse generano, nel testo, un giocodi metafore, ma rinviano a una ricca tradizione icono-grafica precedente. In particolare le troviamo raffigu-rate in prodotti misti di scrittura e di pittura (Bil-

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derbücher) in cui le due componenti sono strettamentelegate l’una all’altra, così da condizionare modi, tempo,percorso della recezione79.

In tutte queste esperienze, l’arte della memoria haun ruolo importante. Proprio fra Duecento e Trecento,il convento di Santa Caterina svolge una funzione diprimo piano nella diffusione dell’arte della memoria,arte che conosce ora una nuova stagione in seguito allaripresa e alla riscrittura, in chiave morale e religiosa –oltre che retorica – della tradizione classica80. Nel con-vento pisano vive infatti a lungo Bartolomeo di SanConcordio (1262-1347)81, che ne dirige lo studium a par-tire dal 1335: gli stessi anni, dunque, in cui si realizza-no gli affreschi del Camposanto. Fra Bartolomeo è auto-re – oltre che di scritti di grammatica, di poetica, diretorica e di importanti volgarizzamenti – di un’opera,Gli ammaestramenti degli antichi (dei primi anni del Tre-cento), in cui dimostra di conoscere le tecniche dellamemoria, sia nella versione della pseudociceronianaRhetorica ad Herennium, sia nella rielaborazione diTommaso82. Assumono nuovo rilievo, proprio in questaluce, le numerose testimonianze che la cronaca del con-vento ci trasmette sulla straordinaria memoria checaratterizzava i più illustri membri della comunitàdomenicana. Di un fra Filippo da Calci, ancor vivonegli anni Settanta del Duecento, si dice, ad esempio,che era chiamato Biblia perché conosceva le Sacre Scrit-ture a memoria; e così si ricorda che poco tempo dopofra Filippo Borsa aveva imparato sia la Bibbia che leglosse, tanto da tener fede al suo nome: «costui fu unacapacissima borsa delle sacre scritture»83. Il patrimoniodella memoria si dilata con Giordano da Pisa – chericorda anche il breviario, il messale e una parte dellaSumma di Tommaso, e molte altre cose ancora – masoprattutto, come era prevedibile, con Bartolomeo daSan Concordio:

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era quasi un’arca di scienza, e ti dirò, o lettore, una cosache ti sembrerà incredibile ma che è vera. Non c’è auto-re, presso di noi, che abbia scritto un’opera di argomentosecolare o religioso, che egli non conoscesse tanto che (percosì dire) la sua memoria e il suo intelletto erano una spe-cie di armadio delle scritture84.

Certo è presente una dimensione morale in questestraordinarie prove mnemoniche: occupare tutta lamemoria con le Scritture, e con cose sante, è infatti rac-comandato anche come esercizio di disciplina interiore,che toglie spazio a immagini e ricordi allettanti e peri-colosi85. Le testimonianze sulle pratiche di memoria nelconvento di Santa Caterina sono per noi preziose: benlungi dall’essere un esercizio puramente passivo, l’artedella memoria è nel Trecento qualcosa che influenza lacostruzione di parole e di immagini86 e, soprattutto, cheinterviene in quel circuito fra scrittura e pittura, e fraimmagini esteriori e immagini interiori, che abbiamodescritto.

Di Bartolomeo da San Concordio, come si diceva, lacronaca scrive che la sua memoria e il suo intelletto erano«quasi quoddam armarium scripturarum». È interessan-te notare che la stessa identica metafora è presente in untesto del Cavalca, nel volgarizzamento delle Vitae patrum.Sant’Antonio abate, egli scrive,

con tanto studio e desiderio intendea la Scrittura santache mai non la dimenticava; ma, servando nel suo cuoretutti li comandamenti divini, avea la memoria in luogo de’libri, della qual fatto avea quasi un armario delle Scritture

sante87.

Anche attraverso l’uso delle metafore il tempo sicomprime, e l’immagine degli antichi padri del desertosi riverbera sui loro eredi ideali: i domenicani. Con

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analogo procedimento, le scene di vita eremitica negliaffreschi del Camposanto erano violentemente giu-stapposte alle immagini della città e a una scena di vitacortese (la brigata a cavallo), a indicare un modelloinsieme lontano nel tempo e nello spazio ma tuttoravivo e attuale. Del resto si sa che esperienze di vita ere-mitica erano praticate a Pisa e addirittura sotto gliocchi di tutti. Numerose sono infatti le testimonianzesulla presenza di eremiti (i cosiddetti «eremiti cellati»)che avevano deciso di vivere nell’isolamento e nellapreghiera ma – anche per motivi di sicurezza – entro lemura cittadine. Uno dei più importanti esponenti diquesto movimento eremitico, Giovanni Soldato, vienesepolto nel Camposanto. Controversa è la data in cui ilfatto avviene; è certo, però, che a un determinatomomento il suo monumento funebre viene ad esserecollocato entro le scene di vita eremitica della Tebaide88.La contiguità fisica doveva evidentemente sottolinearela contiguità morale, così come gli aneddoti tratti dalleVitae patrum venivano usati dai predicatori per dareindicazioni sui problemi nuovi che l’organizzazione eco-nomica e sociale della città poneva alle coscienze89. Laversione originaria del monumento funebre, inoltre,sottolineava chiaramente il legame con la realtà dellavita cittadina: sopra il sepolcro era dipinta una figuradistesa con ai lati due incappucciati, evidente citazio-ne di quella Compagnia dei disciplinati che fra Gio-vanni aveva fondato. A sua volta, l’inserimento delsepolcro nel contesto degli affreschi aggiungeva unnuovo capitolo a quel gioco di parole e di immagini sucui ci siamo fermati. Il corpo del fondatore dei disci-plinati e le immagini di due suoi confratelli venivanoinfatti a essere vicini a un’epigrafe latina, in cui si leg-gevano due versetti di un salmo: «Apprehendite disci-plinam ne quando irascatur dominus ne pereatis de viaiusta» (Ps., 2-12)90.

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Abbiamo parlato finora di funzione esemplare delleimmagini, ma forse la definizione è parziale. Secondoun’antica tradizione, molti dei soggetti rappresentati nelciclo del Trionfo della Morte non sono personaggi qual-siasi, denotati soltanto dalla loro professione o statussociale; si tratterebbe invece di veri e propri ritratti dipersone che avevano avuto un ruolo importante nella vitadi Pisa91. Se teniamo presente questo elemento, oltre chel’inserimento del sepolcro di fra Giovanni Soldato incorrispondenza della Tebaide, comprendiamo che il pub-blico trecentesco ritrovava – dipinti sui muri e proietta-ti nell’eternità del giudizio divino – il passato e il pre-sente della vita della propria città. Le immagini che icolori dei pittori e le parole delle epigrafi concorrevanoinsieme a costruire non avevano, dunque, solo unadimensione esemplare; sembrano piuttosto visualizzarein qualche modo quella che Auerbach ha indicato col ter-mine di «prospettiva figurale»92. E sarebbe questa, infondo, la componente più importante – al di là delle sug-gestioni e delle puntuali citazioni – dell’influsso eserci-tato dalla Divina commedia sugli affreschi pisani93.

1 G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori e scultori…, nelle reda-zioni del 1550 e 1568, a cura di R. Bettarini, commento secolare a curadi P. Barocchi, Sansoni, Firenze 1967, vol. II, p. 171. Nella vita del-l’Orcagna leggiamo: «E perché sapeva che ai Pisani piaceva l’inven-zione di Buffalmacco, che fece parlare le figure di Bruno in San Pauloa Ripa d’Arno facendo loro uscire di bocca alcune lettere, empié l’Or-gagna tutta quella sua opera di cotali scritti, de’ quali la maggior parte,essendo consumati dal tempo, non s’intendono» (ibid., p. 219).

2 Sui problemi relativi all’attribuzione e alla datazione del ciclorimando al saggio di Antonino Caleca, Costruzione e decorazione dalleorigini al secolo xv, in Il Camposanto di Pisa, pp. 21 sgg., e, inoltre, aitesti di J. Polzer, Aristotle, Mohammed and Nicolas V in Hell, in «TheArt Bulletin», xlvi (1964), pp. 457-69; J. Baschet, Triomphe de la mort,triomphe de l’enfer. Les fresques du Camposanto de Pise, in «L’écrit

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voir», viii (1986), pp. 5-17. Sul programma degli affreschi e sui lega-mi con testi letterari, cfr. L. Bolzoni, La battaglia dei vizi e delle virtù.Testi e immagini fra Tre e Quattrocento, in aa.vv., Ceti sociali ed ambien-ti urbani nel teatro religioso europeo del ’300 e del ’400, Centro Studisul Teatro Medioevale e Rinascimentale, Viterbo 1986, pp. 93-123; L.Battaglia Ricci, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del«Trionfo della Morte», Salerno Editore, Roma 1987; L. Bolzoni, Uncodice trecentesco delle immagini: scrittura e pittura nei testi domenicanie negli affreschi del Camposanto di Pisa, in aa.vv., Letteratura italiana earti figurative, Firenze 1988, vol. I, pp. 347-56; C. Frugoni, Altri luo-ghi, cercando il Paradiso (Il ciclo di Buffalmacco nel Camposanto di Pisae la committenza domenicana), in «Annali della Scuola Normale Supe-riore di Pisa», s. III, xviii (1988), pp. 1557-1643; J. Polzer, The Roleof the Written Word in the Early Frescoes in the Campo Santo of Pisa, inWorld Art. Themes of Unity in Diversity, Actes of XXVIth InternationalCongress of History of Art, a cura di I. Lavin, Pennsylvania State Uni-versity Press, 1989, vol. II, pp. 361-66; M. Ciccuto, Giunte a una let-tura esemplare di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa, in Icone della paro-la. Immagine e scrittura nella letteratura delle origini, Mucchi, Modena1995, pp. 113-45.

3 Sulla tradizionale condanna del riso, cfr. M. Bachtin, L’opera diRabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizionemedievale e moderna, trad. it. Einaudi, Torino 1979.

4 Cfr. S. Morpurgo, Le epigrafi volgari in rima del «Trionfo dellaMorte», del «Giudizio Universale e Inferno» e degli «Anacoreti» nelCamposanto di Pisa, in «L’Arte», ii (1899), pp. 51-87 (in particolarep. 54). Propone criteri in parte nuovi per l’edizione delle epigrafi L.Battaglia Ricci, Il «Trionfo della Morte» del Camposanto pisano e i let-terati, in aa.vv., Storia ed arte nella Piazza del Duomo. Conferenze1992-1993, Quaderno n. 4, Cursi, Pisa 1995, pp. 197-239. Unostraordinario documento della vita del convento di Santa Caterina èla cronaca, iniziata da fra Domenico da Peccioli (che utilizza anchedel materiale di fra Bartolomeo di San Concordio) e continuata daSimone da Cascina: F. Bonaini, Cronaca del convento di Santa Cateri-na dell’ordine dei predicatori in Pisa, in «Archivio storico italiano», vi(1854), vol. II, pp. 399-593. Cfr. inoltre: C. Delcorno, Giordano daPisa e l’antica predicazione volgare, Olschki, Firenze 1975, p. 7; gliAtti del convegno Le scuole degli Ordini mendicanti (secoli xiii-xiv),Accademia Tudertina, Todi 1978; O. Banti, La biblioteca e il conventodi Santa Caterina in Pisa tra il xiii e il xiv secolo, attraverso la testimo-nianza della «Chronica antiqua», in «Bollettino Storico Pisano», lviii(1989), pp. 163-72; G. Fioravanti, La filosofia e la medicina (1343-1543), in aa.vv., Storia dell’Università di Pisa, Pacini, Pisa 1993, vol.I, pp. 259-88 (in particolare pp. 260-66); aa.vv., Libraria nostra com-

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munis: manoscritti e incunaboli della Biblioteca cathariniana di Pisa,Tacchi, Pisa 1994.

5 Basti ricordare il Polittico di san Domenico, di Francesco Traini,il Trionfo di san Tommaso, attribuito allo stesso autore, e il polittico perl’altare maggiore di Simone Martini (su cui cfr. J. Cannon, Simone Mar-tini, the Dominicans and the Early Sienese Polyptich, in «Journal of theWarburg and Courtauld Institutes», xlv [1982], pp. 69-83). Dallacronaca risulta inoltre che negli anni Venti del Trecento si iniziano ilavori per decorare il chiostro del convento con colonne di marmo e pit-ture murali (Bonaini, Cronaca cit., p. 494)

6 M. Ronzani, Il francescanesimo a Pisa fino alla metà del Trecento,in «Bollettino Storico Pisano», liv (1985), pp. 1-55 (in particolare pp.48-52) e M. Luzzati, Simone Saltarelli arcivescovo di Pisa (1323-1342)e gli affreschi del Maestro del «Trionfo della Morte», in «Annali dellaScuola Normale Superiore di Pisa», s. III, xviii (1988), pp. 1645-63.

7 Il corpus delle prediche di fra Giordano (su cui cfr. Delcorno, Gior-dano da Pisa cit.) si è recentemente arricchito grazie a importanti ritro-vamenti, relativi alla predicazione tenuta a Pisa: cfr. C. Delcorno,Nuovi testimoni della letteratura domenicana del Trecento (Giordano daPisa, Cavalca, Passavanti), in «Lettere italiane», xxxvi (1984), pp. 577-90; Giordano da Pisa, Sul terzo capitolo del «Genesi», a cura di C. Mar-chioni, prefazione di C. Delcorno, Olschki, Firenze 1992.

8 Adotto qui la terminologia di H. Lausberg, Elementi di retorica,trad. it., il Mulino, Bologna 1969, pp. 15-17.

9 Sulla predicazione rinvio, anche per ulteriori indicazioni biblio-grafiche, a C. Delcorno, La predicazione nell’età comunale, Sansoni,Firenze 1974; Id., Giordano da Pisa cit. ed Exemplum e letteratura traMedioevo e Rinascimento, il Mulino, Bologna 1989. Cfr., inoltre, R.Rusconi, Predicatori e predicazione (secoli ix-xviii), in Storia d’Italia.Annali, 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, pp. 951-1035;M. Zink, La prédication en langue romane avant 1300, Champion, Paris1976; J. Longère, La prédication médiévale, Études Augustiniennes,Paris 1982; L. Bolzoni, Oratoria e prediche, in Letteratura italiana,Einaudi, Torino 1984, vol. III, tomo II, pp. 1041-72; V. Coletti, Paro-le dal pulpito. Chiesa e movimenti religiosi tra latino e volgare, Marietti,Genova 1983; aa.vv., De l’homélie au sermon. Histoire de la prédicationmédiévale, Université Catholique de Louvain, Louvain La Neuve 1993.

10 Una moderna riproposizione, filologicamente aggiornata, di que-sta linea di lettura è Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento,a cura di G. Baldassarri e G. Varanini, Salerno Editrice, Roma 1993.

11 Cfr. L’omiletica nel Medioevo: teoria sociale e comunicazione dimassa, in «Verifiche», vi (1977), pp. 198-360; I. Magli, L’omiletica nelMedioevo. Lineamenti antropologici del medioevo italiano, Garzanti,Milano 1977.

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12 Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino 1305-1306, a cura di C.Delcorno, Sansoni, Firenze 1974, p. 13.

13 Ibid., p. 171.14 «La Scrittura dice che chi cava la citerna, ch’egli la cuopra poscia,

perciò che, se tenendola aperta vi cadesse la bestia, si menderebbe eavrebbe a restituire la detta bestia. Così fo io a voi: io cavo la citernaper avere de l’acqua, ma io la ricuopro acciò che non ci caggiate,imperò che io lascio di dirvi le suttili cose e le profonde, però che nolleintenderesti» (ibid., pp. 170-71).

15 D. Cavalca, Disciplina degli spirituali col trattato delle trenta stol-tizie, a cura di G. Bottari, Giovanni Silvestri, Milano 1838, p. 45.

16 Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino cit., pp. 140-41.17 Bisogna, egli sostiene, evitare le dispute, che generano ira e odio.

«E posto che ciò sia riprensibile ne’ letterati e scienziati uomini, moltopiù tuttavia è da riprendere in alcuni idioti superbi, i quali non sapen-do pur fare alcun’arte manuale, presumono di parlare e di contenderedella profondità delle Scritture, e della Trinità» (Cavalca, Disciplinadegli spirituali cit., p. 40).

18 Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino cit., p. 144.19 Si veda, ad esempio, il commento che accompagna la distinctio di

un versetto (una tecnica che isola, per poi dividerla, una sola parola deltesto scritturale): «A dire di tutte queste cose e prove sarebbe predi-cozza compiuta, e bellissime cose e veracissime e catuna è un mare aprovare e vedere ciò» (ibid., p. 163). E, a proposito del Vangelo di Mat-teo (Mt., 4,1): «In questo vangelo è piena dottrina e intera di tutta l’ar-te di combattere e del vincere. Tutta questa sapienzia si mostra in que-sto e per questo vangelio; il quale vangelio è di tanta utilità e necessitàche non si potrebbe dire… s’io avessi tempo, ben vi mosterrei, ché soncose utilissime e di perfetta dottrina spirituale… Ben se ne vorrebbepredicare tutt’una settimana, ma però .cci che sono altri vangeli, pas-seréncine, e direnne oggi quello che potremo» (ibid., pp. 38-39).

20 Ibid., p. 9.21 Ibid., p. 41.22 Ibid., pp. 40-41. E si veda il passo della predica XXXI del Qua-

resimale fiorentino rivolto a chi chiede di diventare vescovo: «Tu ado-mandi di stare tra genti in cittade. Buono è, ma guarda che .ttu sii fortea sostenere le molte tentazioni ch’avrai in vedendo e udendo, e le gentidel mondo: se non ti senti forte, meglio ti sarebbe adimandare luoghisolitari» (ibid., p. 159).

23 Giordano da Pisa, Prediche sulla Genesi recitate in Firenze nel mcc-civ, a cura di D. Moreni, Giovanni Silvestri, Milano 1839, p. 172.

24 D. Cavalca, Volgarizzamento delle Vite de’ santi Padri, GiovanniSilvestri, Milano 1853, vol. I, p. 173. Una nuova edizione di una partedel volgarizzamento del Cavalca è stata curata da Carlo Delcorno: cfr.

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D. Cavalca, Cinque vite di eremiti, Marsilio, Padova 1992; cfr. anchel’introduzione, con indicazioni sui rapporti fra i domenicani e la tra-dizione eremitica.

25 Cfr. L. K. Little, Religious Poverty and the Profit Economy inMedieval Europe, Cornell University, London 1978; C. Frugoni, Unalontana città. Sentimenti e immagini nel Medioevo, Einaudi, Torino 1983,pp. 59 sgg. Il rapporto con la nuova realtà cittadina comporta anchedelle innovazioni nel sistema dei sermones ad status: cfr. M. Corti,Ideologie e strutture semiotiche nei «sermones ad status» del secolo xiii,in Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Einaudi, Tori-no, 1978, pp. 221-42; A. Forni, Giacomo da Vitry, predicatore e «socio-logo», in «La cultura», xviii (1980), pp. 34-89.

26 Cfr. Simone da Cascina, Colloquio spirituale, a cura di F. Dalla Riva,presentazione di C. Delcorno, Olschki, Firenze 1982 e L. Bolzoni, Il«Colloquio spirituale» di Simone da Cascina. Note su allegoria e immagini dellamemoria, in «Rivista di letteratura italiana», iii (1985), pp. 9-65.

27 D. Cavalca, Il pungilingua, a cura di G. Bottari, Giovanni Silve-stri, Milano 1837, p. 240.

28 Ibid., p. 236.29 «Onde in verità è grande male che in quei tempi, nei quali mas-

simamente l’uomo debbe andare a udire i canti della chiesa, vada aveder i balli, e udire li canti vani. Sicché possiamo dire che questi equeste tali saltatrici, cantori e cantatrici sono chierici e religiosi del dia-volo che fanno l’ufficio ed il canto a suo onore» (ibid., p. 242). Pocooltre porta l’esempio di Salomè e commenta: «Sempre è pericolo divedere le femmine vane, e lascivie, molto e vie maggiore è vederle bal-lare e cantare, perocché allora più provocano al male» (p. 242). Un altropasso di Cavalca – in cui si dice che la femmina vana che «si mostraaffatata per piacere carnalmente, sempre pecca mortalmente, e così pec-cano quelli, li quali studiosamente le vanno mirando per carnal piaci-mento» (Specchio de’ peccati, a cura di F. del Furia, Tipografia all’in-segna di Dante, Firenze 1828, cap. i) – è segnalato da Battaglia Ricci,Il «Trionfo della Morte» cit., p. 227.

30 Le riflessioni dei Padri della Chiesa su questo tema sono rac-colte in L. Gougaud, Muta praedicatio, in «Revue Benedictine», xlii(1930), pp. 168-71. Cfr. inoltre L. Febvre, Iconographie et évangeli-sation chrétienne, in Pour une histoire à part entière, Paris 1962, pp.795-819 e S. Settis, Iconografia dell’arte italiana, 1100-1500: unalinea, in Storia dell’arte italiana, Einaudi, Torino 1979, vol. III, pp.175-270.

31 Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino cit., pp. 160-61.32 Cfr. Polzer, Aristotle, Mohammed and Nicholas V cit.33 Sul ruolo della paura nel Trecento, cfr. J. Delumeau, La peur en

Occident (xiv e-xviii e siècles). Une cité assiégée, Fayard, Paris 1978.

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34 Giordano da Pisa, Prediche sulla Genesi recitate in Firenze nel mcc-civ cit., p. 153.

35 Il motivo dell’ordine è presente anche nei versi con cui, a fineQuattrocento, «Michelangnolo di Cristofano da Volterra, trombettoin Pisa», conclude la descrizione della Cosmografia nel suo poemettoLe mirabili et inaldite belleze e adornamento del Camposanto di Pisa (inI. B. Supino, Il Camposanto di Pisa, Barbera, Firenze 1896, p. 309):«Con ordin grande son le ditte cose nel mur già molto antiche conpi-late, e certamente son meravigliose tanto son ben aconcie e ordinate».

36 Il testo è trascritto in Vasari, Vite cit., p. 172. Cfr. anche il sag-gio di Caleca qui raccolto, pp. 35.

37 Cfr. Sap., 11, 21: «omnia in mensura, et numero et ponderedisposuisti»; per le riprese dantesche, cfr. Par., 1, 1; 14, 131.

38 L’iscrizione inizia con «Voi pure prendete l’escha, sì che l’amo»,in Morpurgo, Le epigrafi cit., p. 71.

39 De civitate Dei, XI, 9: «Gli Angeli sono prodotti dall’opera divi-na, per cui anche loro costituiscono quella luce che venne indicata conil nome di giorno». Sul libro tenuto aperto da san Tommaso si legge:«Ordo in rebus a Deo creatis unitatem mundi manifestat; mundus enimunus dicitur unitate secundum quod quaedam ordinentur ad alia»(«L’ordine nelle cose create da Dio rende manifesta l’unità del mondo;infatti il mondo si dice uno, nel senso che costituisce un’unità in cuialcune cose sono ordinate in funzione di altre»: Summa theologica, p.I, q. 47, ad 3m). L’unico lavoro a me noto che studi la Cosmografiatenendo presenti anche le iscrizioni latine è G. Lod. Bertolini, Lacosmografia teologica del Camposanto di Pisa, in «Nuova Antologia», s.V, cxlvii (1910), pp. 720-25.

40 Per verificare questa ipotesi bisognerebbe decifrare le altre iscri-zioni latine e ricostruire un quadro preciso delle tendenze ereticali pre-senti a Pisa nel Trecento. Sulla funzione antiereticale sviluppata dafrancescani e domenicani nella Pisa di fine Duecento, che vede presenzecatare, cfr. Ronzani, Il francescanesimo a Pisa cit., pp. 48-49. Cavalcascrive che «chi… levasse l’immagine di Cristo dalla chiesa, e vi pones-se un idolo, sarebbe riputato paterino e grande nemico di Dio» (D.Cavalca, Medicina del cuore ovvero trattato della pazienza, a cura di G.Bottari, Giovanni Silvestri, Milano 1838, p. 9).

41 Morpurgo, Le epigrafi cit., p. 61, nota 1.42 Battaglia Ricci, Il «Trionfo della Morte» cit., p. 225.43 Frugoni, Altri luoghi cit., pp. 1583-84.44 M. Butor, Le parole nella pittura, trad. it., Arsenale Editrice,

Venezia 1987. Sul rapporto fra immagini dipinte e scritte, cfr. F.Novati, Freschi e minii del Dugento, Cogliati, Milano 1925; M. Scha-piro, Parole e immagini. La lettera e il simbolo nell’illustrazione di untesto, trad. it., Pratiche, Parma 1985; M. Camille, Seeing and Reading:

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Some Visual Implications of Medieval Literacy and Illiteracy, in «ArtHistory», viii (1985), pp. 24-69; Id., The Gotic Ideal. Ideology andImage Making in Medieval Culture, Cambridge University Press, Cam-bridge 1989; C. Ciociola, «Visibile parlare»: agenda, Università degliStudi di Cassino, Cassino 1992.

45 G. Pozzi, Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi, Milano 1993, p. 449.46 Diamo qui di seguito il verso iniziale e la corrispondente pagina

dell’edizione Morpurgo: «Femina vana, perché ti delecti», p. 56; «sevostra mente serrà bene accorta», p. 57; «Tu che mi guardi et sì fisomi miri», p. 60; «poi che prosperitade ci à llasciati» e «I’non sonbrama-[che] di spenger (la) vita», p. 61.

47 J. von Schlosser, Poesia e arte figurativa nel Trecento, in «La cri-tica d’arte», iii (1938), pp. 81-90 (in particolare p. 88).

48 Morpurgo, Le epigrafi cit., pp. 56 e 66.49 Ibid., p. 69. Sulla rappresentazione del conflitto tra vizi e virtù,

cfr. A. Katzenellenbogen, Allegories of the Virtues and Vices in Medie-val Art, from Early Christian Times to the Thirteenth Century, The War-burg Institute, London 1939; M. W. Bloomfield, The Seven Deadly Sins.An Introduction to the History of Religious Concept, with Special Refe-rence to Medieval English Literature, Michigan State University Press,Michigan 1952; J. Norman, Metamorphoses of an Allegory. The Icono-graphy of the Psycomachia in Medieval Art, Peter Lang, Bern 1988.

50 Morpurgo, Le epigrafi cit., p. 81.51 Ibid., p. 8252 Ibid., p. 61.53 Ibid., p. 67. In modo analogo si attua il passaggio dalla seconda

alla prima persona plurale nel sonetto «Humana gente, che nel mondosite» (ibid., p. 66).

54 Cfr. K. Stierle, L’histoire comme exemple, l’exemple comme histoi-re, in «Poétique», iii (1972), pp. 176-98 e S. Suleiman, Le récit exem-plaire. Parabole, fable, roman à thèse, ivi, viii (1977), pp. 468-89.

55 Cfr. «Femina vana, perché non ti delecti», v. 5 (Morpurgo, Leepigrafi cit., p. 56); «O anima, perché non pensi», v. 6 (p. 56); «O pec-cator che in questa vita sei», v. 6 (p. 68) e «Anima savia, se ben mirifiso», v. 1 (p. 69), dove il «se» segue il vocativo iniziale.

56 «O tu che porti la fronte e ’l ciglio», v. 6 (ibid., p. 57); «Se vostramente serrà bene accorta», v. 6 (p. 57); «Del contemplar che nel diser-to amate», v. 10 (p. 78). Ciccuto individua nell’impiego di «or» in fun-zione argomentativa una «vera e propria marca stilistica della prosacavalchiana»; analoga lettura dà di «porre mente», «porre cura»,«mente… accorta», «t’haumilia» (Ciccuto, Giunte a una lettura cit., pp.114-15, nota 8).

57 Anche Michelagnolo di Cristofano da Volterra sembra farsi influen-zare da questo motivo quando, dopo aver descritto il Trionfo della Morte,

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scrive: «Da poi, voltando alla facetta prima, se ben rimir col tuo occhiofisso, monte Calvario vedi» (in Supino, Camposanto cit., p. 307).

58 Morpurgo, Le epigrafi cit., p. 68.59 Ibid., p. 69.60 Nel sonetto che Morpurgo indica come fonte degli ultimi versi

citati, il v. 6 dice: «se non righuardi le chose future» (ibid., p. 68, nota2).

61 Per l’analisi di questo fenomeno come proprio del racconto esem-plare, cfr. S. Battaglia, L’esempio medievale, in «Filologia romanza»,vi (1959), pp. 45-82 e vii (1960), pp. 21-84 ; «Exemplum», a cura diC. Bremond, J. Le Goff e J. C. Schmitt, Turnhout, Brepols 1982(Typologie des sources du Moyen Age Occidental, fasc. 40); Rhétoriqueet histoire. L’exemplum dans le discours antique et médiéval, in «Mélan-ges de l’École Française de Rome», xcii (1980), pp. 9-179.

62 Cfr. C. Frugoni Settis, Il tema dell’incontro dei tre vivi e dei tremorti nella tradizione medioevale italiana, in «Atti dell’Accademia deiLincei. Memorie. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», s.VIII, xiii (1967), pp. 145-251, da integrare con le osservazioni dellastessa autrice nel più recente Altri luoghi cit.

63 Morpurgo, Le epigrafi cit., p. 60.64 Ibid., p. 57.65 La questione va naturalmente ben al di là dell’ambiente domeni-

cano. Basti pensare alla complessità con cui il motivo del «guardarefisso» si sviluppa nella Divina commedia (cfr. ad esempio Purg. X, 118-19; Par. XXI, 16-18; XXXIII, 87-88 e 97-99). Panofsky ha inoltremostrato come funzioni un codice culturale che associa alla cecità unaforte connotazione negativa, tanto da farne l’attributo della morte, del-l’amore e della fortuna (i tre ciechi che guidano la danza sulla terra):cfr. E. Panofsky, Cupido cieco, in Studi di iconologia, trad. it., Einau-di, Torino 1975, pp. 135-83.

66 Cavalca, Specchio di croce, Antonio de’ Rossi, Roma 1738, p. 87.67 Sul topos del deus artifex, cfr. E. R. Curtius, Letteratura europea

e Medioevo latino, trad. it., a cura di R. Antonelli, La Nuova Italia,Firenze 1992, cap. xxi, pp. 609-12.

68 Giordano da Pisa, Quaresimale fiorentino cit., p. 216.69 Ibid., p. 238.70 D. Cavalca, Medicina del cuore cit., p. 55.71 Il procedimento ha alle spalle una lunga tradizione: sull’uso del

simbolismo architettonico, che si sviluppa soprattutto nell’ambiente deiVittorini, a partire dal xii secolo, cfr. H. De Lubac, Exégèse médiéva-le. Les quatre sens de l’Ecriture, Aubier, Paris 1964, vol. II, tomo II,pp. 41 sgg. E si veda l’analoga costruzione proposta da Iacopone daTodi, nella laude Omo chi vòl parlare: «Comenzo el meo dettato | del’omo ch’è ordenato, | là ’ve Deo se reposa, | ell’alma ch’è sua sposa. |

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La mente si è letto | con l’ordenato affetto; | el letto ha quattro pedi,| como en figura el vidi»: i quattro piedi del letto corrispondono allevirtù cardinali (Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Later-za, Bari 1974, n. 65, p. 190, vv. 13 sgg.).

72 Cavalca, Medicina del cuore cit., p. 33.73 Id., Specchio di croce cit., p. 2. Una interessante dimostrazione di

come anche le metafore usate dai domenicani penetrassero nella men-talità del loro pubblico ci è offerta dal testo che, nel 1312, fissa le rego-le comuni alle confraternite della Compagnia della Croce, dei Racco-mandati e dei Laudesi della Vergine Maria di Pisa: «acciò che in questolibro, come in uno specchio ci possiamo riconoscere… una fiata lo mesein della nostra congregatione si legga apertamente, sì che ciascuno lo’ntenda» (G. Meersseman, Études sur les anciennes confréries dominicai-nes. III Les Confréries de la Vierge, in «Archivum fratrum praedicato-rum», xxii [1952], pp. 5-176; in particolare p. 129).

74 Ibid., p. 3.75 Ibid., p. 6.76 Ibid., pp. 167-68.77 Il motivo del Crocifisso come libro era tradizionale; se ne veda

la splendida versione che ne dà Iacopone nella laude Oi dolze Amore:«Vocce currendo | en Croce legendo | en el Liver che c’è ensanguina-to; | cà issa scriptura me fa en natura | e ’n filosofia conventato. | OLibro signato, | che dentro è ’nnaurato, | ch’è ’tutto fiorito d’Amore!»(Iacopone da Todi, Laude cit., p. 198, n. 69, vv. 49 sgg.).

78 Cfr. la documentazione iconografica raccolta in aa.vv., San Bona-ventura 1274-1974, I, Il dottore serafico nelle raffigurazioni degli artisti,Collegio San Bonaventura, Grottaferrata 1973.

79 Su questo tipo di prodotto misto, cfr. E. Sänger, Über die Struk-tur des Bilderkodex in Trecento, in «La critica d’arte», iii (1938), pp. 131-34; F. Saxl, A Spiritual Encyclopaedia of the Later Middle Ages, in «Jour-nal of the Warburg and Courtauld Institutes», v (1942), pp. 82-134 (conun’appendice di O. Kurz, pp. 134-37); S. Settis, recensione a G. Pozzi,La parola dipinta, Adelphi, Milano 1981, in «Rivista di letteratura ita-liana», i (1983), pp. 405-10; Bolzoni, Il «Colloquio spirituale» cit.; Id.,Allegorie e immagini della memoria: il ciclo della «Torre della sapienza»,in «Kos», 30, aprile-maggio 1987, pp. 54-61. Sulla fortuna, iconogra-fica e letteraria, delle immagini usate dal Cavalca, cfr. M. Evans, AnIllustrated Fragment of Peraldus’s «Summa» of Vice: Harleain Ms. 3244,in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», xlv (1982), pp.14-68 (in particolare pp. 20 sgg.).

80 Sull’arte della memoria nel Medioevo cfr. H. Blum, Das Mnemo-tecnische Schriftum des Mittelalters, Hildesheim, New York 1968 (1a ed.1936); P. Rossi, Clavis universalis. Arti mnemoniche e logica combinato-ria da Lullo a Leibniz, Ricciardi, Milano-Napoli 1960; F. A. Yates,

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L’arte della memoria, trad. it. Einaudi, Torino 1972; F. Ohly, Annota-zioni di un filologo sulla memoria, in Geometria e memoria. Lettera e alle-goria nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1984, pp. 109-88; Jeux de mémoi-re. Aspects de la mnémotechnie médiévale, a cura di B. Roy e P.Zumthor, Vrin-Presses de l’Université de Montréal, Paris-Montréal1985; J.-Ph. Antoine, Ad perpetuam memoriam. Les nouvelles fonctionsde l’image peinte en Italie. 1250-1400, in «Mélanges de l’École françai-se de Rome», c (1988), pp. 541-615;. M. Carruthers, The Book ofMemory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge Univer-sity Press, Cambridge 1990. Può essere interessante ricordare che pro-prio a Pisa, nel gennaio del 1308, Raimondo Lullo scrive sia l’Ars bre-vis, quae est imago artis generalis, sia il Liber ad memoriam confirmandam.

81 Cfr. C. Segre, Bartolomeo di san Concordio, in Dizionario biogra-fico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1964, vol.VI, pp. 768-70.

82 Gli ammestramenti degli antichi ben presto circolano associati alTrattato della memoria artificiale, in cui è volgarizzata la parte della Rhe-torica ad Herennium dedicata all’arte della memoria. Fra Bartolomeo ècitato fra i padri fondatori dell’arte della memoria accanto a Ciceronee a Pietro da Ravenna da Ludovico Dolce (Dialogo nel quale si ragionadel modo di accrescere et conservar la memoria, Giovanbattista Sessa,Venezia 1582, p. 90).

83 «Sacrarum literarum fuit hic amplissima bursa», in Bonaini, Cro-naca cit., pp. 441 e 444.

84 «Erat quaedam arcula scientiae, ut rem tibi, lector, incredibilemsed veram referam. Non est auctor apud nos, sive saecularis sive eccle-siasticae disciplinae, quem non sciverit, et (ut ita loquar) esset eiusmemoria et intellectus quasi quoddam armarium scripturarum» (inibid., pp. 451 e 553).

85 Un santo padre, scrive il Cavalca, «disse ad uno che si lamenta-va de’ pensieri e della memoria che aveva delle favole e storie de’ libride’ poeti che aveva letti, perocché gli impedivano la purità della mente,che se egli voleva esser libero, li conveniva studiare con gran fervoree perseveranza la Scrittura divina, e occuparsene sì la memoria che nonv’abbiano più lluogo gli altri vani e mali pensieri» (Cavalca, Medicinadel cuore cit., p. 206). Sull’uso di imparare a memoria la Bibbia, cfr.J. Leclerq, Cultura monastica e desiderio di Dio. Studio sulla letteraturamonastica del Medioevo, trad. it., Sansoni, Firenze 1957, cap. v. Sullamemoria monastica, cfr. J. Coleman, Ancient and Medieval Memories.Studies in the Reconstruction of the Past, Cambridge University Press,Cambridge 1992.

86 Cfr. Carruthers, The Book of Memory cit. e Id., Inventional Mne-monics and the Ornaments of Style. The Case of Etymology, in «Conno-tations», ii (1992), pp. 103-14.

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87 Cavalca, Vite de’ santi Padri cit., vol. I, p. 65. Interessante è ancheil seguito: sant’Antonio studiava le virtù, così come si manifestavano nellevarie persone, «e per questo modo tutti considerando e da tutti esemploe studio d’alcuna virtù traendo, quasi come pasciuto e caricato di fiori tor-nava al suo romitorio, e quivi tutte le virtudi ch’avea in altrui singular-mente vedute, si riducea a memoria, e quasi per santa considerazionemasticandole, brigava d’incorporarlesi amando e seguitando». Una spe-cie di ideale «istruzione per l’uso» per le scene della Tebaide.

88 Cfr. A. Battistoni, La Compagnia dei disciplinati di San GiovanniEvangelista di Porta della Pace in Pisa e la sua devozione verso frate Gio-vanni Soldato, in «Bollettino della Deputazione di Storia patria perl’Umbria», lxv (1968), pp. 199-228; A. Caleca, I novissimi: le storie deiSanti Padri e le storie evangeliche di Bonamico Buffalmacco, in Pisa.Museo delle sinopie cit., pp. 55 sgg. e Id., Costruzione e decorazione dalleorigini al secolo xv, in Il Camposanto di Pisa, nota 75 e testo corri-spondente (così come nel saggio di Fulvia Donati, Il reimpiego dei sar-cofaghi. Profilo di una collezione, in Il Camposanto di Pisa, p. 78, 79); Frugoni, Altri luoghi cit., pp. 1634-43. La Frugoni – men-tre il Battistoni colloca la morte di Giovani Soldato alla fine degli anniQuaranta – pensa a una data più antica: fa notare infatti che Giovan-ni non è più menzionato in un documento del 1338 (p. 1636) e ritie-ne che «l’inumazione dell’eremita preesistette certamente alla stesuradell’affresco della Tebaide» (p. 1639).

89 Se ne veda la teorizzazione che ne fa il Cavalca (Disciplina deglispirituali cit., pp. 12-13): «in luogo di que’ santi antichi monaci e romi-ti sono levati li monaci del tempo d’oggi, la sollicitudine de’ quali perla più parte è più in moltiplicare le possessioni che in fervore d’ora-zione», per questa ragione «chi vuole campare, fa bisogno che guardipiù agli esempi vecchi che ai novelli».

90 «Imparate a disciplinarvi, perché il Signore non si adiri e non per-diate la retta via»: cfr. Frugoni Altri luoghi cit., p. 1641.

91 A questa tradizione si rifanno ad esempio il Vasari (Vita di AndreaOrcagna) e, nel Seicento, il canonico pisano Totti (cfr. G. B. Totti,Notizie e avvenimenti storici diversi riguardanti la città di Pisa, BUP, cod.595, p. 30).

92 Mi riferisco naturalmente a E. Auerbach, Figura, in Studi dante-schi, trad. it., Feltrinelli, Milano 1963, pp. 176-226.

93 Molti sono, nella bibliografia sul Camposanto, gli accenni alla pre-senza dantesca; mi limito a ricordare Battaglia Ricci, Ragionare nel giar-dino cit.; Polzer, The Role of the Written Word cit.; importante è ancheil commento all’Inferno scritto da Guido da Pisa (cfr. Caleca, Novissi-mi cit., p. 56).

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