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UNA VUOVA PROSPETTIVA SUL TEMA DEL NUCLEARE IN ITALIA

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INTRODUZIONE Quello che segue è una serie di memo e analisi progettati e prospettati per consegnare ai decisori politico-istituzionali un listino “fare” in merito alle grandi questioni connesse alla tematica del nucleare italiano.

Abbiamo pensato di dividere questi argomenti in “grandi scommesse” e “cigni neri”.

Le “grandi scommesse” sono i punti che i suddetti decisori dovrebbero prendere in considerazione d’investire il proprio potere, tempo e prestigio per porre in essere importanti e necessarie iniziative che possono avere un impatto trasformativo sul sistema Italia e sulla sua eredità.

I “cigni neri” sono eventi a bassa probabilità di riuscita ma ad alto impatto politico- reputazionale e che possono deviare le scelte dei decisori dai propri fini superiori, sistemici e direttamente connessi all’interessi nazionale.

Si tratta di eventi così drammaticamente negativi (sia in senso fisico del termine che politico che sociale e reputazionale) che si dovranno adottare quelle opportune misure in anticipo per evitare che tali eventi abbiano luogo.

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Capitolo 1

Le principali lessons learned del nucleare italiano da non ripetere 1.1 Il referendum post-Chernobyl del 1987

È stato da poco celebrato in Italia il 28° anniversario del referendum post-Chernobyl che ha inopinatamente e senza eguali per celerità nella storia industriale mondiale portato l’Italia fuori dalla produzione elettronucleare, ovvero spento l’impiego nazionale della tecnologia nucleare per usi civili con la chiusura delle centrali nucleari di potenza per la produzione di energia elettrica.

A quasi 30 anni da tale evento appare quanto mai opportuno ricordare le cause e i fatti che hanno portato ad una decisione che la storia dimostrerà essere stata sbagliata e iniqua per modalità, scellerata per conseguenze e nefasta per sistematicità.

Richiamare la storia e sottolineare gli errori in modo pragmatico e non ideologico è un esercizio di alta qualificazione, unico in grado di cercare di fare in modo che i decisori politici possano in futuro commettere nuovamente gli stessi errori.

La sincerità di analisi e fattuale è un esercizio oggi quanto mai raro e non facilmente riconoscibile.

Si preferisce discutere dell’ovvio, con meccanismi rituali e luoghi comuni, così che le decisioni vengono prese in modo innocuo per l’avversario e la collettività e redditizio per i decisori.

L’esito di questa modalità di decision-making è la non crescita sistemica nel medio-lungo periodo, alla quale siamo – ahimè! – purtroppo abituati da troppi anni.

Ricordare in modo sincero e pragmatico la versione dei fatti è anche utile per sottolineare come chi circa 30 anni prima aveva impostato tutta la crescita industriale nazionale e, ancora prima, il posizionamento dell’Italia sullo scacchiere geopolitico mondiale sull’energia nucleare, si è poi messo in prima fila per decretarne la dissoluzione, per poi, una volta cambiata la nomenclatura geopolitica mondiale nel post Guerra Fredda, ritornare sui propri passi. Ormai il danno era compiuto.

È anche utile per trarre delle lessons learned per l’industria, il mondo accademico- scientifico, i mezzi di informazione e i decisori politici.

A parere di chi scrive, non può essere un referendum a chiudere programmi scientifico-economici strategicamente enormi.

Le cause vanno ricercate in ciò che ha permesso l’approdo al referendum del 1987. In altre parole, essere consapevoli di ciò che si è fatto e non si è fatto e delle motivazioni delle scelte è condizione necessaria - ma, purtroppo, non sufficiente - affinché la capacità di scelta su programmi sistemico- strutturali sia basata su analisi serie, bilanciate e di medio-lungo periodo e non assolutiste, fondate su ideologismi spesso

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mutabili e poco orientati al compromesso e al dibattito serio.

Altro motivo è l’analisi strategica dello spazio e del tempo delle decisioni.

Un programma di rimodulazione della struttura d’offerta del sistema energetico, soprattutto del sistema elettrico, e, principalmente se s’intende introdurre l’opzione elettronucleare, richiede tempi lunghi, nell’ordine di due-tre decenni, per avere i primi concreti effetti di sistema, di “dotazioni d’ambiente” e di “catena del valore”.

Beninteso, tali tipologie di scelte sono inversamente proporzionali rispetto alle capacità dell’inevitabilmente lungo e del conseguibile.

Infatti, la politica deve saper scegliere nell’immediato se intende realmente raggiungere gli obiettivi scelti per il futuro.

Sarebbe più corretto dire se intende veramente perseguire gli interessi nazionali – vitali e strategici - e sistemici che uno Stato è in dovere di darsi con pieno rigore tecnico-scientifico e di visione strategica, e/o di rinunciare a perseguire nell’orizzonte temporale prescelto. Infatti, ogni scelta presuppone almeno una rinuncia, che, il più delle volte, è anch’essa potenzialmente sistemica, d’impatto socio-culturale e rispondente ad un’analisi costi-benefici più semplice e notiziabile rispetto a scelte e programmi più faticosi ma strutturalmente più importanti. Di questo occorre sempre tenerne conto nel processo di decision-making.

Pertanto, le scelte non possono essere inversamente proporzionali rispetto alle specifiche modalità attuative da parte dei decisori politico-istituzionali, su cui possa realizzarsi l’architettura industriale e di ricerca.

Pensare – viceversa – che si debba sviluppare prima e in autogestione un sistema accademico-industriale (e, magari, anche finanziario) autonomo, funzionante e funzionale agli interessi nazionali sarebbe un gravissimo errore di opportunismo e faciloneria della classe politico-regolatoria.

Si preferirebbe il facile al necessario e si confonderebbe il giusto con il bene, senza includere nell’analisi le implicazioni che dalla scelta deriverebbe a carico dei diversi soggetti coinvolti.

Non posso non ricordare, al riguardo, l’intervento di Paolo Baffi, Governatore onorario della Banca d’Italia, alla Conferenza dell’energia di Roma del febbraio 1987:

«Non vi è dubbio che la politica seguita per il nucleare, caratterizzata da improvvisazione, casualità negli interventi, frequenti cambiamenti nelle impostazioni generali, non è adeguata a un impegno industriale gravoso, complesso e difficile da impedire un serio e continuo coordinamento tra soggetti diversi e molteplici».

Parole più profetiche non si sono mai lette.

L’8-9 novembre 1987, sull’onda emotiva dell’incidente di Chernobyl del 26 aprile 1986, fu organizzato in Italia un referendum per l’abrogazione di tre articoli di legge.

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Le tre domande rivolte ai cittadini elettori italiani furono le seguenti:

1. abolizione della procedura per la localizzazione delle centrali nucleari. Si chiedeva di abrogare la norma che consentiva al CIPE di decidere sulla localizzazione delle centrali nel caso di non decisione degli enti locali entro i tempi stabiliti. Tale norma era stata creata per evitare, ad esempio, che il sindaco di un piccolo paese dove era previsto l’insediamento di una centrale nucleare potesse opporsi ad oltranza.

2. abolizione dei contributi a Regioni e Comuni sedi di impianti nucleari. Si chiedeva l’abrogazione del compenso ai Comuni che ospitavano centrali nucleari o a carbone, la cd. “monetizzazione del rischio”.

3. abrogazione della norma che consentiva all’Enel di partecipare ad accordi internazionali per la costruzione e la gestione di centrali nucleari all’estero.

I tre quesiti sono stati approvati rispettivamente con il 71,9%, il 79,7% e l’80,6%, con una percentuale media di votanti del 65,1%.

Va subito sottolineato come 2 dei 3 quesiti del referendum sono stati superati dalla normativa successiva: il divieto di compensazioni economiche ai comuni è stato ripristinato, tanto che i comuni sedi di impianti nucleari stanno ricevendo compensazioni economiche sulla base di un inventario radiologico che cura l’attuale, vetusta e irregolare Autorità di sicurezza nucleare italiana (ISPRA), rispetto alle ultime Direttive della Commissione Europea (Direttiva 2009/71/Euratom, Direttiva 2011/70/Euratom e

Direttiva 2014/87/Euratom)1.

Con la privatizzazione dell’Enel, è stata anche ripristinata la norma che consente d’intraprendere iniziative nucleari all’estero.

Resta abrogata la norma che fissa il potere sostitutivo del CIPE d’individuare la localizzazione delle centrali nucleari in assenza di accordo tra gli Enti locali.

Tale compito - secondo l’articolo 25, comma 2, lettera f, della Legge 99/2009 - spetta al Governo.

Come appare evidente, i quesiti non riguardavano le centrali in esercizio e quelle in costruzione.

Di fatto, non si vietava la costruzione di centrali nucleari in Italia, né si abrogavano le norme relative alla costruzione di centrali e alla produzione di energia elettrica dall’atomo.

Ne è testimonianza il fatto che i quesiti furono dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale sulla base di una sentenza della Corte di Cassazione nella quale era scritto che il risultato della consultazione non avrebbe interferito sullo sviluppo dell’energia nucleare cui l’Italia era vincolata in forza del Trattato Euratom, che non poteva essere oggetto di referendum, come previsto dall’articolo 75 della Costituzione Italiana.

Inoltre, il referendum non vietava la possibilità di comprare l’energia elettrica

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prodotta da centrali nucleari all’estero. È infatti esattamente ciò che è successo.

Circa il 70% dell’elettricità importata in Italia è di origine nucleare, proprio quel nucleare che insensatamente abbiamo abbandonato e che ci permette, soprattutto di notte, di chiudere qualche centrale idroelettrica e di immagazzinare energia per far funzionare i pompaggi idrici, che rappresentano un punto di forza del nostro sistema energetico, e di garantire un “bel riposo” alle centrali termoelettriche meno efficienti.

Il Governo, considerati i risultati del referendum, con risoluzione del Parlamento del 18 dicembre 1987, impose all’Enel la sospensione dei lavori della centrale di Trino 2 (Vercelli) e di Montalto di Castro (Viterbo) e decise l’istituzione di una Commissione tecnica, presieduta da Luigi Spaventa, per verificare la fattibilità della sua riconversione a centrale fossile.

Le risultanze della Commissione furono inequivocabili.

Rispetto a tutte le alternative possibili, la soluzione migliore era il completamento della centrale nucleare di Montalto di Castro, essendo già stati spesi circa 4.400 miliardi di lire e i due reattori erano mediamente completati per il 72%.

A rafforzare le conclusioni della Commissione, anche l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) diede parere favorevole alla sicurezza della centrale e alla sua costruzione.

L’esito fu il nulla. In attuazione del referendum, il 10 agosto 1988, il Governo approvò il nuovo Piano Energetico Nazionale (PEN).

È una data da stampare nella memoria di tutti, perché da allora non vi è stata neanche l’ombra di un PEN per l’Italia!

Inoltre, il Governo sospese con una moratoria di 5 anni la produzione di energia elettrica da fonte nucleare, aprendo così la questione di un programma di smantellamento delle centrali e della gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile nucleare.

Si decise – con la conferma del Parlamento del giugno 1990 e la risoluzione del CIPE del 26 luglio 1990 - per la chiusura della centrale elettronucleare di Latina, Caorso (Piacenza) e Trino (Vercelli), anche se Caorso e Trino avevano già superato le verifiche di sicurezza e Caorso era tra le più grandi, moderne e funzionali centrali elettronucleari al mondo.

1 Direttiva 2009/71/Euratom del Consiglio, del 25 giugno 2009, che istituisce un quadro comunitario per la sicurezza nucleare degli impianti nucleari.

Direttiva 2009/90/Euratom, del 19 luglio 2011, che istituisce un quadro comunitario per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi.

Direttiva 2014/87/Euratom, dell'8 luglio 2014, che modifica la direttiva 2009/71/Euratom che istituisce un quadro comunitario per la sicurezza nucleare degli impianti nucleari.

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Nel PEN si sottolineava però l’esigenza di esplorare nuove alternative per consentire in futuro un rilancio del nucleare in Italia, potenziando anche la ricerca per individuare soluzioni impiantistiche innovative e sicure.

Ciò dimostra come il Governo fosse conscio dell’errore che stava compiendo, ma di doverlo compiere, cercando di mettere una “pezza” in caso di ritorno al nucleare.

L’energia nucleare rimaneva ai minimi termini e solo per attività di R&S, su cui sia il PEN sia le decisioni del 1990 s’impegnavano e a cui davano grande risalto! E ciò dimostra come non si possa veramente uscire dal nucleare.

Tutte queste decisioni non erano parte del referendum, ma conseguenza del clima artatamente creato in Italia e a cui il Governo si trovò alla fine costretto a dare seguito, prima per incompetenza o per scarsa partecipazione, poi per interesse.

Va sottolineato che il PEN - abolito con il referendum - prevedeva la costruzione di 5 centrali nucleari da 2.000 MWe (centrali con 2 unità da 1.000 MWe ciascuna) che, una volta entrate in esercizio commerciale, avrebbero consentito un minor consumo di

combustibili fossili pari a circa 17,5 Mtep l’anno (3,5 Mtep x 5 = 17,5 Mtep)2.

Se pensiamo ai dati aggregati sui combustibili fossili e vi sommiamo gli incentivi alle FER, si capisce l’insensatezza per l’Italia di aver abolito l’utilizzo dell’energia nucleare.

Quindi: con la vittoria del sì, il Governo decise per una moratoria di 5 anni, né per la chiusura del nucleare civile, né per l’azzeramento del PEN su cui poggiava la spinta al sistema-Paese.

Invece, scaduta la moratoria scelse - caso unico al mondo! - di chiudere immediatamente - anche la velocità di uscita è unica al mondo! - tutte le centrali elettronucleari italiane in esercizio e di fermare quelle in costruzione, riconvertendole a fossili.

Beninteso, finito il termine della moratoria, era condivisa l’idea che fosse politicamente tardi tornare indietro. L’opinione pubblica aveva la percezione di aver votato la chiusura dell’esperienza nucleare in Italia.

Con il referendum è stato quindi sancito l’abbandono dell’Italia del nucleare come forma di approvvigionamento energetico. Si tratta di un abbandono che i cittadini non hanno mai espresso veramente.

Certamente, gli enormi investimenti delle industrie gasiere e petrolifere italiane (è stato dimostrato che l’industria petrolifera ha versato finanziamenti illeciti ai partiti politici), nonché un costo molto basso del petrolio, rendevano il nucleare poco

2 Nel PEN del 1981 si prevedeva che l’Enel effettuasse – a partire dal 1981 e per 10 anni – investimenti per realizzare 10 unità da 1.000 MWe ciascuna l’anno. Si era calcolato che gli effetti sul livello di produzione, sul valore aggiunto e sull’occupazione sarebbero stati pari a 0,5% del PIL nazionale, con oltre 100 mila posti di lavoro creati.

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competitivo, facilitando la scelta del Governo senza perdere la faccia.

La campagna informativa sul referendum fu a senso unico.

A fronte di due possibili scelte - sì o no - i programmi televisivi, anziché ospitare un contraddittorio, erano popolati secondo una logica partitica, più un posto era riservato agli organizzatori del referendum stesso.

Quindi era prassi che ci fossero 1 o 2 esponenti per il no e 4 o 5 per il sì3.

Il risultato del voto fu un’indicazione del partito e non una riflessione oggettiva sul nucleare.

Furono determinanti l’impegno del PSI a favore del sì e il disimpegno della DC, che dette libertà di coscienza ai propri elettori.

L’inquinamento dell’informazione è stato totale.

Ciò è un vulnus dei partiti politici italiani.

Invece di aprire una seria riflessione sull’interesse nazionale connesso alla situazione energetica del Paese - che, negli anni Ottanta, era deficitaria per mix delle fonti e per capacità di generazione installata – si fecero da parte preferendo difendere la propria poltrona piuttosto che cercare di limitare le paure che media e qualche politico sparso avevano innestato “nei cuori e nelle menti” dell’opinione pubblica.

La questione dell’energia nucleare passò dall’essere asset strategico dell’interesse nazionale a mero strumento di ingegneria elettorale.

Nessuno tra i politici - ricordiamo che la base tecnico-scientifica del PCI e della DC era favorevole al nucleare - si sognava di voler correre il rischio di perdere il proprio consenso, cioè i voti che ciascuno non tanto prendeva quanto destina va al proprio partito aumentando di rango e ruolo interni alla gerarchia, in un periodo storico in cui si conta circa un’elezione ogni anno.

E poco importava se sull’altare del sacrificio andavano posti interessi nazionali - quali il futuro della filiera nucleare nazionale e l’equilibrio del nostro sistema energetico - purché Not In My Term Of Office (cd. “sindrome NIMTOF”), ovvero non durante il mio mandato.

3 Sintetica mappa politica del tempo: al governo c’era il pentapartito, nel quale erano

favorevoli al nucleare PRI e PLI, parte della DC, neutro PSDI, contrario PSI. All’opposizione, il PCI era diviso: a favore i miglioristi e qualche altro, il resto contro. L’MSI a favore ma con dubbi. La sinistra più radicale era contro. I nascenti verdi&co. contro.

4 Per un’analisi più completa vedasi Davide Urso, Il decalogo per il ritorno del nucleare in Italia, Franco Angeli, Milano, 2010, pp. 95-103.

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E considerato che i mandati erano plurimi, dovendo la strategia tutelare la propria poltrona e la propria influenza nel partito, si è generata una paralisi decisionale e dell’interesse nazionale che si è ripercossa e riflessa nella consapevolezza dell’opinione pubblica.

Quella che ieri era timore o paura, oggi è certezza.

La “sindrome NIMTOF” negli anni ha generato un “effetto benaltrismo” che non ha eguali al mondo.

E, con esso, si è acuito, fino all’esasperazione, la “sindrome NIMBY” (Not In My BackYard ovvero “non nel mio giardino”).

Siamo quindi convinti – e siamo gli unici a scriverlo4 – che la tanto sottolineata “sindrome NIMBY” non sia la causa della paralisi dei grandi progetti in Italia, ma sia conseguenza della volontà dei decisori politici di far prevalere l’interesse particolaristico (ottimo nel breve periodo e per pochi) rispetto all’interesse nazionale (ottimo nel medio- lungo periodo e per molti, ma spesso scarsamente calcolabile o controproducente nel breve periodo).

Gli anti-nuclearisti sostenevano che le previsioni dell’Enel relative all’aumento dei consumi elettrici fossero sovrastimate, che avremmo sviluppato a breve fonti alternative e che si sarebbe risolto il problema con il risparmio energetico.

Quindi, il nucleare non aveva più ragione di esistere, essendo peraltro molto più costoso dei combustibili fossili come costo di impianto e avendo un rischio di incidente probabilisticamente molto basso, ma dai potenziali impatti catastrofici (cd. “cigno nero”).

Sotto la spinta del mondo scientifico e consapevoli che in Italia erano in esercizio quattro centrali elettronucleari ed era in avanzata fase di costruzione quella di Montalto di Castro, qualche politico tentò di proporre la “strategia presidio”.

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Ovvero mantenere in funzione le centrali esistenti e completare Montalto, mentre si lasciavano decadere tutti i Piani Energetici Nazionali che ponevano la prosecuzione del programma di nuove centrali. La “strategia presidio” sarebbe stata l’ideale.

Si sarebbe mantenuto primario l’opportunismo dei politici nel cavalcare le paure dell’opinione pubblica post-Chernobyl per non perdere o guadagnare voti, si sarebbe minimizzato il programma nucleare nazionale senza buttare via decenni di studi, investimenti e capacità di primario rango a livello mondiale, si sarebbe garantita una copertura della domanda elettrica nazionale da nucleare pari al 7-8%, si sarebbe mantenuta alta la potenza installata in Italia senza dover ricorrere alle importazioni (ovvero a dipendere da Stati esteri) e si sarebbe garantita la sopravvivenza della ricerca tecnologica, dell’industria e della cultura nucleari dell’Italia.

Senza dimenticare che si sarebbero salvaguardati gli oltre diecimila miliardi delle vecchie lire, che è quanto è costato lo stop alla finalizzazione della centrale di Montalto.

Nulla da fare.

Tutto veniva gettato nel debito pubblico, aumentandone la voragine (ma allora era ritenuto un pozzo senza fondo e, soprattutto, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica) e nessuno si azzardava a mettersi contro i Verdi, che erano diventati una minoranza molto rumorosa e battagliera, su una questione complessa quale l’energia nucleare.

Il 9 dicembre 1986 è indetta una grande manifestazione antinucleare a Montalto di Castro, dove dal 1977 è in costruzione una

nuova centrale nonostante le opinioni contrarie dei cittadini, dei movimenti ambientalisti e dello stesso comune. E’ l’ultima manifestazione di una lunga serie: Caorso, Trino Vercellese, il Pec del Brasimone. Il 1986 è stato un anno di campeggi antinucleari e cortei, puntualmente caricati in maniera brutale dalla polizia.

Le richieste del movimento antinucleare sono l’immediata chiusura delle centrali attive in Italia e la riconversione in impianti per l’uso di energia pulita per quelle in via di costruzione.

Il corteo, fortemente sostenuto dai Comitati antinucleari e antimperialisti, prevedeva il blocco della strada di servizio usata dagli operai per l’intera giornata, in modo da non consentire il cambio dei turni e l’ingresso dei camion con i materiali edili.

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Ma anche questo è tipico della classe politica italiana: scarsamente incline a visioni generali di sistema, sempre pronta sui blocchi di partenza a dividersi su tutto e contro tutti e, quindi, portata a schivare soluzioni difficili su questioni complesse favorendo soluzioni facili e opportunistiche.

Infine, un fatto minore ma significativo per testimoniare come i media siano stati partecipi del voto. All’indomani del referendum un giornalista del TG2 disse: “si tornerà ora al petrolio, tutto sommato una fonte naturale”.

Appare del tutto superfluo ogni commento.

Una curiosità: a Caorso (Piacenza), in occasione del referendum vinsero i favorevoli al nucleare.

Ciò dimostra che più il nucleare si conosce e meno fa paura.

*************

In tutta la storia nucleare - che oggi conta circa 15.000 anni-reattore - si sono verificati tre soli incidenti molto gravi:

• il 29 marzo 1979 a Three Mile Island (TMI) in Pennsylvania negli Stati Uniti;

• il 26 aprile 1986 a Chernobyl in Ucraina;

• l’11 marzo 2011 a Fukushima in Giappone.

Se concettualmente i primi due incidenti sono simili - il mal funzionamento dei reattori ha prodotto la perdita del sistema di raffreddamento, cioè è mancato il trasferimento del calore alla turbina prodotto dalla reazione nucleare con il conseguente aumento della temperatura - mentre TMI non ha provocato danni a persone e all’ambiente, Chernobyl ha avuto una risonanza planetaria.

Perché questa differenza?

Occorre dire subito che nell’attuale tecnologia nucleare la probabilità che vi sia una mancanza di raffreddamento in un reattore è infinitamente bassa.

Nel caso in cui ciò dovesse verificarsi una centrale nucleare è progettata per essere in grado di annullare gli effetti di tale malfunzionamento.

Se ciò non dovesse bastare, di pompe di raffreddamento ne vengono installate sempre almeno tre, di cui una può essere in manutenzione e sempre almeno due devono essere pronte a funzionare nel caso remotissimo che una si blocchi.

Tali sistemi di sicurezza - che in una centrale nucleare riguardano tutti i componenti che la compongono - sono definiti ridondanti.

In altre parole, il nucleare è progettato con un “esubero di sicurezza”.

Si tratta dell’unica tecnologia al mondo ad avere standard di sicurezza così ridondanti. Avere una TMI (centrale di generazione II) o una Chernobyl (generazione I) è “impraticabile”.

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Oggi siamo alla III e alla III+. Verso il 2040 avremmo la generazione IV.

A TMI gli effetti furono nulli. Il materiale ad altissima temperatura e fortemente radioattivo non superò neanche la prima barriera di isolamento (ce n’erano altre due). Anche la fuoriuscita di gas dal camino fu insignificante.

Schema semplificato del funzionamento dell'unità 2 del reattore di Three Mile Island

TMI è stato un esempio di successo del sistema di sicurezza anche a fronte di un incidente ritenuto quasi impossibile e che era tecnicamente il più grave mai verificatosi.

Una foto - scattata durante il secondo ingresso dei tecnici nel locale del reattore dopo l'incidente, il 22 agosto 1980 - mostra la parte superiore del reattore all'interno del quale è avvenuta una parziale fusione del nocciolo. Nessun danno è visibile all'esterno. (AP Photo)

In una foto rilasciata dalla Metropolitan Edison Company, la società che gestiva l'impianto di Three Mile Island, un tecnico esce dalla camera pressurizzata adiacente al locale del reattore numero 2 di Three Mile Island, 13 marzo 1980. In quel giorno avvenne il primo ingresso nel locale del reattore dall'incidente del marzo 1979. (AP Photo/file)

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Le uniche complicazioni post-incidente sono state nel campo politico-sociale, dell’informazione al pubblico e dell’ambientalismo militante.

Pur se la centrale aveva retto perfettamente, si diffusero notizie su colossali contaminazioni e apocalittiche stragi di vite umane, accusando le Autorità di nascondere la verità ai cittadini.

Si è arrivati a stimare i morti in 50 mila nel triennio 1980-1982.

L’incidente di TMI provocò zero morti.

Sono state polemiche artatamente create e che hanno lasciato il segno nell’immaginario collettivo molto di più delle pacate spiegazioni degli esperti.

Addirittura il governatore della Pennsylvania, dopo due giorni dall’incidente, ordinò l’evacuazione dei bambini e delle donne incinte dall’area prossima alla centrale.

Si trattò solo di una misura per evitare che l’allarmismo sociale e le denunce lanciati dall’ambientalismo lo potessero mettere in cattiva luce davanti ai propri elettori.

Aspettare due giorni è un non senso.

Se ci fosse stata fuoriuscita di contaminazione, questa avrebbe colpito gli abitanti vicini la centrale in modo immediato.

Elizabeth Cole, una bambina di un anno, in braccio alla madre Karen in una struttura sportiva di Hershey Park, Pennsylvania, 30 marzo 1979. La famiglia Cole viveva in una zona adiacente alla centrale nucleare di Three Mile Island. (AP Photo/Gene Puskar)

Kathy Moody fa giocare la figlia di 13 mesi Christina mentre aspettano in un centro di evacuazione a Hershey Park, Pennsylvania. 31 marzo 1979. (AP Photo/Gene Puskar)

Il vero vincitore dell’incidente di TMI fu la sicurezza nucleare, che fece un ulteriore salto di qualità, divenendo elemento fondante e ultra-ridondante di ogni progettazione, costruzione e gestione delle centrali nucleari, assicurando attenzione ai fattori umano, sociale, ambientale e tecnico. Immediate furono le migliorie agli standard di sicurezza e ai livelli di funzionamento delle centrali in tutto il mondo.

L’incidente di Chernobyl è tecnicamente simile a quello di TMI, ma diverso per la causa dell’evento e per gli effetti sanitari e ambientali.

Chernobyl non fu un incidente nucleare in senso stretto, ma fu la scelta folle di un

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regime totalitario che aveva dato priorità alle esigenze produttive e imperialistiche e non a quelle della sicurezza.

Si era in regime di Guerra Fredda e l’URSS era stata fortemente colpita dall’impennata dei prezzi del petrolio e del gas dovuti alle due crisi petrolifere del 1973 e del 1979.

L’URSS varò un programma per accelerare la costruzione di centrali nucleari, il cui scopo era di avere più petrolio possibile da esportare.

Esito: nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1986 a Chernobyl accadde ciò che in nessuna centrale nucleare al mondo si sarebbe fatto o si doveva e si deve fare.

In uno dei quattro reattori in fermo programmato fu deciso di effettuare un esperimento per mandare al massimo il suo funzionamento, senza darne notizia agli operatori preposti alla sicurezza, che devono dare sempre il consenso e preparare la strumentazione tecnica in caso di eventi anomali, e violando le regole basilari di ogni manuale di esercizio.

Anche l’incaricato all’immissione in rete dell’energia elettrica prodotta ignorava l’esperimento.

Un enorme picco di pressione e di temperatura dovuto all’instabilità del reattore provocò la reazione tra vapore e grafite che liberò grandi quantità di idrogeno con l’esplosione della centrale.

Fu un incidente chimico a seguito di uno nucleare. In pochi istanti si liberò in aria un ampio inventario di radioattività fino a 1,5 km di altezza.

Il materiale più pesante ricadde a terra in un raggio di qualche km, mentre la nube

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colpì aree della Bielorussia e della Russia.

Le prime riprese aree dagli elicotteri mostrano la terribile entità del disastro nucleare.

Le persone evacuate furono 116 mila e ancora oggi esiste intorno al reattore esploso un’area recintata - zona di esclusione - di 30 km di raggio.

Mappa della contaminazione di cesio-137 in Bielorussia, Ucraina, Russia relativa all'anno 1986

Quali furono gli effetti sanitari e ambientali di Chernobyl?

Contaminazioni certificate si ebbero in Ucraina, in Bielorussia e in Russia.

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Fuori da questi Paesi furono rilevati aumenti di radioattività dell’aria insufficienti a destare allarme.

Purtroppo, la suscettibilità ambientalista ebbe di nuovo la meglio sulla scienza.

Molti Stati presero immediate misure inutili sul piano sanitario, ma che servirono al movimento ambientalista per portare avanti campagne anti-nucleari, creare allarme sociale e generare effetto panico e a qualche politico per salvare la poltrona.

Lega Ambiente manifestazione antinucleare

Roma 1986

La corsa degli italiani a svuotare i supermercati per comprare cibo prodotto prima dell’incidente è nei ricordi di molti, così come il “divieto” psicologico di mangiare carne e bere latte di animali da allevamenti in pascoli (l’erba sarebbe stata contaminata!) e l’insalata.

Ciò che fa comprendere quanto queste misure furono del tutto sovrastimate, politicamente utili e socialmente devastanti fu che ogni Paese, pur avendo sistemi di rilevamento della radioattività molto simili, presero decisioni unilaterali e spesso risibili.

Il caso emblematico è quello del latte nei tre Stati del Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo).

In Belgio, le Autorità decretarono che il latte era sicuro e che poteva essere consumato senza alcun rischio.

In Lussemburgo, il latte fu dichiarato sicuro, ma si raccomandava tutela nel darlo ai bambini.

In Olanda, il Governo impose per il consumo del latte un limite bassissimo di presenza di Cesio, poco rilevabile e scarsamente nocivo, che comportò la distruzione di grandi quantitativi.

Guarda caso, tra i tre Paesi proprio l’Olanda aveva il più organizzato tra i gruppi

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ambientalisti ideologici e anti-nucleari che spiegavano attraverso ogni canale di informazione come la nube sarebbe arrivata in Olanda, si sarebbe depositata sull’erba, mangiata dalle mucche e reso il latte radioattivo e pericoloso per la salute.

Poco importava se il latte era scientificamente sicuro - il Cesio non contaminò mai l’Olanda -, esso diventava pericoloso su base emotiva.

In Germania, Paese dalla tradizione ambientalista, molte donne incinte, terrorizzate dalle notizie diffuse non dalle autorità sanitarie, ma dagli ambientalisti, abortirono per paura di far nascere bambini malformati.

Su questo non si può e non si deve scherzare.

Dal grave si passa all’ilarità quando gli ambientalisti della Baviera proposero di evacuare tutti i bambini della regione in Portogallo, considerato l’unico Paese non colpito dalla nube radioattiva!

In Italia fu ridicolo il provvedimento che proibì il consumo di insalata.

Non solo i livelli di radioattività in Italia non superarono i limiti di soglia, ma se proprio ve ne fu un po’, essa era quella più leggera e meno pericolosa.

Bastava lavare le foglie dell’insalata per poterla mangiare tranquillamente.

Paesi come la Francia e il Regno Unito ascoltarono le autorità sanitarie e non si fecero prendere dal panico tranquillizzando i cittadini.

Non dovrebbe essere proprio questo il ruolo di un Governo in caso di incidenti con potenziali rischi per la salute dei cittadini?

Parigi e Londra tennero i nervi saldi e l’Italia - che boicottò l’insalata! - giudicò severamente questa scelta.

I “mitici” ambientalisti - oggi risvegliatisi dopo l’incidente di Fukushima - parlarono di “cecità nucleari, preoccupanti regressioni di massa anche sul piano dell’informazione e della democrazia”.

Oggi più che mai sappiamo chi erano i veri cechi, i veri propositori di una politica che aveva come unico interesse quello di abbassare la cultura di massa fino a rendere l’opinione pubblica schiava di inutili preoccupazioni e paure e avere ritorni in termini di consenso e di voti, chi ha manipolato i mezzi di informazione imbavagliando gli scienziati italiani che cercarono di minimizzare gli effetti dell’incidente (non c’è peggior sordo di chi non vuole ascoltare!) e chi ha fatto degenerare la democrazia sociale e culturale di un popolo che fino a pochi anni prima vedeva nel nucleare un vanto nazionale, un mezzo per rafforzare l’industria, uno strumento di alta qualificazione educativa e accademica e un sostegno all’occupazione e all’innovazione nazionali.

Solo l’Italia ha deciso con un referendum “fantoccio” e anti-storico di azzerare di colpo il piano nucleare nazionale.

La risposta non ci viene dalle foglie dell’insalata che tutti gli altri Stati del mondo

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continuarono a mangiare, ma dall’esito sfigurante che la chiusura del programma nucleare ha avuto in termini economici, industriali, universitari, dei centri di ricerca, nel rendere l’Italia dipendente dall’estero per le sue forniture di energia primaria e nell’abbassare la qualità di vita dei cittadini italiani.

Pensiamo a quanto costa la nostra bolletta e quanto abbiamo pagato quella sciagurata scelta.

Le conseguenze mortali e sanitarie dell’incidente di Chernobyl sono state studiate per anni dal progetto delle Nazioni Unite, Chernobyl Forum, condotto dall’Organizzazione

Mondiale della Sanità. Gli esiti sono stati presentati a fine 2005 alla 60ma sessione dell’Assemblea Generale e resi pubblici nel 2006 con il rapporto Health Effects of the Chernobyl Accident and Special Health Care Programmes. I risultati sono:

• Morti dirette: 134 persone contaminate gravemente, di cui 28 morirono nello stesso 1986 (operatori presenti e vigili del fuoco che hanno cercato per giorni di spegnere l’incendio senza adeguate protezioni alle vie respiratorie) e altre 19 nel periodo 1987-2004 per varie cause, probabilmente connesse alle radiazioni ricevute.

Altre 2 persone morirono non per cause radiologiche, ma per incidenti durante le operazioni di soccorso. Totale: 30 vittime certe dirette di Chernobyl, ovvero 49 se si includono tra le morti dirette anche le 19 vittime fino al 2004.

• Morti latenti o indirette (effetti ritardati o previsioni di breve-medio-lungo periodo): lo studio ha diviso gli abitanti in due sottogruppi. Il primo, i liquidatori, cioè i 600 mila addetti civili e militari che hanno lavorato agli interventi emergenziali e alla costruzione di opere di consolidamento dal 1986 al 1990 e che sono quelli che hanno assorbito maggiori radiazioni.

Il secondo sottogruppo è rappresentato dalla popolazione in generale.

Per quanto riguarda i liquidatori, nel periodo 1986-1998 le morti accertate attribuite a Chernobyl sono 216, di cui 116 da neoplasie e 100 da malattie cardiovascolari.

La dose assorbita dai liquidatori russi è di circa 100 mSv5.

Per dare un’idea di cosa significa assordire 100 mSv, una TAC comporta una dose da 2 a 18 mSv secondo il macchinario utilizzato, che la dose naturale a cui siamo tutti esposti è di 2,4 mSv l’anno, pari a 180 mSv medi assorbiti durante l’intera vita (circa 220 mSv medi per gli italiani).

Esistono zone del Pianeta naturalmente radioattive molto oltre i 100 mSv assorbiti dai liquidatori, soprattutto in India, Iran e Brasile.

In queste zone, molti studi hanno dimostrato che nessun effetto sanitario o genetico oltre la media nazionale è riscontrabile nelle popolazioni locali, né effetti negativi sulla flora e sulla fauna.

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Per i residenti nelle aree contaminate ucraine, russe e bielorusse, vi è stato un incremento di casi di cancro alla tiroide.

Nel periodo 1992-2000 ne sono stati diagnosticati 4.000.

I morti accertati fino al 2004 sono 15, meno dell’1%.

Tutti gli studi epidemiologici svolti in queste aree dal 1986 al 2004 non hanno evidenziato alcun incremento della mortalità per leucemia, neoplasie solide e altre malattie correlabili alle contaminazione post-incidente.

• Totale complessivo: le vittime certe dirette causate da Chernobyl nel periodo 1986-2004 sono massimo 280.

Beninteso, una brutta aritmetica e un conto di perdite di vite umane pesante e da stigmatizzare, ma ben al di sotto dalle catastrofiche previsioni insensate e apodittiche degli ambientalisti anti-nucleari, che hanno parlato e continuano a farlo di migliaia di morti diretti e di oltre 300 mila vittime indirette.

Sempre secondo l’Oms, l’incidente di Chernobyl avrebbe prodotto un aumento della probabilità di contrarre un tumore dello 0,3-0,6% per la popolazione interessata, con possibili 4.000-9.000 morti addizionali in un periodo di 80 anni.

Per correttezza d’informazione, dopo l’incidente i casi di stress psicologico sulla popolazione colpita aumentarono.

Casi di depressione, malattie psicosomatiche e suicidi devono essere tenuti in considerazione.

Il problema è capire se questi casi, numerosi ma imprecisati, siano da ricondurre alle ansie dall’esposizione radiologica e allo sconvolgimento socio-economico a seguito alle massicce migrazioni forzate di popolazioni, specie nelle aree prossime alla centrale, o all’effetto panico generato dagli anti-nuclearisti e da scelte di Governi del tutto insensate e lontane dalla realtà scientifica. Poi, mai dimenticare la “maestra storia”.

Nel 1987 era in atto il collasso dell’Impero sovietico che si è tradotto in una drammatica riduzione delle condizioni di vita di milioni di cittadini e in un crollo socio-economico devastante.

Sapere quanti dei morti per depressione o suicidi siano causa di Chernobyl, di false informazioni cariche di “effetto-panico” o delle pessime condizioni di vita dei cittadini per il crollo del regime sovietico è impossibile.

5 La Commissione internazionale per la protezione radiologica (Icrp) ha adottato ipotesi cautelative e indicato in 100 mSv il limite massimo di dose in situazioni di emergenza. Secondo molti studi internazionali di settore tale limite dovrebbe essere fissato a 200 mSv.

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Anche le conseguenze sull’ambiente sono meno devastanti di quanto sostenuto.

Nei tre Stati principalmente soggetti a contaminazione, in 30 anni i livelli di radioattività sono scesi in media tra 120 e 1.200 volte e la quasi totalità dei territori sono considerati sicuri per attività umane.

Nella “zona di esclusione” di Chernobyl, i valori si sono ridotti di oltre 5.300 volte e oggi la radiazione ambientale è vicina alla radiazione di fondo che tutti noi assorbiamo per il solo fatto di vivere (2,4 mSv l’anno).

L’Italia ha una radiazione di fondo vicina ai 3 mSv l’anno.

Scrivere un numero senza spiegarne il significato non è utile, per cui Vi darò alcune spiegazioni.

La radiazione di fondo è la radiazione ionizzante “normalmente” presente nell’ambiente, derivante da una varietà di fonti, sia naturali che artificiali: radiazioni cosmiche e radioattività ambientale, come ad es. quella prodotta dai materiali radioattivi naturali (ad es. radon e radio), dai test storici delle bombe atomiche e nucleari, dagli incidenti verificatisi in passato in alcune centrali nucleari, etc.

In pratica, se nessuna fonte specifica di radiazioni ionizzanti risulta preoccupante, la misura totale della dose di radiazioni presa in un determinato sito è generalmente chiamata radiazione di fondo, e questo è di solito il caso in cui viene misurato il tasso di dose ambientale (o intensità della dose) a fini ambientali, che è la quantità di radiazione alla quale si è esposti in un’ora, espressa in microSievert all’ora.

La radiazione di fondo varia, comunque, sia con la posizione sia con il tempo.

Più in generale, la radiazione di fondo è quella dovuta a tutte le fonti diverse da quella che vogliamo misurare.

La misurazione del fondo è dunque importante quando le misure di radiazione sono prese per una sorgente di radiazione specifica e lo sfondo può influenzare tale misurazione.

Un esempio può essere la rilevazione di una contaminazione radioattiva in un fondo di raggi gamma, il quale potrebbe aumentare la lettura totale rendendola superiore a quella dovuta alla sola contaminazione.

La radiazione di fondo naturale

La radiazione di fondo naturale è prodotta dalle radiazioni cosmiche e dalla radioattività ambientale naturale.

L’esposizione alle radiazioni provenienti dalle fonti naturali è una caratteristica inevitabile della vita quotidiana sia negli ambienti lavorativi che negli ambienti pubblici.

Questa esposizione è nella maggioranza dei casi poco o nessuna preoccupazione per la società, in quanto tutti gli esseri viventi si sono adattati evolutivamente nel corso del tempo a tale livello di esposizione.

La radioattività ambientale naturale è dovuta al materiale radioattivo che si trova in tutta la natura.

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Quantità rilevabili di radioattività naturale si possono infatti misurare nel suolo, nelle rocce, nell’acqua, nell’aria e nella vegetazione, ed in ciò che viene inalato e ingerito dal nostro corpo.

Oltre a questa esposizione interna, gli esseri umani hanno un’esposizione esterna ai materiali radioattivi che rimangono al di fuori del proprio corpo e alle radiazioni cosmiche provenienti dallo spazio.

La media mondiale della dose equivalente assorbita dagli esseri umani dovuta alla radiazione di fondo naturale è di circa 2,4 millisievert (mSv) all’anno.

Questo valore deve costituire il riferimento per stimare eventuali valutazioni di rischio radioprotezionistico.

Tuttavia il livello del fondo naturale di radioattività varia significativamente da luogo a luogo. In Italia, ad esempio, la dose equivalente media valutata per la popolazione è di 3,3 mSv/anno, ma varia molto da regione a regione.

La dose efficace individuale media annuale per la popolazione italiana risente del contributo della esposizione al radon indoor, superiore alla media mondiale, e della esposizione a radiazioni gamma terrestri, legate entrambe alla presenza di radionuclidi di origine naturali presenti nella crosta terrestre.

Nella tabella qui sotto è possibile vedere i singoli contributi.

Stima dei contributi della radiazione di fondo naturale alla dose efficace media

individuale annua della popolazione italiana (fonte: ISPRA).

La dose equivalente di 2,4 mSv/anno che si ha, in media, a livello mondiale è pari a quattro volte la media mondiale della dose equivalente dovuta invece alle radiazioni ionizzanti artificiali, che nel 2008 ammontava a circa 0,6 mSv all’anno.

In alcuni paesi ricchi – come gli Stati Uniti e il Giappone – la dose equivalente annua dovuta alla radiazione artificiale è in media superiore a quella dovuta alla radiazione naturale, a causa di un maggiore accesso della popolazione all’imaging medico.

La radioattività ambientale naturale

Una componente della radioattività ambientale naturale è dovuta agli stessi raggi cosmici secondari, i quali causano anche la trasmutazione di elementi chimici presenti nell’atmosfera, combinandosi con nuclei atomici che si trovano in essa e generando così diversi nuclidi, ad un tasso considerato praticamente costante su lunghe scale di tempo, da migliaia a milioni di anni.

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In tal modo, possono essere prodotti molti cosiddetti “nuclidi cosmogeni”, ma probabilmente il più notevole di questi è il carbonio-14, un isotopo di carbonio debolmente radioattivo.

Questi nuclidi raggiungono la superficie terrestre e possono venire incorporati dagli organismi viventi.

L’incorporazione in organismi e l’emivita relativamente breve del carbonio-14 sono i principi utilizzati nell’analisi al carbonio per datare antichi materiali biologici, quali manufatti in legno o resti umani.

Tuttavia, la componente principale della radioattività ambientale naturale è quella di origine terrestre.

Le radiazioni terrestri comprendono solo fonti che restano esterne al corpo.

I principali radionuclidi di preoccupazione sono il potassio, l’uranio e il torio ed i loro prodotti di decadimento, alcuni dei quali – come radio e radon – sono fortemente radioattivi ma si presentano in basse concentrazioni.

La più grande fonte di radiazioni del fondo naturale è il radon, un gas radioattivo che emana dal suolo e si propaga nell’aria.

Il radon ed i suoi prodotti di decadimento contribuiscono a una dose media inalata di 1,26 mSv/anno.

Il radon è distribuito in modo non uniforme e la sua distribuzione varia con il tempo, per cui si possono ricevere dosi molto più elevate in molte aree del mondo, dove rappresenta un pericolo per la salute, essendo la seconda causa di cancro polmonare dopo il fumo.

La maggior parte del fondo atmosferico naturale è causata dal radon e dai suoi prodotti di decadimento.

Lo spettro gamma mostra picchi prominenti a 609, 1120 e 1764 keV, appartenenti al bismuto-214, un prodotto di decadimento del radon.

Il fondo atmosferico, comunque, varia notevolmente con la direzione del vento e con le condizioni meteorologiche.

Il radon può essere rilasciato dal suolo anche in episodi improvvisi, formando “nubi di radon” in grado di viaggiare per decine di chilometri.

Il radon viene prodotto di continuo con un decadimento radioattivo dell’isotopo Rn-222 presente nelle rocce.

Pertanto, anche alcune sorgenti di acqua sotto terra contengono quantità significative di radon.

Per essere classificata come acqua minerale con radon, la concentrazione del radon deve essere superiore ad un minimo di 2 nCi/L (o, equivalentemente, a 74 Bq/L).

In Italia, l’attività dell’acqua minerale con radon raggiunge i 2.000 Bq/L a Merano e 4.000 Bq/L nel villaggio di Lurisia, nelle Alpi Ligure.

Il torio e l’uranio (e i loro prodotti di decadimento) sono sottoposti principalmente a decadimento alfa e beta e non sono facilmente rilevabili.

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Tuttavia, molti dei loro prodotti di decadimento sono forti emettitori di gamma.

Il livello di radioattività naturale di origine terrestre tende ad essere, sul mare e su altri grandi corpi d’acqua, circa un decimo del fondo naturale terrestre.

Viceversa, le zone costiere e intorno ai corpi d’acqua possono avere un ulteriore contributo dal sedimento disperso.

Alcuni degli elementi essenziali che compongono il corpo umano – principalmente il potassio e il carbonio – presentano isotopi radioattivi che aumentano significativamente la nostra dose di radiazioni di fondo.

Un essere umano medio contiene circa 30 milligrammi di potassio-40 e circa 10 nanogrammi di carbonio-14, che ha una durata di decadimento di 5.730 anni.

Escludendo la contaminazione interna da materiale radioattivo esterno, la componente più grande dell’esposizione interna delle radiazioni da componenti biologicamente funzionali del corpo umano è da potassio-40.

Tuttavia, un atomo di carbonio-14 si trova nel DNA di circa la metà delle cellule, mentre il potassio non è una componente del DNA.

Il decadimento di un atomo di carbonio-14 nel DNA di una persona succede circa 50 volte al secondo, trasformando un atomo di carbonio in uno di azoto.

La dose interna media globale da radionuclidi diversi dal radon e dai suoi prodotti di decadimento è di 0,29 mSv/anno (di cui 0,17 mSv/anno da potassio-40, 0,12 mSv /anno dalla serie di uranio e torio e 12 μSv/anno dal carbonio-14).

Monitoraggio della radioattività in Europa

Le mappe di radioattività realizzate grazie alle reti nazionali dei singoli Paesi per la misura della

radioattività ambientale sono mappe che forniscono indicazioni utili in caso di gravi incidenti nucleari, esplosioni nucleari o altri eventi di portata regionale o globale; mentre – a causa del numero relativamente ridotto di stazioni – non possono rivelare anomalie su scala locale, cosa in teoria

possibile invece attraverso le nuove mappe “collaborative”, alle quali abbiamo dedicato un articolo a sé.

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Riprendendo il nostro studio , a 200 metri sul reattore di Chernobyl il dosimetro mostra 6,2 mSv l’anno, pari alle radiazioni che assorbono gli abitanti del viterbese o qualsiasi persona che si faccia una TAC e mezzo senza preoccupazioni per la salute.

Effetti deterministici e stocastici

La maggior parte degli effetti negativi sulla salute dell’esposizione alle radiazioni ionizzanti può essere raggruppata in due categorie generali: effetti deterministici (o reazioni tissutali dannose), dovuti in gran parte all’uccisione / malfunzionamento delle cellule a seguito di dosi elevate; e effetti stocastici, cioè effetti che implicano lo sviluppo del cancro in individui esposti a causa della mutazione delle cellule somatiche o malattie ereditarie nella loro prole dovuta alla mutazione delle cellule riproduttive.

Gli effetti deterministici sono quelli che si verificano in modo verosimilmente certo al di sopra di una dose soglia e la loro gravità aumenta con la dose.

Un’elevata dose di radiazioni produce effetti deterministici.

Gli effetti deterministici non sono necessariamente più o meno gravi degli effetti stocastici.

Gli esempi sono: bruciature da radiazione, sindrome da radiazione acuta, sindrome da radiazioni croniche e tiroidite indotta da radiazioni.

Altri effetti includono lesioni polmonari indotte da radiazioni, cataratta e infertilità.

Gli effetti biologici delle radiazioni ionizzanti.

Non esistono prove convincenti per indicare una soglia di dose di radiazioni ionizzanti al di sotto del quale il rischio di induzione del tumore è zero.

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Alcuni effetti delle radiazioni ionizzanti sulla salute umana sono “stocastici”, il che significa che la loro probabilità di comparsa aumenta con il crescere della dose, mentre la gravità è indipendente dalla dose.

Il cancro indotto dalla radiazione, la teratogenesi, il declino cognitivo e la malattia cardiaca sono tutti esempi di effetti stocastici.

L’impatto più comune in tal senso è l’induzione stocastica del cancro con un periodo latente di anni o decenni dopo l’esposizione.

Il meccanismo con cui ciò si verifica è ben compreso, ma i modelli quantitativi che prevedono il livello di rischio rimangono controversi.

Il modello più accettato dalla comunità scientifica dimostra che l’incidenza dei tumori a causa della radiazione ionizzante aumenta linearmente con una dose efficace di radiazioni al tasso del 5,5% per ogni sievert.

Se questo modello lineare è corretto, allora – a parte, evidentemente, ad alcune eccezioni nello spazio e nel tempo, in cui le fonti principali delle radiazioni ionizzanti sono costituite dall’inquinamento radioattivo di origine antropogenica – la radiazione di fondo naturale costituisce la fonte più pericolosa di radiazioni ionizzanti per la salute pubblica generale, seguita dall’imaging medico diagnostico (raggi X, TAC, PET-TAC, DEXA, mammografia, etc.) come seconda fonte per importanza.

Tuttavia, i dati quantitativi sugli effetti delle radiazioni ionizzanti sulla salute umana sono relativamente limitati rispetto ad altre condizioni mediche, a causa del basso numero di casi presentatisi fino ad oggi e per la natura stocastica di alcuni degli effetti.

Gli effetti stocastici, infatti, possono essere misurati solo attraverso grandi studi epidemiologici in cui sono stati raccolti dati sufficienti per eliminare fattori di confusione quali le abitudini nel fumare e altri fattori dello stile di vita.

In tal senso, la fonte più ricca di dati di alta qualità deriva dallo studio dei sopravvissuti alle bombe atomiche giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, sia per l’intensità raggiunta dalle radiazioni prodotte da quegli eventi e, successivamente, dai prodotti di fissione, sia per il lungo tempo trascorso da allora, che ha permesso di assistere al manifestarsi degli effetti a lunga latenza.

Gli esperimenti in vitro e sugli animali sono pure informativi, tuttavia la radioresistenza varia notevolmente tra le specie.

Il rischio di sviluppare il cancro indotto da radiazioni a un certo punto della vita è comunque maggiore per un feto rispetto ad un adulto, sia perché le cellule sono più vulnerabili quando crescono, sia perché la vita è molto più lunga dopo l’assorbimento della dose per sviluppare il cancro.

I possibili effetti deterministici dell’esposizione a radiazioni in gravidanza includono l’aborto spontaneo, i difetti strutturali alla nascita, la limitazione della crescita e la disabilità intellettiva.

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Inoltre, per la madre esposta a radiazioni durante la gravidanza c’è un rischio maggiore di acquisire in seguito il cancro al seno.

Irradiazione dall’interno

Gli effetti dell’irradiazione dall’interno del corpo sono in generale peggiori.

Ad esempio, quando gli isotopi che emettono particelle alfa – radiazioni a bassa penetrazione che normalmente presentano un basso rischio per la salute dovuto all’effetto di schermatura degli strati superiori della pelle – vengono ingerite, esse sono molto più pericolose di quanto la loro emivita o la percentuale di decadimento suggerirebbe.

Ciò è dovuto all’elevata efficacia biologica relativa della radiazione alfa nel causare danni biologici dopo che i radioisotopi emettitori alfa entrano nelle cellule viventi.

I radioisotopi emettitori alfa sono mediamente circa 20 volte più pericolosi – e in alcuni esperimenti fino a 1000 volte più pericolosi – di un’attività equivalente di emissioni beta o di radioisotopi emettitori gamma.

Dunque, l’effetto sulla salute dipende sia dal tipo di irraggiamento (interno o esterno) sia dal tipo di radiazione.

Il radon, un gas fortemente radioattivo che emana dal suolo e si propaga nell’aria, si accumula talvolta negli edifici, dove viene inalato dalle persone.

Esso è in molti Paesi la seconda principale causa del cancro al polmone, dopo il fumo, ed i suoi effetti sono evidenti nei minatori sotterranei esposti al radon e ai suoi prodotti di decadimento.

Inoltre, si ritiene che l’esposizione al radon ed al fumo di sigarette siano sinergici, cioè che l’effetto combinato superi la somma dei loro effetti indipendenti.

La via principale di esposizione al radon è l’inalazione, tuttavia l’esposizione alle radiazioni da radon è indiretta. Infatti, il pericolo per la salute non deriva principalmente dal radon stesso, ma dai prodotti radioattivi formati nel suo decadimento.

Gli effetti generali del radon nel corpo umano sono causati dalla sua radioattività e dal conseguente rischio di cancro indotto da radiazioni.

Il cancro al polmone è l’unica conseguenza osservata di esposizioni al radon ad alta concentrazione.

Sia gli studi sull’uomo che sugli animali indicano che il polmone e il sistema respiratorio sono i bersagli primari della tossicità indotta dai prodotto di decadimento del radon.

Quando il radon viene inalato, i suoi atomi decadono nelle vie respiratorie o nei polmoni, producendo polonio radioattivo e, alla fine, atomi di piombo che si attaccano al tessuto più vicino, esponendo così le sensibili cellule epiteliali bronchiali alle radiazioni alfa, le quali alla lunga possono portare a un cancro ai polmoni.

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Se viene invece inalata una polvere o un aerosol che già trasporta i prodotti di decadimento del radon, il modello di deposizione dei prodotti di decadimento nel tratto respiratorio è diverso.

Le particelle di diametro più piccolo diffondono ulteriormente nel sistema respiratorio, causando un’esposizione continua alle radiazioni alfa, mentre le particelle più grandi – da decine a centinaia di micron – spesso si depositano più in alto nelle vie aeree e vengono eliminate dalla scala mobile mucociliare del corpo.

In ogni caso, le energetiche radiazioni alfa, con alcune radiazioni associate, possono danneggiare le molecole vitali nelle cellule polmonari, creando radicali liberi o causando interruzioni o danni nel DNA, e causando in esso delle mutazioni che a volte diventano cancerose.

Inoltre, attraverso l’ingestione e il trasporto da parte del sangue, dopo l’attraversamento della membrana polmonare da parte del radon, i prodotti radioattivi possono essere trasportati anche in altre parti del corpo.

Gli effetti del radon, qualora presente nel cibo o nell’acqua potabile, sono sostanzialmente sconosciuti.

Secondo l’Agenzia per le Sostanze Tossiche e il Registro delle Malattie (ATSDR) statunitense, si sa che, dopo l’ingestione del radon disciolto in acqua, l’emivita biologica per la rimozione del radon dal corpo varia da 30 a 70 minuti.

Più del 90% del radon assorbito viene eliminato per esalazione entro 100 minuti. Dopo 600 minuti, solo l’1% della quantità assorbita rimane nel corpo.

Chernobyl poi è situata in un’area vicina a corsi d’acqua che hanno sempre rappresentato una risorsa strategica d’acqua potabile, anche per la capitale Kiev, per l’irrigazione dei terreni agricoli e per le attività di pesca.

Se le radiazioni avessero compromesso l’ecosistema, le conseguenze per le popolazioni sarebbero state gravissime.

I risultati di rilevazioni rigorose in oltre 15 anni hanno evidenziato che le dosi ricevute dalle popolazioni dal bere l’acqua potabile e mangiare prodotti agricoli e pesce sono del tutto trascurabili.

Effetti negativi si sono avuti nelle aree forestali, con un aumento della mortalità di piante e selvaggina.

I materiali radioattivi di Chernobyl sono stati depositati su fiumi, laghi e alcuni serbatoi d'acqua sia nelle aree vicine al sito del reattore che in altre parti d'Europa.

La quantità di materiali radioattivi presenti nei corpi idrici diminuì rapidamente durante le prime settimane dopo la deposizione iniziale perché i materiali radioattivi decaddero , furono diluiti o furono assorbiti dai terreni circostanti.

Pesce ha assorbito iodio radioattivo molto rapidamente ma i livelli sono diminuiti rapidamente a causa del decadimento radioattivo . La bioaccumulazione del cesio

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radioattivo lungo la catena alimentare acquatica ha portato a concentrazioni elevate nei pesci in alcuni laghi, fino alla Scandinavia e alla Germania.

I livelli di stronzio-90 nel pesce non hanno portato ad una significativa esposizione umana , in particolare perché si accumula nelle ossa piuttosto che nelle parti commestibili.

I corpi acquatici sono ancora contaminati dal deflusso di cesio-137 a lunga vita e dallo stronzio-90 rilasciato da terreni contaminati.

Allo stato attuale, l'acqua e il pesce di fiumi, laghi aperti e bacini artificiali hanno bassi livelli di cesio-137 e stronzio-90.

Tuttavia, in alcuni laghi "chiusi" senza flussi in uscita in Bielorussia, Russia e Ucraina, acqua e pesce rimarranno contaminati dal cesio 137 per i decenni a venire.

I livelli di contaminazione del Mar Nero e del Mar Baltico erano molto più bassi di quelli in acqua dolce a causa della maggiore diluizione e distanza da Chernobyl.

Figura: Concentrazioni di attività media di 137 Cs nel pesce dal bacino di Kyiv (UHMI 2004) - nei pesci non predatori (Bream)

-in pesce predatore (luccio)

Fonte: Forum delle Chernobyl dell'ONU

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Grazie alle attività di bonifica, tali aree sono diventate un santuario della biodiversità e Chernobyl e la sua “zona di esclusione” (grande quanto la Provincia di Roma) un ecosistema naturalistico, con una rigogliosa vegetazione e una ricca fauna.

Un recente studio pubblicato su Current Biology ha evidenziato che dall’incidente ad oggi la fauna ha dapprima sofferto per la presenza di maggiori radiazioni, ma poi ha iniziato a crescere costantemente raggiungendo i livelli delle maggiori riserve regionali.

Oggi nella zona d’esclusione sono stati censiti lupi, alci, cervi, cinghiali, caprioli, lepri, scoiattoli, visoni e donnole, procioni, linci, martore e così via, e solo considerando la fauna mammifera.

Beninteso, pur non soffermandosi sullo stato di salute dei mammiferi, lo studio evidenzia in modo scientifico come gli effetti esiziali dell’uomo siano di gran lunga maggiori di un incidente nucleare come quello di Chernobyl considerato come catastrofico.

Secondo Il Professor Jim Smith – specialista di scienze ambientali dell’Università di Portmouth nel Regno Unito e coordinatore dello studio – “è molto probabile che i numeri della natura siano addirittura migliori rispetto a prima dell’incidente”.

Basti pensare che la popolazione dei lupi nella zona di esclusione è oggi sette volte superiore rispetto a quattro riserve naturali che si trovano nelle vicinanze.

Quella di alci, cervi e cinghiali è paragonabile a quella delle riserve.

Addirittura i caprioli sono decuplicati rispetto al 1996 (10 anni dopo l’incidente e inizio delle misurazioni e censimenti delle zone di Chernobyl e limitrofe).

Ma ciò che è più importante è che il censimento dimostra che questi dati sugli esemplari non diminuiscono avvicinandosi alla centrale e alle aree di massima contaminazione rimasta.

Lo scienziato inglese arriva ad una conclusione: “quando gli uomini vanno via, la natura fiorisce, anche nello scenario del peggior disastro nucleare del mondo”.

Beninteso, questo non vuol dire che un eccesso di radiazioni faccia bene alla flora e alla fauna, ma che l’analisi sui dati incrociati tra probabilità del rischio, magnitudo del rischio ed effetti degli incidenti dimostrerebbe che i danni causati dall’uomo sono di gran lunga maggiori.

Occorre riflettere!

Per correttezza d’informazione, uno studio similare del 2014 ha evidenziato che il danno causato dalle radiazioni ai microbi che vivono nella zona di esclusione avrebbe rallentato la decomposizione delle foglie secche, e il loro accumulo avrebbe fatto aumentare il rischio di incendi.

Concludendo, comunque, che sulle piante le radiazioni sembrano avere un impatto ancora minore rispetto agli animali.

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Il Governo ucraino ha deciso di aprire ai turisti la “zona di esclusione”.

Dal 2002 circa mille turisti l’anno si recano a Chernobyl con pacchetti viaggio, pagando da 130 dollari per una visita di gruppo (12 persone) fino a 500 dollari per un’escursione privata sotto stretta sorveglianza di una guida ben addestrata.

In realtà, Chernobyl veniva già visitata negli anni 90’, quando Stalkers proponevano ai turisti di scoprire il luogo, ovviamente in modo del tutto illegale e decisamente costoso. In quel contesto, il governo chiudeva un occhio sulla situazione.

Tuttavia, la situazione cambiò nel 2011 ma soprattutto l’anno successivo durante gli Europei del 2012 (evento organizzato congiuntamente alla Polonia).

Un milione di turisti erano attesti a Kiev. Molti di loro volevano visitare il sito e il governo ha preso la palla al balzo. In questo oscuro tour vogliono tutti visitare Pripyat, (in molti la paragonano a Pompei), la famosa città fantasma che si è svuotata in qualche ora dei suoi 50 000 abitanti dopo l’esplosione. La scuola, i teatri, la palestra ogni struttura è stata abbandonata a sé stessa e consumata dal tempo in un luogo, fino a qualche tempo fa, costantemente deserto.

Oggi Chernobyl è visto dal Governo non più come simbolo di catastrofe, ma orgoglio

nazionale, fonte di guadagno, rispetto della salute e rinascimento naturalistico.

La Comunità internazionale, la Commissione Europea e istituzioni finanziarie globali stanno pensando di trasformare Chernobyl in un grande laboratorio.

L’esperienza accumulata in questi anni è un patrimonio dell’umanità da utilizzare.

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Oggi, vicino la centrale lavorano 3.300 persone in massima sicurezza per completare la rimozione delle scorie al riparo di un futuro contenitore molto più grande di quello distrutto.

Un contributo che sgombra ogni dubbio sull’attuale situazione viene dal libro di Piero Angela “La sfida del secolo”, in cui si può leggere un fatto accaduto in occasione delle riprese di una puntata speciale di Super Quark su Chernobyl.

«Per sicurezza la troupe è stata dotata di un dosimetro, cioè un apparecchio in grado di misurare le radiazioni assorbite.

Poiché per le riprese dello Speciale dovevamo entrare nella zona interdetta, cioè entro i 30 km dalla centrale, ci è sembrata una precauzione necessaria.

Infatti, non solo abbiamo visitato e girato la cittadina fantasma di Pripjat, la più vicina alla centrale, ma ci siamo anche avvicinati a meno di 100 metri dal “sarcofago”, dove sono rinchiuse le rovine radioattive del disastro nucleare.

Ebbene, prima di partire, il direttore della fotografia, oltre al dosimetro da portare addosso, se ne era fatto consegnare un altro che aveva lasciato nella sua abitazione a Roma.

Sorpresa. Quando al ritorno siamo andati a leggere i dosimetri, quello rimasto a Roma aveva registrato una dose di radiazioni maggiore di quelli che avevamo indossato per tutto il viaggio nella zona interdetta e nella visita alla centrale di Chernobyl.

Almeno nella nostra esperienza, vivere a Roma comporta una dose di radiazioni più alta di quella assorbita nella zona intorno a Chernobyl».

I sampietrini di Piazza San Pietro registrano circa il doppio della radioattività intorno alla zona proibita di Chernobyl!

Nelle catacombe di Priscilla, sempre a Roma, i livelli di radioattività sono addirittura 12 volte superiori!

Roma è una delle capitali al mondo più radioattive e i romani sono “vaccinati”, visto che non ci sono incidenze di neoplasie o di malattie anomale rispetto alla media!

Lo potremmo definire “effetto-Mitridate”, il re che si premuniva contro il veleno assumendone piccole dosi.

La stazione ferroviaria di New York ha il doppio della radioattività della zona proibita di Chernobyl!

Una piccola città termale del Brasile - visitata ogni anno da migliaia di persone per curarsi - ha livelli di radioattività circa 13 volte superiori a Chernobyl!

Addirittura, in Giappone si pratica il “culto della radioattività”.

Il Paese di Misasa, nella prefettura di Tottori, immerso in una vallata tra verdi montagne è frequentata da circa un millennio per le sue acque termali, che sono le più

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ricche al mondo di radio, elemento chimico molto radioattivo.

Misasa Spa è una delle sorgenti termali più altamente radioattive le cui acque contengono principalmente 222 Rn (437 + - 132 Bq.litre -1 ).

Il contenuto di radon dell'aria interna delle case private e degli hotel di cura (in legno) nella gamma Misasa spa va da 18,5 a 55,5 mBq.litre -1 e da 22,2 a 129,5 mBq.litre -1 , rispettivamente.

I contenuti di radon nell'aria delle strutture che utilizzano le acque sorgive presso l'Ospedale della filiale di Misasa dell'Università di Okayama sono stati misurati come: bagno 807 + - 78 mBq.1 -1 , bagno con serbatoio di Hubbard, 5306 + - 2568 mBq.litre -1 ; la sala da bere, 1491 + - 178 mBq.litre -1.

Il tasso ambientale e di dose all'interno delle case private è stato misurato in 14.0 + - 1.8 μR.h -1

Solo nel 2014 sono andate a curarsi oltre 400 mila persone.

Studi effettuati dall’università di Okayama dimostrano che il tasso di cancro dei cittadini del paesino è più basso della media nazionale e che l’acqua è benefica per la circolazione sanguigna, i reumatismi e la rigenerazione delle cellule!

Inoltre, a pochi chilometri da Misasa, a Ningyo-toge, è stata scoperta nel 1955 l’unica miniera di uranio del Giappone e oggi ospita un centro di ricerca e di arricchimento dell’uranio.

Il terzo incidente nucleare severo è stato quello alla centrale di Fukushima in Giappone.

Ad agosto 2011, i dati sugli effetti della triade terremoto-tzunami-incidente nucleare erano i seguenti: il terremoto e lo tzunami hanno prodotto circa 30 mila morti, circa 200 mila sfollati, 15 mila case distrutte e 125 mila edifici rasi al suolo; l’incidente nucleare, 3 morti (nessuno da contaminazione) e 21 persone contaminate, che hanno lo 0,2% in più di probabilità di contrarre un tumore nell’arco dell’intera vita rispetto ad un suo compatriota lontano dall’incidente.

Decisamente meno del binomio terremoto-tzunami di Kanto in Giappone del 1923, analogo per intensità e forza delle onde: 130 mila morti, Tokyo e Yokohama furono quasi distrutte e oltre la metà della popolazione delle due città rimase senza tetto.

Non c’era ancora il nucleare.

Decisamente meno in proporzione dell’altro disastro ambientale, sempre in Giappone, il terremoto di Kobe del 1995, con una magnitudo di 7,3 gradi della scala Richter (più forte del sisma di Haiti del 2010). I morti furono 6.000 e gli sfollati 300.000. Le centrali nucleari c’erano, funzionavano a pieno regime e hanno retto senza alcun problema.

A dispetto di chi potrebbe pensare che il Giappone essendo uno Stato avanzato dispone di sistemi anti-sismici di altissima efficacia, nel maggio 2008 un terremoto di

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magnitudo 7,9 della scala Richter ha colpito la provincia cinese del Sichuan.

Qui si trovano parecchie centrali nucleari e due a plutonio, oltre a depositi dove sono immagazzinate molte testate nucleari.

Tutti gli impianti, in Cina, hanno retto perfettamente.

Un po’ come per Chernobyl, in Giappone non si è parlato di latte o di insalata, ma degli spinaci!

Gli ambientalisti anti-atomo - minoranza assoluta in uno Stato che deve all’energia nucleare gran parte della crescita economica e sociale - hanno raccontato la favola degli “spinaci avvelenati”, simbolo del cibo contaminato dalle radiazioni velenose post-Fukushima.

I risultati scientifici sugli spinaci, al picco delle radiazioni, hanno evidenziato che se ne dovrebbero mangiare 900 grammi al giorno, tutti i giorni per un anno, per far aumentare di un 4% il “potenziale rischio” di contrarre un tumore nel corso dell’intera vita!

I possibili effetti sanitari dell’incidente sono stati valutati dal rapporto del CANES, Centro di ricerca sui sistemi nucleari avanzati del MIT di Boston, Technical Lessons Learned from the Fukushima-Daichii Accident and Possible Corrective Actions for the Nuclear Industry: An Initial Evaluation.

Circa 300.000 persone che vivono nelle zone vicine alla centrale di Fukushima saranno

esposte ad una dose di radiazioni tra 5 e 20 mSv nel primo anno dopo l’incidente6, il periodo più critico.

Negli anni successivi le dosi di radiazioni calano notevolmente.

Il risultato dello studio è che la probabilità di contrarre un tumore per le persone che assorbiranno nel primo anno dopo l’incidente una dose di radiazioni pari a 20 mSv è dello 0,2% più alto del rischio standard di contrarre un tumore per cause naturali!

Questo +0,2% è peraltro sovrastimato tra 2 e 10 volte e forse anche di più.

Infatti, lo studio è stato condotto nell’ipotesi peggiore, ovvero nel caso in cui le dosi siano assorbite in tempi estremamente ridotti.

Nel caso di radiazioni accumulate nel corso di un anno questo rischio si abbassa notevolmente.

A due anni dal disastro, il 27 febbraio 2013 l’Oms ha pubblicato un rapporto sui rischi per la salute della popolazione rappresentati dalle conseguenze dell’incidente, che ridimensiona di molto le prospettive e gli impatti.

6 20 mSv è il limite di esposizione raccomandato dalla Environmental Protection Agency.

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Tanto per farsi un’idea dell’entità della contaminazione ambientale, la quantità totale di radioattività diffusa nell’atmosfera è stata pari all’incirca pari a un decimo di quella rilasciata durante il disastro di Chernobyl.

Oggi, la stima ufficiale degli è che “è stata la paura delle radiazioni e non le radiazioni stesse a uccidere”.

Lo sfollamento è stato troppo frettoloso e in alcuni casi senza motivo.

Nella maggior parte dei territori sgombrati l’esposizione sarebbe stata di quattro mSv l’anno, poco più dei 2,4 mSv che si ricevono mediamente dalla crosta terrestre, e anche negli hotspot a maggiore inquinamento non si sarebbero mai superati i 70 mSv nei quattro anni, il corrispettivo di fare una lastra l’anno!

Il governo è andato nel panico.

Molte vittime erano in case di riposo, e molte si sono suicidate. Se si evacua un’unità di terapia intensiva e si portano i pazienti in una palestra non ci si può aspettare che sopravvivano!

Di fatto, non ci sarebbe stato neppure un morto per le radiazioni dopo l’incidente del 2011, ma circa 1.600 persone sarebbero morte per lo stress legato all’evacuazione.

Anche gli ultimi dati dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), pubblicati nel 2015, confermano non solo che non c’è stato nessun morto per le radiazioni, ma anche tra i soccorritori i tumori in più provocati dall’incidente rischiano di essere così pochi da non essere rilevabili dalle statistiche.

Il 90% dei circa 1.600 morti per lo stress nella prefettura di Fukushima ha più di 66 anni e “si tratta di persone che hanno dovuto subire cambiamenti drastici nelle proprie vite e ancora non sanno come pianificare il futuro, a partire dal ritorno a casa”.

*************

Ritornando al referendum anti-nucleare, nessuno ha ancora detto tutta la verità in modo sincero.

Bisogna chiedersi il perché quasi nessuno tra chi avrebbe dovuto difendere il nucleare si sia veramente espresso in tal senso, cavalcando la moda del momento che considerava l’atomo come il “diavolo contingente”, e lasciando che la disinformazione inquinasse la scena della discussione.

Non è infatti sufficiente sostenere che più di un partito politico abbia fondato le proprie fortune sul rifiuto dell’atomo, compromettendo il sentiment della popolazione con paure estreme connesse alle centrali elettronucleare, agli impianti di ricerca e ai rifiuti radioattivi.

Sarebbe, infatti, incosciente, così come assolutamente incosciente è stata la demagogia dei partiti, della classe politico-istituzionale e d’informazione, perseverare in un errore di prospettiva che avrebbe come unico effetto quello di

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proiettare ad oggi l’incoscienza e la malafede di ieri, evitando che si possano prendere le doverose e congrue scelte per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi, per lo smantellamento delle installazioni nucleari presenti sul territorio nazionale e, perché no, per scelte sull’introduzione del nucleare attivo in campo civile da fissione e da fusione.

A rigore di memoria, al 31 dicembre 1985, la capacità di generazione nucleare era pari a 1.273 MWe, a cui avrebbero dovuto aggiungersi altri 2.000 MWe di Montalto di Castro e 2.000 MWe di Trino Vercellese, per un totale di circa 5.300 MWe, scontando la chiusura delle centrali del Garigliano, di Latina e di Trino.

L’evoluzione dei PEN italiani è un raro esempio di fallimento e d’inadeguatezza del sistema-Italia rispetto ai reali problemi energetici e ad una fonte energetica complessa come il nucleare.

Dal 1975 al 1985 si contano ben tre PEN (1975, 1977 e 1981) e un documento di aggiornamento (1985). Cioè, 4 modifiche sistemiche in 11 anni (una modifica ogni 3 anni circa!) e nessuna negli ultimi 28 anni, ad esclusione della SEN (Strategia Energetica Nazionale) del 2013, che però non è né un vero e proprio piano, né una vera strategia, ma è una somma di desiderata visto che il documento è scollato dalla realtà sistemico-infrastrutturale-competitiva nazionale.

L’obiettivo comune dei PEN era di ridurre il peso del petrolio nei consumi energetici nazionali, che nel 1973 era pari al 75%. Si decise di sostituire quasi integralmente il peso dell’olio combustibile nella generazione elettrica con l’energia nucleare.

Il primo PEN del 1975 fu un “PEN nucleare”.

A fronte di una capacità termoelettrica installata di 24.000 MWe, il Piano prevedeva nel 1985 la realizzazione di 19.000 MWe nucleari e nel 1990 addirittura tra i 46.000 e i 62.000 MWe.

L’obiettivo era di coprire con l’atomo i due terzi della domanda elettrica nazionale.

Il PEN del 1977 cominciava a prendere atto delle difficoltà del nostro Paese a trovare i siti idonei ove realizzare le centrali nucleari e a gestire le pressioni delle industrie fossili. Si ridimensionava al ribasso l’obiettivo nucleare al 1985.

Il PEN del 1981 minimizzava i Piani precedenti, prevedendo la realizzazione di 8 nuovi reattori da 1.000 MWe, oltre ai 4 già ordinati (12.000 MWe) e affiancava al nucleare una forte spinta al carbone.

Nel documento di aggiornamento del 1985, si rinviava ancora l’entrata in esercizio delle centrali nucleari, si posticipava quella degli impianti a carbone e si prevedeva – per la prima volta – “l’uso del gas naturale per l’alimentazione di centrali elettriche per utilizzi temporanei e limitati in presenza di ben precise condizioni”.

Eccoci al PEN del 1986! Un boicottaggio, ma con un paradosso.

Nel 1986, la produzione elettronucleare in Italia raggiungeva il suo massimo storico

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con 9 TWh e senza il contributo della centrale di Sessa Aurunca, pari a 4,6% della produzione elettrica nazionale, proprio mentre i detrattori ne decretavano la fine.

Una fine amara e scellerata.

L’Italia fu tra i primi Paesi al mondo a entrare nella tecnologia nucleare e il primo ad uscirne di colpo e senza incrociare i numeri della riconversione a fossile e dell’obbligatoria modifica del sistema strutturale di fornitura energetica nazionale.

Al disastro della decisione si è aggiunta subito la beffa: una settimana dopo la delibera del CIPE che decretava l’uscita dell’Italia dal nucleare, il 2 agosto 1990 le truppe di Saddam Hussein invadevano il Kuwait, il prezzo del petrolio si è alzato e si sono messe subito a nudo le debolezze e le vulnerabilità del nostro nuovo (sic!) sistema energetico.

Per brevità di analisi, in buona sostanza tra la fine degli anni '80 e l’inizio degli anni '90 varie delibere del CIPE disposero la chiusura definitiva delle centrali e dei cantieri nucleari nazionali (ultima del 26 luglio 1990), grazie ad una pericolosissima vacatio di PEN sostenuta solo da una struttura di prezzo e di costo agganciata ad un “buon petrolio” più che competitivo.

Inoltre, negli anni tra il 1987 e il 1995 ci si è preoccupati soprattutto di procedere alla definitiva ed effettiva chiusura degli impianti in esercizio.

Nel frattempo, come detto in precedenza, le disposizioni di legge abrogate con il

referendum sono già state superate dalla legislazione successiva7!

La scelta anti-nucleare oltre che insensata su base tecnica e disastrosa su base economico-sociale era anche anti-storica e piena di amarezza.

L’amarezza sta nelle false argomentazioni che gli anti-nuclearisti sostenevano: le previsioni dell’Enel relative all’aumento dei consumi elettrici erano sovrastimate e quelli dell’area Ocse sarebbero calati (falso!); in Italia la domanda di energia sarebbe diminuita molto - tesi sostenuta dal PSI, dai sindacati con in testa la CGIL, da Legambiente e dal WWF - (falso!); la crescita dei PVS e della Cina sarà sostenuta più che dai consumi energetici, da un’auspicabile rinuncia dei Paesi economicamente forti allo scambio ineguale tecnologia-materie prime (follia!); sviluppo nel breve di fonti alternative riducendo gli alti costi di produzione dell’elettricità a causa del nucleare (falso!); tutti i restanti problemi energetici si sarebbero risolti con il risparmio (follia!); non vi era alcun rischio internazionale che giustificasse un obiettivo di pur minima sicurezza energetica attraverso la presenza del nucleare (falso!).

Al lettore giudicare cosa è avvenuto nei successivi 28 anni.

I consumi elettrici sono aumentati ben oltre le previsioni dell’Enel con la necessità di ricorrere alle importazioni dall’estero per lo più di origine nucleare; non siamo il leader tra i Paesi industrializzati per efficienza energetica e produzione di elettricità pulita; non abbiamo sviluppato fonti realmente sostenibili e di lunghissima durata e quelle che ci sono hanno un basso peso sul mix di produzione nazionale e un alto peso sulla bolletta elettrica; abbiamo aumentato le emissioni di gas serra; la bolletta elettrica è la più cara

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d’Europa; il kWh italiano è tra i più cari al mondo; la domanda mondiale di energia è cresciuta a ritmi impietosi, spinta soprattutto dai PVS; ecc.

Si potrebbe andare avanti, ma sarebbe ingeneroso per chi ha continuato con lungimiranza e in isolamento industriale, accademico e di ricerca a puntare sul nucleare.

Serve però a far capire il disastro delle politiche ambientaliste e anti-nucleari ricche di ideologia e povere di scienza.

Il Parlamento italiano, nel giugno 1986, poco più di un mese dopo l’incidente di Chernobyl, impegnava il Governo a convocare una Conferenza nazionale dell’energia per valutare la compatibilità del documento di aggiornamento del PEN del 1985 e la condizione energetica del Paese.

Furono istituite tre Commissioni preparatorie: Commissione “Economia, energia e sviluppo” presieduta da Paolo Baffi, “Ambiente e sanità” da Umberto Veronesi e “Aspetti normativi e istituzionali” da Leopoldo Elia.

Le risultanze delle tre Commissioni erano tutte per la continuità del programma nucleare italiano, così come i 79 questionari formulati da università, associazioni ed enti pubblici, le 170 relazioni presentate alla Conferenza nazionale dell’energia del 24- 27 febbraio 1987, le 2.700 pagine che composero gli atti e l’appello firmato da 700 fisici italiani.

Non vennero minimamente presi in considerazione.

Si chiude la rassegna dello “strano” ruolo delle Commissioni con un atto di sincerità fatto dal fisico Carlo Bernardini, all’epoca membro della Commissione PEN, insieme ai massimi dirigenti degli enti energetici dell’epoca (ENEL, ENI, ENEA, ecc.), degli organismi di controllo (tra lui l’allora Autorità di sicurezza nucleare – l’ENEA-DISP), l’Istituto superiore di sanità, il Governatore della banca d’Italia, alti funzionari ministeriali, rappresentanti delle organizzazioni ambientaliste e qualche ospite più o meno desiderato come Felice Ippolito (come vedremo, vittima della sincerità, fu tra i primi casi di malagiustizia dell’Italia, per la quale andò in prigione) e Alberto Clò (nuclearista, oppositore del referendum anti-nucleare e Ministro dell’Industria nel Governo Dini nel 1995):

«Non posso dimenticare facilmente che i vertici di ENEA e ENEA-DISP fornirono al Ministero dell’Industria, più di quanto non facesse l’ENEL, ogni possibile pezza d’appoggio per cancellare il nucleare, compreso il “modestissimo” che avrebbe permesso di non bruciare le competenze faticosamente messe in piedi in decenni e a caro prezzo 1, comma 42, della Legge n. 239/2004.

7 La norma che consentiva al CIPE di determinare le aree di insediamento di centrali nelle ipotesi di non accordo degli enti locali è declinato nella Legge costituzionale n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V della Costituzione (vds. art. 117, comma 1, e art. 120, comma 2).

La norma che stabiliva compensazioni ai Comuni è superata dall’art. 1, comma 4, lettera f, della Legge

n. 239/2004 (“Legge Marzano”). La norma che dava all’Enel la possibilità di agire all’estero è stata riformulata dall’art.

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Per opportunismo, non solo si liquidarono competenze preziose, ma non si esitò ad ingigantire i rischi del nucleare anziché incoraggiare una pacata discussione.

Non ci si accontentò di diffondere falsi miti energetici (come il solare ed il vento), ma non si fece niente per combattere la demonizzazione del nucleare».

Qualcuno potrebbe “giustamente” chiedere: perché?

E magari aggiungere: ma adesso che l’opera di demonizzazione è riuscita per bene, fino a portare il nucleare ad essere nell’immaginario collettivo “politicamente scorretto”, perché si è tentato di rilanciare il nucleare in Italia e chiudere altre speranze con un secondo referendum (guarda caso post-Fukushima), senza in realtà impedire che l’Italia possa – volendolo – ripensare al nucleare nel mix energetico nazionale?

E forse, i più attenti, potrebbero chiedersi e chiedere: se il nucleare è così tanto demonizzato e politicamente scorretto, in che condizioni si potranno smantellare le installazioni nucleare nostrane, gestire e smaltire i rifiuti radioattivi e, soprattutto, localizzare e costruire l’indispensabile e vincolante Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi?

Arriviamo all’amara conclusione che il referendum è stato permesso e si è travisato in ogni sua parte perché mancavano le condizioni industriali e competitive a contorno del frame nucleare nazionale, già prima della campagna referendaria anti-nucleare.

In sostanza, il “regista-Italia” non aveva ingaggiato né uno sceneggiatore, né bravi attori, ma si trovava con le attrezzature operative su un set senza sapere come utilizzarle al meglio e, ovviamente, non avendo le competenze per poterle sfruttare da solo.

Non sentendosela di continuare, ha preferito cancellare il film e perdere quanto faticosamente messo in scena in decenni di attività piuttosto che completare l’opera della costruzione delle dotazioni d’ambiente e della catena del valore.

Ma allora, infine, occorre chiederci: è veramente possibile uscire dalla filiera del nucleare una volta iniziata per qualche decennio la costruzione di un’architettura trasversale a livello sistemico?

La risposta - che si trova leggendo il libro – è “no”.

Pertanto, l’uscita dell’Italia dal nucleare fu una scelta meramente politica e dei poteri forti in un sistema bipolare e geo-strategicamente basato su un’elegante semplicità.

Il nucleare italiano era sacrificabile sull’altare di tale semplicità, di equilibri trans-sistemici di gran lunga più importanti di interessi particolaristici della classe politica che non si è mai degnata di difendere fino in fondo l’interesse nazionale.

Certamente l’uscita dell’Italia dal nucleare non fu una scelta scientifica, né economica, né sociale, né ambientale. Semplicemente perché non poteva esserlo e perché tutte le analisi davano per assodato la supremazia dell’energia nucleare rispetto a tutte le altri fonti primarie.

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Inoltre, non è sulla base dello strumento di democrazia diretta (referendum) che il Governo ha scelto di chiudere la stagione del nucleare italiano, ma sul peso morale e politico del consenso del voto popolare artatamente creato e su cui ancora oggi si fondano le poche ragioni degli oppositori (vedasi il secondo referendum post- Fukushima del 2011).

Prima della Conferenza nazionale dell’energia, l’anti-storicità della decisione anti- nucleare fu fatta rilevare dalla “Dichiarazione dei mille fisici italiani” in un Convegno promosso dall’Associazione Italiana di Fisica.

Una sorta di “spedizione dei Mille” che cercava di rilanciare il “risorgimento del nucleare italiano” in modo volontario e in isolamento politico.

Ma se per Garibaldi vi era la protezione del Piemonte e della Casa Reale, per i nostri scienziati non vi era alcuna possibilità di successo (sic!).

Il nocciolo culturale, base di ogni progresso sociale, era messo in disparte.

È falso che la scienza non si è espressa e che non ha dato il proprio contributo.

I documenti ci sono e sono univoci nel dire che il programma nucleare italiano doveva continuare, così come la costruzione di Montalto di Castro secondo la Commissione Fortuna del dicembre 1987.

La scienza è stata buttata via con sufficienza da una politica utilitarista e schiacciata dalla paura dei cittadini e dalle forti correnti fossili e imbavagliata dai media.

Ciò riflette il livello degli anti-nuclearisti dell’epoca; quelli che, esponendo un parere di minoranza nella comunità scientifica, hanno fatto carriera politica passando sul cadavere del nucleare, deformando e calpestando il sapere tecnico-scientifico e ogni calcolo economico, occupazionale, sistemico e strategico. Gli unici a farne le spese sono stati i cittadini e il sistema-Paese.

Giorgio Prodi, membro della Commissione Veronesi sulle problematiche ambientali e sanitarie, dopo aver sottolineato che “l’energia nucleare è la forma più pulita dal punto di vista ambientale”, scrisse (Sole24Ore, 13 dicembre 1987):

«La leggenda del fronte nucleare teso a vantaggi economico-politici contro gli antinucleari provvisti solo di buona volontà è falsa. È vero l’opposto».

Il Professor Reviglio, ex presidente dell’Eni dal 1983 al 1989 e Ministro delle finanze e del bilancio, ha dichiarato che:

«Il cerchio del “trinomio” sicurezza, indipendenza e controllo dei prezzi per l’energia nazionale si sarebbe potuto far quadrare con il ricorso all’energia nucleare. Ma Craxi mi impediva di dirlo. […] Qualcosa si è fatto sul fronte della diversificazione degli approvvigionamenti ma il rischio non è cambiato perché le aree restano difficili e, d’altra parte, l’incremento di sicurezza concretizzatosi anche nei take or pay ha un costo in termini di onerosità dei prezzi a fronte di una congiuntura assai debole.

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Quanto al gas, occorre più concorrenza nell’importazione che oggi è un quasi monopolio Eni».

La vera sciagura è che se il benaltrismo nostrano, quello che ha intaccato i cuori e le menti dei cittadini su una tematica complessa come quella nucleare, è stato spinto dagli ambientalisti seminando paure su ogni iniziativa e aggiungendo comportamenti di speculazione e di strumentalizzazione tramite una cattiva informazione, lo stesso benaltrismo ha aiutato la nascita di una nuova forma di ambientalismo - quello terzomondista del “no a tutto” nel nome di un ecologismo non si sa bene di che natura - e si è trasformato in una delegittimazione del sapere fino a raggiungere assoluti livelli di comicità.

Ci sono casi in Italia di progetti bloccati pur con caratteristiche di rispetto ambientale, risparmio energetico e riduzione delle emissioni di gas serra, o di “guerriglia” come nel caso della strategica TAV (movimento “No TAV”) o di minacce referendarie delle amministrazioni locali per le trivellazioni off-shore (movimento “No TRIV”).

Chiaramente, in caso di vittoria del “no”, non possiamo poi lamentarci se l’Italia sarà tagliata fuori dai corridoi paneuropei di interscambio, se la nostra capacità di essere player globalizzati a livello comunitario sarà lontana da una ben che minima accettabile sostenibilità, se le risorse di idrocarburi off-shore saranno recuperati dagli Stati viciniori e noi con la necessità di realizzare elettrodotti trans-nazionali per importare elettricità aumentando la nostra dipendenza dall’estero e incidendo sempre sui costi della bolletta elettrica, se, nell’insipienza dei nostri decisori dovremmo cedere quote dei nostri attori industriali strategici all’estero, e così via.

Riprendiamo un’analisi sviluppata nel libro “Nucleare: siamo bravi, furbi o folli”8 che evidenzia l’assenza di una exit strategy italiana, al contrario delle principali potenze industriali di allora, e le conseguenze nefaste sul sistema energetico e, in particolare, elettrico nazionale con la scelta irrazionale di chiudere con l’esperienza elettronucleare in modo ultra-rapido.

Mentre tutti i Paesi industrializzati del mondo hanno sviluppato, dopo le due crisi petrolifere degli anni Settanta, politiche di riduzione della propria dipendenza fossile, grazie principalmente all’introduzione del nucleare nei mix energetici, l’Italia è riuscita ad aumentare il grado di dipendenza fino all’88% e a votare un referendum nel 1987 che ha chiuso - da un giorno all’altro! - il programma nucleare italiano, aumentando di colpo la necessità di coprire le mancanze di rete a tutela dei cittadini e delle imprese.

L’Italia invece di adottare una strategia inclusiva delle quattro fonti di produzione di elettricità di base - che avrebbe abbassato i costi, aumentato la concorrenza tra le fonti, rafforzato la competitività delle famiglie e dell’industria, ridotto le emissioni climalteranti e aumentato l’indipendenza energetica - ha navigato a vista con un approccio di esclusione.

L’energia nucleare era stata abbandonata nel 1987 con uno “strano” referendum (via una!); l’idroelettrico era stato “spremuto” quasi al massimo con ridotti margini di

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crescita (via due!); il carbone - la fonte fossile più inquinante - ha visto un aumento contenuto per ridurre il peso del petrolio (via tre!); ecco il gas, l’unico rimasto fuori dagli scarti energetici (a tutto gas!).

Siamo favorevoli al gas, ma la scelta andava fatta su base sistemica e non con il “gioco delle tre carte”, in cui vince sempre il mazziere e a perdere sono gli scommettitori; nel nostro caso, i cittadini e le imprese.

Guardando poi ai movimenti fisici di energia con l’estero, nel periodo 1963-2010, si può constatare come dal 1963 al 1983 (cioè gli anni di funzionamento delle centrali elettronucleari nazionali) il saldo in termini di GWh era stabile e a basso costo.

La crescita in negativa nel periodo si ha a partire dal 1978, anno di chiusura della centrale nucleare del Garigliano.

Dal 1983, anno in cui inizia il calo della produzione elettronucleare in avanti il sistema-Italia vedrà un andamento talmente crescente da mettere in discussione l’architettura stessa della sicurezza energetica nazionale e della capacità di soddisfare la domanda interna a costi almeno sostenibili.

Purtroppo, dopo oltre 30 anni questa domanda non ha trovato ancora un’adeguata risposta.

L’Italia ha iniziato a produrre elettricità dal nucleare nel 1963, con l’entrata in esercizio della centrale di Borgo Sabotino (Latina). In tutta la sua storia nucleare, l’Italia ha prodotto 90 TWh, così distribuiti:

• Centrale di Borgo Sabotino (LT) da 210 MWe: connessa alla rete elettrica nel 1963, ha prodotto 25,5 TWh. È stata spenta con il referendum del 1987.

• Centrale di Trino Vercellese (VC) da 270 MWe: connessa alla rete elettrica nel 1964, ha prodotto 24,3 TWh. È stata spenta con il referendum del 1987.

• Centrale del Garigliano (Sessa Aurunca - CE) da 160 MWe: connessa alla rete elettrica nel 1964, ha prodotto 12,2 TWh; fermata nel 1978.

• Centrale di Caorso (PC) da 870 MWe: connessa alla rete elettrica nel 1981, ha prodotto 28 TWh. È stata spenta con il referendum del 1987.

8 Davide Urso, Nucleare: siamo bravi, furbi o folli?, Franco Angeli, Milano, 2012.

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La costruzione della Centrale di Borgo Sabotino (LT) da 210 MWe iniziò nell’ottobre 1958 per volontà di Enrico Mattei (ENI).

Fu realizzata dalla società inglese Nuclear Power Plant Company (NPPC) e si basava sulla tecnologia a uranio naturale moderato a grafite (CGR-Magnox).

L’ordinativo veniva dalla Società italiana meridionale energia atomica (SIMEA), controllata al 75% dall’AGIP Nucleare e al 25% dall’IRI.

Fu connessa alla rete elettrica nel maggio 1963 (circa 4,5 anni), producendo 25,5 TWh.

È stata spenta definitivamente con il referendum del 1987, anche se la centrale era ferma già dal novembre 1986.

La costruzione della Centrale del Garigliano, nome del fiume lungo le cui rive fu realizzata la centrale a Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, iniziò nel novembre 1959 da parte della Società elettronucleare nazionale (SENN), controllata da Finelettrica-IRI.

La tecnologia era un BWR (boiled water reactor), con una potenza di 160 MWe, dell’americana General Electric.

L’iniziativa e il progetto originario si devono a Felice Ippolito nell’ambito del progetto “Energia nucleare Sud Italia”, condotto dal Comitato nazionale ricerche nucleari (CNRN) e dalla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), oggi Banca

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Mondiale.

Fu connessa alla rete elettrica nel gennaio 1964 (in circa 4 anni) e venne fermata nell’agosto 1978 e non venne mai più riattivata. Ha prodotto 12,2 TWh.

La Centrale del Garigliano fu un importante esempio di successo dell’industria manifatturiera italiana capeggiata dall’Ansaldo (nata nel 1853 e la più antica industriamanifatturiera nazionale) e controllata da Finmeccanica che era parte del Gruppo IRI.

Nel periodo compreso tra il 1968 ed il 1975, per produrre maggiore energia, l'Enel

sostituì 72 delle 208 barre di Uranio della nocciolo del reattore con barre di Plutonio (tempo di dimezzamento 24mila anni, dose letale 1/10 di milligrammo).

Il camino della centrale del Garigliano, in funzione, immetteva nell’atmosfera 120.000 metri cubi di sostanze aeriformi ogni ora.

L'espulsione del vapore nell'aria veniva trattata dai filtri posti alla base del camino. Secondo la stessa Enel e l'Enea, i filtri erano efficaci al 99,97%.

Fu anche un potenziale successo strategico. Infatti, nell’ottica della costruzione di nuove unità di reattori nucleari, l’IRI costituì il Gruppo aziende IRI nucleare (GAIN), che comprendeva l’Ansaldo (settore dei turboalternatori), Ansaldo San Giorgio (settore alternatori e motori elettrici), Terni (costruzione del contenitore del reattore) e Italstrade (settore delle opere civili).

L’obiettivo era riuscire in una razionalizzazione industriale che proiettasse la filiera nucleare italiana su scala globale.

La costruzione della Centrale di Trino Vercellese (VC) - che fu la prima ad essere stata concepita - ebbe inizio nel luglio 1961 ed entrò in esercizio commerciale nell’ottobre 1965 (la connessione alla rete elettrica avvenne nel 1964), grazie all’iniziativa di Giorgio Valerio, allora presidente della privata Edison, attraverso la controllata Società elettronucleare italiana (SELNI), in partnership con altre aziende elettriche del Nord Italia e con la francese Électricité de France (EdF).

Fu realizzata con tecnologia PWR (pressurized water reactor), di potenza pari a 270 MWe, dall’americana Westinghouse.

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Ha prodotto complessivamente 24,3 TWh. È stata spenta nel marzo 1987.

Prima della costruzione della quarta centrale elettronucleare avvenne in Italia un

episodio decisionale che comportò un primo iniziale disorientamento di quella filiera nucleare che faticosamente si stava generando e che porterà ad una discontinuità nella capacità di decidere per la costruzione di nuove centrali nucleari, di approfondire e fare proprie le tecnologie atomiche, di generare una filiera industriale coordinata e cooperativa nazionale e di creare un’architettura organizzativa di sistemi e di dotazione tecnico-organizzativa a cui era ormai necessario fare riferimento visto l’aumento delle dimensioni della potenza delle centrali nel mondo.

L’episodio è la nazionalizzazione elettrica, decisa con la Legge n. 1643 del 6 dicembre 1962, che concentrerà ogni attività elettrica nell’ENEL, depotenziando la volontà dei privati di investire nel nucleare, ma a cui va dato merito di aver accelerato la nascita del nucleare italiano.

Tra il 1963 e il 1966, le tre suddette centrali nucleari furono trasferite all’ENEL.

L’entusiasmo verso il nucleare era enorme e coinvolgeva finanche gli ambiti politici più scettici, vista l’ampia accettazione da parte dell’opinione pubblica e la tendenza a considerare il progresso tecnologico come base strategica del benessere collettivo.

Nelle linee programmatiche presentate dall’ENEL nel 1966 l’energia nucleare avrebbe dovuto rappresentare il perno della futura potenza elettrica italiana, con l’obiettivo di ordinare nel breve un reattore ogni anno, così da abbandonare, nell’arco di un decennio, gli ordini di centrali convenzionali termoelettriche, nonché capace di raggiungere nel 1990 una potenza nucleare complessiva fino a 62.000 MWe, oltre 100 volte quella allora esistente in Italia.

Per verità di storia nucleare, le prime serie proiezioni sullo sviluppo dell’energia nucleare (prima ancora del PEN del 23 dicembre 1975) in Italia furono formulate nel 1962 dal Professor Carlo Solvetti in un rapporto all’Euratom. Si prevedeva un aumento della potenza nucleare dai circa 600 MWe del 1965 ai 3.620 nel 1975, ai 10.620- 13.730 MWe nel 1980, ai 33.320-46.270 MWe nel 1990, ai 74.030-108.020 MWe nel 2000.

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Le previsioni successive di ENEL del 1967 ipotizzavano un obiettivo pari a 8.800- 10.600 MWe entro il 1980.

Le prospettive della Conferenza di Ginevra del 1971 e quelle successive del 1974 indicavano obiettivi al 1990 rispettivamente pari a 44.000-60.000 MWe e 47.000- 62.000 MWe.

Il 20 dicembre 1973, tre mesi dopo lo scoppio della guerra del Kippur e della prima crisi petrolifera, il Parlamento approvava quasi all’unanimità un ordine del giorno affinché il Governo effettuasse “con urgenza e decisione tutte le misure che portino alla realizzazione di font alternative al petrolio, particolarmente nucleari”.

A dimostrazione che l’atomo fu inizialmente più di sinistra (anche perché era considerato l’unico modo per realizzare l’indipendenza elettrica ed energetica dai fossili importati dagli Stati Uniti), l’ordine del giorno fu presentato dagli onorevoli Bodrato (DC), Achilli (PSI), Di Giesi (PSDI) e Gonnella (PRI) ed ebbe l’MSI come unico oppositore. Il PCI, favorevole, si astenne per motivazioni politiche fuori la questione nucleare.

Nei fatti, non si verificò nulla di tutto questo. Si riuscì a costruire una sola centrale nucleare, quella di Caorso, in provincia di Piacenza. Si trattava di un BWR da 870 MWe connesso alla rete elettrica solo nel 1981, mentre il progetto dell’ENEL era partito nel 1966. Ha prodotto 28 TWh, in 5 anni, con un tasso di utilizzo pari a circa il 55%, contro una media del 70-80% del centrali nucleari del mondo. È stata spenta con il referendum del 1987, dopo una fermata forzata a seguito del ricordato incidente nucleare di Three Mile Island del 1979.

Il ritardo fu causato prima da una lotta sul vincitore della commessa da 140 miliardi di vecchie lire, che premiò dopo tre anni il gruppo pubblico Finmeccanica-Ansaldo, contro il privato FIAT-Tosi-Marelli. La centrale fu messa in costruzione solo nel 1971.

Poi dalla scelta di una tecnologia della General Electric già conosciuta in Italia ma che non aveva eguali per capacità di produzione. Contro i 4,5 anni medi per le prime tre centrali nucleari, per Caorso ci vollero 15 anni, ovvero 16 anni dopo la centrale di Trino Vercellese.

Un vuoto di tempo che peserà enormemente sulla volontà di difendere il nucleare e che facilitò la vittoria del primo referendum del 1987 e che fu acuito da scontri politici estenuanti e che videro tra il 1973 (prima crisi petrolifera) e il 1987 (referendum anti- nucleare) ben 14 Governi diversi e 11 Ministri dell’Industria!

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Dal 1963 al 1981, l’Italia ha quindi costruito un piccolo ma eccelso parco elettronucleare da 1,5 GWe. Nel 1986, il nucleare ha raggiunto la copertura massima del 4,6% dei consumi elettrici nazionali, pur se la centrale nucleare del Garigliano era spenta.

Pertanto, il picco nucleare nazionale è stato raggiunto senza aver avuto la possibilità di esprimere tutte le sue potenzialità.

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Dall’entrata in esercizio delle centrali nucleari di Borgo Sabotino (1963) e di Trino e Garigliano (1964), l’Italia ha visto un lieve aumento delle importazioni, con addirittura nei primi anni Settanta un calo delle importazioni e un saldo con estero sempre migliore. In quegli anni, l’energia nucleare è stata fondamentale per l’Italia per mantenere alti i tassi del boom industriale e per coprire i crescenti consumi dei cittadini.

Con grande orgoglio, nel 1967 l’Italia era il terzo Paese al mondo per potenza nucleare installata, dietro solo a Stati Uniti e Regno Unito.

Quando nel 1978 chiude la centrale del Garigliano, le importazioni di elettricità iniziano di nuovo a crescere. Ciò è testimonianza del fatto che senza i kWh prodotti dal nucleare, l’Italia è dovuta ricorrere all’estero per colmare la mancanza di elettricità.

Inoltre, gli anni Settanta hanno visto le due crisi petrolifere - 19739 (crisi dello Yom

Kippur) e 197910 (crisi iraniana) - che hanno portato nel mondo industrializzato una spinta verso la tecnologia nucleare, che permetteva di avere una maggiore quantità di elettricità nazionale, una stabilità del costo di produzione del kWh rispetto ai rapidi e imprevedibili mutamenti del prezzo del petrolio e una maggiore indipendenza da aree geografiche instabili.

Purtroppo, l’Italia ha visto ridurre la produzione elettronucleare proprio quando serviva di più.

Nel 1981, è entrata in esercizio Caorso, la più grande centrale nucleare italiana.

Dopo un anno di calo delle importazioni, esse sono cresciute in modo molto rapido, ma il saldo della bilancia commerciale elettrica si è mantenuto in deficit basso e facilmente gestibile.

Tale aumento delle importazioni non testimonia della scarsità dell’impatto del nucleare - nel 1986 il nucleare in Italia ha toccato il picco del 4,6% di copertura del fabbisogno elettrico e con una centrale nucleare in meno - ma del fatto che l’Italia era entrata nel “boom economico”.

Senza il nucleare, l’Italia avrebbe dovuto aumentare le importazioni in modo esponenziale con un deficit poco sostenibile.

A dimostrazione di ciò vi sono i dati sull’andamento del deficit di bilancio elettrico: nel 1964-'66 (anni di punta della produzione elettronucleare italiana) il saldo con l’estero era molto basso: le importazioni sono calate, anche se il tasso di crescita della domanda elettrica era molto alto (mediamente tra il 1963 e il 1970, la crescita media è stata dell’8% annuo).

Nel 1972, il saldo era praticamente nullo, pari a 0,2 TWh. Nel 1973, anno della prima crisi petrolifera, il deficit era ancora molto basso, pari a 0,89 TWh.

Dal 1978 (chiusura della centrale del Garigliano) al 1981 (entrata in esercizio della centrale di Caorso), le importazioni sono cresciute, mentre negli anni 1981-'82 si è assistito, per la prima volta dagli anni 1963-'64 e 1972-'73 ad un calo del deficit con

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l’estero, anche se la domanda di elettricità nazionale è crescita dello 0,2%. Il nucleare ha avuto un impatto positivo sui consumi dell’industria e dei cittadini italiani.

Dal 1985 il deficit è andato costantemente in crescita e proprio nel 1987 - anno del referendum anti-nucleare - l’Italia ha assistito alla più forte impennata del deficit di bilancio elettrico (-26%, anche se i consumi sono aumentati del 5%).

Nel 2010, ultimo anno pre-crisi - il deficit è stato di 45,7 TWh. Il che significa che dal 1987 ad oggi, il deficit elettrico italiano con l’estero è aumentato di oltre il 250%, mentre i nostri consumi sono cresciuti del 66%.

A fine 2014 (ultimi dati a consuntivo) – cioè, dopo 5 anni di forte crisi che ha depresso i consumi, quindi la domanda, la capacità di offerta è solo rallentata (la potenza di generazione è calata solo del 2,3% dovuta alla chiusura di centrali termoelettriche obsolete), e meno rispetto al calo della domanda (-2,5% rispetto al 2013 e attestatasi a 310,5 TWh), una crescita esponenziale delle nuove rinnovabili (sole e vento) fortemente sussidiate e investimenti massicci in efficienza energetica, le importazioni nette dall’estero sono state pari a 43,7 TWh, ovvero 3,7% in più rispetto al 2013.

9 La crisi energetica del 1973 fu causata soprattutto dall’inaspettata interruzione dell’approvvigionamento di petrolio dei Paesi Opec verso le nazioni importatrici, soprattutto gli Stati dell’Europa Occidentale. Il prezzo del petrolio quadruplicò in pochi mesi. I Governi europei vararono provvedimenti per diminuire il consumo di petrolio ed evitare gli sprechi. In Italia, il governo Rumor varò un piano nazionale di austerity economica per il risparmio energetico che prevedeva cambiamenti immediati: il divieto di circolare in auto la domenica, la fine anticipata dei programmi televisivi, la riduzione dell’illuminazione stradale e commerciale. Insieme a questi provvedimenti, il Governo impostò una riforma energetica con la costruzione, da parte dell’Enel, di centrali nucleari per limitare l’uso del greggio. In tutta l’Europa Occidentale si diffuse la consapevolezza della fragilità e della precarietà dei propri sistemi e si sviluppò un forte interesse verso fonti di energia alternative al petrolio, come il gas naturale e l’atomo, per cercare di dipendere meno dal greggio e dai Paesi esportatori. Dal 1973 cominciarono ad entrare nel vocabolario parole come ecologia, risparmio energetico, ecc. simboli di un cambiamento della mentalità delle persone.

10 Si verificò un brusco rialzo del prezzo del petrolio dopo la rivoluzione iraniana del 1979. Il rovesciamento del regime dello Scià bloccò la produzione petrolifera del Paese innescando forti speculazioni.

Il petrolio arrivò a 85 $/barile, creando difficoltà di approvvigionamento nel mondo occidentale. La crisi si è conclusa all’inizio degli anni Ottanta con il tranquillizzarsi dello scenario mediorientale e la messa in produzione di nuovi giacimenti petroliferi in Paesi non-Opec, soprattutto nel Mare del Nord e in Alaska.

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È chiaro che qualcosa non torna!

Inoltre, se si guarda il dettaglio degli anni crisi si nota come la percentuale della produzione nazionale rispetto alla richiesta di energia elettrica sia inversamente proporzionale rispetto alla dinamica economica.

Infatti, nel 2014 la produzione nazionale ha soddisfatto l’85,9% del fabbisogno, per un valore pari a 266,8 TWh, ma con una riduzione del 3,4% rispetto al 2013.

Nel 2015, in cui i dati sul PIL sono lievemente migliori, i dati statistici dovrebbero ritornare vicino se non superare in negativo quelli del 2010 in termini di importazioni nette di elettricità, con un aumento del differenziale tra energia elettrica importata e quella esportata che, incredibilmente, ha un andamento crescente anche considerando il calo della produzione netta del 3,5% (da 378,8 TWh del 2013 a 269,1 TWh del 2014), una riduzione del 6,7% dell’elettricità destinata ai pompaggi, una minore perdita di rete migliorata dell’8,2% (da 21,2 TWh del 2013 a 5 TWh nel 2014), ma un aumento delle importazioni lorde del 5,4% solo parzialmente colmato con una crescita delle esportazioni (da 2,2 TWh del 2013 a 2,03 TWh del 2014).

Il tutto condito dal fatto che 12 Regioni su 20 hanno un deficit di produzione rispetto al fabbisogno!

All’indomani dell’incredibile e terzomondista blackout elettrico del 28 settembre 2003, la paura dell’opinione pubblica, il riconoscimento di un sistema energetico antiquato e vulnerabile e il malcontento verso le classi dirigenti hanno risvegliato l’animo nucleare sopito da 25 anni.

Quindi, al danno, la beffa!

In un attimo tutta l’Italia restò al buio. In quel momento la domanda elettrica era ai minimi e tre quarti delle centrali erano spente.

Record mondiale di inefficienza! La colpa fu data ad un guasto alle linee di trasmissione dalla Svizzera e all’incapacità degli svizzeri.

Facile dare la colpa agli altri! Però rimase sotto silenzio il fatto che proprio quelle linee, a causa della nostra fame di elettricità da importazione - più economica di produrla a casa nostra (sic!) -, erano state sovraccaricate esponendo così l’intero sistema elettrico nazionale ad un rischio enorme. Si disse addirittura - non potendo solo incolpare gli altri - che alla causa contingente della “famosa” caduta di un albero che avrebbe rotto una linea di trasmissione elettrica svizzera con una susseguente caduta a domino dell’apparato, ci fu una concausa strutturale italiana dovuta all’insufficienza della nostra potenza elettrica.

Nulla di più falso visto che tre quarti delle centrali erano spente.

Il Professor Marzano, allora Ministro delle attività produttive, in un risveglio nuclearista disse: «il peccato originale del blackout è l’abbandono del nucleare».

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In conclusione, i 20-30 mesi in cui si sono decisi i principali atti legislativi che hanno portato l’Italia fuori dal nucleare civile sono stati del tutto incompatibili e anti storici rispetto alle esigenze dell’economia nazionale, ma anche europea e globale.

D’altro canto, la filiera nucleare nazionale non aveva dato il meglio di sé. Rispetto ad un’elevata e stimabile capacità di offerta elettronucleare, la ricerca, il mondo accademico e le realizzazioni industriali si contraddistinguevano per un forte tasso di “massimalismo progettuale”, sfruttando le risorse a pioggia che venivano concesse dallo Stato.

L’ENEA degli anni Ottanta è un esempio di come, per convenienza politica e per carrierismo, si sia spinto sui grandi progetti di lunghissimo periodo senza dare seguito alle esigenze del breve-medio.

Inoltre, lo scontro d’interessi ha prevalso sulla capacità di cooperazione.

Visto che la filiera della tecnologia nucleare è sistemica per definizione, la mancanza di volontà da parte dello Stato di cooperare è propedeutica al fallimento dell’intero comparto e/o programma. In altre parole, l’assenza - per volontà, ignoranza, opportunismo, lottizzazionismo, ecc. - di capacità di coordinamento e programmazione strategica - ineludibili per una tecnologia endemicamente sistemica - ha dato spazio ad altri caratteri propri di una siffatta tecnologia, ovvero l’essere tecnicamente complessa, socialmente controversa ed economicamente discussa.

Si è esacerbato il pluralismo delle iniziative contro in mancanza di una struttura organizzativo-regolatoria interattiva (governance della filiera amministrativa-industriale- accademica), ma soprattutto di una exit strategy fatta di nuove opzioni migliorative e innovative efficienti, affidabili e con senso di responsabilità.

Senza farlo apposta, alle stesse conclusioni siano pervenuti due esponenti del periodo nucleare, Sergio Vaccà e Giovanni Battista Zorzoli:

«Il nostro paese ha dimostrato che le principali carenze verificatesi nell’esperienza nucleare sono derivate da un insufficiente e non adeguato impegno nell’organizzazione delle strutture decisionali con le quali si proponeva di progettare e al tempo stesso controllare la gestione delle imprese nucleari […] il nostro paese viene oggi a trovarsi a fortiori in una situazione particolarmente difficile e tale – almeno per i momento – da non consentire l’uso della stessa espressione cultura nucleare […] un impegno non solo difficile, ma complesso nella sua architettura e ben poco riconducibile alle difficoltà proprie delle produzioni elettriche tradizionali».

A ciò va aggiunto - come sottolineato da Alberto Clò11 e come meglio vedremo nei paragrafi successivi - che la possibilità dello Stato di svolgere con accortezza, consapevolezza, competenza e serietà le suddette funzioni apicali di coordinamento e di programmazione del settore nucleare è divenuta molto più complessa e difficile per due ragioni primarie.

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Prima ragione, perché lo smantellamento delle strutture pubbliche e delle capacità professionali, un tempo deputate a tali ruoli, è avvenuto con tempi molto più rapidi dello smantellamento in corso delle installazioni nucleari.

Con grande fatica e moltissimi errori, per lo più banali e causati dalla mancanza della conoscenza dei fili da muovere, da circa un decennio si sta tentando di ricostruire l’assetto industriale-regolatorio dopo un ventennale vuoto di attività.

La seconda ragione risiede nella profonda riforma degli assetti istituzionali del sistema elettrico nazionale.

La liberalizzazione dei mercati, lo smantellamento dell’unicità di gestione del sistema elettrico, la disintegrazione verticale della filiera elettrica, la disarticolazione della regolazione hanno portato una moltiplicazione dei soggetti decisori, rendendo, di fatto, non più competitivo (come era nelle buone intenzioni iniziali), ma più farraginoso, più costoso e molto complesso approdare anche a semplici decisioni non tanto sulla strategia, quanto proprio sulle tattiche basiche da adottarsi.

Eppure, come si vedrà nel paragrafo successivo, non è tanto l’assenza di comando, quanto la mancanza di una snella e chiara gerarchia di comando che ha portato nel 2000 il Governo a scegliere per una strategia, definita DECOM o “decommissioning accelerato”, che non aveva eguali al mondo. Si è tentato di conciliare programmazione (anche degli ingenti investimenti), mercato, interessi sistemici e privati, paura sociale e ingegneria elettorale in assenza di strumenti regolatori, operativi e decisionali adeguati e senza avere prima fatto il punto sullo stato dell’arte della filiera nucleare italiana.

All’epoca non si sapeva bene quale fossero i possibili costi interni di una tale strategia, quale fosse la necessità del nuovo ciclo di investimenti pubblici, se e quanto rimaneva dell’industria nucleare nazionale e le capacità del comparto industriale nazionale d’impegnarsi nel programma di smantellamento accelerato, sulle risorse rimaste nel mondo accademico, della ricerca e, incredibile ma vero, dell’Autorità di controllo.

11 Alberto Clò, Si fa presto a dire nucleare, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 77.

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1.2 La scelta del decommissioning accelerato12

Così come l’uscita dal nucleare per la produzione elettrica è stato un caso di studio a livello mondiale per velocità (noi aggiungiamo anche per irrazionalità e negligenza in un sistema di governance eccessivamente pesante e anti-sistemico), lo stesso deve dirsi della scelta di passare dalla strategia di smantellamento in sito (interim storage) a quello del decommissioning accelerato.

Anche in questo caso occorre sottolineare che l’Italia è l’unico Stato al mondo ad avere scelto all’epoca la strategia del decommissioning accelerato per chiudere – si pensava in tempi rapidi! – l’esperienza nucleare nazionale.

*********

Appare utile una breve descrizione delle tre possibili strategie di smantellamento delle centrali elettronucleari.

1. Entombement: l’installazione nucleare viene “sepolta” per sempre. I vantaggi di questa strategia sono: la velocità nel completare le attività propedeutiche; il costo minore rispetto ad altre metodologie; scarsità di materiale da inviare a deposito definitivo (non vi è necessità di ampia capacità di stoccaggio) Gli svantaggi sono: il lavoro preliminare deve essere fatto con gli stessi tassi di dose della strategia di decommissioning accelerato, ma con minore lavoro necessario; il materiale non può essere riutilizzato (bonificato) e viene sprecato; il sito non può essere nuovamente fruibile; lascito indesiderato per le generazioni future; creazione di molti depositi finali locali; bassa accettazione da parte dell’opinione pubblica.

2. SAFESTORE (Interim storage o Safe storage ovvero “smantellamento differito”): l’installazione nucleare viene bloccata per circa 30 anni. Dopo questo periodo iniziano le attività di smantellamento. I vantaggi di questa strategia sono: l’irraggiamento di molti rifiuti radioattivi cala in modo drastico (“decay storage”) dopo 30 anni (ad esempio, il Co-60 decade di un fattore 64 dopo 30 anni); minori dosi da irraggiamento collettive; una gran parte del materiale può essere riutilizzato (“clearance”). Gli svantaggi sono: perdita di Co-60 come nuclide chiave; perdita di conoscenza e di esperienza professionali; il lavoro preliminare deve essere fatto con gli stessi tassi di dose della strategia di “decommissioning accelerato”, senza alcun beneficio; le attività di controllo devono essere stabilite per 30 anni; la sicurezza delle parti rilevanti deve essere controllata per ulteriori 30 anni; infrastrutture, come l’impianto di ventilazione, devono essere monitorate costantemente per 30 anni.

12 Davide Urso, Il decalogo per il ritorno del nucleare in Italia, op. cit., pp. 43-49.

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3. DECOM (“decommissioninig accelerato”): le attività di smantellamento iniziano subito dopo la fine dell’esercizio dell’installazione nucleare. I vantaggi di questa strategia sono: disponibilità di personale direttamente dalle attività di esercizio, nonché il mantenimento della competenza e conoscenza approfondita dell’installazione; costi e tempi delle operazioni sono ben definiti; le infrastrutture presenti sul sito possono essere utilizzate; non si prendono in considerazione possibili estensioni del ciclo di vita dell’installazione; normativa e struttura regolatoria sono contingenti. Gli svantaggi sono: maggiori dosi collettive; maggiore complessità in caso di utilizzo di schermature o sistemi telecomandati; necessità di avere un deposito nazionale di stoccaggio finale (“green field o prato verde”); necessità dello stoccaggio temporaneo dei rifiuti radioattivi se non esiste un deposito nazionale finale (“brown field o prato marrone”).

*********

Dopo il referendum del 1987 andava definita la chiusura completa dell’Italia, ma soprattutto degli italiani, con il nucleare.

Nulla di più falso, visto che non si possono cancellare le esperienze, l’utilizzo del nucleare nella medicina e nella ricerca, industrie italiane operative a livello mondiale in settori di nicchia della filiera dell’atomo, insegnamenti accademici, ecc..

Ma tanto serviva alla classe politica per far credere agli italiani che si poteva chiudere per sempre con la stagione dell’atomo e si dichiarava l’urgente necessità di ridare ai cittadini la fruibilità dei territori dove sorgevano – e ancora sorgono – le installazioni nucleari nazionali.

Si sono sentiti politici locali e nazionali e amministratori di Comuni e Regioni giurare che in un lasso temporale di una legislatura i cittadini avrebbero avuto al posto delle installazioni nucleari prati di margherite, parchi giochi per i bambini, oppure una riqualificazione industriale secondo le specificità locali.

Chi parlava non aveva alcuna idea di cosa dicesse.

Molta della colpa la si deve anche alle Autorità nucleari pubbliche che, lottizzate negli anni dalla classe politica, non preparavano studi e analisi sulla base delle migliori esperienze internazionali, ma sulla base delle decisioni che la politica voleva assumere o aveva previsto di voler assumere.

Si trattava di studi non solo inutili e scarsamente significativi, ma controproducenti nel medio-lungo periodo, perché non si è aiutata la classe politica a decidere con consapevolezza i modi più idonei ad affrontare la chiusura dell’esperienza nucleare e a darvi soluzioni concrete e specifiche, nonché a gestire la strategica rimanenza della filiera dell’atomo.

La strategia di chiusura ha subito vari cambiamenti e ripensamenti nel corso del tempo e secondo il colore politico del momento.

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All’inizio si era preferito mantenere in sicurezza gli impianti per un periodo di tempo di non meno di 50 anni prima dell’avvio dello smantellamento.

Viene definita strategia della “custodia protettiva passiva”, che è uno “smantellamento differito” di poco più lungo rispetto all’interim storage classico, cosiddetto long term interim storage.

Alla fine, nel dicembre 1999, si è deciso di procedere con lo “smantellamento accelerato” e che sarebbe dovuto durare per massimo 20 anni.

Ovvero le attività di smantellamento si sarebbero dovute concludere entro il 2020.

Oggi siamo ancora al 20% del completamento delle attività di smantellamento e senza un Deposito Nazionale ove stoccare i rifiuti radioattivi.

Diciamo subito che un Governo ha l’obbligo di individuare e scegliere una strategia principale di decommissioning delle installazioni nucleari.

Tale strategia deve essere scelta sulla base di un disposto normativo.

Beninteso, ci sono molti aspetti da prendere in considerazione per elaborare la migliore scelta della strategia secondo il contesto di riferimento: es. aspetti legali, tecnici, radiologici, economici, ambientali, psicologici, e così via. Inoltre, l’obiettivo è importante:

1) smantellamento, bonifica e rilascio del sito (cd. “prato verde”), per una completa fruibilità del suolo;

2) rilascio delle strutture nucleari e convenzionali esistenti per futuri utilizzi industriali e/o futuri utilizzi nucleari nell’ambito di una governance normativa nucleare nazionale.

Anche in Italia si seguì lo stesso procedimento logico.

La classe politica si pose il problema di decidere una strategia globale delle installazioni nucleari presenti sul territorio nazionale.

Si iniziò a parlarne seriamente durante la prima Conferenza Nazionale sul tema dei rifiuti radioattivi, organizzata dall’ANPA (l’allora Autorità di sicurezza nazionale) nel luglio 1995, ma senza arrivare ad una conclusione oggettiva, salvo continuare nella logica dell’ENEL del mantenimento in “custodia protettiva passiva”.

L’argomento fu riproposto nella seconda Conferenza del novembre 1997.

In questo caso, il Ministro dell’industria annunciò la costituzione di un “tavolo” (meglio sarebbe dire una “tavolata”!) composto da tutti gli attori istituzionali, industriali, di ricerca, ecc. interessati alla dismissione degli impianti nucleari in Italia.

L’obiettivo era arrivare alla definizione di una strategia (o quello che veniva chiamato di un “piano di azione”) nel settore. Nelle more della costituzione di questo “tavolo”, il Ministro propose alla Conferenza Stato-Regioni l’attivazione di un “percorso partecipativo che permettesse una scelta concertata del sito sulla base di una corretta e

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completa informazione, scientificamente fondata, che consentisse la conseguente assunzione di responsabilità da parte delle Autonomie locali”.

Ci vollero ben sette mesi (luglio1998) per costituire il cosiddetto Tavolo Nazionale per la gestione degli esiti del nucleare. Vi parteciparono Regioni, Enti locali, Organizzazioni sindacali, ENEL, ANPA ed ENEA.

Nel novembre 1999 fu approvato un Accordo di programma Stato-Regioni e Province autonome di Trento e Bolzano riguardante la definizione e l’allestimento di alcune misure volte a promuovere la gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi prodotti in Italia, nel cui ambito era previsto anche un piano per individuare un sito per la realizzazione del deposito nazionale per i rifiuti radioattivi.

La strategia nazionale generale fu definita con il documento “Indirizzi strategici per la gestione degli esiti del nucleare in Italia”, del dicembre 1999, portato all’approvazione del Governo e del Parlamento. Nel documento furono identificati tre obiettivi generali:

1. Primo obiettivo: trattamento e condizionamento di tutti i rifiuti radioattivi liquidi e solidi in deposito sui siti degli impianti, in gran parte ancora non trattati, al fine di trasformarli in manufatti certificati, temporaneamente stoccati sui siti di produzione, ma pronti per essere trasferiti al deposito nazionale non appena realizzato. Per quanto riguardava il combustibile irraggiato si ipotizzava la sua sistemazione temporanea sui siti degli impianti mediante “stoccaggio a secco” in appositi contenitori dual purpose (stoccaggio-trasporto), in attesa del loro trasferimento al deposito nazionale oppure, in alternativa, mediante il ritrattamento all’estero.

2. Secondo obiettivo (doveva procedere in parallelo con il precedente, dati i lunghi tempi di realizzazione): scelta del sito e predisposizione del deposito nazionale sia per lo smaltimento definitivo dei rifiuti condizionati di II categoria (media e bassa attività), sia per lo stoccaggio temporaneo a medio termine dei rifiuti di III categoria (alta attività e lunga vita), in particolare quelli derivanti dal ritrattamento e il combustibile irraggiato non avviato al ritrattamento. L’infrastruttura di deposito temporaneo doveva essere localizzata sullo stesso sito destinato allo smaltimento dei rifiuti di II categoria condizionati.

Il primo e il secondo obiettivo dovevano essere raggiunti contemporaneamente in un arco di tempo non superiore a dieci anni (entro il 2010).

3. Terzo obiettivo: smantellamento accelerato degli impianti nucleari nella loro globalità.

Tale obiettivo doveva essere raggiunto in un arco di tempo complessivo di circa 20 anni, di cui, come detto, i primi 10 in parallelo con il perseguimento congiunto del primo e del secondo obiettivo.

Come suddetto, la strategia deve obbligatoriamente inquadrarsi in un contesto normativo che ne dia legittimità. Pertanto, furono emanati due decreti. Il primo –

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Decreto 26 gennaio 2000 recante Individuazione degli oneri generali afferenti al sistema elettrico - del Ministero dell’Industria, Commercio e Artigianato, di concerto con Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica. Secondo l’art. 2, comma 1, lettera c), i costi connessi allo smantellamento delle centrali elettronucleari dismesse, alla chiusura del ciclo del combustibile nucleare e alle attività connesse e

conseguenti costituiscono oneri generali afferenti al sistema elettrico13. In altre parole, si è deciso di mettere in bolletta elettrica il costo dell’attività di smantellamento. Beninteso, si tratta di una misura a nostro avviso corretta. Il grande vantaggio dell’energia nucleare è che il costo del decommissioning si autoripaga, visto che viene destinata parte del prezzo del kWh prodotto e venduto proprio alla parte conclusiva della filiera dell’atomo14.

In Italia, la chiusura anticipata con il referendum del 1987 ha impedito all’ENEL di accumulare risorse sufficienti. Andava, pertanto, colmato il gap economico. La scelta della bolletta elettrica invece di pesare sul bilancio dello Stato è una strategia condivisibile e non pesa molto. Secondo l’ultimo calcolo, il costo annuale della cosiddetta Aliquota A2 è pari a circa 3 euro a famiglia.

Il secondo atto è stato il Decreto 7 maggio 2001 recante Indirizzi strategici ed operativi alla SOGIN Società gestione impianti nucleari S.p.A., ai sensi dell’art.14, comma 4 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, di liberalizzazione del mercato elettrico, sempre del Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato.

13 Art. 8. “Definizione degli oneri” 1. Sono inclusi tra gli oneri generali afferenti al sistema elettrico i costi derivanti dalle attività

di cui all'art. 2, comma 1, lettera c), qualora tali attività: a) siano svolte dalla società SoGIN - Società Gestione Impianti Nucleari S.p.a. - anche in consorzio con enti pubblici o altre società che, se a presenza pubblica, possono anche acquisirne la titolarità; b) attengano a beni e rapporti giuridici conferiti alla Società SoGIN S.p.a. al momento della sua costituzione; c) siano esclusivamente finalizzate: i) al mantenimento in custodia protettiva con sicurezza passiva, fino all’avvio dell’attività di smantellamento, delle centrali elettronucleari di Caorso, Foce Verde, Garigliano e Trino Vercellese 1; ii) al completamento dei lavori di smantellamento delle centrali elettronucleari dismesse di Caorso, Foce Verde, Trino Vercellese 1 e Garigliano, con conseguente rilascio del sito senza nessun vincolo di natura radiologica; iii) allo smantellamento degli impianti di produzione del combustibile nucleare e di ricerca del ciclo del combustibile nucleare di proprietà dell’Ente per le Nuove Tecnologie l’Energia e l’Ambiente e sue società partecipate; iv) allo stoccaggio in sito provvisorio, al condizionamento ed all’eventuale riprocessamento del combustibile nucleare irraggiato delle centrali elettronucleari di Caorso, Foce Verde, Trino Vercellese 1 e Garigliano, nonché al successivo invio dello stesso combustibile nucleare irraggiato e di rifiuti e materiali radioattivi presso il deposito nazionale di stoccaggio di lungo termine ed alla loro conservazione presso lo stesso deposito, o, in alternativa, all’invio e conservazione del combustibile nucleare irraggiato, di rifiuti e materiali radioattivi presso altri sistemi di stoccaggio di lungo termine equivalenti.

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Viene dato il via libera all’operatività della SOGIN S.p.A., che era stata costituita il 31 maggio 1999 dall’ENEL per dare seguito all’art 13, comma 2, lettera e), del decreto legislativo 15 marzo 1999, n. 79 e le cui azioni, il 3 novembre 2000, sono state trasferite dall’ENEL al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. Secondo l’art. 13, comma 4, del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79, la SOGIN si attiene agli indirizzi strategici formulati dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato (MICA), poi Ministro delle attività produttive (MAP), e oggi Ministro dello

sviluppo economico (MISE)15.

Il Decreto 7 maggio 2001 è stato poi abrogato e modificato con il Decreto 2 dicembre 2004 del MAP, a seguito del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 14 febbraio 2003, con cui è stato dichiarato lo stato di emergenza in relazione all’attività di messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e la connessa ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 marzo 2003, n. 3267, recante “Disposizioni urgenti relativamente alle attività di smaltimento, in condizioni di massima sicurezza, dei materiali radioattivi

nelle centrali nucleari e nei siti di stoccaggio”16.

Art. 9. “Quantificazione degli oneri” 1. La società SoGIN inoltra, entro il 30 settembre di ogni anno, all’Autorità per l’energia elettrica e il gas, un dettagliato programma di tutte le attività di cui all’art. 8, anche se svolte da altri soggetti, su un orizzonte anche pluriennale, con il preventivo dei relativi costi. 2. Entro il 31 dicembre 2000, e successivamente ogni tre anni, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas ridetermina gli oneri di cui all’art. 8 ed aggiorna l'onere annuale, sulla base del programma di cui al comma 1 e tenendo conto di criteri di efficienza economica nello svolgimento delle attività previste al medesimo articolo, nonché degli oneri già reintegrati sulla base di quanto disposto dai provvedimenti in materia del Comitato interministeriale dei prezzi, come modificati dalla deliberazione dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas 12 giugno 1998, n. 58/98, e di quanto previsto dall'art. 5 della deliberazione della medesima Autorità 22 dicembre 1998, n. 161/98. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas comunica al Ministro dell'industria, del commercio e dell’artigianato ed al Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica le proprie determinazioni in merito, che divengono operative sessanta giorni dopo la comunicazione, salvo diverse indicazioni dei Ministri medesimi.

14 Davide Urso, Il nucleare nel XXI secolo, Mondadori Università – Sapienza Università di Roma, maggio 2010, pp. 64-81.

15 Art. 1. La Sogin S.p.a. provvede a porre in essere tutte le attività necessarie a perseguire gli obiettivi di propria competenza indicati nel documento “Indirizzi strategici per la gestione degli esiti del nucleare” trasmesso dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato al Parlamento in data 21 dicembre 1999. A tal fine in particolare la Sogin S.p.a. provvede a:

a. trattare e condizionare, entro dieci anni, subordinatamente all’ottenimento delle necessarie autorizzazioni da parte dei competenti Organi, tutti i rifiuti radioattivi liquidi e solidi in deposito sui suoi siti al fine di trasformarli in manufatti certificati, temporaneamente stoccati sul sito di produzione, ma pronti per essere trasferiti al deposito nazionale;

b. completare gli adempimenti previsti nei contratti di riprocessamento sottoscritti con la BNFL (British Nuclear Fuel Ltd) e immagazzinare il restante combustibile irraggiato in appositi contenitori a secco nei siti delle centrali dove sono allocati in attesa di trasferimento al deposito nazionale;

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c. concorrere alla disattivazione degli impianti nucleari dimessi dei principali esercenti nazionali (ENEA, FN, ecc.), anche attraverso forme consortili;

d. provvedere alla disattivazione accelerata di tutti gli impianti elettronucleari dismessi entro venti anni, procedendo direttamente allo smantellamento fino al rilascio incondizionato dei siti ove sono ubicati gli impianti. Il perseguimento di questo obiettivo è condizionato dalla localizzazione e realizzazione in tempo utile del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi.

Art. 2. Nell’ambito delle azioni di specifico interesse comune, la Sogin S.p.a. collabora con il

Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, attraverso opportune soluzioni organizzative da definire mediante idonea convenzione, all’esecuzione delle attività di competenza del Ministero stesso in materia di: individuazione e caratterizzazione del sito per il deposito dei rifiuti radioattivi, il relativo assetto del territorio e lo sviluppo economico e sociale della comunità locale, oltre alla tutela dell'ambiente; promozione dell’informazione della popolazione dei comuni sedi degli impianti nucleari sulle problematiche dello smantellamento e della energia nucleare in generale, dando, se del caso, vita ad uno specifico sistema informativo; individuazione di tutte le azioni necessarie per la pianificazione dello sviluppo produttivo dei siti; predisposizione del quadro di riferimento normativo e procedurale per la gestione degli esiti del nucleare; predisposizione del deposito nazionale sia per lo smaltimento definitivo dei rifiuti condizionati di II categoria, che per lo stoccaggio temporaneo a medio termine, in una struttura ingegneristica, dei rifiuti di III categoria e del combustibile irraggiato non riprocessato; smaltimento definitivo dei rifiuti ad alta attività condizionati e del combustibile irraggiato non riprocessato; risanamento territoriale ed ambientale dei siti nucleari nazionali.

Art. 3. La Sogin S.p.a. può sviluppare l’attività per terzi sui mercati, anche con riguardo alla tutela dell’ambiente, con particolare riferimento a consulenze e servizi relativi alla caratterizzazione, agli studi, alle bonifiche ambientali, alla sicurezza e radioprotezione, al trattamento dei rifiuti radioattivi ed allo smantellamento di centrali nucleari, al fine di una migliore utilizzazione e valorizzazione delle strutture, risorse e competenze.

16 Art. 1. 1. La società Sogin S.p.a. provvede a porre in essere tutte le attività necessarie a definire e

realizzare gli interventi di propria competenza indicati nel documento «Indirizzi strategici e analisi comparata di opzioni per la sistemazione del combustibile nucleare irraggiato» trasmesso al Ministro delle attività produttive in data 1 dicembre 2004.

2. Ai fini di cui al comma precedente la società Sogin S.p.a. provvede in particolare a: a. trattare e condizionare, entro dieci anni, subordinatamente all’ottenimento delle

necessarie autorizzazioni da parte delle competenti amministrazioni, tutti i rifiuti radioattivi liquidi e solidi in deposito nei siti gestiti dalla stessa società Sogin S.p.a. allo scopo di trasformarli in manufatti certificati, temporaneamente stoccati nei siti di produzione, ma pronti per essere trasferiti al deposito nazionale;

b. completare gli adempimenti previsti nei contratti di riprocessamento già sottoscritti con la società Bnfl - British Nuclear Fuel Ltd e, ai fini di una rapida messa in sicurezza del combustibile nucleare irraggiato di sua competenza, valutare e adottare le migliori opzioni tecniche disponibili incluso il riprocessamento;

c. valutare per quanto riguarda il combustibile nucleare irraggiato esistente presso le centrali nucleari e i siti di stoccaggio nazionali la possibilità di una sua esportazione temporanea ai fini del trattamento e riprocessamento; definire anche attraverso valutazioni comparative dei costi da sostenere nel breve e nel lungo periodo, delle esigenze di sicurezza e di tutela dell'ambiente, e dei tempi necessari le soluzioni per il rapido perseguimento dell’obiettivo della messa in sicurezza del combustibile nucleare nazionale irraggiato e avviare e portare a conclusione le azioni necessarie;

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d. concorrere alla disattivazione degli impianti nucleari dismessi dei principali esercenti nazionali, e provvedere anche attraverso forme consortili;

e. provvedere alla disattivazione accelerata di tutte le centrali e altri reattori nucleari, e degli impianti del ciclo del combustibile nucleare dismessi entro venti anni, procedendo direttamente allo smantellamento fino al rilascio incondizionato dei siti ove sono ubicati gli impianti. Il perseguimento di questo obiettivo e i tempi sono condizionati dalla localizzazione e realizzazione in tempo utile del deposito nazionale provvisorio o definitivo dei rifiuti radioattivi.

Art. 2. 1. Nell’ambito delle azioni di specifico interesse comune, la Sogin S.p.a. presenta al

Ministero delle attività produttive entro il 31 dicembre di ogni anno una relazione tecnica sullo stato di avanzamento delle attività di cui all’art. 1 e sulle azioni e i tempi previsti per la loro esecuzione, collabora con lo stesso Ministero attraverso soluzioni organizzative da definire mediante idonea convenzione di concerto con il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio all'esecuzione delle attività di competenza in materia di:

a. individuazione e caratterizzazione del sito per il deposito nazionale provvisorio o definitivo dei rifiuti radioattivi, relativi assetto del territorio e sviluppo economico e sociale della comunità locale, oltre alla tutela dell'ambiente;

b. promozione dell'informazione della popolazione dei comuni sedi degli impianti nucleari sulle problematiche dello smantellamento e dell’energia nucleare in generale, dando, se del caso, vita ad uno specifico sistema informativo;

c. individuazione di tutte le azioni necessarie per la pianificazione del recupero e dello sviluppo produttivo dei siti;

d. predisposizione del quadro di riferimento normativo e procedurale per la gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile nucleare irraggiato e per la disattivazione degli impianti;

e. risanamento territoriale ed ambientale dei siti nucleari nazionali; f. individuazione e realizzazione dei siti per lo stoccaggio provvisorio e per la sistemazione

definitiva dei rifiuti.

Art. 3. 1. Ai sensi dell'art. 1, comma 103, della legge 23 agosto 2004, n. 239, la società Sogin S.p.a.

sviluppa l’attività per terzi sui mercati anche esteri con riguardo alla tutela dell'ambiente, in particolare con riferimento a consulenze e servizi relativi alla caratterizzazione, agli studi, alle bonifiche ambientali, alla sicurezza e radioprotezione, al trattamento dei rifiuti radioattivi ed allo smantellamento di impianti nucleari e loro disattivazione al fine di una migliore utilizzazione e valorizzazione delle strutture, risorse e competenze disponibili garantendo efficienza e professionalità alle attività di cui al precedente art. 1.

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In linea generale, sembrava essere stata delineata una governance di settore.

Inoltre, dopo un lavoro tutt’altro che facile, la SOGIN, nel 2003, ha acquisito la titolarità degli impianti afferenti al ciclo del combustibile nucleare dell’ENEA, sempre con la responsabilità di gestione e smantellamento. Inoltre, venivano poste le basi per la nascita di un organismo nazionale pubblico, gestore del deposito nazionale, da costituire attraverso un’assunzione di nuovo personale attorno al nucleo di competenza esistente all’ENEA e nella sua Società partecipata Nucleco S.p.A., prendendo a modello le agenzie per la gestione dei rifiuti radioattivi di molti paesi esteri.

Diciamolo subito, tale organismo non sarà mai costituito, così come molte delle attività previste dai Decreti non sono state portate a termine, e la fine del Commissariamento nel dicembre 2006 ha aumentato le responsabilità di SOGIN da ottimo soggetto attuatore, quale era ad attore istituzionale-industriale con scarsi risultati.

Esiste una strategia di smantellamento preferibile?

Secondo l’esperienza internazionale, la strategia di decommissioning accelerato (direct dismantling) è quella da preferire. Secondo il rapporto tra vantaggi e svantaggi è stata sviluppata un’analisi rischi-benefici che ha portato ai seguenti risultati:

1. strategia dell’Entombment:

a. produce rovine industriali: per sempre e con depositi finali in loco;

b. impedisce future riutilizzi del sito.

2. strategia del Safe enclosure:

a. genera una perdita di esperienza e di conoscenza e la necessità di produrre un’ingente documentazione per le generazioni successive;

b. la situazione radiologica è più complicata, malgrado la riduzione dell’esposizione.

3. strategia del decommissioning accelerato:

a. permette lo sfruttamento dell’esperienza e della conoscenza del personale addetto all’esercizio dell’installazione;

b. maggiore sicurezza di lavoro per il personale e creazione di nuovi posti di lavoro;

c. le attività terminano con la bonifica integrale del sito ready-to-use.

Non si capisce bene il perché l’Italia, che ha storicamente tra i tempi più lunghi al mondo (toccando livelli d’inefficienza e d’inefficacia estremamente costosi ed esiziali per il sistema-Italia) per capacità di collegare la capacità decisionale allo sviluppo di programmi industriali e infrastrutturali di grande portata, nel caso del nucleare abbia scelto con una rapidità unica nel suo genere, senza avere, al contempo, né i muscoli per farlo da sola, né almeno un’adeguata idea progettuale intuitiva di ciò che impunemente

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si era deciso di perdere.

Né si capisce come ciò sia stato possibile considerando che, in termini di governance politico-regolatoria del settore nucleare, siamo tra i Paesi occidentali più arretrati per farraginosità dei processi autorizzativi, per numero enorme di attori titolati ad esprimere opinioni, per depauperamento, già iniziato in periodo pre-referendum del 1987, delle risorse umane, industriali ed economico-finanziarie nazionali, e così via.

L’Italia avrebbe dovuto scegliere una “strategia mista” di “smantellamento ritardato- accelerato” sul modello olandese.

L’Olanda ha prima pensato a gestire i siti delle installazioni in termini di sicurezza sanitaria dei lavoratori e delle popolazioni, a rafforzare i livelli di security contro atti di furto, sabotaggio, attività terroristiche, ecc., a isolare la radioattività dalla biosfera, a manutenere le strutture, ad aumentare il numero di ispezioni da parte dell’Autorità di sicurezza nucleare nazionale, a cui veniva nel frattempo garantito un regolamento interno più snello e sostenibile, a porre in essere piani di monitoraggio costante, a recuperare materiale convenzionale, ad aspettare lo sviluppo tecnologico per lo smaltimento dei rifiuti, in particolare di III categoria e a lunga vita, nonché a porre in essere una strategia di comunicazione attiva per aumentare l’accettabilità sociale del Deposito unico nazionale.

Il Governo ha avuto quindi il tempo necessario per mettere in piedi un sistema regolatorio, legislativo e prescrittivo e una governance adeguati a massimizzare i tempi di licensing e quindi a passare alla fase dello smantellamento accelerato.

L’Italia ha accorciato la filiera della strategia, generando deficienze istituzionali, regolatorie, normative, economico-finanziarie, di conoscenza e competenza, nonché di perdita di affidabilità e reputazione a tutti i livelli.

Eppure la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, approvata nella seduta del 29 aprile 1999, era stata lapidaria. Primo, aveva istituito un gruppo di lavoro per occuparsi delle problematiche del back-end del ciclo del combustibile e i traffici illeciti di rifiuti radioattivi.

Beninteso, questo è un errore, facendo passare il messaggio che in Italia vi sarebbe una corrispondenza tra le due materie.

Secondo, poneva l’accento sulla necessità di costituire un’unica Agenzia nazionale pubblica (ANGERIR) per coordinare e pianificare le attività, gestire il sito o i siti di smaltimento, fungere da garante per le attività di disattivazione delle installazioni nucleari, controllandone gli investimenti a tutela degli interessi nazionali e della collettività.

Oltre all’Agenzia, la Commissione indicava come strategica la costituzione di società da essa controllate, come soggetti operativi dedicati alle operazioni di disattivazione e

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smantellamento delle installazioni nucleari, così da dotare l’industria italiana operatori capaci di lavorare anche all’estero e non in regime di autogestione operativa.

Terzo, si poneva l’accento sul fatto che dalla cessazione delle attività nucleari, oltre 11 anni prima, la pianificazione della disattivazione e dello smantellamento delle installazioni nucleari e l’adeguata sistemazione in sicurezza dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato costituivano un tema la cui trattazione non era “più rinviabile per almeno due ordini di motivi: con il passare del tempo, infatti, si determina un progressivo esaurirsi delle risorse umane e delle competenze necessarie; in secondo luogo, si determina il graduale deterioramento delle strutture e della componentistica nucleare. Peraltro, tale deterioramento, in un prossimo futuro, potrebbe richiedere interventi sempre più onerosi e complessi, dai risultati non sempre affidabili, dal punto di vista del livello di sicurezza”.

In buona sostanza, la Commissione “ecomafie” – non l’ANPA o i Ministeri di riferimento – avevano posto nero su bianco che si trattava di coordinare un insieme di attività che vanno dalla scelta di uno o più siti in cui costruire un centro o più centri di smaltimento dei rifiuti radioattivi, alla realizzazione di un deposito centralizzato ove immagazzinare temporaneamente i rifiuti radioattivi ad alta attività, al confezionamento dei rifiuti nucleari in manufatti realizzati secondo gli standard di sicurezza; dalla disattivazione e smantellamento degli impianti nucleari al recupero dei relativi siti; e così via. Inoltre, vi era la consapevolezza che tali attività non sono solo complesse e delicate, ma con un’articolazione operativa in diverse fasi che implicano orizzonti temporali lunghi.

Pertanto, era ed è perentorio avere un quadro istituzionale e normativo adeguato e affidabile e con la presenza di un’Autorità di sicurezza nucleare nazionale forte e funzionalmente indipendente da ingerenze e influenze indebite anche da parte di attori e di Istituzioni politiche e pubbliche.

Con un’aggiunta – che si dirà nella parte dedicata al Deposito nazionale – e che oggi sembra incredibile per lungimiranza, ma triste per l’enorme quantità di tempo, soldi e credibilità sprecati.

Per Deposito si intendeva “la struttura ingegneristica idonea a ospitare il combustibile irraggiato e i rifiuti ad alta attività (entrambi appartenenti alla III categoria) per il periodo di tempo necessario al parziale decadimento radioattivo, stimabile fino a diverse decadi, in modo da renderli idonei al trasferimento in un sito geologico profondo di smaltimento. In considerazione del periodo di custodia previsto, il deposito può anche essere ospitato nel sito di smaltimento dei rifiuti di II categoria”.

In soldoni: ciò che si sta facendo adesso con 16 anni di ritardo!

La Commissione passa di lungimiranza in lungimiranza.

Si chiarisce come l’allora situazione della sistemazione dei rifiuti radioattivi era improntata alla prassi di ospitarli presso gli impianti di produzione o presso depositi temporanei ad hoc non esistendo un sito idoneamente attrezzato con un centro di

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smaltimento.

È evidente che si tratta di una situazione provvisoria che va superata attraverso la gestione di lungo periodo, indispensabile in una materia come questa, che deve essere realizzata all’insegna della ricerca della migliore soluzione radioprotezionistica perseguibile.

Ovvero: non avendo l’Italia un sistema normativo-regolatorio adeguato, né risorse economiche sufficienti ad partire con il decommissioning accelerato, appariva scontato un long term interim storage, con l’obiettivo di gestire i rifiuti radioattivi riducendo al minimo il rischio indebito della popolazione e dei lavoratori limitandone le esposizioni attuali e future alle radiazioni e, al contempo, mantenendo alto il profilo delle diverse competenze e professionalità.

Invece l’Italia decidendo per il decommissioning accelerato ha commesso un altro errore, oltre a quelli sopra citati e conseguenti alla mancanza di strategia.

La lentezza e le inefficienze del processo decisionale sul Deposito nazionale hanno generato una situazione che potremmo definire di “semi-DECOM” allungando i tempi sia industriali sia politici. Di fatto, non si accelera, ma si spendono gli stessi soldi del DECOM.

Una follia!

Un’ultima lungimiranza sta nel fatto che la Commissione dava il via libera alla strategia dell’ENEL che stava migliorando i propri programmi operativi di gestione del combustibile nucleare esaurito presente in Italia, nel senso di non procedere più con il ritrattamento all’estero (fatta salva la quota per esaurire i contratti all’epoca in essere), ritenendo conveniente considerare tali elementi come rifiuti da condizionare e smaltire piuttosto che trasferire il problema alla gestione dei rifiuti risultanti dal ritrattamento ed optando per una strategia di stoccaggio a secco.

La strategia elaborata dall’ENEL prevedeva lo stoccaggio temporaneo degli elementi prima presso le centrali di origine e poi nella futura struttura da realizzare nel centro di deposito nazionale.

Invece l’Italia ha optato per il ritrattamento di tutto il proprio combustibile con enormi costi e senza avere un deposito unico dove stoccare, sempre in via temporanea trattandosi di rifiuti con tempi di decadimento dell’ordine di migliaia-milioni di anni, i rifiuti che l’Italia dovrà riprendersi - per contratto e per obblighi derivanti dalle direttive europee - dopo le attività di ritrattamento all’estero.

Ad oggi la somma stimata a carico dell’Italia per le operazioni connesse al ritrattamento è di circa mezzo miliardo di euro.

Di buono vi è solo il fatto che lo “scarto” di ritorno avrà una volumetria pari a solo il 5-6% di quella originaria, ma il grado di radioattività rimane su base macroscopica più o meno lo stesso.

Non solo.

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Vi è anche il danno strategico. Il ritrattamento divide la parte buona del combustibile (plutonio) con i rifiuti di scarto.

Un paese “serio” si sarebbe riappropriato del “proprio plutonio” per finalità nazionali e/o commerciali. Invece, lo cediamo a titolo gratuito ai Paesi in cui viene effettuato il ritrattamento. Infine, al danno la beffa. Non avendo ancora un Deposito nazionale saremmo costretti a pagare penali a Francia e UK, in caso di impossibilità di rimpatriare il combustibile riprocessato, per diverse centinaia di milioni di euro.

Si stima che un ritardo di 10 anni del Deposito Nazionale comporterebbe costi fino a 1 miliardo di euro.

Un affitto che è un salasso!

In conclusione, l’esperienza internazionale ha dimostrato che una buona pianificazione e programmazione sono cruciali, che le risorse dell’installazione devono essere efficacemente utilizzate, mantenute e migliorate, che se vi sono più installazioni da smantellare i vantaggi economici e radiologici di scala sono cospicui, che un buon

livello di comunicazione17 tra operatori/esercenti, supervisori e autorità/istituzioni che rilasciano le licenze e gli esperti aiuta di molto ad assicurare il processo, nonché l’optimum si realizza se il processo di decommissioning va avanti con regolarità, risparmia tempo e soldi, e si prende cura dei lavoratori e della popolazione.

Salvo quest’ultimo aspetto, l’Italia non si avvicina ai best-case internazionali.

Occorre sottolineare un ultimo aspetto. La scelta della strategia del decommissioning accelerato deve essere presa per conseguire i seguenti obiettivi:

1) rendere certo il costo del decommissioning;

2) ottimizzare il costo attraverso l’esperienza e l’economia di scala;

3) utilizzare le esperienze dell’accelerazione come opportunità di business;

4) come opportunità di rilancio di programmi tecnologici e di ripristino delle competenze di settore.

17 Davide Urso, Il decalogo per il ritorno del nucleare in Italia, op. cit., pp. 117-140 e

Davide Urso, Il nucleare nel XXI secolo, Mondadori Università – Sapienza Università di Roma, op. cit., pp. 157-186.

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Purtroppo, anche questi obiettivi sono lontani dall’essere raggiunti, in assenza di un’Autorità di sicurezza nucleare indipendente, di una migliore normativa tecnica di riferimento, di disponibilità di infrastrutture simbiotiche per le attività di R&D, accademiche, di smantellamento e smaltimento rifiuti ed industriali correlate, di Piani industriali che optino per l’approdo a campioni nazioni industriali e commerciali e di aspetti procedurali meno farraginosi, di un vero e proprio piano industriale per la SOGIN.

Si potrebbe riassumere dicendo che l’Italia è in violazione di un obbligo comunitario (Direttive 2011/70/Euratom e 2009/71/Euratom) non avendo stabilito una politica e un

programma nazionali18 di settore.

Chiudiamo con una frase dell’anti-nuclearista onorevole Ermete Realacci:

“nel campo, non ancora compiutamente avviato, dello smantellamento delle vecchie centrali nucleari l’Italia può giocare anche una partita tecnologica ed economica di primo piano a livello internazionale”.

Siamo tutti d’accordo. Basti pensare che solo in Europa il mercato del decommissioning nucleare è stimato in circa 100 miliardi di euro nei prossimi 20 anni, con anche un elevato impatto occupazionale, sociale e ambientale.

Manca - come sempre - una funzionale, efficiente e snella governance a monte e la capacità di saper leggere e capire gli errori del passato, soprattutto nei settori industriale e della ricerca.

Ciò non solo in Italia, ma anche a livello comunitario, con l’obiettivo non solo di generare dividendi, ma anche – e soprattutto - di garantire certezza dei tempi e dei costi delle attività con un alto ritorno in termini di sostenibilità e di accettabilità sociale.

1.3 Storia del deposito nazionale e l’episodio di Scanzano Jonico (2003)

Iniziamo con il dire che all’inizio degli anni Novanta quasi tutti i Paesi industrializzati dell’occidente e il Giappone avevano già realizzato o erano in procinto di realizzare centri di deposito per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi prodotti negli anni precedenti.

Soprattutto, tutti si sono dotati di una governance - cioè di un complesso di leggi, norme e soluzioni tecniche e organizzative - diretta a gestire i rifiuti radioattivi nel medio-lungo periodo e anche a dare risposte serie alle diffuse sensibilità ambientaliste e alle difficoltà che ogni Paese incontra nella localizzazione dei siti di smaltimento.

In Italia, al contrario, non solo vi era il fuggi fuggi della politica e dei tecnici da un settore moribondo - ricordiamo che a fronte dell’ennesima ristrutturazione dell’ENEA dell’inizio del 1990, l’energia nucleare da attore primario diventa una comparsa e le attività rimaste, principalmente connesse al ciclo del combustibile, vengono concentrate

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in una Task Force a cui sono affidati gli incarichi di smaltire i rifiuti radioattivi e smantellare gli impianti di ricerca nucleare - ma, contro ogni criterio di efficienza e di efficacia (ben che meno, di credibilità), viene mantenuto lo stesso top management: quello della “metafisica nucleare”, quello che non ha difeso il programma nazionale cercando di riciclarsi e non di operare per il benessere nazionale, quello che ha lasciato alle generazioni successive i problemi della gestione dei rifiuti radioattivi, compreso il ciclo del combustibile, e della realizzazione del deposito nazionale di stoccaggio, quello che ha depauperato le competenze tecniche e le risorse umane insieme ad un’autorità di sicurezza nucleare che ha sempre brillato per compiacenza della classe politica e meno per interventismo sulle vetuste regole tecniche, sui programmi nucleari scellerati, sulle lentezze dei processi autorizzativi che hanno allontanato molti privati dal settore, sulla redazione di programmi nucleari nazionali e così via.

Tenuto conto della peculiarità della situazione italiana rispetto a quella di altri Paesi comunitari ed extracomunitari, la pianificazione della cessazione di ogni attività nucleare pregressa deve avvenire sulla base di un piano nazionale integrato che faccia ricorso a tutte le risorse e le competenze tecnico-scientifiche ancora oggi disponibili nel Paese.

Le ragioni di una tale esigenza, non più rinviabile, vanno ricercate principalmente nel fatto che l’attuale situazione provvisoria, possibile fonte, in prospettiva, di rischio radiologico, deve essere drasticamente superato, alla luce dell’attuale sviluppo tecnologico, e di scelte strategiche ed innovative in campo energetico, tenendo presente che le risorse di personale qualificato, con reale bagaglio di conoscenze della situazione impiantistica, vanno progressivamente riducendosi.

Si tratta, quindi, della necessità di dar vita con urgenza ad un progetto complessivo, di ampia valenza programmatica, che tenga conto non solo della peculiarità del nostro Paese (impianti nucleari da troppo tempo non più in esercizio, ricerca applicata sospesa, perdita progressiva della professionalità, della memoria storica e delle risorse umane), ma che comprenda anche la necessità di garantire il mantenimento delle necessarie competenze tecnico-scientifiche, nonché le conseguenti attività di ricerca finalizzate a soluzioni migliorative e innovative di trattamento e smaltimento.

18 I programmi nazionali devono in particolare includere: - l’inventario dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato, indicando

ubicazione e quantità con le relative classificazioni; - le soluzioni tecniche adottate, dalla produzione allo smaltimento finale; - i piani per il periodo di post-chiusura, con l’indicazione dei tempi di controllo e

delle misure adottate per conservare la memoria nel lungo termine; - le attività di ricerca e sviluppo; - le responsabilità e i tempi per l’attuazione dei programmi; - gli indicatori di performance con i quali valutare i progressi nell’attuazione; - i costi e gli schemi di finanziamento; - le politiche per l’informazione e la partecipazione del pubblico; - gli eventuali accordi presi con altri Paesi per la gestione dei rifiuti e del

combustibile irraggiato, ivi compreso l’uso di impianti di smaltimento.

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Gli strumenti essenziali, perché si passi da una situazione di attesa e di studio ad una condizione di soluzione programmata, sono:

• definizione di una strategia per la scelta del sito di smaltimento;

• scelta di un sito di smaltimento da parte dello Stato;

• istituzione di un’Autorità nazionale di sicurezza nucleare all’interno di un chiaro quadro di riferimento normativo e che raccolga le esperienze e le professionalità disponibili nel Paese, per tramandarle in vista dei lunghi tempi richiesti da una sistemazione definitiva delle attività nucleari pregresse;

• realizzazione di un centro per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi di bassa e media radioattività;

• individuazione di sicure fonti di finanziamento;

• processo democratico informativo e partecipativo.

È importante che il primo punto preceda ed accompagni le attività connesse alla scelta del sito, insieme all’istituzione dell’Autorità, in quanto tali scelte rappresentano i punti critici dell’intero processo.

Il percorso logico e cronologico è fondamentale per la ricerca del consenso, da raggiungere tramite un’azione capillare di informazione trasparente.

La storia del Deposito unico nazionale è un “classico” della storia nucleare italiana. Occorre ripercorrerla a tappe come altra ed ennesima lesson learned nella speranza che gli errori servano da lezione.

Tappa 1: Referendum 1987 – l’Italia, di colpo, diventa un Paese antinucleare. L’allarmismo opportunistico aveva prevalso sulla scienza e la conoscenza, generando scelte anti-sistemiche e uniche al mondo per motivazione e modalità. Infatti, in tutti gli Stati occidentali i programmi nucleari furono rallentati o rivisti al ribasso, ma nessuno ha scelto di uscire dal nucleare.

Addirittura la parola stessa “nucleare” era vista come vergognosa, a tal punto che le facoltà di ingegneria nucleare furono costrette a mascherarsi e a cambiare nome in “ingegneria industriale” o “ingegneria energetica” e così via. La psicologia e la sociologia del linguaggio entrarono nell’interesse nazionale, obbligando a camuffare decenni di avanguardia della ricerca, dell’industria e del pionierismo produttivo. Questo sì che è vergognoso!

Tappa 2: Lungo week-end dei Verdi e degli ambientalisti (1987-1995/1999) – una volta vinta la battaglia tutti si sarebbero aspettati che avrebbero facilmente vinto la guerra. Infatti, se si chiude con un passato a filiera, tale chiusura deve essere completa.

La filiera nucleare si chiude con il decommissioning delle installazioni nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi (fase di condizionamento e successiva fase di smaltimento a deposito).

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Ebbene, i Verdi appagati da posti in Parlamento, Consigli Regionali, Provinciali e Comunali, con poltrone in Istituzioni e industrie si disinteressarono del problema dei rifiuti radioattivi, che – beninteso – era stato uno dei cavalli di battaglia della lotta anti-atomo.

Minima coerenza avrebbe dovuto portare a voler chiudere la parentesi nucleare italiana e a trattare i rifiuti radioattivi come la priorità da affrontare con celerità per chiudere il capitolo di quella che era stata spacciata come un’emergenza ambientale e sanitaria.

Due sono le conclusioni:

1) non vi era alcuna emergenza ambientale e sanitaria in Italia, né a seguito dell’incidente di Chernobyl, né per il lascito del nucleare in esercizio, su cui chiaramente l’Italia, come qualunque altro produttore, era ed è obbligata ad assumersi le sue responsabilità di gestione;

2) si sono cavalcate in modo meschino e indecente per chi ricopre un ruolo di soggetto pubblico prima un incidente e poi le paure, e non per il benessere collettivo, ma per l’interesse personalistico. Anche questo è vergognoso!

Tappa 3: Carrierismo anti-scientifico – Il vuoto sulla sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi è durato per un lungo decennio (1987-1996), con due inframezzi: 1) nel 1993, con inizio dell’incredibile storia giudiziaria del funzionario ENEA Giuseppe Lippolis, di cui si parlerà in seguito; 2) nel 1995, con la prima Relazione della Commissione bicamerale su ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse (chiamata anche “Commissione Ecomafie”) il cui Presidente era il Verde Massimo Scalia, che dedicò ai rifiuti radioattivi un intero capitolo.

I toni della relazione furono molto critici sull’operato dell’ENEA nella gestione di tali rifiuti e, soprattutto, sulla lentezza nel condizionamento dei rifiuti liquidi, e si sospettavano attività illecite del centro ENEA della Trisaia connesse al traffico di materiale fissile.

Si tratta di due argomenti che nulla c’entravano con la seria gestione dei rifiuti radioattivi, come invece era riscontrabile in quasi tutti gli Stati nucleari del mondo, e che furono ripresi dalla stampa nazionale, come sempre in modo plateale e a-scientifico, ma che ebbero l’unico effettivo positivo di risvegliare il lungo “letargo istituzionale” sulla tematica dei rifiuti radioattivi.

Tappa 4: Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile e Task Force dell’ENEA (1996) – la Commissione aveva al suo interno una Sezione Rischio Nucleare presieduta da Felice Ippolito. Visti gli scandali giudiziari, la sua vicenda personale e l’euforia della stampa, fu istituito un Gruppo di Lavoro presso la Protezione Civile, composto a tutti i principali player di settore (ENEA, ENEL, ANPA) e sempre presieduto da Ippolito (morto gli succederà nel 1997 il fisico Carlo Bernardini), con il compito di iniziare ad analizzare tutti gli aspetti della materia, comprese le possibili opzioni tecniche.

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Nel frattempo, l’astuto Direttore Generale dell’ENEA Fabio Pistella istituì una speciale task force per iniziare la progettazione di un deposito definitivo e avviare le azioni per la sua localizzazione.

La sua attività fu monitorata per due anni dal Gruppo di Lavoro presso la Protezione Civile. La task force riuscirà ad elaborare le soluzioni tecniche di base per la selezione del sito e la progettazione del deposito.

Nel febbraio 1999, alla presenza del Sottosegretario alla Protezione Civile, Barberi, venne firmata all’unanimità una risoluzione conclusiva delle attività del Gruppo di Lavoro.

Si tratta del primo documento ufficiale di un’istituzione nazionale sul tema dello smaltimento dei rifiuti radioattivi.

La risoluzione adottava le linee guida per la gestione dei rifiuti radioattivi: condivideva l’opzione tecnica individuata dalla task force del deposito superficiale, riconosceva come validi i criteri della task force per la mappatura del territorio propedeutici ad individuare le aree idonee alla localizzazione del deposito e accettava che sullo stesso sito di smaltimento definitivo dei rifiuti di II categoria venissero stoccati in via temporanea i rifiuti di II categoria.

Mancava solo la governance politico-istituzionale.

Tappa 5: Conferenza sull’Energia del 1998 – grazie al ministro dell’Industria Luigi Bersani il tema dello smaltimento a deposito unico dei rifiuti radioattivi assume carattere di rilievo, insieme allo smantellamento delle installazioni nucleari nazionali.

Non si raggiungerà alcun risultato concreto, ma la problematica del sito unico nazionale sarà riconosciuta come un’esigenza di Stato da risolvere in tempi non troppo lunghi e, da allora, entrerà a pieno titolo nelle programmazioni istituzionali.

Tappa 6: Il risveglio dei Verdi di Scalia (1999) - Massimo Scalia, Presidente della neo costituita Commissione bicamerale su ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse (chiamata anche “Commissione Ecomafie”) adotta all’unanimità la relazione del 1999. Ne abbiamo ampiamente parlato in precedenza, ma occorre sottolineare come l’ambientalista Scalia si sia fatto promotore principale del deposito unico nazionale di tipo superficiale, sottolineando come in Italia senza un accordo con gli ambientalisti l’opera “non sa da fare”.

Tappa 7: Procedura normativa e regolatoria (2000) – il ministro Bersani era consapevole che, pur con tutto quello che era stato già fatto a livello tecnico e di promozione di un’intesa tra l’ambientalismo alla Scalia e la task force dell’ENEA, l’Italia necessitava di un vero e proprio sistema normativo e regolatorio che definisse l’architettura della localizzazione, realizzazione e gestione del deposito nazionale, con annessa definizione della campagna capillare di informazione.

Nel gennaio del 2000 individuò nella Conferenza Stato-Regioni la via migliore.

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Venne istituito un Gruppo di Lavoro composto da sette membri (quattro rappresentanti delle Regioni Piemonte, Veneto, Toscana ed Emilia-Romagna, e tre dei Ministeri dell’Industria, della Sanità e dell’Ambiente). L’obiettivo era quello di arrivare a definire la procedura per scegliere il sito nazionale entro tre mesi dalla sua costituzione, quindi entro fine aprile 2000.

Purtroppo, il Gruppo consegnerà la bozza dopo due anni, con un Governo diverso e senza avere minimamente sfiorato il motivo della sua costituzione.

Non si conoscono i reali motivi di questo fallimento, peraltro in un momento in cui il clima interno ed esterno verso il tema del deposito unico nazionale era assai positivo. Possiamo dire - con una certa dose di convinzione - che prevalsero i soliti malanni italiani della duplicazione dei lavori se i canali istituzionali sono diversi (“sindrome dell’appartenenza”) e della incomprensibile necessità di ricominciare sempre tutto daccapo (“sindrome del cassetto”).

Vi erano già la risoluzione della Protezione Civile, il lavoro svolto dalla task force dell’ENEA e l’accettazione politica da parte della “Commissione Ecomafie”. Invece di pensare alla procedura di scelta del deposito (chi, come e con quali risorse) si era ricominciato dalle origini, con il benchmark della situazione europea e internazionale, con il chiedersi se fosse necessario un unico sito o più depositi di smaltimento, se si potesse prevedere lo smaltimento dei rifiuti tossico nocivi insieme a quelli radioattivi e altre questioni inutili e risibili. In buona sostanza, in modo assolutamente imprudente e anti-sistema, si rimetteva in discussione l’intera architettura tecnico-scientifica ben definita e, soprattutto, ben accettata.

Come vedremo, i malanni italiani, mai veramente e/o volutamente curati, peggiorarono la situazione.

Non si tratta della legge di Murphy, ma di una triste analisi del contesto istituzionale nazionale.

Tappa 8: CNAPI (Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee) (2000) - oltre alla risoluzione della Protezione Civile e al lavoro svolto dalla task force dell’ENEA, in stretto rapporto con l’ambientalismo “scaliano” e con gli ispettori dell’ANPA, la stessa task force aveva completato il progetto di base del deposito, su cui era stato richiesto un parere formale dell’ANPA, aveva pubblicato su internet la CNAPI e aveva anche iniziato una campagna informativa e comunicativa su scala nazionale.

Tutto era quindi predisposto.

Per partire con concretezza occorreva solamente che il Governo indicasse il percorso politico-istituzionale e gli strumenti amministrativi. Ricordiamo – con amarezza - che l’ANPA non rilasciò mai il parere richiesto.

Si pensa perché troppo impegnata a risolvere i contrasti carrieristici interni, alla definizione della nuova struttura interna e alla nomina del nuovo Direttore del Dipartimento Nucleare.

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A nostro giudizio, invece, la realtà sta nell’errore a monte prima dell’ENEA-DISP, poi dell’ANPA e oggi dell’ISPRA, cioè la mancanza di indipendenza operativa e funzionale rispetto alle Istituzioni pubbliche e politiche.

Tappa 9: razionalizzazione dei sistemi elettrico e nucleare nazionale (1999-2000-2001) – persa l’occasione e cambiato il Governo (i Verdi usciti dalla maggioranza si dimenticarono – per la seconda volta! - del problema dei rifiuti radioattivi e fecero saltare l’“intesa cordiale” con la comunità tecnico-scientifica nazionale) nessuno pensò a definire la procedura di scelta del deposito, visto che, nel frattempo, la politica stava mettendo mano all’architettura dei sistemi elettrico e nucleare nazionale. Come visto in precedenza, con decreto legislativo 15 marzo 1999, n. 79, di privatizzazione dell’ENEL, e con Decreto 26 gennaio 2000 e Decreto 7 maggio 2001 si accorpavano le attività nucleari in una Società pubblica, la SOGIN, la cui attività era finanziata attraverso l’Aliquota A2 della bolletta elettrica attraverso l’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Nel 2003, la SOGIN acquisì anche la gestione degli impianti afferenti al ciclo del combustibile dell’ENEA, accentrando in un unico ente tutte le attività di smantellamento delle centrali e degli impianti nucleari e della gestione e smaltimento dei rifiuti radioattivi.

Tappa 10: Commissario delegato all’emergenza nucleare (2003-2006) - a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con DPCM 14 Febbraio 2003 – recante “Dichiarazione dello stato di emergenza in relazione all'attività di smaltimento dei rifiuti radioattivi dislocati nelle regioni Lazio, Campania, Emilia-Romagna, Basilicata e Piemonte, in condizioni di massima sicurezza” -, ha proclamato l’emergenza della sicurezza nucleare, nominando, con Ordinanza n. 3267 del 7 marzo 2003 - recante “Disposizioni urgenti in relazione all’attività di smaltimento in condizioni di massima sicurezza, dei materiali radioattivi dislocati nelle centrali nucleari e nei siti di stoccaggio” - il generale Carlo Jean, in qualità di Presidente di SOGIN, Commissario delegato all’emergenza nucleare, che si avvaleva della commissione tecnico-scientifica in qualità di struttura commissariale. Il periodo commissariale è stato prorogato due volte fino al 31 dicembre 2006. Durante questo periodo la SOGIN ha svolto adeguatamente il compito di soggetto attuatore delle ordinanze commissariali.

Tappa 11: il disastro di Scanzano Jonico (2003) – il Commissario-Presidente aveva individuato nel deposito geologico la migliore soluzione tecnico-ingegneristica. Se da un punto di vista dell’emergenza nucleare, pensare di sotterrare per millenni i rifiuti radioattivi potrebbe sembrare la soluzione migliore e più sicura, le modalità con cui si è deciso il sito e gli errori tecnico-scientifici e normativi sono stati tipici di un Paese terzomondista. Il Governo Berlusconi aveva emanato il decreto legge n. 314 del 14 novembre 2003, recante “Disposizioni urgenti per la raccolta, lo smaltimento e lo stoccaggio, in condizioni di massima sicurezza, dei rifiuti radioattivi”. Istituzionalmente parlando, si era quindi deciso da un giorno all’altro, mediante atto normativo, di localizzare il deposito nazionale presso il comune di Scanzano Jonico (provincia di Matera) nella fertile pianura del metapontino. Si era deciso per un deposito in cui tutti i rifiuti radioattivi, compresi quelli a più alta attività, sarebbero stati smaltiti a qualche centinaio di metri di profondità, così da garantirne un isolamento per periodi geologici.

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Gli errori – almeno per chi scrive - erano da subito evidenti.

Il primo errore era di avere contraddetto tutti gli studi fatti fino a quel momento, indirizzati, come da best practice, alla realizzazione di un deposito superficiale definitivo per i rifiuti di II categoria e temporaneo, quindi di stoccaggio, per quelli di III categoria e a lunga vita.

Dopo una lunga intervista con un membro dell’allora Comitato tecnico-scientifico per il Deposito di Scanzano possiamo dire che gli studi geo-morfologici erano stati fatti, ma solo per individuare il sito che avesse le caratteristiche geologiche migliori.

Lo avevano soprannominato big-mac site, perché era composto da due strati di salgemma con in mezzo uno strato di argilla.

Pertanto, mancava completamente la lunga fase di caratterizzazione del sito.

Qui abbiamo il secondo errore. Il decreto legge, all’articolo 1, comma 2, prevedeva che il Deposito geologico dovesse essere pronto entro il 31 dicembre 2008, ovvero entro 5 anni.

Una follia!

O come qualcuno, che forse aveva a cuore qualcun altro, dichiarerà come “infortunio tecnico”.

E’ importane evidenziare che si trattava di una tempistica “eccessivamente buonista” e che l’esperienza internazionale (avevo all’epoca sviluppato uno studio sui diversi depositi di materiale radioattivo sparsi in tutto il mondo) dimostrava con lampante chiarezza che neanche per i depositi superficiali erano sufficienti 5 anni e in Stati certamente migliori e più efficienti del nostro per iter autorizzativi e gare di appalto. Infatti, considerando solo le fasi preliminari, autorizzative e di caratterizzazione, la costruzione di un deposito geologico è stimabile oggi in almeno 30 anni, e con costi ben maggiori rispetto a quelli che circolavano e si metteva il Paese nella necessità di sviluppare un’infrastruttura imponente per impegno sociale, psicologico, di analisi, tecnico-scientifico, economico-finanziaria, ecc. In sostanza, il decreto legge nasceva con enormi vizi storici e di competenza che lo rendevano inutile in ogni caso, anche se l’opera era dichiarata “di difesa militare di proprietà dello Stato” e “opera di pubblica utilità”, che ne avrebbe ridotto i tempi autorizzativi potendosi utilizzare procedure speciali.

Anche questo è un classico malanno italiano.

Per la gestione dei progetti complessi non si cerca la strada più giusta, cioè quella che include lo studio delle conseguenze di almeno di medio periodo, ma la scorciatoia migliore, meno impattante e più utilitaristica, che però evita di studiare le conseguenze (salvo quelle di brevissimo periodo) aumenta il rischio di “cigni neri”; beninteso, “non durante il mio mandato” (“sindrome NIMTOF”).

Ma si commise un altro errore.

A nostro giudizio gravissimo tanto quanto l’errore tecnico-scientifico e l’abbandono

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di tutti gli studi fino a quel momento fatti in Italia.

Ovvero si decise dall’alto e con modalità militare senza un minimo consenso da parte della popolazione locale né dell’opinione pubblica in generale.

Chiunque conosca anche un minimo la materia sa bene che la strategia D&D (Decide and Defend) fu abbandonata ai primordi, privilegiando la strategia integrata del BC (Building Confidence).

L’abbandono fu conseguente alla constatazione che localizzare e poi costruire un deposito non è un problema tecnico, quanto di accettazione psicologico- sociale.

Inoltre, tale accettazione non può che passare per una procedura pubblica e trasparente.

Il Governo, con modalità con cui un generale comanda le proprie truppe (sic!), impose il nome con un decreto.

Forse solo in Vietnam o in Corea del Nord si seguirebbe oggi una procedura del genere!

Si dice da più parti che si è trattato di un clamoroso errore di comunicazione.

Falso, se si generalizza la frase.

All’epoca fui nominato responsabile della comunicazione strategica del deposito all’interno di un gruppo ristretto di personalità quali i fisici Carlo Bernardini, Carlo Salvini, Renato Angelo Ricci, l’oncologo Umberto Tirelli, lo scienziato Umberto Colombo.

Alla prima riunione con l’allora DGERM (Direzione Generale dell’Energia e delle Risorse Minerarie) fu subito detto che la tattica l’avrebbe fatta il Governo.

In altre parole: si era deciso d’imporre e quindi era inutile perdere tempo a comunicare.

L’esito di questa scelta miope e pericolosa fu la clamorosa rivolta di Scanzano dei giorni 13-27 novembre 2003 o, come verrà ricordata, la “rivolta dei centomila”.

Due settimane che non si potranno mai dimenticare.

La più grande rivolta dell’era moderna non organizzata da partiti politici o sindacati si è trasformata in una vera e propria battaglia.

Un territorio che basava molta della propria ricchezza sull’agricoltura e il turismo vide del deposito nazionale il nemico da sconfiggere, non un’opportunità.

Si gridava alla contaminazione delle arance, della verdura e delle fragole del metapontino, con in testa organizzazioni appena create, i soliti politici opportunisti, qualche religioso e degli infiltrati delle mafie del metapontino intenti a proteggere i propri sporchi interessi.

In due settimane si arrivò alla paralisi della Regione e dei mezzi di informazione

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nazionali.

Che fece il Governo?

Se si sceglie la strategia D&D non si può solo “decidere” ma anche “difendere” la propria decisione. Ebbene, il Governo non fece altro che modificare il decreto, cancellando il nome di Scanzano Jonico sulla legge di conversione del decreto legge del 24 dicembre 2003. Un passo indietro che ci impedì di stappare lo spumante!

Nessuno però sa che il Comitato tecnico-scientifico aveva continuato a lavorare. Il fisico Carlo Bernardini si era detto pronto a scendere a Scanzano Jonico e a mangiare la frutta e la verdura davanti a tutti i manifestanti.

Non se ne fece nulla. Il Governo oramai aveva perso ogni credibilità e doveva fare un passo indietro. Io stesso non potei recarmi a Scanzano perché sconsigliato dalla prefettura.

Si sono visti i soliti malanni all’italiana: velleitarismo progettuale, mancanza di strategia, opportunismo della classe politica, incapacità di fare sistema, disponibilità a usare come arma politica e di ricatto le paure e i sentimenti della popolazione o le preoccupazioni di carattere socio-ambientale; aggiungiamo, incapacità di sviluppare analisi sistemiche per lo più annacquate dai politi di riferimento o allineate, pur di fare bella figura e avere possibilità di carriera, ai desiderata del momento.

Ma gli errori non finiscono qui.

La legge di conversione n. 368/2003 ne commise altri imperdonabili.

Primo, si toglieva il nome di Scanzano Jonico ma si lasciava la scelta del deposito geologico (perseverare è diabolico!) e solo per i rifiuti di III categoria.

Successivamente con la legge n. 239/2004 fu previsto che con la stessa procedura adottata per la realizzazione del deposito di III categoria dovesse essere anche individuato il sito per la sistemazione definitiva dei rifiuti di II categoria.

Secondo, il sito - sempre “opera di difesa militare di proprietà dello Stato” - si sarebbe dovuto trovare entro un anno dalla legge di conversione a cura di un Commissario straordinario nominato dal Governo e assistito da una Commissione tecnico-scientifica nominata con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e composta da ben 19 esperti, di cui 3 nominati dal Presidente del Consiglio dei Ministri 2 dal Ministro dell’Ambiente, 2 dal Ministro delle attività produttive, 1 dal Ministro dell’economia e delle finanze, 1 ministro della Difesa, 1 dal Ministro dell’Interno, 1 dal Ministro della Salute, 1 dal Ministro dell’Istruzione4 dalla Conferenza unificata Stato-Regioni, 1 dall’ENEA, 1 dal CNR e 1 dall’APAT (Autorità di sicurezza nucleare).

Insomma un miscuglio inaudito. Infatti, la Commissione e il Commissario straordinario non furono mai nominati. Terzo, fu inserito l’articolo 4 che istituiva in favore dei siti che ospitavano le

installazioni nucleare (con un criterio di relazione tra inventario radiologico e distanza

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territoriale dall’installazione) le cosiddette “misure di compensazione territoriale” (MCT).

L’obiettivo era ripagare i siti e le località che in qualche modo avevano prestato il proprio territorio con la servitù nucleare destinando fondi fino a che non fossero state ultimate le attività di smantellamento.

Qui gli errori strategici sono due ed entrambi clamorosi per miopia e incompetenza. Primo, pagare sembra voler indennizzare la popolazione per il rischio derivante dal vivere vicino l’installazione.

Ciò è un falso assoluto. Non solo non vi era e non vi è alcun rischio, ma qualora ci fosse stato si sarebbe dovuto

azzerare secondo la normativa internazionale, comunitaria e nazionale. Secondo, se si trasforma la presenza di rifiuti radioattivi, la cui gestione è peraltro in

totale sicurezza e a caro prezzo, in una rendita di posizione, le stesse località avranno tutto l’interesse ad allungare i tempi di realizzazione di un deposito nazionale unico, che gli azzererebbe tale rendita.

Non è un caso che da quando sono state inserite le MCT sono cessate quasi tutte le attività contro le installazioni.

Si è - in buona sostanza - pagato il silenzio e anche la volontà di non correre troppo sull’individuazione del deposito nazionale.

E ciò per evitare di riaprire l’argomento troppo in fretta prima che il fattaccio di Scanzano fosse lontano da ogni ricordo. Totale delle MCT dal 2004 ad oggi (2013 è l’ultimo anno di approvazione della delibera CIPE del 6 agosto 2015): 153 milioni di euro, ovvero circa 180 milioni di euro al 2015 (circa 15 milioni di euro l’anno dal trasferimento all’estero del combustibile nucleare irraggiato), pari a più della metà del costo del deposito nazionale stimato – occorre dire, al ribasso - nel 2001 dalla task force dell’ENEA.

Ad oggi, della legge n. 368/2003 rimane in vigore solo l’art. 4 sulle MCT, mentre tutti gli altri articoli sono stati abrogati. Intanto si sono persi 3-4 anni, molti soldi, si è aggravata la reputazione delle Istituzioni e si sono minate le basi degli studi fatti in precedenza.

Tappa 12: il ritorno di Bersani (2006-2008) - dopo 2 anni e mezzo di purgatorio, solo grazie al ritorno di Bersani a ministro dell’Industria (cioè ministro dello sviluppo economico) nel 2006 si è potuto rimettere la problematica dei rifiuti radioattivi nell’agenda del Governo.

E ciò anche grazie a due decreti del precedente Governo di centro-destra, rispettivamente dei ministri Marzano e Scajola, che davano il via libera al riprocessamento in Francia da parte della SOGIN di tutto il combustibile nucleare irraggiato presente su territorio nazionale (circa 235 t) e formalizzati - a dire il vero in modo piuttosto umiliante per il nostro Governo o, meglio, per come ci hanno considerato i francesi, ovvero privi di spirito nazionale e ambientale e non affidabili - dallo stesso Bersani con atti del 24 novembre 2006 e del 2 maggio 2007.

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I rifiuti radioattivi derivanti dal riprocessamento - prima quelli inviati nel Regno Unito e poi quelli in Francia - dovranno per contratto rientrare in Italia in forma condizionata (cioè come blocchi vetrosi in contenitori di acciaio pronto ad essere stoccati in deposito) tra il 1 gennaio 2020 e 1 dicembre 2025. Il 25 febbraio 2008 venne pubblicato un Decreto ministeriale “Costituzione del gruppo di lavoro per l’individuazione della tipologia, delle procedure e della metodologia di selezione dirette alla realizzazione, su un sito del territorio nazionale, di un centro di servizi tecnologici e di ricerca ad alto livello nel settore dei rifiuti radioattivi (GU Serie Generale n. 57 del 7 marzo 2008)”.

Bersani riprova con la stessa procedura fallita nel 2000 (vedasi Tappa 7). Ma questa volta ha il via libera preliminare da parte Regioni.

Esse, a seguito dell’incontro dell’11 ottobre 2007, hanno accettato di “avviare il percorso che dovrà portare all’individuazione di un sito per la realizzazione di un deposito nazionale nel quale allocare definitivamente i rifiuti radioattivi di seconda categoria e temporaneamente quelli di terza, oltre ai materiali derivanti dall’uso medico e industriale”.

Di fatto, dopo circa 8 anni si ritorna alle origini. Si tratta di un Gruppo di Lavoro misto composto da rappresentanti del Governo (Ministero dello sviluppo economico, Ministero dell’Ambiente, Ministero della Salute) e delle Regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Marche, Campania e Basilicata) dell’APAT e dell’ENEA, eventualmente integrato da esperti SOGIN.

Il compito del Gruppo di Lavoro è quello di elaborare un documento, entro sei mesi dalla sua costituzione, per “l’individuazione della tipologia, delle procedure e della metodologia di selezione dirette alla realizzazione, su un sito del territorio nazionale, di un Centro di servizi tecnologici e di ricerca ad alto livello comprendente un deposito nazionale centralizzato per l’allocazione definitiva dei rifiuti radioattivi di seconda categoria, e per l’immagazzinamento temporaneo di medio termine dei rifiuti radioattivi di terza categoria, del combustibile nucleare esaurito e delle materie nucleari ancora presenti in Italia”.

In pratica si chiedeva, partendo dalle fondamentali condizioni tecnico-scientifiche già elaborate in passato, di definire una procedura tecnico-amministrativa-legislativa del percorso decisionale e di selezione (autocandidatura, concertazione, gare, procedure negoziate) in grado di portare all’identificazione del sito attraverso un coinvolgimento partecipativo e trasparente delle amministrazioni e delle comunità locali e di definire i vari soggetti coinvolti e le loro responsabilità al fine di garantire un percorso decisionale certo.

E ciò non solo per il Deposito ma ora anche per il Centro servizi o, come verrà chiamato, Parco Tecnologico, composto di laboratori e infrastrutture tecnologiche per il trattamento e la gestione dei rifiuti radioattivi e la ricerca di settore, integrato con altre strutture quali servizi di alta tecnologia, ricerca e formazione di alto livello, e così via. La

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SOGIN era incaricata di fornire le informazioni tecniche specifiche su impianti, installazioni nucleari e rifiuti radioattivi, nonché supporto tecnico e logistico operativo per l’attività del Gruppo di Lavoro. In conclusione, il Decreto stabiliva che:

1) il deposito doveva essere superficiale;

2) sullo stesso sito andavano stoccati temporaneamente i rifiuti di III categoria;

3) l’individuazione del sito doveva avvenire attraverso un percorso partecipativo e trasparente;

4) doveva essere definito il regime di responsabilità nella gestione di medio lungo periodo del Deposito Nazionale.

Finalmente una visione strategica al servizio del Paese!

Per meglio acquisire elementi conoscitivi tecnici e connessi alle procedure decisionali e d’individuazione del sito, il Gruppo di Lavoro ha effettuato visite presso i depositi definitivi dei rifiuti di II categoria del Centro dell’Aube (Francia) e del Centro di El Cabril (Spagna) e presso l’impianto Habog (Olanda) per l’immagazzinamento di lungo periodo dei materiali ad alta attività.

C’era dunque la volontà di applicare in Italia le best practice internazionali.

I funzionari della SOGIN erano stati incaricati di preparare i documenti di benchmark dei singoli depositi, oltre ad un’analisi dei sistemi di licensing dei principali Stati comunitari.

Questa volta il Gruppo di Lavoro, insediatosi il 27 marzo 2008, ha concluso i lavori nel settembre 2008, cioè nei tempi stabiliti.

Il rapporto finale - firmato da tutti tranne che dal rappresentante della Regione Basilicata, a dimostrazione che il “caso di Scanzano” era ancora vivo e di rifiuti radioattivi la Regione non voleva sentirne parlare – è stato il documento che più di ogni altro inquadrava le problematiche connesse alla localizzazione del deposito e ne dava possibili soluzioni.

Ma il documento fu presentato a Scajola essendo in quei mesi cambiata la maggioranza di Governo, girato alla Conferenza Stato-Regioni e messo nel solito cassetto.

Tappa 13: l’idea del rilancio del nucleare - nell’ambito della reintroduzione delnucleare in Italia, tradottosi poi nel secondo referendum post-Fukushima del 2011, il ministro Scajola ha elaborato il decreto legislativo n. 31 del 15 febbraio 2010 (entrato in vigore il 23 marzo 2010) - recante “Disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché misure compensative e campagne informative al pubblico, a norma dell’articolo 25 della legge 23 luglio 2009, n. 99”.

Il decreto chiarisce la procedura di selezione, costruzione e gestione del Deposito

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Nazionale, nonché la copertura economica a carico della componente tariffaria della bolletta elettrica, la stessa con cui si finanziano le attività di SOGIN.

La stessa SOGIN veniva incaricata di svolgere tutte le azioni per la localizzazione e realizzazione del Parco Tecnologico e del connesso Deposito Nazionale.

Del lavoro fatto dal Gruppo di Lavoro del 2008 si prendevano solo la denominazione “Parco Tecnologico” e l’impianto base della procedura politico- legislativa per arrivare con un sufficiente grado di consenso alla scelta del sito.

La SOGIN aveva solo sei mesi di tempo (23 settembre 2010) per elaborare e pubblicare sul proprio sito internet la CNAPI (che il decreto chiamava CNAI togliendo la P di Potenzialmente). A capo della SOGIN, dopo anni di errori di gestione, rallentamenti delle attività e aumenti dei costi di smantellamento, era stato nominato un Commissario – ing. Francesco Mazzuca, di provenienza Finmeccanica – che riuscì a terminare il lavoro in tempo e, dopo un tira e molla con la politica, pubblicò la CNAPI. Ciò gli costò la riconferma ad Amministratore Delegato e il suo allontanamento.

Infatti, secondo un diktat del Governo, la CNAI non andava pubblicata, ma solo consegnata al Ministero dello sviluppo economico che, come di consueto, la mise nel cassetto.

Ufficialmente il motivo dello stop alla CNAI andava ricercato nella mancanza del documento strategico previsto dal DL n. 31/2010.

In realtà, il vero motivo stava nelle difficoltà in cui versava in quel momento il Governo Berlusconi e, memori di Scanzano, mai avrebbero fatto uscire la CNAPI che avrebbe solamente esasperato gli animi. Siamo, infatti, ai primordi del Governo Monti e, forse, era giusto aspettare tempi migliori.

Il decreto legislativo n. 31/2010 ha fino ad oggi subito tre modificazioni.

La prima, cercando di evitare – in modo assolutamente corretto - il referendum post-Fukushima, ne ha eliminato la parte relativa al rilancio del programma nucleare e mantenuto solo la localizzazione, la realizzazione e la gestione del Deposito Nazionale.

La seconda con il Salva Italia di Monti che, peraltro, ha abrogato la nuova Autorità di sicurezza nucleare (ASN), giustamente voluta da Scajola con la legge n. 99 del 23 luglio 2009.

La terza la dobbiamo alla scrittura del Governo di Enrico Letta, ma infilata nel secondo Consiglio dei Ministri del Governo Renzi, quello in cui si sono nominati i Sottosegretari di Stato, con l’emanazione del decreto legislativo n. 45 del 4 marzo 2014 (vigente al 10 aprile 2014), attuativo della Direttiva 2011/70/Euratom che istituisce un quadro comunitario per la gestione responsabile e sicura del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi e che, tra le altre cose, re-istituisce – anche se con modalità normativamente bizzarre e funzionalmente sbagliate - l’Autorità nella figura dell’ISIN (Ispettorato per la sicurezza nucleare e la radioprotezione), erroneamente abrogato dal Governo Monti.

Tappa 14: ultima tappa (almeno per ora…) – siamo quindi al Titolo III del DL n. 31/2010 così come aggiornato e modificato, anche se si parte con una mezza gamba

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visto che degli attori primari - SOGIN e ISIN – la prima deve rivedere la propria governance e dotarsi finalmente di un piano industriale 2.0; il secondo (l’Autorità di sicurezza nucleare con i requisiti voluti dalla Commissione Europea e adottati nell’ordinamento italiano con il suddetto decreto legislativo n. 45/2014) non è stato ancora istituito, anzi si è iniziato a farlo nominando un improbabile candidato alla Direzione Generale, dott. Antonio Agostini, il cui curriculum non brilla né per competenza di settore né per trasparenza. Siamo alle solite.

Il Governo dovrà per forza di cose mettere mano al decreto legislativo n. 45/2014 e dare credibilità funzionale, operativa e di struttura all’ISIN.

Una volta costituita si potrà partire, insieme alla SOGIN e a tutte le parti istituzionali interessate, a quel percorso di localizzazione condiviso e trasparente del luogo ove realizzare il doveroso ed etico Deposito Nazionale.

Non ci divulghiamo sugli aspetti tecnico-scientifici sia perché non sono un problema, sia perché la soluzione in corso è la stessa della task force ENEA del 2000 con l’aggiunta del Parco Tecnologico e i criteri di partecipazione attiva del Gruppo di Lavoro del 2008, con l’aggiunta di qualche novità scientifica dovuta allo sviluppo delle metodologie tecniche, della tecnologia e della robotica.

Occorre, infine, analizzare le ultime due relazioni del

la “Commissione Ecomafie” rispettivamente del 19 dicembre 2012 e del 1 ottobre 2015.

Nella relazione del 2012 si legge espressamente:

“A venticinque anni dal referendum che, nel novembre 1987, ha portato alla chiusura degli impianti nucleari italiani, la situazione generale dei rifiuti radioattivi presenti sul territorio nazionale può dirsi ancora precaria.

Il dato di fondo che determina tale precarietà è la perdurante mancanza di un sito nazionale ove i rifiuti possano essere depositati o smaltiti nelle condizioni di sicurezza che gli standard attuali possono garantire.

Tale mancanza, infatti, fa sì che, nella stragrande maggioranza dei casi, i rifiuti radioattivi debbano ancora oggi essere conservati presso gli stessi singoli impianti – centrali, installazioni sperimentali, reattori di ricerca

– sparsi sul territorio italiano, nei quali sono stati a suo tempo prodotti e nei quali, sia pure in quantità minore, continueranno a essere prodotti sino a quando le operazioni di decommissioning non saranno portate a termine, poiché anche le attività necessarie per il mantenimento in sicurezza degli impianti, ancorché spenti, generano rifiuti. […] Ad aumentare l’attuale stato di precarietà sta il fatto che, spesso, i rifiuti radioattivi si trovano ancora nello stato in cui sono stati prodotti, senza aver subito, cioè, operazioni di trattamento e di condizionamento.”.

La Commissione, quindi, colpevolizza non solo l’intero sistema-Paese, ma anche il

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lento operato della SOGIN e dell’ISPRA.

Numeri alla mano, tenuto conto che i rifiuti di prima categoria non richiedono il condizionamento, nel 2012 – cioè a 13 anni dalla nascita della SOGIN - la frazione dei rifiuti condizionati è molto bassa, intorno al 25% del totale.

Era quindi chiaro a tutti – leggendo le singole audizioni dei player nazionali davanti alla Commissione – che le principale criticità della situazione dei rifiuti radioattivi in Italia stava e sta nella mancanza di un sito nazionale ove possano essere definitivamente posti in sicurezza, nella mancanza di decisioni strategiche di carattere politico a livello nazionale, nelle carenze di governance e operative della SOGIN (come dirà espressamente l’Autorità per l’energia elettrica e il gas) e nell’indecisione cronica e “voluta” dell’ISPRA, ancora in vacatio legis in attesa dell’ISIN, nel rilasciare le necessarie autorizzazioni per, così dire, tirare a campare.

In particolare, nell’audizione del 7 marzo 2012 il Ministro dello sviluppo economico Corrado Passera ha dichiarato:

«La gestione dei rifiuti radioattivi in Italia è uno dei temi su cui il Governo ha iniziato a lavorare subito in quanto facente parte di quegli argomenti critici per i quali stiamo pagando il costo di inefficienze, lentezze e mancate decisioni per la realizzazione di infrastrutture necessarie e anche mancata valorizzazione di opportunità per il sistema industriale nazionale, ciò tacendo potenziali aspetti critici sotto il profilo strettamente ambientale e sanitario...

L’aspetto senza dubbio più rilevante riguarda il ritardo italiano nella realizzazione di un deposito nazionale in cui custodire in sicurezza in modo definitivo i rifiuti radioattivi – questo è il progetto dei progetti in questo campo – motivo per cui è dagli anni del post referendum nucleare, già il primo, che i rifiuti continuano a essere mantenuti in depositi temporanei, sostanzialmente nei luoghi in cui sono stati prodotti.».

La mancata realizzazione del deposito nazionale, o anche il solo ritardo, ha infine degli effetti economici.

Per i soli otto siti nucleari, la SOGIN ha valutato i costi del mantenimento dei rifiuti radioattivi in depositi temporanei presso i singoli siti al termine delle operazioni di decommissioning:

- costi annuali per il personale (dieci persone per sito): un milione di euro circa per sito;

- costi annuali di manutenzione delle apparecchiature e di gestione: 1,5 milioni di euro circa per sito;

- costi annuali per il monitoraggio ambientale: circa 500 mila euro per sito.

Pertanto, per gli otto siti la spesa annuale risulterebbe pari a circa 25 milioni di

euro. In realtà, i costi reali sono più alti e stimabili per ogni anno tra gli 8 e i 10 milioni di

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euro per ciascun sito, secondo le differenti specificità. Pertanto, per ogni anno di ritardo di realizzazione del deposito nazionale si devono

stimare circa 56-70 milioni di euro di costi vivi per il solo mantenimento dei siti, con conseguente aggravio dei costi per il sistema elettrico.

A questa cifra si verrebbe ad aggiungere un’ulteriore somma annua, stimata oggi in un milione di euro, derivante dall’accordo che il Governo italiano ha sottoscritto con la Commissione europea il 27 novembre 2009, relativo al Centro comune di ricerche situato nel comune di Ispra (VA).

Del Centro è oggi responsabile la Commissione europea, ma si prevede il conferimento dei rifiuti radioattivi del Centro al deposito nazionale entro l’anno 2028.

A partire dal 1 gennaio 2029 la proprietà di tutti i rifiuti radioattivi presenti sul sito sarà trasferita al Governo italiano.

Quindi, se il conferimento dei rifiuti al deposito nazionale non fosse avvenuto, sarà l’Italia a doversi fare carico dei costi del loro stoccaggio temporaneo presso il sito stesso.

La relazione dell’ottobre 2015 è stata ancora più dura.

Non solo ha rafforzato il concetto espresso nella precedente relazione che “la situazione complessiva dei rifiuti radioattivi non è confortante”, ma ha elencato le criticità fondamentali:

1. perdurante mancanza di un deposito nazionale, che oltre a non consentire una stabile messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, rende incerta la prospettiva per le operazioni di decommissioning degli impianti nucleari, e quindi il rilascio degli attuali siti nucleari liberi da ogni vincolo di natura radiologica; lascia irrisolta la questione dei rifiuti prodotti dall’impiego delle materie radioattive nell’industria, nella ricerca e, soprattutto, nella sanità, che vengono oggi raccolti, in modo più o meno precario, in depositi temporanei; non permette di definire una destinazione per i rifiuti radioattivi prodotti con le operazioni di trattamento del combustibile irraggiato condotte in Francia e in Gran Bretagna, quando tali rifiuti dovranno rientrare in Italia;

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2. lentezza delle attività di decommissioning - ivi incluso il condizionamento dei rifiuti radioattivi già presenti negli impianti nucleari, operazione questa che, secondo le indicazioni originarie, avrebbe dovuto concludersi entro il 2010 e che la relazione, nel 2012, collocava ancora in una fase poco più che iniziale – principalmente dovute a cause interne alla SOGIN, oltre che a fattori esogeni come i mutamenti di indirizzo politico per alcune scelte fondamentali, come per la gestione del combustibile irraggiato residuo, l’inerzia e la farraginosità del complessivo sistema amministrativo e dei controlli, la mancanza di una soluzione per il deposito finale dei rifiuti radioattivi, la obiettiva complessità delle operazioni da compiere;

3. transitorietà delle funzioni dell’Autorità di sicurezza nucleare che, dal 2009, alcune leggi hanno posto in situazione di precarietà, essendo i controlli ancora mantenuti all’ISPRA, in attesa dell’attuazione della normativa e la costituzione dell’ISIN. Ciò ha comportato il raggiungimento di livelli di guardia delle risorse dedicate alle funzioni di controllo, già notevolmente ridimensionate nel corso degli anni precedenti, e che rischiando di divenire un vero e proprio impedimento per le attività di sistemazione dei rifiuti radioattivi e di decommissioning, o di rendere addirittura inefficace l’indispensabile azione di controllo.

Inoltre, la Commissione ha espresso la “propria preoccupazione” e ha messo nero su bianco la schizofrenica e anti-manageriale programmazione della SOGIN, che negli anni ha visto sempre uno slittamento dei tempi di ultimazione delle attività di decommissioning con un parallelo aumento dei costi.

Con una terza variabile. In mancanza del deposito nazionale, si è passati anche allo slittamento del riferimento finale, passando dall’obiettivo del “prato verde” a quello del “prato marrone”, in cui il rilascio finale del sito è propedeutico alla realizzazione del deposito.

Dal 2006 (il riferimento era il raggiungimento del “prato verde”) al 2014 SOGIN ha rivisto l’allungamento dei tempi mediamente pari a circa +7 anni per le attività di “prato marrone”, il tutto con un aumento del 49% dei costi totali a “prato verde”, passati da 4,35 a 6,7 miliardi di euro. In dettaglio:

• Piano 2008 vs. Piano 2006: da 4,35 miliardi di euro a 5,2 miliardi di euro, ovvero +20% dei costi; inoltre, non più realizzazione del green field, ma brown field vista la mancanza del Deposito nazionale

• Piano 2011 vs. Piano 2008: da 5,2 miliardi di euro a 6,7 miliardi di euro, ovvero +29% dei costi; inoltre, sia i tempi del green field, sia quelli ma brown field sono stati rivisti con un allungamento medio dei tempi rispettivamente di + 3 anni (brown field) e + 9 anni (green field)

• Piano 2014 vs. Piano 2011: non si parla di costi, ma un aumento oltre i 7 miliardi di euro se il Deposito fosse pronto entro il 2024; diversamente si prevede un

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sovracosto per le sole attività di mantenimento in sicurezza pari a 56-70 milioni l’anno. Per i tempi, il solo brown field è stato spostato mediamente in avanti di +2-9 anni a seconda del sito di riferimento.

• Oggi, il Programma 2014 avrebbe già un ritardo stimato in 14 mesi e un aumento di spesa di 150 milioni di euro.

Impianto Programma

2006 (green field)

Programma 2008

(brown field)

Programma 2011 Programma 2014

(brown field) brown field

green field

Bosco Marengo 2015 2009/2010 2012

2022

2016-2017

Caorso 2019 2019 2024

2026

2028-2032

Casaccia 2018 2018 2021

2025

2023-2027

Garigliano 2021 2019 2024

2025

2024-2028

Latina fase 1 2023

2018

2021*

2035

2023-2027 Latina fase 2 N/D Saluggia 2021 2019 202

5 202

9 2028-2032

Trino 2018 2013 2019

2024

2026-2030

Trisaia 2021 2019 2023

2026

2028-2032

Totale 4,35 Miliardi €

5,2 Miliardi € 6,7 Miliardi € >7 Miliardi €

* Per la centrale di Latina, lo smantellamento del reattore è previsto solo con Deposito Nazionale disponibile

A sconcertare sono le stime sull’avanzamento delle attività. La Commissione riporta come al 2012 la media complessiva del lavoro svolto veniva valutata intorno al 12%, comprese anche delle attività di gestione dei rifiuti radioattivi – trattamento e condizionamento – svolte sui singoli siti.

Inoltre, in assenza della nuova programmazione di SOGIN, nel 2014 la Commissione industria del Senato ha stimato che le riduzioni previste dalla riprogrammazione porteranno un ulteriore ritardo di 14 mesi sul completamento del decommissioning in ciascun sito e un conseguente aumento di spesa di 150 milioni di euro.

Vista la precarietà e inefficienza delle attività, il presidente e dodici componenti della Commissione industria del Senato hanno inviato, il 22 dicembre 2014, una lettera ai Ministri dell’economia e dello sviluppo economico, esponendo le risultanze delle audizioni e chiedendo “rapide ed incisive iniziative per assicurare alla Sogin una gestione

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in grado di recuperare i ritardi, altrimenti onerosi per i consumatori, e di attuare gli obiettivi industriali nei tempi previsti.”.

Si chiude la storia del Deposito nazionale con il progetto della SOGIN, in avanzato stato di definizione di studio e solo in attesa del via a procedere da parte delle Istituzioni competenti.

Nel Deposito Nazionale saranno smaltiti e stoccati circa 90.000 metri cubi di rifiuti radioattivi, di cui:

• Smaltiti circa 75.000 metri cubi di rifiuti di bassa e media attività, di cui:

60% prodotti dalle attività di smantellamento;

40% prodotti dalle attività di medicina nucleare, industriale e di ricerca.

• Custoditi in modo temporaneo circa 15.000 metri cubi di rifiuti ad alta attività. Per la realizzazione del Deposito Nazionale e Parco Tecnologico (DNPT) - 4 anni e completamento nel 2024 quando dovrebbe iniziare il conferimento dei rifiuti a deposito

- è previsto un investimento complessivo stimato di circa 1,5 miliardi di euro – sempre caricato sulla componente A2 della bolletta elettrica -, di cui:

650 milioni di euro (43%) per la localizzazione, progettazione e costruzione del Deposito Nazionale;

700 milioni di euro (47%) per infrastrutture interne ed esterne;

150 milioni di euro (10%) per la realizzazione del Parco Tecnologico.

Ad un’analisi economica i “costi del non fare” sarebbero maggiori di quelli “del fare” il Deposito.

I rifiuti radioattivi rimarrebbero nei depositi temporanei distribuiti in molte regioni italiane e progettati per una durata di circa 30 anni e con criteri di sicurezza diversi da quelli di un deposito definitivo.

Molti di questi depositi sono già oggi saturi, vetusti e richiedono periodiche e costose manutenzioni.

Senza il Deposito o con ritardi nella sua costruzione, l’Italia dovrebbe costruire nuovi depositi temporanei provvisori e provvedere alla sistemazione dei rifiuti in nuovi fusti visto il naturale deterioramento. Il solo ritardo nella costruzione del Deposito Nazionale rappresenterebbe un costo di:

• circa 1 milione di euro l’anno per i soli oneri di esercizio e manutenzione di un singolo deposito temporaneo;

• fino a 15 milioni di euro per realizzare un nuovo deposito temporaneo;

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• circa 56-70 milioni di euro: considerando che per ogni anno di allungamento dei

tempi l’incremento dei costi è di 8-10 milioni di euro per ciascun sito (dipendente dal sito), per i soli costi di mantenimento in sicurezza;

• penali che l’Italia dovrebbe pagare a Francia e UK, in caso di impossibilità di rimpatriare il combustibile riprocessato, per diverse centinaia di milioni di euro. Si stima che un ritardo di 10 anni del Deposito Nazionale comporterebbe costi fino a 1 miliardo di euro.

A questi costi ne vanno aggiunti altri strategico-sistemici per il sistema-Paese. Si pensi alla filiera della ricerca nazionale.

Ai 1,5 miliardi di euro stimati per il DNPT bisogna aggiungere fino ad un altro 1 miliardo di euro per i progetti di ricerca del Parco Tecnologico finanziati da altri strumenti, pubblici e privati, fuori dalla componente A2 della bolletta elettrica.

Inoltre, in termini di livelli occupazionali, la fase di realizzazione del DNPT genererà circa 1.500 occupati l’anno per 4 anni e quella di gestione produrrà circa 700 posti di lavoro. Considerando l’indotto, i flussi di transito, le attività di smantellamento accelerato, nuovi progetti di ricerca e la dotazione d’ambiente delle località limitrofe, si stima un totale complessivo di circa 15 mila nuovi posti di lavoro.

Altro “costo-beneficio” importantissimo è il vantaggio reputazionale in favore dell’Italia. Il Paese rientrerebbe nelle best practices comunitarie e internazionali, evitando costose e anti-reputazionali procedure d’infrazione. In ultimo, si genererebbe un “naturale e salutare effetto di snellimento burocratico”19 - favorito dall’istituzione di un ISIN indipendente funzionalmente, robusto per competenze, credibile per l’opinione pubblica e riconosciuto a livello internazionale dalle principali potenze nucleari e strategiche (Stati Uniti, UE, UK, Francia, Russia su tutte – visto che l’Italia ha un sistema normativo e regolatorio nucleare molto pesante a cui si aggiungono troppe e piccole norme tecniche, il più delle volte eccessivamente rigide, che devono essere semplificate e unite in conformità alle migliori pratiche europee e internazionali.

19 Davide Urso, Il decalogo per il ritorno del nucleare in Italia, op. cit., pp. 50-64. www.debu

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1.4 Il referendum post-Fukushima del 2011

Il referendum del 12-13 giugno 2011 ha fatto registrare lo stesso identico dato di quello del 1987. Cioè l’emotività ha vinto sulla ragione e l’interesse edonistico ha vinto sull’interesse nazionale.

I promotori referendari e gli anti-nuclearisti dicono che se in 24 anni gli italiani non hanno cambiato idea sull’atomo, allora non va fatto.

Pensano che si sia trattato della vittoria della democrazia e di un popolo che non raggiungeva il quorum da ben 16 anni. Credono che sia un messaggio lanciato ai decisori politici di cambiare programma. Di vero c’è molto poco se guardiamo ai Governi mondiali. È mera ideologia anti-Paese.

Il referendum sul nucleare, promosso dall’Italia dei Valori, è stato fatto - come 24 anni prima - sull’onda emotiva di un incidente, insieme ad altri 3 quesiti su acqua e legittimo impedimento. Ciò ha portato più italiani a votare, alcuni dei quali non sapevano si potesse decidere di non prendere una scheda piuttosto che un’altra.

I quesiti rivolti ai cittadini elettori italiani furono le seguenti:

1. Volete voi che sia abrogato l'art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall'art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante «Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia», e dall'art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante «Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea», convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale? (Il quesito prevede l’abrogazione della norma che consente di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica a soggetti scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica, consentendo la gestione in house solo ove ricorrano situazioni del tutto eccezionali, che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato)

2. Volete voi che sia abrogato il comma 1 dell'art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante «Norme in materia ambientale», limitatamente alla seguente parte: «dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito»? (Il quesito propone l’abrogazione parziale della norma che stabilisce la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, nella parte in cui prevede che tale importo includa anche la remunerazione del capitale investito dal gestore).

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3. Volete voi che siano abrogati i commi 1 e 8 dell'articolo 5 del decreto-legge 31/03/2011 n.34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 n.75? (Il quesito propone l’abrogazione delle nuove norme che consentono, sia pure all’esito di ulteriori evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza nucleare e tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore, di adottare una strategia energetica nazionale che consenta la produzione sul territorio nazionale di energia elettrica nucleare).

4. Volete voi che siano abrogati l'art. 1, commi 1, 2, 3, 5 e 6, e l'art. 2 della legge 7 aprile 2010, n. 51, recante «Disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza», quale risultante a seguito della sentenza n. 23 del 13-25 gennaio 2011 della Corte costituzionale? (Il quesito propone l’abrogazione della disciplina differenziata del legittimo impedimento a comparire in udienza, applicabile ai soli titolari di cariche governative).

I no al nucleare, relativi al quesito n. 3, sono stati il 94,05% e i sì il 5,95%. Su un quorum del 55,79%, significa che 1 italiano su 2 sarebbe contrario al nucleare.

Tra molte paure e pressapochismi, si è deciso di spegnere il cervello prima che ragionare sull’accensione di nuove centrali nucleari.

O meglio, di cavalcare per la seconda volta l’onda emozionale per qualcosa di ben più importante della salute pubblica, la loro salute politica, cioè i voti. Continuo e forse continuerò a chiedermi per tutta la vita perché l’Italia è l’unico Paese al mondo in cui per parlare di energia nucleare si deve anteporre il cuore al cervello (sic!).

Nel corso della campagna referendaria e a seguito dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, in Giappone, il Governo Berlusconi ha tentato una mossa strategicamente inappuntabile ma impossibile da realizzarsi in un Paese in cui la razionalità è sottostimata e si vive costantemente nel “tutti contro tutti”.

Il Governo ha emanato nel marzo il decreto legge n. 34/2011, il cui articolo 5 (“Sospensione dell’efficacia di disposizioni del decreto legislativo n. 31/2010”) includeva una moratoria di un anno sull’avvio del programma nucleare. In seguito, grazie all’introduzione di un emendamento al decreto omnibus 2011, convertito con modificazioni dalla legge n. 75 del 26 maggio 2011, il Governo modificava ulteriormente la normativa vigente, ovvero il precedente DL n. 34/2011. L’emendamento, abrogando diverse disposizioni, fra cui quelle relative alla realizzazione di nuove centrali nucleari, concedeva al Governo la possibilità di tornare in seguito sulla questione dell’uso dell’energia nucleare in Italia una volta acquisite “nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea”, attraverso l’adozione, entro dodici mesi, di una strategia energetica nazionale che non esclude l’eventuale ricorso all’energia nucleare.

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L’intento del Governo, come dichiarato da Silvio Berlusconi, era quello di non permettere lo svolgimento del referendum sul nucleare, poiché influenzato dai recenti avvenimenti in Giappone:

«Se fossimo andati oggi a quel referendum, il nucleare in Italia non sarebbe stato possibile per molti anni a venire. Abbiamo introdotto questa moratoria responsabilmente, per far sì che dopo un anno o due si possa tornare a discuterne con un’opinione pubblica consapevole. Siamo convinti che il nucleare sia un destino ineluttabile».

Il 1 giugno 2011 l’ufficio centrale per il referendum costituito presso la Cassazione ha tuttavia stabilito – in barba all’unica soluzione strategico-sistemica possibile in un Paese serio e industrializzato – che, pur alla luce dell’emendamento presentato dal Governo, il referendum sul nucleare si dovesse comunque svolgere e che dovesse essere relativo al testo normativo risultante dalla modifica operata dal decreto omnibus. Come al solito, al danno la beffa!

Lo stesso 1 giugno 2011 il Governo dava mandato all’Avvocatura dello Stato di intervenire all’udienza del 7 giugno 2011 della Corte Costituzionale sull’ammissibilità del nuovo quesito, al fine di evidenziare l’inammissibilità della consultazione, poiché il referendum “avrebbe a questo punto un oggetto del tutto difforme rispetto al quesito in base al quale sono state raccolte le firme”, e perché non sarebbe di tipo abrogativo, ma consultivo o propositivo.

La Corte Costituzionale – certamente sotto pressione della classe politica avversa al Governo - ha confermato all’unanimità l’ammissibilità del quesito.

Quanti sapevano veramente cosa stavano votando e le conseguenze della loro scelta?

La percentuale degli inconsapevoli era molto alta e non per loro colpa.

I contrari al nucleare hanno optato per una scelta anti-Governo e non pro-Italia, spinta dall’assenza di una Strategia Energetica Nazionale (SEN), dall’affarismo delle fonti rinnovabili iper sussidiate e pagate da noi utenti con tassazione in bolletta elettrica e dei fossili, nonché da un’informazione generale allineata su posizioni anti-atomo, volutamente orientata a cercare lo scoop invece che ad informare con serietà e oggettività, e da un calo progressivo della rappresentatività della classe dirigente e politica.

Mi è stato fatto notare che insistere nel voler continuare a discutere di nucleare può apparire, dopo l’umiliante esperienza del referendum dell’estate 2011, oltre che sterile esercizio accademico anche un’inutile perdita di tempo.

Continuo a non crederlo.

Mettere a fuoco con una lente oggettiva e senza ideologie la colossale serie di menzogne, di ignoranza e di grossolanità che hanno caratterizzato, per l’ennesima volta, la storia del nucleare in Italia è invece un utile esercizio per ricordarci chi eravamo e come ci siamo arrivati e, purtroppo, cosa e come abbia compromesso la serietà,

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credibilità, ruolo e rango regionale e competitività della ex settima potenza mondiale, quale era l’Italia.

Si è perso per troppe volte il treno della modernizzazione del sistema-Paese. Altro quindi che sterile esercizio accademico e un’inutile perdita di tempo!

Come detto, l’esito del referendum è la vittoria - ancora una volta - di chi gioca sulla paura e sull’emotività degli italiani e sulla razionalità opportunistica della politica.

È la sconfitta della scienza e degli scienziati, messi nuovamente da parte nell’impossibilità di informare i cittadini, costretti al silenzio e spinti a rifugiarsi all’estero.

È la perdita di un’occasione unica di sviluppare un modello energetico sistemico per migliorare le condizioni economiche e ambientali dell’Italia.

È la sconfitta dell’ambientalismo progressista, minoranza in Italia, che vede nello sviluppo tecnologico sostenibile l’unica via per modernizzare l’Italia, rispettare l’ambiente e tutelare la salute e le tasche dei cittadini e delle imprese.

È la vittoria di una parte della classe politica e dirigente “politicizzata” nazionale che ha fatto prevalere il mero interesse particolaristico a quello dello Stato.

È la vittoria di un’informazione pilotata e che ha preferito il pericoloso profitto di notizie vaghe e ideologiche (notiziabilità del sentiment) alla verità scientifica.

Nel 2016, la bolletta elettrica sarà sul podio delle più alte al mondo!

L’Italia è il più grande importatore di energia elettrica al mondo.

Ai 132 Terawattora (TWh) prodotti nel 2014 ha dovuto aggiungere 22,3 TWh acquistati all’estero per soddisfare la domanda interna di 153 TWh.

Di questo 15% importato, la quota di maggioranza arriva proprio dal nucleare francese.

L’Italia è l’unica nazione appartenente al G8 che non possiede impianti nucleari.

Nonostante questo, ben il 10% dell’elettricità che consumiamo viene proprio dal nucleare, ed ovviamente è tutto d’importazione, prevalentemente dalla Francia.

Quando le aziende sposteranno i soldi che oggi investono per poche nuove assunzioni per pagare la bolletta speriamo che non ci saranno scioperi generali per l’alto tasso di disoccupazione!

Quando sostituiremo i 40-50 miliardi di euro di investimenti privati nel nucleare, che ci avrebbero garantito una copertura del fabbisogno elettrico del 25%, con oltre 110 miliardi di euro pagati da noi cittadini per le fonti rinnovabili (fotovoltaico, eolico e geotermico), per coprire al massimo il 16% della domanda elettrica (escluso l’idroelettrico), sarebbe bello non vedere proteste contro i rincari della bolletta!

Quando gli italiani pagheranno più tasse comunali, provinciali e regionali per supplire agli enormi esborsi statali (cioè sempre i nostri soldi pagati tramite il fisco) sarebbe auspicabile non avere manifestazioni di piazza dei referendari per la mancata riduzione

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della pressione fiscale!

Il progresso del Paese è stato rallentato per opportunità politico-affaristica e non per il benessere della popolazione e delle industrie nazionali.

Il sistema-Paese ha subito una profonda ferita. Il “paziente Italia” dovrà, ancora per un po’ di tempo, essere ricoverato. Speriamo la diagnosi non sia la “paralisi”.

Trovare nel 2018 le ragioni e gli interessi che hanno condotto a far credere agli italiani che un Paese privo di impianti di produzione di energia nucleare sia un Paese più sicuro, più pulito e più competitivo è quasi impossibile, né sintetizzabile con la mera paura della collettività.

Così come trovare le ragioni e gli interessi per cui la struttura energetica nazionale - parte vitale della spina dorsale di qualsiasi Paese, in particolare se industrializzato - sia ancora oggi improntata su logiche apocalittiche o meramente econometriche, e non sull’analisi geoenergetica che unisce rotte, flussi e posizione geografica, è impossibile e certamente intollerabile.

Così come trovare le ragioni e gli interessi per cui il vuoto di quasi 30 anni di una seria politica energetica per il Paese abbiano lasciato libero spazio ad un ambientalismo terzomondista e anti-sistemico. Lo vediamo con le rivolte sulla TAV o per il gasdotto TAP o per le trivellazioni in mare aperto per estrarre e produrre energia domestica.

Nel libro “nucleare: siamo bravi, furbi o folli?” si sottolinea che un Paese serio deve avere un modello organizzativo nel quale chi viene delegato a decidere lo deve fare, pur considerando la grande complessità degli interessi, avendo come bussola il modello del “bene comune” e della tutela degli interessi nazionali.

La perdita della bussola dell’energia ha impedito al Paese, che pur aveva chiari gli obiettivi da realizzare, di avere una strategia adeguata alla costruzione di un’architettura del sistema energetico in linea con le peculiarità nazionali, con la nuova dimensione europea e paneuropea dell’Italia, con le nuove dinamiche geopolitiche globali e con i

nuovi grandi attori attivi sulla “scacchiera dei Grandi”20.

Ma allora: siamo davvero i più furbi?

Siamo davvero stati più bravi, intelligenti ed avveduti degli altri?

In che modo si è arrivati ad un secondo referendum anti-atomo senza che si parlasse minimamente dell’energia nucleare e delle nomenclature energetico-ambientali comunitarie e internazionali?

Perché l’attuale classe dirigente invece di pensare ad una superflua quotidianità elettorale, che ha ingessato il Paese,

20 Davide Urso, Il multipolarimo imperfetto, Franco Angeli, ottobre 2008.

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non ha più in sé quello spirito statista che impone in modo etico, prima che professionale, di adottare tutte le misure necessarie affinché le generazioni dei figli e dei nipoti vivano in un mondo migliore di quello dei padri e dei nonni?

Il mondo è cambiato in fretta e noi non siamo riusciti ad intercettare i cambiamenti giusti. È impossibile - in un mondo globale e globalizzato in cui il vincitore è chi riesce a tagliare per primo il traguardo della competitività e della capacità di generare ricchezza - che le nostre imprese e i nostri cittadini che sono rallentati da un pesante peso energetico (tasse, bollette elettrica ed energetica, incentivi, risorse economiche spese in settori di secondo interesse strategico e nazionale, come l’aumento costante e parallelo della capacità produttiva nazionale e delle importazioni di energia dall’estero non compensato dall’aumento della domanda energetica italiana, disallineamento della politica energetica rispetto a quella ambientale ed ecologica, e così via) possano oggi partecipare alla “gara”. - Lo possono fare solo pochi attori nazionali e, con difficoltà, anche del settore dell’industria, accademico e della ricerca nucleare, che troppo presto e con troppa leggerezza sono stati dati per persi o dimenticati e che con invidiabile spirito sistemico, culturale e d’impresa hanno continuato a portare alto il nome e il prestigio del nostro Paese e le nostre “dotazioni d’ambiente”.

Infatti, forse per miopia politica, il referendum anti-nucleare del giugno 2011 ha riguardato solo la costruzione di nuove centrali nucleari per la produzione di energia elettrica e non la realizzazione del deposito di stoccaggio delle scorie, la ricerca nucleare in Italia, la possibilità di acquistare energia nucleare dall’estero, la partecipazione di società italiane in impianti nucleari fuori dal territorio nazionale, la possibilità di

esplorazione mineraria e di estrazione dell’uranio21 e… chi più ne ha, più ne metta!

Inoltre, pur se per tutti si è trattato di un referendum abrogativo, in verità è una moratoria di 5 anni che scade, appunto, giugno 2016.

E’ interessante evidenziare uno studio ISPO [9] sugli “Italiani e Nucleare”(condotto nel Novembre 2009), che si riporta in Appendice A, ha evidenziato che: “...la maggioranza relativa del campione (44%) vorrebbe che l’Italia cominciasse anche a produrre energia nucleare, mentre il 33% esprime un rifiuto categorico verso questa soluzione e il restante 23% non si sbilancia.

Tra gli “informati”sul nucleare cresce la percentuale di chi vota in favore della produzione (49%), mentre tra i non informati cresce la percentuale di chi non si sbilancia. Il rifiuto categorico al nucleare, invece, pare trasversale al livello di informazione...”[9].

Inoltre il sondaggio ha evidenziato che l’informazione o almeno la sua presunzione in Italia sul tema del nucleare è piuttosto diffusa, infatti il 66% degli intervistati ritiene di essere correttamente informato, come indicato nel grafico riportato in Fig. 1.

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Fig. 1- Informazione sul nucleare in Italia [9]

Un altro interessante dato emerso è che gli italiani ritengono che le centrali nucleari attuali possono essere ritenute molto più sicure che in passato (Fig. 2).

Fig. 2 - Percezione di sicurezza delle centrali attuali

Infine occorre rilevare che la maggioranza relativa (44%) degli intervistati ISPO auspica che l’Italia cominci a produrre energia nucleare, mentre il 33% preferirebbe che l’Italia non producesse né comprasse energia prodotta da fonte nucleare [9].

Il mix energetico non deve essere considerato un tabù quando le priorità sono di garantire la sicurezza energetica dei cittadini e delle imprese, proteggerne le tasche, tutelare l’ambiente, salvaguardare la salute, cercare di aumentare la nostra indipendenza energetica e rispettare i vincoli internazionali, per non incorrere nelle salate sanzioni che verrebbero pagate dai cittadini come costo per le mancate e/o cattive scelte dei decisori.

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La storia del sistema energetico italiano è chiara.

Dal 1987 non abbiamo il nucleare e il sottosuolo italiano è privo di risorse energetiche naturali (poco petrolio, poco gas e niente carbone).

Rimangono le rinnovabili che costano troppo, sono incentivate (le paghiamo noi cittadini con la bolletta), hanno due mercati saturi (idroelettrico e geotermico) e due mercati pieni dei nostri soldi ma con ancora uno mediocre impatto sistemico (vento e sole).

Ergo, ricorriamo alle importazioni, quindi ci indebitiamo sempre di più e lasciamo uscire dal Paese soldi che potremmo utilizzare per produrre l’elettricità di cui abbiamo bisogno a casa nostra e per rilanciare la competitività di molti altri settori.

Inoltre, dobbiamo riflettere sul fatto che essere stati tra i grandi Stati nucleari mondiali ci ha portato un’eredità non solo di rifiuti ma anche di scienza, conoscenza, esperienza, industria, sanità-medicina, ecc. che troppo spesso viene dimenticata. Chiudere l’intero parco elettronucleare italiano non solo non ha denuclearizzato il Paese ma ci ha fatto dilapidare un ammontare economico enorme. Secondo i nostri studi se l’Italia avesse continuato a produrre elettricità con il nucleare avrebbe risparmiato nei seguenti segmenti energetici:

• Costi di generazione (costi di investimento, di esercizio e manutenzione e di combustibile) e della CO2.

• Oneri per riconversione delle centrali, interruzione contratti e smantellamento legati agli impianti anticipatamente chiusi.

• Costi per le importazioni di combustibili fossili.

• Costo-opportunità legato alle importazioni, ovvero il mancato rendimento del capitale speso per importare il combustibile per la produzione di elettricità.

Abbandonare il nucleare ci è costato 50-75 miliardi di euro, pari al 3,5-5% del Pil, 3- 5 finanziarie, solo in caso di realizzazione del PEN, che prevedeva la realizzazione di

13.000 MWe nucleari, oltre ad una perdita netta del 25-30% delle capacità industriali nazionali in grado di costruire centrali nucleari, pari a qualche decina di miliardi di euro.

21 Il territorio italiano ha due zone in Lombardia - Novazza, in provincia di Bergamo, e Val Vedello, in provincia di Sondrio - dove le riserve di uranio stimate sono rispettivamente di 1.100 tonnellate e 3.300 tonnellate. La società australiana Energia Minerals è titolare di una licenza per l’esplorazione mineraria dell’uranio in Lombardia e sta sviluppando progetti per l’estrazione dell’uranio. L’uranio nelle due zone è stato scoperto alla fine degli anni Cinquanta, ma non è mai stato sfruttato. L’esplorazione e l’estrazione sono contestate dalle associazioni ambientaliste, che temono un potenziale impatto ambientale sull’ecosistema montano.

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1.5 Conclusione – I malanni del sistema-Italia nucleare

La storia ha sempre un peso specifico o, perlomeno, dovrebbe averlo. Il condizionale è d’obbligo quando si tratta della storia del nucleare italiano.

Sono trascorsi quasi trent’anni da quando, nel 1988, il Parlamento ha deliberato quasi all’unanimità l’uscita del Paese dall’utilizzo della tecnologia nucleare civile, con una rapidità ineguagliata nella storia mondiale e dopo solo un quarto di secolo dal suo grande e prospero sviluppo industriale sistemico.

Una filiera come quella dell’energia nucleare è, per sua stessa natura, sistemica, multidisciplinare e di lunghissimo periodo. Un abbandono così rapido e precoce è stato un shock sistemico che non ha precedenti nella storia politico-industriale del nostro Paese.

Un abbandono a dir poco scellerato, che ha reso il sistema-Italia più vulnerabile ed

esposto alle strategie esterne, generando una situazione cronica di “paziente Italia”22.

L’Italia soffre, e continua a soffrire, di assenza di una seria strategia sistemica o, come si definisce nel quadro dell’energia nucleare di massimalismo programmatico e progettuale.

In generale, si può riassumere nel fatto che lo Stato ha manipolato le forze, le risorse e le effettive capacità nazionali nel settore nucleare – sia nel settore della ricerca che delle applicazioni industriali – senza avere né essere stato mai in grado di svolgere il ruolo suo ruolo di garante della stabilità sistemica, ovvero quelle necessarie funzioni di coordinamento e di programmazione che sono basilari nel caso di una tecnologia che abbiamo definito sistemica e multidisplinare.

La storia del nucleare civile mondiale ha dimostrato che solo in un quadro di certezze politico-programmatiche, l’industria, l’accademia e le attività di R&S possono intraprendere un percorso serio di sviluppo. Ha anche dimostrato che non si può fare tutto da soli in regime di autogestione, ma che la cooperazione internazionale tra Stati, imprese e tra Stati e le filiere nucleari straniere è decisiva. E ciò per prendere nel tempo il meglio delle esperienze (anche nei settori sociali, psicologici e di sostenibilità energetico-ambientale), standardizzare le attività con conseguente riduzione dei costi, massimizzare l’acquisizione delle reciproche esperienze aumentando il livello della competitività e sostenibilità industriali, dividersi nel tempo costi e rischi di progetti e attività economicamente pesanti e di lungo periodo.

22 Davide Urso, Nucleare: siamo bravi, furbi o folli?, op. cit., pp. 223 ss.

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Ma la storia del nucleare civile mondiale ha anche dimostrato che una volta iniziato il processo di costruzione delle competenze nucleari nazionali, tale scelta deve affrontare diversi gradi di difficoltà strutturale: complessità tecnico-scientifico, contrasti sociali, difficoltà psicologiche e non linearità economico-finanziaria.

Pertanto, uno Stato serio ha il dovere di porre in essere una seria strategia sistemica partendo dall’instaurazione di una ugualmente seria struttura organizzativa e di governance flessibile ed equilibrata tra i diversi soggetti coinvolti nell’intera filiera nucleare.

Solo così uno Stato può garantire quella coesione simbiotica tra una tecnologia sistemica e gli apparati ambientale, socio-psicologico, istituzionale ed economico-finanziario che caratterizzano lo strato fertile di una Nazione.

Mancano sia una “gerarchia di comando” - che speriamo possa avere al vertice una indipendente, competente e funzionale Autorità di sicurezza nucleare nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri - sia un “piano industriale” in grado di mettere a fattor comune le competenze nucleari rimaste, di rilanciare il comparto e di proiettarlo su scala internazionale. In altre parole, di conciliare programmazione e mercato e di coordinare interessi strategici nazionali e interessi privatistici, individuandone gli strumenti.

A nostro avviso, lo smantellamento delle strutture pubbliche e delle capacità industriali e professionali nazionali del settore nucleare – avvenuto con tempi più celeri del lentissimo e molto costoso processo di smantellamento delle installazioni nucleari nazionali (sic!) -, la disarticolazione regolatoria e la non indipendenza decisionale della politica italiana, a traino delle principali fluttuazioni contingenti - sono stati le cause principali del fallimento della fase nucleare attiva e dell’attuale fase post-nucleare. Molto di più rispetto alla profonda riforma del sistema elettrico nazionale, alla liberalizzazione dei mercati e alla disintegrazione verticale della filiera elettrica, che hanno prodotto una esiziale moltiplicazione dei soggetti decisori.

Tre esempi meritano un’attenzione particolare. Si tratta di argomentazioni e trattazioni poco conosciuti, ma che con il tempo hanno generato effetti sistemici. Una sorta di “effetto farfalla” a livello di sistema-Paese.

Il primo caso lo possiamo definire “paradosso tecnologico”.

L’assenza di una strategia industriale ha comportato la paradossale decisione di costruire tre centrali nucleari con tre tecnologie-reattore diverse e sperimentali: in ordine cronologico GCR-Magnox a grafite inglese, BWR e PWR americani.

Come si capirà solo nel “lungo week end istituzionale” del decennio 1965-1981 -tempo trascorso tra l’entrata in esercizio della terza centrale elettronucleare di Trino vercellese (comune di Trino in provincia di Vercelli) e quello dell’ultima, la quarta, di Caorso (comune di Caorso in provincia di Piacenza) – tale paradosso fu causato principalmente dalla feroce competizione tra Edison (privato italiano), l’IRI (Stato) e l’ENI (campione nazionale a livello mondiale).

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Nulla della scelta sulla diversità tecnologica è legata ad una scelta razionale e programmatica.

Si sarebbe potuto sostenere, su base strategica, che l’Italia optava per una diversificazione delle esperienze di costruzione ed esercizio di prototipi di reattore su scala industriale, con l’obiettivo di acquisirne le necessarie competenze tali da realizzare una propria tecnologia made in Italy.

Ciò non solo avrebbe garantito l’accettabilità della scelta multi-tecnologica – beninteso, sempre dei Paesi alleati -, ma avrebbe obbligato il Governo a decidere di costruire l’intera architettura nucleare attraverso una cooperazione programmatica tra tutti gli attori operanti nel settore.

Esito sarebbe stato, oltre alla richiamata tecnologia made in Italy, anche la consapevolezza delle scelte future in termini di Piano Energetico Nazionale, evitando schizofrenie tra ciò che sarebbe stato scritto sulla carta e ciò che realmente sarebbe accaduto.

Invece, si scelse senza strategia e ciò ha generato una “deviazione della tattica nucleare” tale da produrre nell’immediato irrazionalità economiche ed industriali e, nel medio-lungo periodo, effetti espansivi nefasti.

Sul piano economico, la scelta di avere tre tecnologie diverse sulle tre centrali ha impedito al kWh nucleare di beneficiare dell’effetto dell’economia di scala di settore.

Esso si ha solo in presenza di una standardizzazione tecnologica ripetuta su più esemplari di centrali. Inoltre, si è impedito al kW nucleare - cioè la base del costo di una centrale elettronucleare – di essere sempre più sostenibile in termini di prezzo e competitivo con le centrali fossili (all’epoca carbone e petrolio).

Sul piano industriale, si tagliava fuori nell’immediato la strategia del made in Italy, (al contrario di ciò che è accaduto in Francia e in Germania) e si toglievano progressivamente quote di mercato alle industrie italiane. Inoltre, riduceva la “curva di esperienza”, necessaria in un settore sistemico e multidisciplinare, che nel medio termine si sarebbe tramutata in un depauperamento delle capacità e delle risorse nostrane di settore e nella scelta di molte aziende private di modificare la propria “curva d’investimento”, magari aspettando importanti sussidi da parte del Governo, che non sono mai arrivati, a differenza dei combustibili fossili e delle energie rinnovabili. La conseguenza nel lungo periodo è stata l’attuale subalternanza rispetto all’industria straniera.

Con un’eccezione: il decommissioning delle installazioni nucleari, a valle della stramba scelta della strategia del “decommissioning accelerato”, che oggi potrebbe ritornarci utile. Non ripetiamo lo stesso errore e optiamo per creare un “campione nazionale” sistemico.

Una chiosa in merito al fallimento della strategia del made in Italy. Pur nella discontinuità della storia nucleare italiana, un abbozzo di “auto-definizione” si stava creando. Nel 1966, Finmeccanica, braccio operativo dell’IRI, riorganizzò e razionalizzò

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l’intero comparto elettromeccanico, creando “dotazioni d’ambiente” e “masse critiche” di eccellenza nazionale. In quell’anno nacquero tre Società genovesi: l’Ansaldo meccanico nucleare (AMN), la progettazioni meccaniche nucleari (PMN) e la Costruzioni meccaniche industriali genovesi. Pertanto, l’Italia disponeva non solo delle capacità per svolgere tutte le attività termomeccaniche, ma di tutte quelle necessarie per la costruzione di centrali elettronucleari complete.

Come sosterrà Franco Viezzoli “l’obiettivo principale è stato quello di arrivare, attraverso un lavoro di più anni, con scelte manageriali e di integrazione di tecnologie diverse, alla formazione e creazione di una unità dedicata alla costruzione di centrali nucleari, l’Ansaldo, dove sono affluite nel tempo diverse competenze del settore del Gruppo IRI sia dei privati”.

Se il piano fosse riuscito le nostre capacità produttive e tecnologiche ne sarebbero uscite fortemente irrobustite, più sostenibili e maggiormente competitive, consentendo alla nostra industria di affacciarsi sul mercato internazionale.

Se non siamo stati in grado sviluppare una programmazione strategica adeguata per le centrali, ora il Paese si trova in una condizione molto simile con il decommissioning delle installazioni nucleari.

Il secondo caso è quello che definiamo la “questione Meridionale”.

Abbiamo visto che la prima centrale elettronucleare ad entrare in esercizio fu quella di Borgo Sabotino (Latina) nel 1963, su ordine della Società italiana meridionale energia atomica (SIMEA), controllata al 75% dall’AGIP nucleare e al 25% dall’IRI.

La seconda centrale elettronucleare ad entrare in esercizio fu quella del Garigliano (comune di Sessa Aurunca in provincia di Caserta) nel 1964, costruita dalla Società elettronucleare nazionale controllata da Finelettrica-IRI.

A promuoverla fu quel Felice Ippolito nell’ambito del progetto “Energia nucleare Sud Italia”, condotto dal Comitato nazionale ricerche nucleari (CNRN) e dalla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS), oggi Banca Mondiale.

Inoltre, in parallelo a queste due iniziative industriali, si spalancavano le porte della qualificazione territoriale sulle attività di R&S tramite la costruzione del Centro di Ricerche della Trisaia, denominato Itrec, nel comune di Rotondella in provincia Matera, la cui costruzione partì nel 1960 su iniziativa di Emilio Colombo ed era organizzato intorno ad un impianto sperimentale per il recupero di materiale energetico dal combustibile nucleare irraggiato, cioè già utilizzato in un reattore nucleare. Il processo è più conosciuto come “ritrattamento del combustibile”.

Negli anni '60 era considerato un processo cruciale per il futuro economico e commerciale dell’energia nucleare, perché permetteva la continuazione del ciclo produttivo elettronucleare senza la necessità di acquistare nuova materia prima (uranio).

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Il Centro Itrec della Trisaia doveva diventare un polo high tech del ciclo del combustibile.

Come si può notare, queste tre iniziative non sono solo tutte riferite al Mezzogiorno d’Italia e in un lasso temporale molto ristretto, ma sono state un banco di prova riuscito per l’intera industria manifatturiera italiana, che puntava sul Mezzogiorno come un avamposto strategico per lo sviluppo competitivo e sostenibile del Paese.

I fatti non hanno seguito le intenzioni. La centrale del Garigliano fu fermata nel 1978 e il centro Itrec manifestò da subito un andamento mediocre delle attività di ritrattamento, i cui pochi e risibili risultati (ritrattamento a vita intera di soli 20 lotti di barre di uranio-torio di origine americana) sono ancora stoccati nella piscina dell’impianto in attesa di destinazione.

Questo è solo uno dei tanti esempi che dimostra, al contrario di chi ancora pensa che il nucleare italiano si sia interrotto a causa del referendum post-Chernobyl del 1987, che lo stesso referendum fu possibile perché l’Italia non era ancora riuscita, in modo scellerato e avendone tutte le competenze, risorse e “dotazioni d’ambiente” (anche geopolitiche e di mancanza di contestazione sociale), a dotarsi di una filiera economico-industriale e di ricerca nucleare adeguata.

La lobby nucleare era, nei fatti, inesistente in Italia o, meglio, composta da pochi adepti, che furono spazzati via un po’ dalla magistratura (vedasi i casi di Felice Ippolito del 1964 e del funzionario ENEA Giuseppe Lippolis la cui incredibile storia giudiziaria iniziò nel 1993 e si concluse nel 2001) e un po’ dalla classe politica che seguiva i venti del momento.

Il terzo argomento riguarda il trattamento dei rifiuti liquidi presenti in Italia – meno di 3 metri cubi presso l’impianto Itrec della Trisaia e oltre 100 metri cubi presso l’impianto Eurex di Saluggia – che tutt’oggi non hanno trovato soluzione definitiva.

Si parte l’11 agosto 1975 – sono passati più di 40 anni! – quando l’allora Ministero dell’Industria concede all’impianto Itrec l’autorizzazione alle prove nucleari con combustibile irraggiato, ponendo tra le prescrizioni quella che “entro cinque anni dalla data della notifica dell’autorizzazione doveva essere operante presso l’impianto Itrec un sistema di solidificazione dei rifiuti radioattivi liquidi ad alta attività”.

Diciamo subito che si tratta dell’ennesimo caso di velleitarismo tecnico. Ma qui con l’aggravante che tale prescrizione emessa dal Ministero si basava sulla valutazione tecnica dell’ENEA-DISP, l’allora Autorità di sicurezza nucleare.

Infatti, la tecnologia di condizionamento dei rifiuti radioattivi liquidi ad alta attività era ed è tra le più complesse dell’intero ciclo del combustibile nucleare. Inoltre, nel 1975 si era in tutto il mondo ancora allo stato di ricerca e non vi era un accordo univoco sulla migliore metodologia impiantistica (cementazione vs. vetrificazione).

Pertanto, pensare che l’Italia in cinque anni potesse realizzare e mettere in funzione un sistema di condizionamento era una follia.

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L’ENEA puntò sin da subito sul processo di vetrificazione, annunciando l’impegno del sistema-Italia in lettere e convegni internazionali.

Come era facile prevedere, allo scadere della prescrizione, visto che essa è vincolante e soggetta a codice penale per gli esercenti, l’ENEA chiese una proroga del termine.

Il Ministero dell’industria, su parere favorevole dell’ENEA-DISP, concesse una proroga di altri cinque anni alla realizzazione della tecnologia di solidificazione, con obbligo d’informazione annuale da parte dell’ENEA al Ministero e alla DISP.

L’ENEA continuò con gli studi sulla vetrificazione e, ancora una volta, scaduto il termine della prescrizione ne chiese una seconda proroga, ma stavolta per dieci anni. Con il medesimo iter precedente, il Ministero concesse la proroga con scadenza 31 agosto 1995 (anche se fu emessa nel marzo 1987 a causa di difficoltà nel regolarizzare la situazione), mantenendo l’obbligo di informazione annuale.

L’ENEA continuò a verificare solo sulla carta la fattibilità di un progetto di solidificazione attraverso il processo di vetrificazione. Inoltre, il riassetto del 1989-1990 rallentò tutte le attività posponendone l’orizzonte temporale.

Ma il “tutto contro tutti” all’italiana fu la goccia che fece traboccare il vaso di una questione che sembra non avere fine.

Si è in piena inchiesta giudiziaria con il processo guidato dal magistrato Pace contro cinque dipendenti ENEA per la questione dei rifiuti liquidi dell’Itrec e un potenziale carico di rifiuti radioattivi smarriti sempre del Centro di Ricerca lucano.

In ENEA vi è la corsa al si salvi chi può, soprattutto per quanto concerne le attività oggetto di prescrizione.

Inoltre - a dimostrazione che il velleitarismo progettuale del settore nucleare e l’assenza dello Stato hanno minato le radici di una benché minima forma di governance del settore - nel 1994, quindi dopo il referendum anti-nucleare, si decise che la DISP, fino ad allora una Direzione dell’ENEA, dovesse assumere una connotazione di Agenzia autonoma con il nome di ANPA (Agenzia Nazionale Protezione Ambiente).

Incredibile: negli anni del fulgore atomico italiano l’Autorità era una Direzione dell’ENEA, quindi senza quelle necessarie caratteristiche di indipendenza e autonomia funzionale, di giudizio, amministrativa, regolatoria, di risorse umane e finanziarie, e così via. Sostanzialmente si poteva chiamare conflitto d’interesse, sotto le cui forche caudine era passato il povero Felice Ippolito, di cui fra poco racconteremo la storia come sintomo dei malanni del sistema-Italia. Chiusa l’esperienza del nucleare attivo, si creò un’Agenzia anche se sotto il controllo del Ministero dell’Ambiente.

Con superficialità e scorrettezza, il 30 maggio 1994 l’ANPA scrisse una lettera al Ministero dell’Industria.

Oltre a fare un dettagliato resoconto della perdita di liquido radioattivo dal serbatoio dell’Itrec – beninteso, erano state prese tutte le precauzioni e fatti i necessari controlli ambientali; il tutto aveva dato esito negativo – si sottolineava l’impossibilità di

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continuare con le medesime modalità di proroga della prescrizione alla solidificazione dei rifiuti liquidi ad alta attività sia dell’Itrec che dell’Eurex di Saluggia, che tali rifiuti si trovavano in serbatoi vecchi quasi venti anni e a fine della loro vita di progetto, che si andava verso livelli di sicurezza inaccettabili, che era necessario che essi fossero solidificati e che per questi rifiuti esistevano prescrizioni ministeriali emesse nel 1975 e che ne impongono, con forza di legge, la solidificazione.

Si tratta di una lettera dalla gravità inaudita. L’ENEA, infatti, aveva annualmente aggiornato dal 1980 – come da prescrizione – la DISP, che non poteva non sapere.

Ciò apre a due riflessioni. Primo, è sempre necessario che l’Autorità di sicurezza nucleare sia un organismo indipendente e autonomo, tale da svolgere i propri compiti ispettivi e giudicare sulla bontà o meno di una soluzione tecnica proposta.

Secondo, che tale organismo sia scevro da ogni influenza indebita tecnico-scientifica, politica e dal contesto giudiziario.

Infatti, leggendo le lettere dell’ENEA appare chiaro come l’Ente non abbia mai pensato alla costruzione di un impianto di solidificazione dei rifiuti liquidi ad alta attività dell’Itrec e che la soluzione in fase di studio fosse il trasporto dei circa 3 metri cubi all’Eurex di Saluggia, dove un impianto di vetrificazione era in avanzata fase progettuale.

Pertanto, la prescrizione relativamente all’Itrec non aveva alcun senso tecnico, salvo il fatto che la DISP, in modo del tutto irresponsabile e illecito, metteva il becco nelle scelte tecniche dell’operatore e dell’esercente, invece di giudicarne solamente la bontà della proposta come ogni Autorità di sicurezza nucleare dovrebbe fare.

In questo clima di “tutti contro tutti” una nuova proroga – unica soluzione possibile e corretta – non era più contemplabile. Il magistrato Pace avrebbe colto la palla al balzo per aumentare il numero degli indagati includendo il Direttore Generale dell’ENEA Pistella (operativo dal 1980 al quale si sarebbe finalmente potuto chiedere il perché e la base funzionale delle scelte strategico-industriali compiute dall’Ente prima e dopo Chernobyl), alti dirigenti della DISP ora ANPA e forse qualche funzionario di vecchio rango del Ministero dell’Industria, su una materia che aveva risvolti ambientali e politici molto elevati e che si protraeva già da 20 anni.

Pistella – con arguzia politica – sottolineò come fosse vero che da anni si studiava l’opzione del trasporto dei rifiuti liquidi ad alta attività a Saluggia, ma che, visto che il trasporto avrebbe trovato difficoltà elevate a causa dell’ostilità dell’opinione pubblica locale, si era studiato anche la soluzione alternativa attraverso l’impiego dell’impianto Sirte, realizzato e funzionante per la solidificazione dei rifiuti liquidi a bassa attività.

L’ENEA si trovò costretto a spingere al massimo, dimostrando che la soluzione alternativa poteva funzionare prima della fine della prescrizione (31 agosto 1995). Pistella, in una lettera al Ministero dell’Industria del 3 agosto 1995, scrisse che per il Sirte si era predisposta l’ottimizzazione per l’alta attività, ma che esisteva comunque sempre

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l’opzione del trasporto e che quindi la prescrizione poteva considerarsi soddisfatta, chiedendo l’autorizzazione al proseguimento delle attività.

La lettera è un atto di furbizia ma è anche un falso.

Il Sirte non era stato predisposto, né poteva esserlo senza modificare la licenza operativa, ma ne era stata prevista la conversione tecnica a impianto di solidificazione dei rifiuti radioattivi ad alta attività e, per quanto riguarda i tempi operativi, ci sarebbero voluti altri anni.

Quindi, la prescrizione non era per nulla soddisfatta, visto che richiedeva che un sistema di solidificazione fosse già operante.

Come da prassi, il Ministero dell’Industria chiese un parere all’ANPA in merito alla fattibilità dell’operazione.

Visto che la bontà della proroga non era politicamente accettabile, l’ANPA rispose che accettava la proposta dell’ENEA, non denunciava l’Ente per la mancata ottemperanza della prescrizione e stabiliva nuove scadenze: 3 mesi per presentare il progetto di ottimizzazione del Sirte e 3 anni solidificare i meno di 3 metri cubi di rifiuti liquidi ad alta attività. Il Ministero dell’Industria emetteva quindi una nuova prescrizione con scadenza dicembre 1998.

Tra ENEA, Ministero dell’Industria e ANPA, da un lato Pace, scaduti i termini per le indagini preliminari a fine 1995, otteneva una proroga di sei mesi, dall’altro si muoveva la politica, attraverso Massimo Scalia, allora primo Presidente della neo costituita Commissione bicamerale su ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, che tra settembre e ottobre 1995 audiva i vertici di ENEA e ANPA e lo stesso Pace, faceva vista a Trisaia e il 21 dicembre 1995 approva all’unanimità la prima relazione trimestrale in cui all’Itrec è dedicato un intero paragrafo e ai rifiuti radioattivi un intero capitolo. La relazione era molto critica sull’operato dell’ENEA e, in particolare, sulla lentezza nel condizionamento dei rifiuti liquidi.

Ciò fu manna dal cielo per la classe giornalistica nazionale, compreso ahimè il servizio pubblico. Ma fu soprattutto manna dal cielo per gli ambientalisti pro-Scalia.

Legambiente scrisse un dossier sul caso Trisaia, che trovò massima divulgazione sulla stampa. Greenpeace ne preparò un altro sui materiali fissili di origine americana, di cui una minima parte era presente proprio all’Itrec.

In realtà la lunga inerzia di quei 20 anni (oggi raddoppiati!) sono causati dal solito disordine politico, divenuto schizofrenia post-Chernobyl, e dal solito massimalismo progettuale.

Infatti, la possibilità di realizzare l’impianto di condizionamento dei rifiuti liquidi ad alta attività era tramontata negli anni Settanta con lo scioglimento del gruppo di progetto Agip Nucleare - CNEN che era stato costituito per realizzare l’impianto. Ne è testimonia il fatto che l’Agip Nucleare fu sciolto nel 1983, proprio perché non vi erano margini industriali a livello nazionale.

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Inoltre, per 20 anni non si fece nulla anche a causa delle incertezze tecnologiche.

Oggi, SOGIN – dopo anni di difficoltà tecniche, regolatorie, autorizzative e di governance interna – ha deciso per il progetto ICPF (Prodotto Finito) e, dopo un periodo piuttosto lungo di studi e di verifiche, ne ha iniziato la realizzazione del basamento.

Il progetto dovrebbe essere ultimato dopo il 2020 e, completate le attività di bonifica della fossa 7.1, le operazioni di cementazione dovrebbero essere completate tra la meta e la fine degli anni 20.

Costo totale a vita intera del progetto: supera i 100 milioni di euro.

Il tutto per meno di 3 metri cubi ! Inoltre, sull’ICPF è vigente la prescrizione del cosiddetto Decreto VIA che ne prevede la realizzazione entro e non oltre il 2022 salvo successive proroghe.

Va evidenziato che in ogni caso dovrà essere realizzato un deposito adiacente temporaneo per lo stoccaggio dei manufatti cementati in attesa del loro trasferimento al cosiddetto deposito nazionale.

Fallito all’epoca dell’ENEA l’insensato tentativo di solidificare questi me.no di 3 metri cubi di rifiuti liquidi ad alta attività dell’Itrec, anche a causa della clamorosa vicenda processuale dell’allora Direttore dell’impianto Giuseppe Lippolis, nel dicembre 2000 il ministero dell’Industria inviò una nuova prescrizione per solidificare gli oltre 100 metri cubi di rifiuti liquidi dell’Eurex di Saluggia.

Dagli anni Ottanta l’ENEA effettuava studi sulla soluzione impiantistica basata sulla tecnica della vetrificazione sul modello tecnologico tedesco, venendo meno l’opzione del trasferimento in Belgio degli stessi rifiuti.

Dopo anni di velleitarismo progettuale del vertice dell’Ente, la DISP nel 1993 dichiarava che per i rifiuti di Saluggia era preferibile la tecnica della cementazione. Detto che all’epoca solo un impianto in UK praticava quel tipo di tecnica per quel tipo dei rifiuti, si trattava di un grave sconfinamento delle competenze e proprio quando in CdA dell’ENEA si era presentata per la prima volta la soluzione della vetrificazione alla tedesca.

Il CdA dell’ENEA rimandò la scelta vetrificazione/cementazione ad un gruppo di lavoro della Commissione Tecnica, organo di consulenza dell’Autorità di sicurezza nucleare, nominato dal Governo.

Dopo mesi, il gruppo di lavoro dichiarò che entrambe le tecniche andavano bene. Dopo un anno di stallo, per motivazioni geopolitiche, la Direzione tecnica dell’ENEA si rivolse per l’impianto di vetrificazione ai francesi.

La Francia aveva all’epoca in fase di avanzata sperimentazione un impianto di vetrificazione innovativo e con maggiore capacità di potenza.

Pertanto, Parigi ci propone un impianto prototipo, contrariamente a quanto prevedeva la prescrizione che condizionava la scelta dell’impianto alla già

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industrializzazione della tecnica. Siamo nel 1995 e non solo nessuno se la sentiva di proporre un impianto sperimentale, ma si era in tangentopoli, per cui tutto doveva passare per gara internazionale e non per trattativa provata.

La gara si fece, con un’ampia perdita di tempo, e vinse proprio la soluzione francese portata avanti da un consorzio di Società italiane insieme ad un gruppo di aziende francesi. Si trattava del progetto CORA (Condizionamento Rifiuti Attivi), su cui si iniziò a lavorare nel 1996 e su cui venne firmato il contratto nel 1997 con un serio programma temporale (tipico del rigoroso approccio francese): 54 mesi per la costruzione e 2 anni e mezzo per il complemento della vetrificazione. Totale: circa 8 anni.

Tra il 1997 e il 2000 si aprì una fase di paralisi tra l’Ente e l’ANPA, che utilizzò tutti i mezzi per rendere impossibile la conclusione della miriade di iter autorizzativi, non facendo sostanzialmente partire la realizzabilità di CORA.

Molto dipese dagli equilibri politici che portarono nel 1998 a

d un azzeramento dei vertici dell’Autorità voluto dalle spinte ambientaliste che storicamente in Italia si sono distinte per un “no” a tutti i progressi scientifico-tecnologici. Con in più un evento naturale imprevedibile.

Nell’ottobre 2000 straripò la Dora Baltea, raggiungendo l’area del sito nucleare ma sempre al di sotto della quota di sicurezza.

Pertanto, nell’allarmismo ambientalista non era assolutamente accaduto nulla in termini di sicurezza ambientale.

L’ANPA si “risveglia” per la seconda volta (la prima volta fu con la lettera del 30 maggio 1994) e il 7 dicembre 2000 viene notificata dal ministero dell’Industria all’ENEA, su richiesta dell’ANPA, la prescrizione che obbliga a solidificare i rifiuti liquidi ad alta attività dell’Eurex entro 5 anni, cioè entro il 2005.

Di nuovo, si chiedeva – con forza di legge e ricadute penali – di fare ciò che non era possibile fare.

I malanni escono tutti allo scoperto: massimalismo progettuale, scontro tra interessi privatistici, politicizzazione della scienza, mancanza di strategia, assenza dello Stato, scarsa conoscenza della storia e delle esperienze passate, sudditanza rispetto al clima di riferimento e non ai criteri della scienza e della sicurezza, e così via.

Ma c’è un dato ancora più incredibile in merito alle “incertezze tecnologiche” - ovvero all’ingerenza indebita dell’ANPA sulla scelta della tecnologia – e riguarda l’ultima riga della prescrizione che recita che la solidificazione deve essere completata in 5 anni “indipendentemente dalla realizzazione del progetto già presentato”.

Tradotto, l’ANPA spingeva per la cementazione, forse pensando che fosse una tecnica più veloce. Doppio infortunio tecnico dopo quello della paralisi forzata del CORA (vetrificazione).

Rubbia – premio Nobel e Presidente dell’ENEA – invece di smontare la prescrizione

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(in quanto sbagliata e scientificamente insensata) pensò forse a Lippolis e iniziò una guerra contro l’ANPA e il ministero dell’Industria per evitare che potesse uscire allo scoperto un nuovo procuratore Pace e difendersi dallo spettro della prigione. Rubbia ricorse al Consiglio di Stato per far ritirare la prescrizione.

La politica – come sempre e come abbiamo visto nel caso dell’Itrec della Trisaia del 1995 – esce allo scoperto attraverso audizioni parlamentari della Commissione “Ecomafie” e della VII Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici. Ebbene, nell’audizione dell’ANPA del febbraio 2001 si esplicita per la prima volta la preferenza per la cementazione, visto che la vetrificazione del CORA era un processo non completamente provato e che non sarebbe stato in grado di rispettare i tempi e il realismo della prescrizione, che – ricordiamolo – ha valenza penale in caso di non ottemperanza. Il messaggio dell’ANPA era chiaro e minaccioso contro l’ENEA.

Terzo infortunio tecnico (un record storico!).

La scelta sulla tecnica di solidificazione dei rifiuti liquidi ad alta attività si fa secondo la strategia definita a monte dello smaltimento dei rifiuti post-condizionamento. Visto che in Italia non vi era l’ombra del deposito nazionale, preferire la cementazione alla vetrificazione era un atto di pura immaginazione scientifica dell’ANPA che pensava di accelerare i tempi e di risparmiare soldi, facendo bella figura con la classe politica di allora, senza preoccuparsi né della correttezza scientifica della gestione di un grande progetto, né delle conseguenze nel medio periodo di quella scelta.

Ma il più sbrigativo di tutti fu Rubbia.

Audito due settimane dopo l’ANPA dalla VII Commissione utilizza il suo premio Nobel per dire che un’onda di piena del fiume avrebbe potuto travolgere i rifiuti radioattivi con conseguente inquinamento radioattivo dell’intera Pianura Padana e possibile tragedia a livello planetario.

La soluzione – visto che in 28 anni i rifiuti erano ancora allo stato liquido - era la costruzione di una diga in muratura attorno all’impianto per proteggerlo.

Chiese per realizzare l’opera 40-50 miliardi delle vecchie lire (ne furono spesi 20), che i politici accettarono senza batter ciglio, dotando l’Ente di poteri straordinari da un punto di vista dello scavalcamento delle norme e leggi nazionali e locali.

Il 2001 viene azzerato il CdA dell’ENEA e Rubbia rimane come Commissario. Lo stesso succede per l’ANPA, alla cui guida viene chiamato un Commissario. Intanto, con lo spacchettamento dell’ENEL, era stata costituita la SOGIN (Società Gestione Impianti Nucleari), il cui Presidente nel 2003 fu nominato Commissario delegato all’emergenza nucleare presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Un trittico di Commissari che non produsse risultati concreti salvo emettere ordinanze e aumentare la già pesante burocrazia.

Oggi SOGIN – tralasciando la brutta parentesi di presunte tangenti e le possibili richieste di risarcimento danni nei confronti della RTI di cui la SAIPEM S.p.A. era

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mandataria – ha in fase di realizzazione l’impianto di cementazione “Cemex” che dovrebbe essere ultimato nella metà del 2020 (una volta lanciata la nuova gara) e completate le operazioni di solidificazione nel 2030.

Costo totale del progetto circa 150 milioni di euro.

Il DM 91 del 07/04/2017 ha modificato e sostituito il quadro prescrittivo del Decreto VIA DM 915 del 19/09/2008 .

L’Italia ha sofferto, e continua a soffrire, della prevalenza dello scontro per interessi personalistici sulla cooperazione.

Gli attori nucleari nazionali dovevano esercitare un effettivo ruolo di coordinamento capace di indirizzare i decisori a scegliere il bene di lungo periodo rispetto al facile, e spesso nefasto giusto, del breve.

Ciò doveva essere ben chiaro nella mente dei decisori italiani. Infatti, davanti agli occhi avevamo due esempi di indicibile differenziazione.

Da un lato eravamo tra i firmatari strategici del Trattato Euratom del 1957, peraltro basato sullo spirito della Conferenza di Roma.

L’energia nucleare era considerata la risorsa essenziale per assicurare lo sviluppo e il rinnovo delle produzioni, permettere lo sviluppo di una potente industria nucleare, soddisfare i crescenti fabbisogni energetici e approdare ad un livello sostenibile di sicurezza energetica per il benessere dei popoli, allontanando i pericoli per la vita e la salute delle popolazioni, attraverso l’associazione tra i Paesi e la cooperazione con le organizzazioni internazionali interessate allo sviluppo pacifico dell’energia nucleare, contribuendo alla condivisione delle conoscenze, delle infrastrutture e del finanziamento dell’energia nucleare e garantendo la sicurezza dell’approvvigionamento di energia atomica nell’ambito di un controllo centralizzato.

Dall’altro lato, la storia dei primi tre decenni di sviluppo aveva già dimostrato con assoluta evidenza come gli egoismi delle maggiori potenze avrebbero vinto sulle esigenze di cooperazione e associazionismo strategico-operativo.

L’egoismo dell’interesse nazionale aveva prevalso sulla logica di una governance condivisa e anche dei modelli industriali e finanziari.

Aveva prevalso la volontà nazionalistica di rafforzare la propria posizione politica e industriale nello scacchiere internazionale e nei rapporti con i Paesi terzi in via di sviluppo, principalmente nella propria area d’influenza geografica e post-coloniale.

Come abbiamo scritto in un precedente libro23, si è generato un “regionalismo geopolitico” fondato su micro e macro aree d’influenza, che ha operato la costruzione forzata della “scacchiera dei Grandi”, del tutto disallineata rispetto alle esigenze di benessere collettivo, di cooperazione economico-finanziaria e di realizzazione di una grande scacchiera globale in cui tutti gli attori – superpotenze, grandi e medie potenze,

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e Paesi a traino - avrebbero beneficiato delle opportunità generatesi (win-win solution).

Un esempio su tutti è lo scontro in Europa tra la Francia e la Germania, due dei sei Stati fondatori del Trattato Euratom, insieme a Belgio, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Da un lato, la Germania tendeva a ridurre i poteri di controllo, la portata dei programmi comuni, il carattere monopolista dei sistemi di approvvigionamento.

Dall’altro lato, la Francia si sforzava di controllare l’espansione dell’industria tedesca e a ripartire tra i sei Stati firmatari il costo delle infrastrutture nucleari a proprio vantaggio.

In altre parole, l’Euratom in pochissimi anni finì con il diventare una finanziaria utile a sovvenzionare i programmi nucleari nazionali, senza esercitare un effettivo coordinamento e diffondere e condividere le conoscenze che con fatica si erano acquisite negli anni e che stavano dando ottimi risultati.

Come si usa dire: “l’energia nucleare ha contribuito alla costruzione dell’Europa molto più di quanto l’Europa abbia contribuito all’energia nucleare”.

L’Italia ha fatto di peggio. Ha scelto il bene di pochi rispetto al benessere collettivo, a volte in modo inconsapevole o perché non competenti a decidere, avendo giocato volutamente il ruolo di free-rider della nostra sicurezza e continuando a cedere pezzi di sovranità all’esterno, ma molto più spesso in modo del tutto consapevole a causa dello scontro degli interessi personalistici, di una voluta asimmetria tra benefici individuali e benefici collettivi (la cui minimizzazione dei primi a vantaggio dei secondi è la condizione primaria di un buon Governo e di una politica pubblica) e di un uso strumentale della politica e della magistratura, fuori da analisi oggettive e pragmatiche connesse alle esternalità della filiera nucleare nazionale funzionali alla stabilità stessa dei sistemi socio-economici nazionali, comunitari e internazionali.

Più nello specifico, la storia dell’industria nucleare è la vittoria dello scontro sulla cooperazione.

Da un lato, i gruppi pubblici e le relative imprese manifatturiere associate e, dall’altro lato, i gruppi privati e le imprese manifatturiere associate.

Non solo. Lo scontro avveniva anche all’interno dei gruppi statali, privati e imprese manifatturiere associate, e veniva reso ancora più aspro dalla spinta degli interessi particolaristici delle industrie straniere detentrici della tecnologia reattore e dalle pressioni dei rispettivi Governi tra loro e sul nostro.

L’obiettivo – a tutti i livelli – era quello di garantirsi una posizione di leadership. Non importava come.

Oggi – senza problemi di sorta – si può sostenere che la scelta delle tre tecnologie diverse per le tre centrali fu frutto della “faida” e non della collaborazione. Come molti ebbero a dire: “contava il desiderio di far dispetto gli uni agli altri”.

E l’Italia? E il sistema energetico nazionale? E la sicurezza energetica del sistema e dei cittadini? Non solo sono domande retoriche se si guarda ai violentissimi scontri di

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posizione, ma lotte, ritorsione e rappresaglie interne al mondo nucleare italiano impedirono al comparto di rendersi competitivo rispetto agli altri settori energetici, chiaramente anche sotto la spinta delle Sette Sorelle e dell’inquietudine dei Governi americano e israeliano per apporto dell’Italia al nucleare iracheno, che all’epoca aveva optato per una politica estera filo-araba.

Di nuovo, il “peccato originale” sta nella mancanza di una strategia unitaria e programmatica di medio-lungo termine che spettava ai Governi di allora elaborare.

Altro esempio tipico di prevalenza dei particolarismi è la storia della ricerca nucleare italiana. È un caso di “disastro sistemico”, chiaramente connesso alla mancanza di una strategia.

Alla fine della seconda Guerra Mondiale in Italia furono costituiti tre diversi centri di ricerca:

• il Centro informazioni studi ed esperienze (CISE): creato nel 1946 su iniziativa di Edison e di un gruppo di imprese private (compresa la FIAT, Pirelli, Falck) intorno ai dipartimenti di fisica delle Università di Roma e Milano.

• l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN): creato nel 1951 nell’ambito del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR).

• il Comitato nazionale per le ricerche nucleari (CNRN): creato nel 1952, a cui il Governo conferì la creazione di ricerche e sperimentazioni nel campo della fisica nucleare e della promozione di applicazioni industriali dell’energia nucleare. Il Centro confluirà in seguito nel Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN), costituito con legge del 1960; oggi è l’ENEA.

A questi dobbiamo aggiungere il Joint Research Center dell’Euratom voluto fortemente dal Governo italiano e dall’allora Commissione Europea presso la località Ispra sul Lago Maggiore.

Ripercorrendo la storia della ricerca nucleare italiana è facile constatare come essa sia stata una sceneggiatura infinita di scontri, soprattutto personali e partitici, e che nel lungo periodo hanno generato una perdita di denaro pubblico enorme, stima nell’ordine

di 4,5 miliardi di euro a valore attuale24.

Si tratta in particolare di due demenziali mega-progetti - il CIRENE25 e il PEC - che sono figli del malanno massimalista e velleitario dei Governi di allora e di una classe dirigente scelta dalla politica non per merito ma per appartenenza alla lottizzazione partitica e che sono stati rovinosi per le casse dello Stato.

Iniziati con il CNRN, proseguiti prima con il CNEN e per anni con l’ENEA, si tratta di progetti che oggi sono considerati assurdi e impensabili dagli stessi tecnici che ci hanno lavorato.

23 Davide Urso, Il multipolarismo imperfetto, Franco Angeli, op. cit.

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Si tratta in particolare di due demenziali mega-progetti - il CIRENE25 e il PEC - che sono figli del malanno massimalista e velleitario dei Governi di allora e di una classe dirigente scelta dalla politica non per merito ma per appartenenza alla lottizzazione partitica e che sono stati rovinosi per le casse dello Stato.

Iniziati con il CNRN, proseguiti prima con il CNEN e per anni con l’ENEA, si tratta di progetti che oggi sono considerati assurdi e impensabili dagli stessi tecnici che ci hanno lavorato.

Mentre oggi si capirebbe un errore strategico di tale portata e prospettiva, navigando a vista, senza una classe dirigenziale d’azienda adeguata e con una grande divaricazione tra progettualità e concreta realizzazione, difficilmente è capibile come in un’Italia invidiata all’estero per capacità e qualità delle competenze nucleari si siano potute adottate tali scelte.

Una spiegazione plausibile (e molto probabile) è che i particolarismi si siano esacerbati a causa dell’assenza di strategia.

In altri termini, tale assenza ha generato il suddetto massimalismo progettuale che, a sua volta, ha innescato una deriva velleitaria.

Per cui - lo dobbiamo ripetere perché è un caso clamoroso di “miopia sistemica” - invece di agganciare i programmi di ricerca nucleari nazionali alle tecnologie dei reattori sperimentali che abbiamo adottato per le tre centrali elettronucleari, abbiamo pensato bene di porci come obiettivo quello di sviluppare tipologie di reattori diversi, più avanzati e originali. Tanto avanzati e originali che non hanno mai visto la luce e che sono considerati oggi come “metafisica nucleare”!

Possiamo sintetizzare il pensiero di molti ingegneri, fisici e chimici che hanno lavorato a tali progetti – e che non possiamo che condividere in pieno - dicendo che lo sviluppo dell’energia nucleare veniva fatto all’interno di una stretta logica autarchica inseguendo il mito dell’indipendenza energetica (ricordiamo la paura della classe politica a fronte del primo shock petrolifero del 1973) al di fuori di ogni valutazione tecnico-economica e nell’isolamento quasi assoluto rispetto al mondo della ricerca internazionale e nella quasi totale ignoranza di quello che veniva fatto all’estero.

Il Professor Carlo Lombardi del Politecnico di Milano sottolineò che “vennero studiati senza alcuna motivazione ragionevole i più stravaganti tipi di reattori, i cui programmi di ricerca e sviluppo suscitarono perplessità e commiserazione negli ambienti scientifici internazionali, cosa che non giovò alla credibilità tecnico-scientifica del paese nello specifico settore”.

24 Carlo Lombardi, La questione dell’energia nucleare, in Zanetti (a cura di), Storia dell’industria elettrica in Italia, vol. V, Gli sviluppi dell’ENEL. 1963-1990, Roma-Bari, Laterza, p. 591.

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Nessuno, peraltro, è mai riuscito a fare un realistico calcolo costi-benefici dei soldi pubblici che in quel periodo sono stati spesi dall’ENEA.

Per far comprendere gli ordini di grandezza, basti ricordare che l’Ente in quegli anni aveva un bilancio che si aggirava sui 1.000 miliardi delle vecchie lire. Considerando che il problema della gestione dei rifiuti radioattivi non era trattato come una priorità e che i potentati economici non pressavano l’Ente per investire in ricerche tecnologiche da adottare per lo sviluppo a filiera dei faraonici Piani nucleari nazionali che si andavano scrivendo né nell’industria del ciclo del combustibile, utile solo in presenza di un parco consistente di centrali elettronucleari, si può realisticamente stimare un 45% l’anno per progetti nucleari velleitari per circa 11 anni.

Totale: circa 5.500 miliardi delle vecchie lire del 1992 (sono costati oltre 4 miliardi di euro attualizzati).

Un’enormità!

In conclusione, il massimalismo progettuale era corroborato dall’assenza dei grandi industriali, che via via si stavano ritirando, da un CNEN/ENEA che era troppo occupato a seguire logiche partitiche e meno a sostenere il programma nucleare nazionale, trasformandosi, già ad inizio anni Ottanta, in una finanziaria per lo sviluppo e la qualificazione delle PMI italiane sul territorio (per la sola gioia dei politici!) e non più un centro di ricerca e di sviluppo tecnologico, e da una classe politica che, già distaccata rispetto all’argomento, iniziava a doversi difendere dai sentiment ambientalisti.

L’Italia ha sofferto, e continua a soffrire, del ruolo spesso marginale dello Stato e della sua incapacità a definire un’architettura di governance funzionale alla realizzazione di una filiera nucleare sostenibile e competitiva.

La storia del sistema elettrico italiano è dominata dai cosiddetti “baroni elettrici” prima che dall’interesse nazionale.

25 Il CIRENE era progetto di reattore made in Italy da 40MWe finanziato da ENEA e ENEL e basato sull’uso dell’uranio naturale, con acqua pesante, con l’obiettivo di svincolarsi dai costosi impianti di arricchimento all’epoca posseduti solo dall’URSS e dagli USA, dando vita ad una filiera di reattori. L’impianto fu ultimato presso la centrale di Latina, non ne furono provate neanche le parti non nucleari e va ancora rimosso dal sito. Occorre ricordare che il progetto era stato già abbandonato dai suoi iniziali autori, i canadesi, che dopo anni di studio conclusero che si trattava di un progetto privo di possibilità di evolvere in una filiera commerciale. www.de

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Basti pensare che nel 1960 – ancora non era in esercizio alcuna centrale elettronucleare – le prime cinque Società assicuravano più dell’80% della produzione elettrica nazionale.

Una vera e propria “baronia” che, insieme con gli associati industriali, in termini di controllo e/o partecipazione azionaria, garantivano un “blocco monopolistico” che rendeva molto complicato l’ingresso di altri attori peer competitor di settore e una costante crescita della rendita azionaria dei propri titoli. Oggi tale percentuale non è poi così lontana da quella di oltre mezzo secolo fa, pur con una radicale modifica verso la liberalizzazione del sistema elettrico.

Ciò rafforza la nostra tesi che la liberalizzazione di un settore sistemico non si attua con decreti che cerchino solo di aumentare il numero degli attori su piazza e includendo l’unbundling forzato della filiera industriale, ma con un connubio strategico tra numero degli attori e mix delle fonti sul lato dell’offerta flessibile al mutare della domanda e

viceversa26. Anzi, il sistema dei costi e dei prezzi del sistema elettrico è più dipendente dal mix di generazione (quindi, dai combustibili), piuttosto che dal solo sistema di mercato.

Infatti, nonostante la liberalizzazione del mercato elettrico in Italia rappresenti un esempio di successo, il costo del kWh e la produzione interna sono tra i più cari al mondo. La struttura di generazione elettrica nel nostro Paese ha portato il prezzo all’ingrosso della borsa elettrica fuori mercato.

Per ridurre il differenziale di prezzo è pertanto necessario intervenire anche sul mix di fonti e non solo sulla modifica del modello e della regolamentazione del mercato elettrico o sull’efficienza energetica.

L’Italia sconta un paradosso intrinseco. Con la cd. legge Bersani del 1999 si è assunto l’assioma della concorrenza. L’Italia ha un’alta apertura concorrenziale, con oltre 100 operatori accreditati come trader di energia elettrica. Tale linea è stata scelta come paradigma per superare le vulnerabilità del nostro sistema energetico.

Pur avendo ottenuto buoni risultati in termini di stabilizzazione del sistema, nel mondo dell’elettricità la concorrenza non è solo legata al numero di operatori, perché il 65-70% della struttura del costo è costituita dal combustibile (salvo nel caso dell’energia nucleare dove l’uranio incide solo per il 5%). Pertanto, più un mix di generazione è equilibrato e minori sono i costi del kWh, in quanto la concorrenza tra combustibili - più che tra operatori - rappresenta il maggior fattore calmierante del prezzo.

Da un lato, il processo di liberalizzazione del mercato elettrico ha massimizzato gli investimenti nel gas a ciclo combinato, considerata correttamente la tecnologia più consolidata, con basso rischio tecnologico e politico e con tempi di costruzione contenuti. Dall’altro, l’Italia ha registrato un malfunzionamento dovuto alla discrasia temporale tra la scelta degli investimenti in capacità produttiva e la scarsa attivazione di corretti meccanismi di mercato e di un quadro regolatorio di supporto. Gli investimenti

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“sbloccati” dal decreto sulla liberalizzazione sono stati molti:

1. oltre 25 miliardi di euro per lo sviluppo di nuova potenza;

2. circa 7 miliardi di euro per il potenziamento della rete elettrica;

3. oltre 3 miliardi di euro per la sostituzione dei vecchi contatori analogici con nuovi sistemi di misurazione elettronica;

4. enormi investimenti - difficilmente quantificabili - per la costruzione di nuovi impianti, la modernizzazione del parco termoelettrico e la realizzazione di capacità di generazione (anche troppa!).

A beneficiare di questi flussi economici - con l’abbandono prematuro del nucleare e il non ancora presente appeal concorrenziale delle fonti rinnovabili - sono stati i combustibili fossili. Nel periodo 2000-2010, la capacità di generazione termoelettrica è cresciuta di circa 20.000 MWe (1,5 in più del programma nucleare che il Paese intendeva sviluppare!).

A lasciare interdetti sono gli investimenti nei fossili. Nei primi anni (1999-2003) la capacità fossile è cresciuta di circa 600 MWe l’anno; nei secondi cinque anni (2004- 2010) di circa 3.000 MWe l’anno. Sarà un caso se dal 2004 sono iniziati i forti incentivi in massa per tutte le rinnovabili?

Ciò testimonia un mercato “drogato”, una dinamica degli investimenti disallineata rispetto alla concorrenza di mercato, un insufficiente coordinamento tra generazione elettrica e capacità di trasporto attraverso la rete nazionale e pesanti aumenti del costo di produzione dell’energia elettrica, che erano invece gli obiettivi del d.lgs. n. 79/1999.

Lo spostamento dal petrolio al gas, soprattutto a ciclo combinato, ha portato negli ultimi 11 anni anche effetti positivi:

5. un miglioramento dell’efficienza media del parco di generazione termoelettrico: passata dal 40,5% del 2000 al 52% nel 2010. È tra i più alti dell’Unione Europea.

6. una riduzione delle emissioni di gas serra del parco termoelettrico. Dal 2000 al 2009, esse sono scese del 18% circa.

Si tratta di effetti che un programma nucleare nazionale avrebbe prodotto in molto meno tempo, con costi inferiori e con percentuali di gran lunga superiori. Ma la dinamica degli investimenti in capacità produttiva ha scontato un sistema normativo-regolatorio e un mercato immaturi rispetto alla struttura della domanda energetica nazionale e una scarsa capacità decisionale della classe dirigente.

A ciò va aggiunto che il mercato è stato appaltato dallo Stato nel favorire - con pesanti sussidi - lo sviluppo delle fonti rinnovabili. Alla faccia della concorrenza!

26 Davide Urso, Nucleare: Siamo bravi, furbi o folli?, op. cit., pp. 15-64.

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Conclusione: i combustibili fossili sono aumentati cavalcando l’onda di un mercato neo-aperto e lo Stato ha determinato gli esiti del mercato delle rinnovabili.

Con l’aggiunta che circa il 13% dell’elettricità che consumiamo è comprata dall’estero e quasi tutta nucleare.

Solo negli ultimi mesi si assiste ad un calo della potenza fossile installata dovuta alla chiusura di impianti a fine vita o obsoleti, al lungo periodo di recessione della domanda energetica e parzialmente alla crisi dei prezzi del petrolio che hanno reso le vecchie centrali fossili non remunerative.

L’Italia ha scelto di dare priorità all’entrata di nuova capacità di produzione - molte delle nuove centrali a gas sono state costruite dove era possibile e non dove era necessario - mettendo in secondo piano l’adeguatezza sistemica.

Si tratta di un grave errore, possibile solo in un Paese che non dispone di una strategia energetica nazionale e che si ripercuoterà pesantemente sul sistema-Paese, visti gli obiettivi di sostenibilità ambientale che il mondo sta cercando di darsi, anche se in modo ondivago e per lo più particolaristico, e che porteranno prima o poi ad un ripensamento dei meccanismi di mercato e delle regole finora utilizzate.

Secondo aspetto storico è il sostanziale distacco di Governi e della classe politica verso il sistema elettrico e, soprattutto, verso l’energia nucleare. Infatti, né esisteva una strategia energetica nazionale o un PEN di riferimento, né i Governi si ponevano il problema dei mix di generazione elettrica.

Di fatto – si era in regime di Guerra Fredda – carbone, petrolio e nucleare garantivano al Governo e ai politici la necessaria investitura degli Alleati e, non avendo problematiche di liquidità (boom economico e debito pubblico), si poteva investire in programmi e in risorse professionali, anche destinandole o mantenendole all’estero, utili a soddisfare i vincoli internazionali a seguito della sconfitta della Seconda Guerra Mondiale.

In buona sostanza, lo Stato sostenne, senza alcun intralcio, l’industria nucleare italiana - che era fiorente, in costante progresso e operava perfettamente in autogestione - senza mai darne una strategia, né una direzione programmatica.

Molti ricorderanno che la grande riforma istituzionale del settore fu attuata dal Governo con l’emanazione della legge n. 1980 del 31 dicembre 1962 (“Impiego pacifico dell’energia nucleare”), ovvero quando le tre centrali elettronucleare italiane erano già in avanzata fase di costruzione.

Non bastava questa “inversione a U” delle fondamenta di qualsiasi settore sistemico si intenda regolare.

Solo nel 1964 – cioè a centrali elettronucleari costruite e allacciate alla rete elettrica – si stabilirono le procedure e le regole per l’accertamento della sicurezza delle centrali. In poche parole, la conformità delle centrali elettronucleari alla legge nazionale fu attestata dopo che le centrali stesse iniziarono a funzionare!

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Ulteriore aspetto di disingaggio del Governo e della classe politica risiede nel combinato disposto tra l’alto livello di accettazione sociale verso il nucleare e le crescenti paure per l’instabilità della sicurezza energetica, che aveva raggiunto picchi non indifferenti negli anni successivi la crisi di Suez del 1956.

“Ispirata” da analisi completamente sbagliate e prive di ogni fondamento scientifico, la classe politica italiana fu convinta che nel lungo periodo le fonti fossili si sarebbero esaurite e che occorreva da subito puntare sull’energia nucleare.

Si generò un miscuglio difficilmente sostenibile su base economico-finanziaria tra scelte di breve termine e velleità di minimizzare il rischio di esaurimento di petrolio, che avrebbe seriamente minato la sovranità nazionale.

Crediamo sia inutile divulgarsi sull’argomento, basti considerare lo stato dell’arte!

Ma una cosa sembra opportuno aggiungere.

Lo Stato commise l’errore dentro l’errore di aver creduta in un’errata prospettiva energetica: non aver elaborato un’architettura di appoggio per le industrie operanti nel settore nucleare, lasciandole libere di generare quell’impulso privatistico che sembrava inarrestabile.

Clamoroso fu l’annuncio sul quotidiano “La Stampa” di Vittorio Valletta, allora presidente di FIAT, che il 9 agosto 1955 scrisse: “Sarà nella zona del Valentino che sorgerà il primo reattore atomico italiano, quello che la FIAT è ormai sicura di ottenere”.

L’esito fu il nulla.

E non – come tutti dicono – perché l’industria nucleare italiana non aveva i muscoli per reggere progetti e ambizioni atomiche o per la nazionalizzazione del settore elettrico. I veri motivi risiedono nella mancanza di una governance regolatoria in un settore sistemico e multidisciplinare, ad alta intensità di capitale e di lungo periodo che frenò le velleità industriali dei privati, che si sentivano abbandonati dallo Stato.

Secondo, perché la storica scarsità dei capitali del capitalismo privato nazionale doveva essere sorretta da un intervento incentivante dello Stato a tutela di una filiera sistemica.

Fu un attesa inutile e il fervore iniziale si trasformò ben presto prima in uno scontro tra privati e poi nell’abbandono dei progetti annunciati. Nei fatti, si sono scontrati l’assenza di una “cultura della programmazione” di medio-lungo periodo dello Stato e l’assodata “cultura della redditività” nel breve periodo tipica dei privati.

La logica della “curva degli investimenti” è mutata nel tempo, in assenza di uno Stato propositore.

Gli investimenti non vengono più selezionati sulla base di un calcolo economico di lungo termine che raffronta il costo globale attualizzato dei differenti modi di produzione elettrica.

Oggi, come ieri, ci si confronta con scelte in condizioni d’incertezza, imprevedibilità e

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ultra-variabilità dei contesti e degli scenari, ove l’analisi dei rischi, corroborata dagli orizzonti temporali di riferimento con un rapporto di diretta proporzionalità, conta quanto quella dei costi delle diversi opzioni.

Le incertezze sulle diverse voci di costo vengono quindi valutate e soppesate (anche senza una certezza assoluta), portando le ipotetiche condizioni di finanziamento ad essere parametro chiave per la selezione degli investimenti.

Uno Stato consapevole avrebbe dovuto e ancora potrebbe cogliere la palla al balzo.

Con l’obiettivo di arrivare ad una minimizzazione sistemica dei costi di produzione di lungo termine anche tramite la stabilizzazione della filiera energetica, l’interesse degli imprenditori tenderà sempre verso tecnologie based load (produzioni di base), che sono tecnologie capital intensive – il primato lo ha l’energia nucleare -, e non verso tecnologie dipendenti dalla variabilità dei costi del combustibile (carbone, petrolio e gas), che generano maggiori fluttuazioni del costo del kWh, la cui stabilità è condizione strategica per un investimento o, meglio, per la certezza del rientro degli investimenti effettuati che deve essere slegata da aspettative e dall’eccessiva esposizione ai rischi di prezzo, tipica dei combustibili fossili o a rischi geopolitici endogeni ed esogeni.

Beninteso, non siamo gli unici a commettere palesi errori di strategia.

Occorre ricordare il recente fallimento del Governo laburista inglese.

Nel famoso rapporto The Energy Challenge del 2006, l’allora primo ministro inglese Tony Blair sottolineava “l’assoluta urgenza di realizzare il giusto quadro di riferimento istituzionale per incentivare le decisioni di investimento, affinché il settore privato possa iniziare, finanziare, costruire, gestire nuove centrali … impegnandosi a coprire l’intero costo del loro decommissioning e la relativa quota dei costi di gestione nel lungo termine”.

Con tale spirito si ribadiva nel successivo White Paper del 2007 che “l’energia nucleare è nel pubblico interesse”.

Il successivo governo di Gordon Brown – impaurito dal fatto che un approccio eccessivamente liberista avrebbe ceduto il controllo dell’industria elettrica inglese a potenze straniere – ha avviato una pubblica consultazione, risultante in un altro White Paper del 2008, base del successivo Planning Act, sempre del 2008, che rivisitava la governance istituzionale e programmatica del settore nucleare inglese.

Tale modello non è valso a superare le resistenze dell’opinione pubblica e si è generato un clima che ha sfavorito le imprese private ad investire.

Solo oggi, con una nuova legislazione, un approccio regolatorio che unisce il liberismo economico con incentivi agli investimenti privati e l’accettazione che “la bandiera conta, ma che non è indispensabile nel settore nucleare” (la cui filiera è sistemica a prescindere da chi mette i soldi), il Regno Unito si appresta a rivitalizzare il proprio comparto nucleare.

Ma perché non ha funzionato la sola governance?

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I motivi sono ricollocabili in primis nell’asimmetria tra logica di mercato (ovvero scelte econometriche sui prezzi e le strategiche di investimento) e le preferenze pubbliche, sempre più spesso divergenti rispetto al mercato.

Ma soprattutto perché l’opzione nucleare non era pubblicizzata per ragioni economiche (riduzione dei costi della bolletta elettrica e aumento della capacità e qualificazione industriale) e occupazionali (nuovi posti di lavoro diretti e tramite l’ingente indotto), ma solamente ambientali (riduzione delle emissioni climalteranti) e politiche (aumento della sicurezza energetica contro e non pro, ovvero come deterrenza contro l’avanzata della Russia che utilizza i propri colossi energetici come arma politica).

Pertanto, comunicare ad un’opinione pubblica per decenni educata sui dogmi della liberalizzazione, privatizzazione e concorrenza che le imprese private dovevano sostenere l’interesse generale e la governance interna era elemento non comprensibile. Inoltre, visto che il nucleare è sistemico e multidisciplinare, anche l’architettura istituzionale e la capacità di comunicazione deve esserlo.

Lo stesso stallo lo stiamo vedendo negli Stati Uniti (prima con George W. Bush dal 2001 e ora con Barack Obama); nell’incredibile revisione ribassista della Francia che, vedendo degradare la propria immagine e credibilità del modello nucleare civile in tutto il mondo sta modificando l’intero assetto del comparto nucleare nazionale, adottando misure considerate di emergenza nazionale (la perdita di credibilità e di business del comparto nucleare è quindi per Parigi una minaccia ai propri interessi strategici nazionali); e, addirittura, nella scellerata decisione della Germania (su cui nutriamo delle prospettive di ripensamento) di chiudere entro il 2020 con la decennale esperienza nucleare con 19 centrali nucleari in esercizio (decisione presa prima nel 2000, con il governo verde di Gerard Schroeder, poi confermata dalla grande coalizione guidata da Angela Merkel nel 2007, poi sospesa nel 2009 con il governo di coalizione tra CDU e liberali sempre della Merkel e infine ripresa ancora dalla Merkel con le ultime elezione).

Pertanto, il ruolo dello Stato e un rinnovamento delle politiche pubbliche saranno assolutamente cruciali verso un impegno tecnologico, industriale, scientifico, accademico e di R&S, soprattutto attraverso la formazione di generazioni di tecnici e ingegneri, finanziario, rigenerativo di un clima favorevole agli investimenti, di modernizzazione sistemica, di governance istituzionale e regolatoria, principalmente attraverso l’istituzione di un’Autorità di sicurezza nucleare veramente indipendente e funzionale e un nuovo piano industriale per gli attori pubblici operanti nel settore nucleare, e così via.

E ciò non solo se un giorno si vorrà riandare verso il nucleare attivo, ma anche – e soprattutto - per le attività nucleari ancora in corso, con modalità multidisciplinare, nel nostro Paese che risentono di ritardi, mala gestione e sperpero di denaro pubblico.

L’Italia soffre della sindrome del vuoto storico.

L’origine del nucleare italiano è di sinistra.

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Negli anni Sessanta, la stagione pioneristica del nostro nucleare aveva una larga base di consenso.

La scienza, il progresso tecnologico e l’industria erano percepiti come fattori di prosperità.

La tecnologia nucleare era all’apice di questa percezione, spinta in particolar modo dalla sinistra italiana, mentre la destra era ideologicamente avversa all’atomo. Incredibile solo pensarlo oggi!

I partiti e gli intellettuali di sinistra vedevano nel nucleare l’unica via per raggiungere l’indipendenza energetica del nostro Paese.

Lo testimoniamo due fatti che, pur nella loro bassa incidenza, hanno un enorme valore politico: lo stanziamento di 500 milioni di lire (oltre 600 milioni di euro attuali) che il sindaco comunista di Bologna, Giuseppe Dozza, erogò nel 1958 all’Istituto di fisica dell’Università di Bologna per promuovere ricerche nel settore della fisica e in particolare dell’energia nucleare, e il sostegno del Comune di Milano alla costituzione del centro di ricerca CISE.

Le prospettive erano più che positive. Un famoso studio della Banca Mondiale concluse che Italia e Giappone erano i Paesi in cui l’energia nucleare avrebbe raggiunto prima che altrove una piena competitività.

A metà degli anni Sessanta eravamo il terzo produttore al mondo di energia elettronucleare dopo gli Stati Uniti e il Regno Unito.

Anche negli anni Settanta, il nucleare italiano continuava ad essere di sinistra. Il 20 dicembre 1973 - tre mesi dopo la prima crisi petrolifera - il Parlamento italiano quasi all’unanimità (contrario solo l’MSI) approvò un ordine del giorno - presentato dagli onorevoli Bodrato (DC), Achilli (PSI), Di Giesi (PSDI), Gonnella (PRI) - che impegnava il Governo “a effettuare con urgenza e decisione tutte le misure che portino alla realizzazione di fonti alternative al petrolio, particolarmente nucleari”.

Il PCI era favorevole all’ordine del giorno, ma si astenne per ragioni che nulla avevano a che fare con l’energia nucleare.

Nel 1977, Sergio Vaccà, direttore dell’Istituto di economia delle fonti di energia e vicino alla Bocconi, sottolineò che il nucleare andava sostenuto perché era:

«La fonte più consistente e concreta per garantire una certa autosufficienza energetica e un decisivo impulso all’attuazione di una politica di ristrutturazione e qualificazione di una parte del nostro tessuto produttivo e un’occasione irrinunciabile per potenziare la competitività di alcuni settori industriali e per il ruolo politicamente trainante che una siffatta industria può assolvere come valido supporto di una strategia delle Autorità di Governo volta a far acquisire una posizione meno condizionata e/o meno subalterna rispetto alle tendenze espansionistiche ed egemoniche del capitalismo internazionale».

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Tutta la sinistra italiana appoggiava questa posizione, fino a ritenere fondamentale per il nostro Paese avere nel nucleare una piena autonomia tecnologica, produttiva e organizzativa.

Era la posizione sostenuta dall’allora ministro dell’Industria della DC Donat-Cattin, che nel 1977 davanti alla Commissione presieduta dal senatore socialista Fortuna affermava che “punto di arrivo della strategia italiana sono i reattori veloci, punto di partenza quelli provati” (parole mai così attuali viste le attività di R&S sui reattori a fissione e fusione a livello mondiale).

Inoltre, facendo proprio l’accordo tra DC, PCI, PRI, PSDI e PSI, definiva una programmazione per la costruzione, nei tempi più rapidi possibili, di 8 centrali nucleari da 1.000 MWe ciascuna, più eventuali altre quattro.

Totale: 12.000 MWe. La grandeur nucleare italiana sembrava non avere alcun freno!

Il “freno” sono stati i passaggi parlamentari e governativi: tra il 1973 e il 1986 - e solo i principali - se ne contano 34, un media di 2,3 l’anno.

Un “monopoli istituzionale” in cui si ripassava continuamente dal via e che rivedeva sempre al ribasso la programmazione del 1975 e del 1977: da 12 a 8 fino a 6 GWe nel PEN del 1986, un mese prima dell’incidente di Chernobyl.

Ricordiamo che Montalto di Castro era realizzata per l’80% (anche se il solo processo autorizzativo durò circa 10 anni, dal 1971 al 1980; forse già da lì qualcosa si poteva percepire!), che Trino Vercellese 2 era stata appaltata all’Ansaldo, mentre per le altre 4 centrali non era stato neanche individuato il sito.

L’Italia ha sofferto di un uso strumentale della magistratura e/o della presenza di una magistratura e di una politica poco indipendente e troppo connessa ad interessi contrapposti e/o personali.

Ricordiamo brevemente i due casi simbolo del nucleare italiano: il “capo Ippolito” e il “Caso Lippolis”.

A nostro giudizio, la crisi del nucleare in Italia trova parte delle proprie origini già nel 1964 - cioè quasi all’apice dei programmi nucleari industriali e di ricerca nazionali - con il “caso Ippolito”.

Infatti, anche se la storia potrebbe puntare il dito – con buoni margini di ragione - sulla negligenza industriale e strategica dell’ENEL - che non è riuscita a costruire nuove centrali nucleari in Italia e a guadagnare terreno sul mercato internazionale in un contesto domestico del tutto favorevole e con una politica priva di una propria strategia e incline ad elargire grosse quantità di denaro – è lo stallo dell’allora CNEN, che ha generato una paralisi regolatoria fino al suo ridimensionamento al ribasso, che fa realmente capire come l’Italia non disponesse allora, come oggi, di una classe politico-istituzionale forte e consapevole tale da evitare discrasie e disallineamenti degli interessi

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strategici e nazionali, quale doveva assolutamente essere il “programma nucleare nazionale”, e di essere meno porosa rispetto alle spinte geopolitiche e geoeconomiche sia endogene (Eni e le Sette Sorelle), sia esogene (aiuto allo sviluppo del programma nucleare dell’Iraq e conseguente “rimbrotto” degli Stati Uniti e di Israele).

Felice Ippolito non era solo il professore di geologia applicata all’Università di Napoli. Era colui che, più di tutti, ha incarnato l’italianità per lo sviluppo del Mezzogiorno (si è ricordato il Centro Ricerche della Trisaia, ma studiava per valorizzare le risorse minerarie di tutto il Sud d’Italia) e dell’energia nucleare.

È stato tra i quattro nazionali ad aver presentato una relazione alla prima Conferenza di Ginevra del 1955, nonché membro dei negoziati per la fondazione del CERN di Ginevra, dell’Euratom, dell’Agenzia nucleare dell’OCSE e della IAEA di Vienna.

Il professore – che entra nel CNRN nel 1952, poi confluito nel CNEN nel 1960, di cui ne diventa segretario generale – era estremo sostenitore di progetti di ricerca nucleari, di uno Stato attivo nell’elargire contributi per lo sviluppo in scala di progetti a valenza sistemica e della nazionalizzazione del sistema energetico.

Considerava gli industriali elettrici un problema visto che “il nostro paese era paralizzato con l’energia in mano ai privati”.

Ben si comprende come Ippolito non fosse solo un semplice professore, ma una sorta di leader carismatico di un piccolo e fiorente gruppo dalle caratteristiche “a filiera”, dalle enormi potenzialità sistemiche, di “dotazioni d’ambiente” e geopolitiche, le cui attività seguivano un filo conduttore ben preciso e programmatico, una “catena del valore” rigida ma basata su interessi strategici di lungo periodo e, pertanto, obbligatoriamente e caratterialmente scevro da ogni influenza indebita, soprattutto dello sport troppo spesso praticato in Italia del “tutti contro tutti”.

L’origine dei problemi per Ippolito nasce nel 1963 quando viene nominato dal Presidente del Consiglio Amintore Fanfani, Ministro dell’Industria Emilio Colombo, membro del Consiglio di Amministrazione dell’appena costituito ENEL.

Oggi lo si chiamerebbe conflitto di interessi, visto che era al tempo stesso capo del CNEN per la ricerca e membro del CdA dell’ENEL per il comparto industriale.

Ma a farne le spese – semmai lo si possa considerare realmente conflitto di interessi - dovrebbe essere chi aveva proposto la nomina e non certo chi veniva chiamato a svolgere un ruolo istituzionale molto delicato. Lo stesso vale ancora oggi.

Diciamo subito che – a nostro giudizio – trattandosi di programmi d’interesse strategico nazionale non esiste alcun conflitto di interessi.

Al contrario, il doppio ruolo – se adeguatamente controllato e sviluppato in modalità del tutto trasparente – è la via più funzionale per sviluppare una sinergia tra ricerca e applicazioni industriali, evitando enormi perdite di tempo ed economiche e massimizzando la programmazione e gli orizzonti di mercato, di rango e di responsabilità nazionali.

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Ma – guarda caso! – il nome di Ippolito inizia a circolare con pericolosità nelle caste di potere a causa delle sue posizioni di rottura con il Consiglio di Amministrazione e il top management dell’ENEL proprio sui programmi nucleari e la loro “cabina di regia”.

Non vi è nulla di più prezioso che l’instabilità politica in un settore in cui la programmazione è massimalista.

E allora accade che nell’agosto 1963 - dopo le elezioni politiche che vedono nascere un “governuccio” con a capo Giovanni Leone e con Ministro dell’Industria Giuseppe Togni (che era, e non per meriti né per titoli, anche Presidente del CNEN) – ovviamente nessuno si è mai scatenato contro Togni per il conflitto d’interesse ben più evidente! Né per la sua Presidenza! – Giuseppe Saragat, allora segretario del Partito socialdemocratico (PSDI), va all’attacco scrivendo di proprio pugno un violento articolo sul quotidiano “La Giustizia” contro l’impianto “Celle Calde” del Centro Ricerche della Casaccia nei pressi di Roma. Incredibile!

La vigliaccheria di Saragat è doppia. Primo, nell’aver alimentato l’astio di diverse fonti politiche e industriali rimaste sempre nell’ombra, arrivando a scrivere che “costruire centrali nucleari per produrre energia elettrica è come costruire segherie per produrre segatura”, in altre parole attaccando l’anti-economicità delle centrali elettronucleari, puntando poi sull’incapacità gestionale, sugli sprechi di risorse pubbliche in progetti del CNEN multipli e inutili e, ecco il vero punto per Saragat, scarsa “correttezza amministrativa”. Tradotto in politichese: il PSDI non era adeguatamente rappresentato nel CNEN.

Guarda caso da allora il Partito ebbe una super rappresentanza interna, se paragonata alla percentuale di elettorato, che aprì – nella “logica aspra delle lottizzazioni partitiche” – ulteriori “guerre interne” all’Ente sulle posizioni di potere. Il tutto paralizzò e depotenziò il CNEN nelle sue stesse fondamenta operative.

Il CNEN perse di vista l’orizzonte dell’interesse nazionale, vedendo ridursi giorno dopo giorno il proprio grado d’influenza sulle scelte energetiche del Paese.

Negli anni Settanta, il CNEN – oramai ridotto ad un gruppo di manager-politici e funzionari-politici, smise di essere il pulsante e influente promotore scientifico e tecnologico dell’energia nucleare e, guarda caso, l’ENEL (sin da subito lottizzato) iniziava la fase delle programmazioni schizoidi sulle pianificazioni nucleari.

Seconda vigliaccheria è che Ippolito era all’estero e impossibilitato a rispondere. Al suo ritorno si rese disponibile a dimettersi dall’ENEL e a sottoporsi ad una Commissione d’inchiesta sul suo operato e sulle sue idee in merito alla scelta delle tecnologie nucleari, ai programmi di ricerca e alla destinazione dei fondi pubblici.

Ma oramai il “dado era tratto” e occorreva un capro espiatorio di una situazione assurda, come sosterrà Mario Silvestri del CISE e avversario di Ippolito.

Il Ministro dell’Industria lo defenestrò sia dall’ENEL sia dal CNEN. Non solo.

Il 4 marzo 1964 fu arrestato e portato a Regina Coeli con 40 capi d’imputazione per

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66 reati per peculato per distrazione, compreso il peculato internazionale per aver autorizzato l’esborso di denaro per il completamento del Centro di Ricerca Ispra dell’Euratom in provincia di Varese.

In realtà, sarà condannato – sotto grande spinta della stampa di allora - per l’uso privato e improprio di una macchina del CNEN per raggiungere un luogo di vacanza (mah!).

Nella incredulità generale, il 29 ottobre 1964 - nonostante tutti i membri del Comitato direttivo del CNEN avessero sottolineato durante il dibattitto processuale la piena condivisone in merito alle scelte di Ippolito e nonostante l’appello della quasi totalità dei fisici universitari – fu condannato a 11 anni e 4 mesi di reclusione, poi ridotti in appello a 5 anni e 3 mesi. Uscirà dopo 2 anni e 20 giorni di carcere, il 23 maggio 1966, per l’ottenimento della libertà provvisoria.

Nel marzo 1968, lo stesso “aguzzino” Saragat, divenuto Presidente della Repubblica, concederà la grazia a Felice Ippolito. Edoardo Amaldi definirà le accuse di Saragat come “monumento imperituro all’insipienza umana, che resterà come un faro insuperabile per molti anni nel mondo”.

Il “caso Ippolito” è stato molto più che un dramma personale e professionale.

È stato l’apice scoperto di un sistema fallimentare in cui gli interessi nazionali soggiacevano agli interessi personalistici, ad una classe politica più attenta alla divisione delle poltrone che alla definizione di un programma nazionale omogeneo e cooperativo e ad un “tutti contro tutti” favorito dall’assoluto massimalismo della pianificazione strategica.

Della vicenda scriverà Mario Silvestri:

«Col trascorrere delle settimane il processo assunse l’aspetto di una persecuzione verso un personaggio che per eccesso di zelo, o meglio, per dinamica volontà di potenza, aveva scavalcato leggi e regolamenti antiquati. […] Dal processo Ippolito e dalla crisi del CNEN non fu tanto Ippolito a sortirne sminuito, quanto l’Italia a uscirne confusa. […] E lo scandalo del CNEN non era uno scandalo: era il sintomo di un male infinitamente peggiore. Era l’impreparazione di tutta una nazionale, e subito nascosta per paura della

verità27».

Il secondo esempio è il “caso Lippolis”, funzionario dell’ENEA e all’epoca Direttore del Centro Itrec della Trisaia.

Gli imputati sono cinque: quattro dirigenti e il funzionario Lippolis. I dirigenti sono Franco Pozzi 1996, pensionato e precedente direttore della Task Force ENEA in cui era inserito l’impianto Itrec; Giuseppe Lapolla, pensionato ed ex Direttore Centro della Trisaia dal 1981 al 1995; Paolo Venditti, in aspettativa come Addetto scientifico dell’Ambasciata italiana in Francia e all’epoca dell’inchiesta di Pace direttore del Dipartimento Ciclo del Combustibile dal 1983 al 1989; e Silvio Cao, Presidente della Nucleco e direttore del Dipartimento Ciclo del Combustibile dal 1974 al 1983.

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I capi di imputazione sono:

A. Violazione della prescrizione ministeriale che imponeva di solidificare i rifiuti radioattivi ad alta attività dell’Itrec entro il 31 agosto 1995.

B. Mancata proclamazione dell’emergenza nucleare per la perdita della condotta a mare dell’Itrec e per la perdita del serbatoio dei rifiuti liquidi a bassa attività.

C. Smaltimento dei rifiuti biomedicali senza autorizzazione.

D. Provocato pericolo di inondazione radioattiva, per non aver provveduto alla prescrizione di cui al capo A e per aver continuato a mantenere i rifiuti liquidi in serbatoi precari.

Per i capi di accusa C. e D. vengono tutti e cinque assolti, rispettivamente nel caso del capo D. per insussistenza del fatto e per il capo C. per non aver commesso il fatto (Lapolla) e perché il fatto non costituisce reato (gli altri quattro).

Per i capi di accusa A. e B. vengono assolti i vecchi esercenti Cao e Venditti, in quanto a loro non contestabili. Non aveva senso inserirli tra gli imputati avendo operato solo in regime di proroga legale della ricordata prescrizione sui rifiuti liquidi ad alta attività.

Al procuratore Pace rimangono solo Pozzi e Lippolis, forse Lapolla e tutti sulla questione dei rifiuti liquidi. La farsa del processo sta nel fatto che sentiti come testimoni Eletti e Naschi (all’epoca del dibattito pensionati), in quanto redattori della sopra ricordata lettera del 30 maggio 1994 al Ministero dell’Industria sui rifiuti liquidi ad alta attività, a loro Pace (né i difensori degli imputati rimasti) non chieda il perché del lungo

letargo della DISP e dell’ANPA a fronte delle lettere annuali dell’ENEA sull’argomento, né un commento alla lettera di Pistella in cui si richiedeva di andare avanti con il Sirte per la cementazione dei rifiuti liquidi al alta attività in cambio della non denuncia per mancata prescrizione (anzi, come ottemperanza alla prescrizione).

Senza queste domande non si è in grado di sapere il perché dal 1975 al 1995 non si sia fatto nulla per arrivare al condizionamento di meno di 3 metri cubi di rifiuti liquidi ad alta attività dell’Itrec, escludendo da ogni responsabilità il top management e i dirigenti dell’ENEA e della DISP e lasciando impalato l’unico che nulla aveva a che fare con quella ENEA e quella DISP, ovvero Giuseppe Lippolis.

Lo stesso Eletti durante l’interrogatorio dirà “poveracci, loro non c’entravano assolutamente niente” e lo disse riferendosi alle centinaia di miliardi di vecchie lire che servivano per sistemare i rifiuti e la cui decisione era, per ovvi motivi, nelle mani e nelle responsabilità del top management e dei dirigenti dell’ENEA e della DISP, certamente non dei direttori d’impianto.

Pistella – anche lui in pensione dall’ENEA – venne ascoltato il 10 giugno 1998. Sgombrato finalmente il campo da ogni dubbio sulla non presenza di plutonio e di plutonio weapon grade presso il Centro della Trisaia (se non in quantità assolutamente

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trascurabile, nell’ordine di qualche grammo, post processo di lavorazione del combustibile irraggiato, che non avrebbe potuto ostacolare la cementazione dei rifiuti liquidi), si parla del nocciolo della questione: la situazione dei rifiuti liquidi dell’Itrec e la perdita dal serbatoio che aveva portato all’accusa di inondazione radioattiva.

La domanda non viene posta dal procuratore Pace, ma dalla PM del processo:

quali sono le ragioni storiche per cui non è solidificato?

Secondo Pistella è “la politica che ci ha fregato, ed è la politica energetica nazionale”.

In sostanza, nel velleitarismo progettuale, nella mancanza strategica e di governance della politica e nell’assenza di potentati industriali di settore, si è lasciato l’ENEA sperperare un’enorme quantità di denaro pubblico (abbiamo calcolato la cifra in qualche migliaia di miliardi di vecchie lire) in mega progetti inutili e nella speranza che l’ENEA realizzasse il grande impianto industriale di ritrattamento del combustibile che avrebbe condizionato il problema dei rifiuti liquidi ad alta attività dell’Itrec di Trisaia e dell’Eurex di Saluggia.

Ma – ricorda Pistella – improvvisamente nel 1988 arrivò il contrordine: non più un impianto industriale a causa di Chernobyl del 26 aprile 1986 e del referendum anti nucleare del 1987.

La conseguenza è stata non aver più potuto risolvere il problema dei rifiuti liquidi.

In realtà Pistella non disse il vero. Come ricordato, il progetto del grande impianto era tramontato già negli anni Settanta, quando era stato sciolto un gruppo di progetto misto tra Agip Nucleare e CNEN che era stato costituito proprio per realizzare quell’impianto. Nel 1981 già tutti lo sapevano e l’Agip nucleare è stata sciolta nel 1983, proprio perché non vi erano margini industriali nazionali. Altro che contrordine del 1988!

Inoltre, vi era anche il problema delle incertezze tecnologiche.

Ma allora, perché processare dei tecnici che non hanno fatto altro che applicare la prescrizione che veniva costantemente prorogata, invece che colpire i vertici dell’Ente che avevano sviluppato una politica d’inerzia e personale?

Infine, non spettava certamente a Lippolis, in qualità di direttore impianto, decidere sulla strategia di condizionamento dei rifiuti liquidi, ma solo fornire tutti gli elementi tecnici per far scegliere al vertice la soluzione migliore.

27 Mario Silvestri, Il costo della menzogna. Italia nucleare 1945-1968, Einaudi, Torino, 1968, p. 315.

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In più, considerando le basse condizioni di personale qualificato di cui Lippolis disponeva – gli ingegneri e i fisici si erano quasi tutti convertiti alle altre fonti energetiche - e che Pistella con la sua lettera del 3 agosto 1995 al Ministero dell’Industria aveva deciso in totale autogestione non solo la linea strategica, ma anche quella tecnologico-operativa, a Lippolis non è stato dato modo di svolgere il suo ruolo di direttore d’impianto, cosa che invece Pistella insinuò nel suo interrogatorio e che pesò irrimediabilmente nella sentenza di condanna, facendo apparire i compiti e le responsabilità di Lippolis più importante di quanto fossero in realtà, addirittura maggiori rispetto ai dirigenti di linea e al top management dell’ENEA.

Lippolis viene chiamato a deporre il 18 novembre 1998. Ricordiamo che in ballo ci sono i capi di accusa A. e B. Ebbene tutte le domande vertono sui materiali, sui rifiuti liquidi e sui compiti da direttore.

Niente, invece, viene chiesto sulla mancata proclamazione dello stato di emergenza nucleare (capo B.), neanche dal suo legale che è lo stesso di Lapolla.

Ingenuamente e a protezione del ruolo di direttore impianto dice che tra lui e i suoi superiori gerarchici le decisioni venivano concordate attraverso un costante dialogo.

Al contrario, i fatti dimostrano che era continuamente tenuto all’oscuro delle strategie dell’Ente e delle decisioni, tale da essere un mero esecutore.

Non è un caso che le lettere scritte di proprio pugno sono pochissime e una riguarda proprio l’avvicinarsi della scadenza della prescrizione sui rifiuti liquidi, chiedendo ai superiori istruzioni nel merito.

La risposta, inviata da Pozzi con un rescritto a mano sulla stessa lettera, fu molto chiara: della faccenda se ne occupa direttamente lui, che aveva posizioni ben diverse rispetto al management centrale dell’Ente.

Questo aspetto decisionale centralizzato fu chiaro nella deposizione di Pozzi che fece capire che Lippolis non aveva alcun ruolo decisionale, né consultivo nelle scelte programmatiche.

La logica era quindi chiara. Lippolis non aveva avuto alcun ruolo nella mancata ottemperanza della prescrizione, né era mai stato interpellato quando Pistella decise di far passare il Sirte per un idoneo impianto di cementazione dei rifiuti liquidi ad alta attività.

Né, beninteso, poteva avere tali tipi di ruoli. Infatti, guardando bene gli studi mondiali di allora sulla solidificazione di tali rifiuti, si trattava di impianti che dovevano richiedere investimenti dell’ordine di qualche centinaio di miliardi delle vecchie lire.

Decisioni di tal genere spettano solo al top management aziendale e al Consiglio di Amministrazione, certamente non ad un funzionario. Ma la legge non è così chiara!

Il 28 novembre 1998 il PM nell’arringa finale chiede la condanna di tutti e per tutti i capi d’imputazione. In particolare, per Pozzi e Lippolis la richiesta è il massimo della

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pena.

Il giudice riconosce la responsabilità penale di Pozzi e Lippolis per il reato di cui al capo A. (non ottemperanza della prescrizione) e di Lapolla e Lippolis per il reato di cui al capo B. (mancata denuncia di emergenza nucleare).

Lippolis e Pozzi vengono condannati rispettivamente a 40 giorni e 2 mesi di arresto per il capo A e al pagamento delle spese processuali. Per il capo B. Lippolis e Lapolla, pur riconosciuti colpevoli, non sono condannabili per intervenuta prescrizione del reato.

Pur se caduto in prescrizione il reato di cui al capo B., occorre dire che la sentenza di colpevolezza dimostra che si doveva alla fine di un lungo processo e di un’escalation mediatica inaudita trovare un colpevole. Infatti, come indicato nella lettera della stessa Autorità di sicurezza nucleare (l’ANPA aveva addirittura chiesto di scavare inutili pozzetti intorno all’impianto per verificare possibili contaminazioni della falda acquifera; inutili perché lo sversamento si era fermato alla seconda barriera di isolamento a dimostrazione che la ridondanza della sicurezza nucleare aveva ben funzionato), la perdita della condotta e la fuoriuscita di liquido dal serbatoio non avevano provocato alcun danno ambientale.

Pertanto, la scelta di non attivare la procedura di emergenza non solo era corretta, ma anche responsabile, visto che, in caso in cui si fosse attivata, avrebbe provocato uno stato di allarme sociale sproporzionato.

Considerata l’assoluta discutibilità della decisione del giudizio in merito al capo B., la condanna sul capo A. è solo figlia della volontà di avere un colpevole in cella. Due sono le verità uscite dal processo.

Primo, che l’impianto Sirte non era pronto alla data della scadenza della prescrizione del 31 agosto 1995, né vi era stata la sua conversione ad impianto di solidificazione dei rifiuti ad alta attività. Secondo, che l’ENEA dal 1980 aveva “affrontato il problema in termini estremamente teorici e di mera progettualità”.

Come è normale che sia, Pozzi, all’epoca capo della Task Force dell’ENEA, andava condannato avendo un ruolo operativo rispetto alle scelte del top management. Ma Lippolis?

Avendo detto che il dialogo con i superiori era costante e le decisioni erano prese congiuntamente, fu condannato perché non poteva non aver cooperato alle scelte e alla condotta di Pozzi.

In altre parole, non ha trasgredito alcuna norma di legge, né ha rallentato l’ottemperamento della prescrizione, né ha sbagliato come direttore impianto, ma è stato accusato per come nel dibattimento è stato sopravvalutato il suo ruolo. Incredibile!

Al processo di appello del 6 luglio 2000, viene confermata la condanna a Lippolis per il capo B., mentre Lapolla viene assolto (il direttore del Centro non poteva essere implicato in un procedimento connesso ad eventi nucleari).

Viene confermata la condanna a Lippolis e Pozzi per il capo A.

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Sempre nel 2000, Pozzi e Lippolis presentano un ricorso separato in Cassazione. Nell’aprile 2001 vengono riconosciute in parte le motivazioni dei ricorrenti, che restano colpevoli non più violazione dell’art. 149 del DPR n. 185/1964, ma dell’art. 650 del codice penale.

Pertanto, per Pozzi, essendo passato il termine di prescrizione del reato (oltre 4 anni dal suo pensionamento), la sentenza di secondo grado viene annullata. Per Lippolis, invece, c’è il rinvio in Appello solo per la quantificazione della nuova pena.

Il 9 ottobre 2001, la Corte di Appello di Salerno condanna Lippolis a 15 giorni di carcere riconoscendogli “il ruolo non propriamente secondario” nella non ottemperanza della prescrizione.

La sentenza definitiva viene resa il 6 novembre 2001.

A conclusione di tutto questo studio e riepilogo storico, voglio riportare alcuni dati interessanti del settore dell’energia nucleare europea :

Uno studio dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica e di Forbes ha calcolato il numero di morti per miliardo di KWh di energia prodotta.

Risulta che il carbone è di gran lunga il più letale, seguito da petrolio, biomasse, gas naturale, idroelettrico, solare, eolico e, infine, dal nucleare che risulta la fonte di energia più sicura.

Per fare un confronto: nel 1975 il collasso di una serie di dighe in Cina ha provocato da 171.000 a 320.000 morti; invece le vittime accertate del più grave incidente nucleare della storia a Chernobyl sono 66 e l’ONU ha stimato un totale di circa 4000.

L’utilizzo dell’energia nucleare richiese investimenti ma soprattutto sicurezza delle

centrali in modo da garantire più elevati margini di sicurezza per gli operatori, per le popolazioni e per l’ambiente circostante.

Maggiori problemi per la salute, invece, vengono dall’estrazione dell’uranio

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necessario per alimentare i noccioli dei reattori.

Un quarto delle riserve mondiali si trovano in Australia, un altro quarto è distribuito fra Kazakistan e Canada, mentre l’altra metà è sparsa nel resto del pianeta.

In Europa se ne trovano quantità significative quasi ovunque, inclusa l’Italia che

possiede 6.100 tonnellate di riserve.

La maggior parte di queste ultime si trovano in due giacimenti a soli 15 km di distanza fra di loro sulle Alpi Orobie Lombarde: in Val Vedello (SO) e a Novazza (BG).

Le vicine Russia e Ucraina possiedono rispettivamente il 5% e il 3% delle riserve mondiali, ma la stragrande maggioranza delle profondità della Siberia sono ancora inesplorate e numerosi altri giacimenti potrebbero nascondersi sotto il permafrost.

Sessanta anni dopo la fondazione della CECA e di Euratom, è evidente che l’obiettivo dell’indipendenza energetica europea cui miravano i padri fondatori non è stato raggiunto né dal nucleare né dalle altre fonti energetiche disponibili.

Al contrario, l’Unione Europea è diventata il più grande importatore di energia al mondo: spende complessivamente 400 miliardi di Euro all’anno per comprare dall’estero più della metà (il 53%) dell’energia che consuma.

Concentrandosi sull’energia elettrica, vediamo che nel 2015 il nucleare, il carbone e le rinnovabili hanno fornito ciascuno esattamente il 27% del fabbisogno europeo, mentre il gas e il petrolio hanno contribuito rispettivamente per il 17% e per il 2%.

Va notato che più della metà del pacchetto rinnovabile viene dalle turbine

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idroelettriche e non da fonti “più nobili” come il sole o il vento.

Siamo ancora ben lontani dall’obiettivo Europeo previsto per il 2030, quando l’elettricità da fonti rinnovabili dovrebbe arrivare al 46-50% e rappresentare il 27% del consumo totale di energia.

Inoltre, entro il 2030, tutti gli Stati europei dovranno dotarsi di infrastrutture in modo da permettere – in caso di bisogno – di esportare verso altri paesi europei almeno il 15% dell’energia elettrica prodotta sul proprio territorio.

Adesso siamo ben lontani anche da questo obiettivo perché ora ben dieci Paesi europei (a parte Cipro e Malta che prevalentemente importano) non potrebbero garantire l’esportazione nemmeno del 10% della loro produzione.

Da questi numeri vediamo che l’Europa dipende dal nucleare per oltre un quarto della propria energia elettrica e più della metà dell’elettricità che deriva da fonti a basso impatto ambientale viene proprio dalle 128 centrali atomiche installate in 14 dei 28 Stati europei.

Queste producono complessivamente 119 miliardi di Watt (GWe) nucleari, ma oltre la metà di questi derivano dalle 58 centrali che battono bandiera francese.

Parigi, ricordiamo, produce oltre tre quarti della propria energia elettrica con la fissione dell’atomo.

Non possiamo trascurare che altre 56 centrali atomiche operative in Stati extraeuropei (Russia, Ucraina e Svizzera) portano all’interno dell’Unione ben il 17% del nostro fabbisogno elettrico.

Con la Brexit, la Gran Bretagna si appresta a levare gli ormeggi portando al di fuori dei confini dell’UE le proprie 15 centrali atomiche e il 7% dell’energia nucleare prodotta. Entro i confini rimangono, fra le altre, la Svezia – che produce quanto la Gran Bretagna – e la Germania, che contribuisce per il 9% ma che – ricordiamo – ha programmato di smantellare tutto entro il 2022.

Durante la campagna presidenziale, Emmanuel Macron ha confermato l’impegno per diminuire la dipendenza francese dall’energia nucleare fissata da Hollande.

L’obiettivo di ridurre dal 75% al 50% la percentuale di energia elettrica prodotta dal nucleare verrebbe mantenuto, ma il nuovo presidente non ha confermato che questo obiettivo sarà raggiunto già nel 2025 come previsto dal precedente esecutivo.

Macron dovrà cercare di non alienarsi il supporto di verdi, sinistre e ambientalisti, ma allo stesso tempo non potrà trascurare le analisi specialistiche che hanno definito tecnicamente irrealistico il raggiungimento di questo traguardo nei prossimi 8 anni.

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Se oggi volessimo tornare al nucleare dovremmo comprare dall’estero non solo le

centrali ma anche i tecnici. Il Paese che ha dato un decisivo contributo al nucleare pacifico con Fermi, Amaldi,

Pontecorvo, Segré, Majorana e i Ragazzi di Via Panisperna, si ritrova privo di competenze e non potrebbe formare una nuova classe tecnica e scientifica nel campo nucleare se non mandando i nostri ragazzi a studiare oltrefrontiera….

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